immigrati

Negli ultimi 10 anni rimesse per 60 miliardi di euro

Negli ultimi 10 anni rimesse per 60 miliardi di euro

La Notizia

Una cifra davvero ragguardevole. Dal 2005 al 2014 le rimesse dei lavoratori stranieri in Italia ai loro Paesi di origine hanno raggiunto la cifra considerevole di quasi 60 miliardi di euro (per la precisione 59 miliardi e 266 milioni). Lo rivela un’analisi del Centro Studi “ImpresaLavoro” su elaborazione di dati Bankitalia. Osservando la ripartizione per anno, si osserva come la crisi economica italiana abbia comportato negli ultimi anni una significativa contrazione delle somme inviate da questi lavoratori alle loro famiglie di origine: dai 7,394 miliardi del 2011 ai 6,833 miliardi del 2012 (­7,6%) fino ai 5,533 miliardi del 2014 (­38%).

I residenti in Italia – fenomeni sbarchi a parte – dal canto loro aumentano e si avvicinano a quota 5 milioni (l’8% circa della popolazione). La comunità più numerosa è quella dei rumeni (presenti in oltre un milione, il doppio rispetto ad albanesi e marocchini, gruppi entrambi sotto le 500mila unità) e conferma il sorpasso sui residenti cinesi (la quarta nazionalità più numerosa, sono circa 260mila) quanto a valore delle rimesse: circa 880 milioni contro 820. Proprio le rimesse dei cinesi – dai dati che mergono dall’ultimo studio della Fondazione Moressa sulle “Rimesse verso l’estero degli immigrati in Italia” – lo scorso anno hanno regisrato la contrazione più forte (­26%) e ora la cifra con cui contribuiscono al benessere dei parenti rimasti a casa è pari a meno di un terzo rispetto a quella spedita nel 2012 (circa 2,7 miliardi). Nel complesso, a fronte di alcune nazionalità che hanno incrementato gli importi (Romania, Bangladesh, Marocco, Senegal, Perù e Sri Lanka), sono soprattutto i cinesi ad aver determinato la contrazione delle rimesse nel 2014 (­4%).

 

 

La crisi frena gli immigrati. Mandano meno soldi a casa

La crisi frena gli immigrati. Mandano meno soldi a casa

La Gazzetta dello Sport

Crisi per tutti, pure per ciò che chiamiamo «rimesse». Il frutto di lavoro e sacrifici, le somme che i lavoratori stranieri in Italia spediscono verso i Paesi di origine spesso attraversi piccole finanziarie: negli ultimi dieci anni hanno raggiunto la vertigine di 60 miliardi di euro. Eppure, a leggere un’analisi del Centro Studi «ImpresaLavoro» su elaborazione di dati Bankitalia, si scopre che anche questo settore è in sofferenza.

Nel dettaglio, esplorando la ripartizione anno per anno, ecco che le difficoltà complessive del sistema Italia portano a ridurre le rimesse spedite da questi lavoratori alle loro famiglie di origine: dai 7,394 miliardi del 2011 ai 6,833 miliardi del 2012 (-7,6%) e giù fino ai 5,533 miliardi del 2014 (-38%), il livello più basso dal 2007. Utile anche allargare il campo alla geografia dell’immigrazione in Italia: gli immigranti che hanno trasferito più risorse in patria li trovi in Lombardia (un miliardo e 119,4 milioni), poi ci si trasferisce nel Lazio (985,1 milioni) prima di risalire al nord: Toscana (587,1 milioni), Emilia-Romagna (459,7 milioni), Veneto (426,3 milioni).

«ImpresaLavoro» ha dovuto navigare in un mare magnum di dati e numeri: nello studio elaborato, contempla cittadini di 176 nazionalità differenti venuti da queste parti per lavorare. Quanto alle diverse nazionalità, si scopre che il flusso maggiore di denaro è partito dall’Italia direzione Romania: 876 milioni guadagnati qui e spediti in patria. E dopo i lavoratori romeni, immancabili, i cinesi (819 milioni). Più distanziate, le comunità del Bangladesh (360), delle Filippine (324), del Marocco (250), del Senegal (245), dell’India (225), del Perù (193), dello Sri Lanka (173) e dell’Ucraina (144).

