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Salvatore Zecchini – commento al Paper di ImpresaLavoro

Salvatore Zecchini – commento al Paper di ImpresaLavoro

Salvatore Zecchini, membro del board scientifico di ImpresaLavoro, è docente di Politica Economica Internazionale all’Università Tor Vergata di Roma e presidente del Gruppo di Lavoro dell’OCSE su PMI e Imprenditoria.

La cartina di tornasole dell’efficienza di un mercato del lavoro sta nella sua capacità non solo di assicurare condizioni dignitose al lavoratore, ma di favorire la creazione di un ampio numero di opportunità di lavoro e di competenze, tale da assorbire il massimo delle forze lavoro disponibili. Alla luce di questo test, l’elevata disoccupazione e il basso tasso di partecipazione al mondo del lavoro, che caratterizzano da due decenni l’economia italiana, come pure il desiderio ardente dei lavoratori di assicurarsi una pensione prematuramente, possono prendersi a prova delle gravi inefficienze e disfunzioni del modo in cui si articola il nostro sistema lavoro.
In particolare, le misurazioni di queste debolezze da parte di istituti stranieri e il confronto con gli stessi parametri di altri paesi offrono uno spaccato di quanto non va nel sistema e di come queste incidono sull’attrattiva del Paese per gli investitori, italiani o stranieri che siano.
Rigidità nell’entrata e nell’uscita dal posto di lavoro, scarsa disponibilità ad adattarsi ai mutamenti nelle esigenze di lavoro delle imprese, dinamiche salariali inflessibili e poco in linea con l’evoluzione della produttività, pesanti oneri verso il fisco ed una diffusa contrapposizione corporativa verso le esigenze della produzione e della concorrenza sono tutti fattori che scoraggiano la domanda di lavoro delle imprese e ne modificano le caratteristiche. In particolare, da decenni le imprese tendono a sostituire i lavoratori con automazioni ed import di semilavorati, e a spostare le loro richieste verso qualifiche più elevate, dove si scoprono tuttavia imperdonabili carenze.
È su questi punti che dovrebbe specialmente indirizzarsi la riforma del lavoro da tempo annunciata dai governanti, con l’intento di realizzare notevoli correzioni strutturali e creare le condizioni istituzionali e culturali per un grande rilancio dell’occupazione.