Immigrazione, ecco chi invia più soldi ai Paesi di origine

Immigrazione, ecco chi invia più soldi ai Paesi di origine

Simona Sotgiu – Formiche

Il naufragio del peschereccio partito dalla costa libica con a bordo 950 migranti – numero riferito dai superstiti messi in salvo dalla Marina Militare e sbarcati a Catania – ha riaperto per l’Italia e l’Europa il dibattito su cosa sia necessario fare per impedire il ripetersi di tragedie di questa natura. La realtà, però, si scontra con il cordoglio, l’indignazione: un barcone con 200 migranti è naufragato, infatti, davanti alla costa orientale di Rodi, in Grecia, il 20 aprile.

E mentre si dibatte su quali interventi dovrebbero attuare Europa e Italia per limitare le stragi in mare, il Centro Studi Impresa Lavoro ha elaborato le cifre delle rimesse che i lavoratori stranieri inviano nei rispettivi Paesi di origine. Pochi quelli africani nelle classifiche.

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La crisi taglia le rimesse: sono ai minimi dal 2007

La crisi taglia le rimesse: sono ai minimi dal 2007

Repubblica.it

La crisi colpisce anche le rimesse dei lavoratori stranieri in Italia: negli ultimi 10 anni le somme dirette verso i paesi d’origine dei migranti hanno raggiunto i 60 miliardi di euro, ma il trend rilevato da un’analisi del Centro Studi “ImpresaLavoro” su elaborazione di dati Bankitalia mostra chiari segnali di sofferenza.

Osservando la ripartizione per anno, infatti, si osserva come la crisi economica italiana abbia comportato negli ultimi anni una significativa contrazione delle somme inviate da questi lavoratori alle loro famiglie di origine: dai 7,394 miliardi del 2011 ai 6,833 miliardi del 2012 (-7,6%) fino ai 5,533 miliardi del 2014 (-38%), il livello più basso dal 2007.

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Lavoratori stranieri in Italia

Lavoratori stranieri in Italia

NOTA

Dal 2005 al 2014 le rimesse dei lavoratori stranieri in Italia ai loro Paesi di origine hanno raggiunto la cifra considerevole di quasi 60 miliardi di euro (per la precisione 59 miliardi e 266 milioni). Lo rivela un’analisi del Centro Studi “ImpresaLavoro” su elaborazione di dati Bankitalia.
Osservando la ripartizione per anno, si osserva come la crisi economica italiana abbia comportato negli ultimi anni una significativa contrazione delle somme inviate da questi lavoratori alle loro famiglie di origine: dai 7,394 miliardi del 2011 ai 6,833 miliardi del 2012 (-7,6%) fino ai 5,533 miliardi del 2014 (-38%).

Anno

Limitatamente a quest’ultimo anno, si osserva inoltre come i lavoratori stranieri che hanno trasferito in patria il maggior quantitativo di denaro siano stati quelli residenti in Lombardia (1 miliardo e 119,4 milioni), nel Lazio (985,1 milioni), in Toscana (587,1 milioni), in Emilia-Romagna (459,7 milioni), in Veneto (426,3 milioni) e in Campania (306,7 milioni).

Regioni

Quanto alle diverse nazionalità, nella classifica stilata dal Centro Studi “ImpresaLavoro” (che contempla cittadini di 176 nazionalità differenti) risulta che nel 2014 i lavoratori stranieri in Italia che hanno trasferito in patria il maggior quantitativo di denaro sono quelli romeni (876 milioni) e cinesi (819 milioni). A seguire, fortemente distanziati, si collocano quelli provenienti dal Bangladesh (360 milioni), dalle Filippine (324 milioni), dal Marocco (250 milioni), dal Senegal (245 milioni), dall’India (225 milioni), dal Perù (193 milioni), dallo Sri Lanka (173 milioni) e dall’Ucraina (144 milioni).

Nazioni

Decisamente più contenute risultano invece le somme di denaro che i lavoratori provenienti dai principali Paesi dell’Unione europea hanno trasferito in patria nell’ultimo anno: al primo posto della classifica risultano gli spagnoli (42,9 milioni), seguiti dai francesi (29,4 milioni), dai tedeschi (27,8 milioni), dai britannici (21,5 milioni) e infine dai greci (12,2).

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Bontà in conto terzi

Bontà in conto terzi

Davide Giacalone – Libero

Non ci sono mica solo i criminali dell’accoglienza. Ci sono anche gli sciacalli del buonismo e del cattivismo. Ai primi interessa poco e nulla dei profughi e degli sfollati. Ai secondi poco e nulla dei soldi spesi per raccoglierli in luoghi circoscritti. A tutti costoro interessa solo il proprio tornaconto. Me ne convinco leggendo Laura Boldrini, che con la politica dei profughi s’è assicurata una carriera da funzionaria e poi il debutto (coronato da grande successo) in politica. Sostiene Boldrini: quelli che profittano sui profughi deturpano il valore della solidarietà, mentre sono moltissimi gli operatori competenti e motivati. Lo spero. Ma dove erano mentre i campi profughi costavano dieci o cento volte quel che valevano? Non si erano accorti che il livello di vita, in quei campi, era infinitamente inferiore al costo che la collettività sosteneva? Fra i propagandisti del cattivismo, del mandiamoli via, del chiudiamo le frontiere, ce ne sono stati che poi davano soldi pubblici ai cooperatori del ladrocinio; mentre fra gli sventolatori del prendiamone di più, accogliamoli tutti, volemose bene, ce ne sono che vogliono bene solo a sé, alla parte che si sono scelti, incapaci di vedere e capire il risultato della propria propaganda.

Scrive Boldrini: “paradossalmente il meccanismo che doveva facilitare la convivenza sta generando ostilità verso i migranti”. Paradossalmente un corno, perché quella è la logica conseguenza della premessa: i buonisti della convivenza se ne infischiano dell’indecenza. Mettono la propria bontà sul conto degli altri. La scaricano nei quartieri dove mettono piede solo se accompagnati dalle telecamere. Se vedono il disagio lo traducono in colpa di quanti non osannano la bontà un tanto al chilo, chiedendo ancora più soldi. Quindi favorendo gli affaracci cooperativistici. E se si stupiscono dello scandalo (dico “se”, perché una parte di quegli stupori è stupefacente) è solo perché ignorano del tutto la realtà concreta.

Proviamo a usare il buon senso e immaginare come porre rimedio. Intanto vanno separati due gruppi: i profughi e i migranti. Buonisti & cattivisti li mischiano, ma è l’errore che poi degenera in impotenza e sperpero. I profughi vanno accolti e istradati verso le destinazioni finali, che non si limitano certo al Paese di primo approdo. Per farlo occorre identificarli. Identificarli non ha alcun senso se non per scoprire chi non è profugo e, quindi, metterlo nel secondo gruppo. Nell’identificarli servono i soldi e la collaborazione dell’Onu, che oltre a stipendiare le nostre fanciulle di buoni sentimenti e abbondante speculazione dovrebbero dedicare una qualche attenzione anche agli interessati: i profughi. L’Onu dovrebbe funzionare soprattutto ai confini delle zone da cui i profughi fuggono, onde evitare il commercio di carne umana e il rischio di morte. Ergo: fare capi profughi in Italia serve a poco e niente, ma per quel che si fanno devono essere finalizzati non alla permanenza, ma all’identificazione e ripartenza.

I migranti, invece, non c’è alcun dovere di accoglierli. Avere immigrati è un affare. Un buon affare. Il saldo è positivo, e non solo economicamente, in Italia come nel resto d’Europa, se riferito agli immigrati regolari. Gli altri, gli irregolari, i clandestini, non si ha il dovere di prenderli. Quindi: identificarli, valutarne l’accoglimento, ove non possibile si procede al rimpatrio. Che è il solo modo serio per stroncare le gambe ai trafficanti dei barconi (per quel che riguarda l’Italia, perché poi c’è la massa che entra via terra, da nord). Qui abbiamo fatto proposte concrete, a cominciare da zone extraterritoriali sotto la giurisdizione Ue. Inutile dire che né ai buonisti né ai cattivisti sono minimamente interessate.

E gli altri disagiati? Chi? Scusate, ma perché dovremmo spendere soldi pubblici per i campi nomadi? Se sono nomadi, girano. Se stanno nei campi, non sono nomadi. Siccome li considero depositari di diritti e di doveri al pari di me, credo che vadano difesi da eventuali aggressioni e messi nella condizione di fermarsi temporaneamente, ma non in quella di fare i mantenuti, consentendo una delinquenza che è ripugnante pietismo di chi li considera essere inferiori, destinati a quel tipo di vita. Il razzismo dei buonisti non ha nulla da invidiare a quello dei cattivisti. Mentre gli attivisti della bontà, incapaci di denunciare il malaffare prima che si intervenga la procura, meritano un solo invito: è ora che anche voi andiate a lavorare. Scrive Boldrini: l’accoglienza genera posti di lavoro per gli italiani. No, genera spesa pubblica degenerante, produttiva di tasse e debiti. L’accoglienza è un business solo laddove non ha nulla di buono.

I 3,9 miliardi che i migranti danno all’economia italiana

I 3,9 miliardi che i migranti danno all’economia italiana

Gian Antonio Stella – Corriere della Sera

Ha ragione papa Francesco: gli immigrati sono una ricchezza. Lo dicono i numeri. Fatti i conti costi-benefici, spiega un dossier della fondazione Moressa, noi italiani ci guadagniamo 3,9 miliardi l’anno. E la crisi, senza i nuovi arrivati che hanno fondato quasi mezzo milione di aziende, sarebbe ancora più dura. Certo, è facile in questi tempi di pesanti difficoltà titillare i rancori, le paure, le angosce di tanti disoccupati, esodati, sfrattati ormai allo stremo. Soprattutto in certe periferie urbane abbruttite dal degrado e da troppo tempo vergognosamente abbandonate dalle pubbliche istituzioni. Ma può passar l’idea che il problema siano «gli altri»?

Non c’è massacro contro i nostri nonni emigrati, da Tandil in Argentina a Kalgoorlie in Australia, da Aigues Mortes in Francia a Tallulah negli Stati Uniti, che non sia nato dallo scoppio di odio dei «padroni di casa» contro gli italiani che «rubavano il lavoro». Basti ricordare il linciaggio di New Orleans del 15 marzo 1891, dove tra i più assatanati nella caccia ai nostri nonni c’erano migliaia di neri, rimpiazzati nei campi di cotone da immigrati siciliani, campani, lucani. Eppure quei nostri nonni contribuirono ad arricchire le loro nuove patrie («la patria è là dove si prospera», dice Aristofane) proprio come ricorda Francesco: «I Paesi che accolgono traggono vantaggi dall’impiego di immigrati per le necessità della produzione e del benessere nazionale». Creano anche un mucchio di problemi? Sì. Portano a volte malattie che da noi erano ormai sconfitte? Sì. Affollano le nostre carceri soprattutto per alcuni tipi di reati? Sì. Vanno ad arroccarsi in fortini etnici facendo esplodere vere e proprie guerre di quartiere? Sì. E questi problemi vanno presi di petto. Con fermezza. C’è dell’altro, però . E non possiamo ignorarlo.

Due rapporti della Fondazione Leone Moressa e Andrea Stuppini,collaboratore de «lavoce.info», spiegano che non solo le imprese create da immigrati sono 497 mila (l’8,2% del totale: a dispetto della crisi) per un valore aggiunto di 85 miliardi di euro, ma che nei calcoli dare-avere chi ci guadagna siamo anche noi. Nel 2012 i contribuenti nati all’estero sono stati poco più di 3,5 milioni e «hanno dichiarato redditi per 44,7 miliardi di euro (mediamente 12.930 euro a persona) su un totale di 800 miliardi di euro, incidendo per il 5,6% sull’intera ricchezza prodotta». L’imposta netta versata «ammonta in media a 2.099 euro, per un totale complessivo pari a 4,9 miliardi». Con disparità enorme: 4.918 euro pro capite di Irpef pagata nel 2013 in provincia di Milano, 1.499 in quella di Ragusa.

A questa voce, però, ne vanno aggiunte altre. Ad esempio l’Iva: «Una recente indagine della Banca d’Italia ha evidenziato come la propensione al consumo delle famiglie straniere (ovvero il rapporto tra consumo e reddito) sia pari al 105,8%: vale a dire che le famiglie straniere tendono a non risparmiare nulla, anzi ad indebitarsi o ad attingere a vecchi risparmi. Ipotizzando che il reddito delle famiglie straniere sia speso in consumi soggetti ad Iva per il 90% (escludendo rimesse, affitti, mutui e altre voci non soggette a Iva), il valore complessivo dell’imposta indiretta sui consumi arriva a 1,4 miliardi di euro». Più il gettito dalle imposte sui carburanti (840 milioni circa), i soldi per lotto e lotterie (210 milioni) e rinnovi dei permessi di soggiorno (1.741.501 nel 2012 per 340 milioni) e così via: «Sommando le diverse voci, si ottiene un gettito fiscale di 7,6 miliardi». Poi c’è il contributo previdenziale: «Considerando che secondo l’ultimo dato ufficiale Inps (2009) i contributi versati dagli stranieri rappresentano il 4,2% del totale, si può stimare un gettito contributivo di 8,9 miliardi». Cosicché «sommando gettito fiscale e contributivo, le entrate riconducibili alla presenza straniera raggiungono i 16,6 miliardi».

Ma se questo è quanto danno, quanto ricevono poi gli immigrati? «Considerando che dopo le pensioni la sanità è la voce di gran lunga più importante e che all’interno di questa circa l’80% della spesa è assorbita dalle persone ultrasessantacinquenni», risponde lo studio, l’impatto dei nati all’estero (nettamente più giovani e meno acciaccati degli italiani) è decisamente minore sul peso sia delle pensioni sia della sanità, dai ricoveri all’uso di farmaci. Certo, è maggiore nella scuola «dove l’incidenza degli alunni con cittadinanza non italiana ha raggiunto l’8,4%», ma qui «la parte preponderante della spesa è fissa». E i costi per la giustizia? «Una stima dei costi si aggira su 1,75 miliardi di euro annui». E le altre spese? Contate tutte, rispondono Stuppini e la Fondazione. Anche quelle per i Centri di Identificazione ed Espulsione: «Per il 2012 il costo complessivo si può calcolare in 170 milioni».

In ogni caso, prosegue il dossier, «si è considerata la spesa pubblica utilizzando il metodo dei costi standard, stimando la spesa pubblica complessiva per l’immigrazione in 12,6 miliardi di euro, pari all’1,57% della spesa pubblica nazionale. Ripartendo il volume di spesa per la popolazione straniera nel 2012 (4,39 milioni), si ottiene un valore pro capite di 2.870 euro». Risultato: confrontando entrate e uscite, «emerge come il saldo finale sia in attivo di 3,9 miliardi». Per capirci: quasi quanto il peso dell’Imu sulla prima casa. Poi, per carità, restano tutti i problemi, i disagi e le emergenze che abbiamo detto. Che vanno affrontati, quando serve, anche con estrema durezza. Ma si può sostenere, davanti a questi dati, che mantenere l’estensione della social card ai cittadini nati all’estero ma col permesso di soggiorno è «un’istigazione al razzismo»?

Per non dire dell’apporto dei «nuovi italiani» su altri fronti. Dice uno studio dell’Istituto Ricerca Sociale che ci sono in Italia 830 mila badanti, quasi tutte straniere, che accudiscono circa un milione di non autosufficienti. Il quadruplo dei ricoverati nelle strutture pubbliche. Se dovesse occuparsene lo Stato, ciao: un posto letto, dall’acquisto del terreno alla costruzione della struttura, dai mobili alle lenzuola, costa 150 mila euro. Per un milione di degenti dovremmo scucire 150 miliardi. E poi assumere (otto persone ogni dieci posti letto) 800 mila addetti per una spesa complessiva annuale (26mila euro l’uno) di quasi 21 miliardi l’anno. Più spese varie. Con un investimento complessivo nei primi cinque anni di oltre 250 miliardi.

Raddoppiano i contratti a termine tra gli immigrati

Raddoppiano i contratti a termine tra gli immigrati

Rossella Cadeo – Il Sole 24 Ore

Hanno un tasso di occupazione superiore rispetto agli autoctoni, ma frequentemente svolgono attività disagevoli, e sono pronti ad accettare orari “asociali”. Inoltre, nonostante siano disposti ad accettare una retribuzione sotto la media, si dichiarano poco propensi a spostarsi in altre città o ad abbandonare l’Italia per trovare un impiego. E, comunque, anche gli stranieri in Italia – contrariamente a quel che si tende a credere – risentono di un generale peggioramento del quadro generale rispetto a sette anni fa, prima dell’inizio della grande crisi.

A grandi linee è questa la fotografia che emerge dalla ricerca realizzata dalla Fondazione Leone Moressa su «Come è cambiato il lavoro negli anni della crisi» che, sulla base dei dati Istat, ha messo a confronto la situazione lavorativa attuale degli stranieri e degli italiani nel 2013, rapportandola anche ai dati relativi al 2007, ultimo anno positivo prima dell’ingresso nel tunnel della crisi. «La crisi ha inciso profondamente sugli indici occupazionali dei lavoratori nel nostro Paese – osserva Stefano Solari, direttore scientifico della Fondazione Leone Moressa -. A rimetterci maggiormente sono stati gli immigrati, in quanto prevalentemente occupati nei settori più esposti alla crisi. Tra gli effetti di questa difficoltà troviamo la crescita dei contratti a tempo determinato e l’aumento della disoccupazione di lunga durata. Tuttavia, i cittadini stranieri dimostrano una adattabilità maggiore rispetto agli italiani, come conferma la disponibilità a lavorare negli orari più scomodi».

Gli indicatori ci dicono prima di tutto che il tasso di occupazione degli immigrati è molto più alto rispetto a quello degli italiani (57,1 contro 41,8%). Questo fatto però si spiega facilmente se si pensa che si tratta di soggetti mediamente più giovani rispetto alla popolazione autoctona (dove c’è un’elevata componente di pensionati) e che per rinnovare il permesso di soggiorno devono dimostrare di avere un lavoro. Dal 2007 a oggi però la crisi ha colpito più duramente gli immigrati: infatti per loro il tasso di disoccupazione è peggiorato di 9 punti, mentre “soltanto” di 5,6 per gli italiani.E se è vero che oltre un occupato su dieci oggi è straniero (quando nel 2007 erano circa il 6%) è anche vero che dall’inizio della crisi è raddoppiata la percentuale di immigrati assunti con un contratto a tempo determinato (sono il 13% dei lavoratori stranieri, sei punti in più rispetto al 2007, contro il 9,5% degli italiani) ed è ferma al 13% la quota di chi riesce a mantenersi cimentandosi in un’attività autonoma o da collaboratore.

L’obiettivo “permesso di soggiorno” spiega anche la maggiore disponibilità degli stranieri ad accettare i lavori meno qualificati, ma soprattutto posti con minori tutele, orari disagevoli e retribuzioni sotto la media. Elaborando le rilevazioni delle forze di lavoro dell’Istat, la ricerca di Fondazione Moressa mette in luce la forte presenza di stranieri in imprese piccole e medie, ossia in realtà dove non trova applicazione l’articolo 18: tra i dipendenti nel settore privato quelli che possono ricorrere alla protezione dello Statuto dei lavoratori in caso di licenziamento senza giusta causa sono solo meno di un terzo tra gli stranieri (contro una media complessiva del 55%).

Quanto al maggior grado di adattabilità, lo si evince dalla percentuale di immigrati che accettano di lavorare in orari asociali, nei fine settimana, di sera o di notte: il 53% (contro il 46,6% tra gli italiani), un dato peraltro in aumento su entrambi i segmenti di lavoratori e chiaro sintomo della crisi in atto. Anche sulla busta paga lo straniero è disponibile a fare più di un passo indietro: al mese la media si aggira sui 960 euro contro i 1.250 di un lavoratore italiano, circa un quarto di differenza. Una volta arrivato in Italia, comunque, chi viene da un Paese straniero non sembra trovarsi poi tanto male: pur di avere un impiego, quasi un disoccupato italiano su tre sarebbe disposto a trasferirsi in un’altra città nella penisola (17%) o all’estero (13%). Invece, tra gli stranieri, meno del 20% si muoverebbe di nuovo per un’altra destinazione in Italia (10%) o all’estero (8,5 per cento).

Ecco chi siamo

Ecco chi siamo

Gino Gullace Raugei – Oggi

Cuori nella tempesta economico-finanziaria: i numeri dicono che (forse) il peggio è passato ma il meglio ancora non si vede. A raccontarci l’Italia al tempo della crisi è Giuseppe Roma, direttore generale del Censis (Centro studi investimenti sociali). «Da una parte il Paese appare con tutte le sue grandissime capacità, la sua cultura, la secolare creatività e l’antica inventiva che ci ha fatto essere in qualche modo protagonisti del futuro; dall’altra parte, invece, si vede un Paese sempre pronto a dividersi in una miriade di gruppetti litigiosi che pensano ai loro comodi e non all’interesse nazionale. La storia contemporanea è dominata da giganti, la Cina, il Brasile, l’India e noi ci ostiniamo a rimanere un topolino che rischia di essere schiacciato». La crisi ci ha ributtato agli Anni 50: dominano l’incertezza e la paura del domani. Le statistiche ci dicono però due cose: negli ultimi anni difficili ci ha salvato la vecchia, cara famiglia all’italiana e se la macchina dell’economia ricomincerà un bel giorno a girare sarà merito soprattutto delle donne.

Le grandezze della crisi
Dal 2008 ad oggi il nostro Pil (il Prodotto interno lordo, indice della ricchezza nazionale) è diminuito di circa l’8 per cento. «Vale a dire», spiega il professor Roma, «una somma di circa 119 miliardi di euro, più del Pil dell’Ungheria». Ogni italiano (siamo 60.782.668) ha perso in media 1.957 euro e 79 centesimi. Ma non per tutti è cosi. Già, incredibilmente, tra occupati che diminuiscono e tasse che aumentano, c’è anche chi ha trovato il sistema di diventare più ricco: i 10 uomini più facoltosi d’Italia dispongono infatti di un patrimonio di circa 75 miliardi di euro, equivalente a quello di quasi 500 mila famiglie di operai; e, dichiarazione dei redditi alla mano, i nostri 2 mila Paperoni, cioè lo 0,003 per cento della popolazione. posseggono oggi 169 miliardi (senza contare il valore degli immobili), pari alla ricchezza totale del 4,5 per cento degli italiani.

Famiglie paracadute
Fortunati a parte, la crisi ha reso tutti gli altri più poveri: il reddito degli operai è diminuito del 17,9 per cento, quello degli impiegati e dipendenti del 12, degli imprenditori del 3,7. Risultato: oggi il 72,8 per cento delle famiglie italiane considera insostenibile una spesa extra per un improvvisa malattia o per significative riparazioni della casa o dell’auto; il 24,3 per cento fa fatica a pagare tasse e tributi; il 22,6 per cento spesso non ha soldi per bollette e assicurazioni mentre il 6,8 per cento non riesce più a pagare le rate del mutuo. Il 14 per cento delle famiglie si è trovata nelle condizioni di svendere oro e argento di famiglia per pagare i debiti. Credevamo di esserci americanizzati, finendo con l’annacquare i tradizionali, forti legami parentali; le difficoltà economiche ci hanno invece fatto riscoprire la classica, numerosa famiglia all’italiana che credevamo ormai consegnata ai libri di storia sociale. «In questi anni c’è stato un fortissimo recupero dei valori di solidarietà tra genitori e i figli, nonni e nipoti, fratelli, cugini e persino suoceri» spiega Roma. La famiglia è stata il più efficace degli ammortizzatori sociali, il paracadute che ci ha salvato dalla rovinosa caduta economica. Per il 76 per cento degli italiani la rete familiare include da 6 a 15 persone: un piccolo clan. Solo negli ultimi dodici mesi sono 8 milioni le famiglie che hanno ricevuto qualche forma di aiuto economico dalle rispettive reti familiari.

Ripresa in rosa
Le famiglie sono il vero termometro della crisi: lo dicono i dati relativi al risparmio. Nel 2008 le famiglie italiane hanno depositato in banca poco più di 52 miliardi di euro; nel 2009 la somma si è ridotta a 56.7 miliardi: il 30 per cento di meno. Nel 2010 le famiglie italiane non solo non sono riuscite a risparmiare, ma hanno dovuto ritirare dai conti correnti ben l4,7 miliardi di euro; nel 2011 è andata anche peggio, coi prelievi che hanno sfiorato i 21 miliardi. L’anno successivo la tendenza si è però invertira: dall’agosto 2012 all’agosto 2013 le famiglie hanno depositato in banca 37,4 miliardi. Vuol dire che la crisi ha attenuato i suoi effetti reali? «Siamo effettivamente in una fase in cui il peggioramento degli indici economici tende a rallentare», spiega l’economista Francesco Extrafallaces, «ma questo non vuole dire che la crisi è passata. L’anda- mento del risparmio ci dice piuttosto che le famiglie italiane si sono adattate alle difficoltà». Come? Risparmiando sulla spesa e rinunciando a molte cose: se in casa si rompe qualcosa cerchiamo di ripararlo da soli, con le donne protagoniste assolute del ritorno al bricolage: il 29,3 per cento fa tutto da sola, il 15.2 guida e dirige il braccio dell’uomo di casa. Dal 2009 al 2013 1,6 milioni di imprese italiane hanno cessato di vivere. Secondo l’Ufficio studi della Camera di commercio di Monza e Brianza, la crisi ha assassinato anche moltissime aziende storiche, quelle con almeno 50 anni di attività: ne sono sparite 9mila, cioè una su quattro. In questo che sembra un drammatico bollettino di guerra c’è un clamoroso numero in controtendenza che rivela un’Italia che non t’aspetti: secondo Unioncamere, nel 2015 le imprese italiane la cui titolare è donna hanno fatto registrare un significativo saldo positivo, con circa 5mila unità in più. E le regioni in cui è più spiccato il processo di femminilizzazione del tessuto imprenditoriale sono quelle del Sud: Molise (dove sono il 29,7 per cento del totale), Abruzzo (27,8), Basilicata (27,7) e Campania (26,5). A livello nazionale le aziende rosa sono l.429.880, il 23,6 per cento del totale. Le imprenditrici giovani, che hanno cioè meno di 35 anni, sono ben 171.414, cioè il 12 per cento del totale. «Le donne rappresentano una grande speranza per il futuro», dice il professor Giuseppe Roma. «Sono più preparate dei loro colleghi maschi. più determinate ed hanno una qualità importantissima: riescono a fare squadra coi loro dipendenti e questo consente alle loro aziende di adattarsi meglio alla crisi, superando le diffìcoltà». Ricordate la nave albanese Vlona che arrivò nel porto di Bari stracarica di disperati in fuga dalla miseria? Era l’8 agosto del 1991: gli immigrati stranieri residenti in Italia erano allora 625 mila. Oggi sono oltre 5 milioni e parliamo di quelli con regolare permesso di soggiorno; i clandestini si presume invece che siano circa 500 mila.

Gli immigrati: la sfida più difficile
L’Italia è il quinto Paese europeo per numero complessivo di extracomunitari residenti. Le ondate migratorie che da 30 anni investono l’Italia sono il fenomeno sociale più importante della nostra storia recente», ci dice Anna Italia, ricercatrice del Censis. Nell’Italia di oggi, gli immigrati rappresentano una parte importante del tessuto sociale: abbiamo l.6 milioni di stranieri dediti ai servizi domestici un milione dei quali sono badanti che si occupano dell’assistenza agli anziani. Dei 180 mila ristoranti presenti nel nostro Paese, il 10 per cento, cioè 18 mila circa, sono etnici; di questi, uno su 4 è cinese e 1 su 8 arabo. Eppure quando si parla di extracomunitari ci balzano agli occhi le drammatiche immagini dei barconi stracarichi di disperati sulle rotte della morte nel Canale di Sicilia. «Arrivano in media 70 mila persone ogni anno», dice Anna Italia. «Sono quasi tutti in fuga dalle persecuzioni in atto nei loro Paesi d’origine e vengono in Italia per chiedere asilo. Perché, se hanno diritto all’assistenza che spetta agli stranieri perseguitati, scelgono un modo così rischioso per raggiungere l’Italia? «Perché la legge italiana prevede che un cittadino straniero possa chiedere asilo politico solo se si trova in Italia; non può farlo presso le nostre ambasciate o consolati che si trovano sul’altra sponda del Mediterraneo», spiega Anna Italia. I numeri dicono che nel nostro Paese oggi gli extracomunitari stanno occupando spazi importanti anche nei piani più alti del sistema economico. In alcuni settori la presenza di imprenditori stranieri è massiccia; è il caso delle costruzioni edili, dove il 21,2 per cento delle imprese ha proprietari stranieri (in gran parte rumeni); oppure del commercio al dettaglio (il 20 per cento). Mentre i negozianti italiani sono diminuiti del 3,3 per cento, quelli stranieri sono aumentati del 21,3 per cento. In città come Pisa, Caserta e Catanzaro. le botteghe di extracomunitari sono rispettivamente il 35,4, il 34,5 e il 52,7 per cento del totale.

Gli emigranti: giovani e arrabbiati
Siamo la terra promessa di moltissimi stranieri, ma nello stesso tempo molti giovani italiani lasciano il Paese per cercare fortuna altrove: il 54,1 per cento dei nostri emigranti ha meno di 55 anni. Fuggono all’estero soprattutto i giovani che hanno alle spalle famiglie con redditi medio alti: la percentuale di 5,6 per cento di nuclei familiari con un reddito mensile di mille euro che hanno almeno un componente fuori dai confini nazionali, diventa del 10.6 per cento nelle famiglie con un reddito di 4 mila euro. Come negli Anni 50, gli italiani emigrano in Australia; dal 2012 al 2013 c’è stato un aumento di partenze del 116 per cento e negli ultimi tre anni ben 32 mila giovani si sono stabiliti a Melbourne o Sydney. Il 72,7 per cento degli emigranti afferma che la scelta di partire è stata giusta e piena di soddisfazione. Tra tutte le ombre, questa è quella più cupa che si addensa sul futuro del nostro Paese.