Il nostro mercato del lavoro è il meno efficiente d’Europa

Il nostro mercato del lavoro è il meno efficiente d’Europa

SINTESI DEL PAPER

Il mercato del lavoro italiano è ultimo per efficienza in Europa e 136mo su 144 censiti nel mondo. In termini di efficienza ed efficacia si situa infatti a un livello leggermente superiore a quelli di Zimbabwe e Yemen ed inferiore a quelli di Sri Lanka e Uruguay. Lo rivela un’elaborazione del Centro Studi ImpresaLavoro sulla base dei dati pubblicati dal World Economic Forum.
Rispetto al 2011 retrocediamo di 13 posizioni a livello mondiale in termine di efficienza generale del nostro mercato del lavoro e soprattutto perdiamo 19 posizioni con riferimento alla collaborazione tra impresa e lavoratore così come altre 15 per la complessità delle regole che ostacolano licenziamenti e assunzioni (hiring and firing process). L’unico settore in cui non si registra un arretramento dell’Italia è quello relativo alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro: conserviamo infatti la comunque assai deludente 93ma posizione che avevamo raggiunto nel 2011.
L’indicatore dell’efficienza è in realtà un aggregato di più voci che bene evidenziano le difficoltà che il nostro sistema attraversa e rendono plasticamente l’idea del peggioramento delle condizioni del nostro mercato del lavoro negli ultimi tre anni. Inoltre, i principali indicatori analizzati ci pongono agli ultimi posti per efficacia nel mondo e, quasi sempre, all’ultimo posto in Europa. Tra i Paesi dell’Europa a 27, ad esempio, siamo ultimi per quanto concerne la collaborazione nelle relazioni tra lavoratori e datore di lavoro (ai primi tre posti ci sono Danimarca, Austria e Olanda). Siamo terz’ultimi per flessibilità nella determinazione del salario, intendendo con questo che a prevalere è ancora una contrattazione centralizzata a discapito di un modello che incentiva maggiormente impresa e lavoratore ad accordarsi. E proprio in tema di retribuzioni siamo il peggior Paese europeo per capacità di legare lo stipendio all’effettiva produttività. Dati questi che vanno letti assieme a quelli sugli effetti dell’alta tassazione sul lavoro: nessun Paese in Europa fa peggio di noi quanto a effetto della pressione fiscale sull’incentivo al lavoro. E siamo ancora ultimi per l’efficienza nelle modalità di assunzione e licenziamento: un indicatore particolarmente significativo, questo, perché evidenzia quanto questi processi vengano ostacolati dal complessivo sistema delle regole e da disposizioni quali quelle, ad esempio, dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Anche la qualità del personale impiegato mette in luce l’arretratezza del nostro Paese: siamo penultimi (davanti alla sola Romania) per la capacità di affidare posizioni manageriali in base al merito e non a criteri poco trasparenza (amicizia, parentela, raccomandazione) e finiamo in coda anche con riferimento alla capacità di attrarre talenti (quart’ultimi) e di trattenere talenti (23mi su 28).
«Questa performance negativa è frutto certamente dei difetti strutturali del nostro sistema ma i provvedimenti legislativi degli ultimi anni non hanno certo aiutato a migliorare la situazione» commenta Massimo Blasoni, presidente di “ImpresaLavoro”. «L’elaborazione del nostro Centro Studi chiarisce come i problemi del nostro mercato del lavoro siano da tempo sempre gli stessi e abbiano subìto un peggioramento piuttosto marcato rispetto al 2011, complice con ogni probabilità l’ulteriore irrigidimento delle regole stabilito dalla cosiddetta Riforma Fornero. Gli alti tassi di disoccupazione, soprattutto giovanile e femminile, e i cronici bassi tassi di attività sono una diretta conseguenza di un sistema tributario e di regole che rendono sempre più difficile assumere e creare occupazione».
Scarica gratuitamente il Paper con tutte le tabelle dati elaborate dal Centro studi ImpresaLavoro “Il nostro Mercato del Lavoro è il meno efficiente d’Europa“.
Leggi il commento del Prof. Giuseppe Pennisi.
Leggi il commento del Prof.
Salvatore Zecchini.
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Consigli a Renzi – Ora scelga se tagliare i “suoi” sindaci o i precari

Consigli a Renzi – Ora scelga se tagliare i “suoi” sindaci o i precari

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

In inglese si dice red herring. In italiano specchietto per le allodole. Questi paiono essere i lineamenti di riforma della scuola presentati al fine di un doveroso, prima che meritorio, débat publique dal governo Renzi. In primo luogo, tutti pensiamo di intenderci di scuola perché o come studenti, o come insegnanti, o come genitori abbiamo esperienza almeno della scuola d’obbligo. Quindi, un débat non può non essere acceso. E celare le difficoltà di predisporre una legge di stabilità che non vuole scontentare parte dell’elettorato tradizionale di un governo in gran misura composto da ex-sindaci (ad esempio, utilizzando la scure nei confronti del capitalismo municipale), ricorrendo a tagli lineari di profumo tremontiano ed al blocco dei salari del pubblico impiego. Un acceso – anche meglio se infuocato – dibattito sulla scuola può distrarre da questi difficili temi. In secondo luogo, i lineamenti di riforma sono tali da suscitare seri dubbi. Ho trattato di questa materia per diversi anni dirigendo una divisione specifica in Banca mondiale e collaborando con il rapporto mondiale dell’Unesco sull’istruzione (nonché scrivendo un paio di libri in materia); penso, quindi, di avere titolo di entrare nel merito.
I due problemi sono simmetrici. Vediamo, prima, perché il governo può ancora ricorrere (il disegno di legge di stabilità è atteso tra più di un mese) a una strumentazione migliore dei tagli lineari e del blocco agli stipendi e, poi, le insufficienze dei lineamenti sulla buona scuola.
Sotto il primo profilo, il governo dispone di un documento (purtroppo è stato deciso di non renderlo pubblico) di un Commissario alla revisione della spesa (Carlo Cottarelli, ndr) che ha individuato puntualmente 15-20 miliardi di spese non necessarie specialmente nel “socialismo regionale, provinciale e municipale” e negli enti (strumentali e di ricerca) dei ministeri. E’ un ampio campo su cui operare, sulla base di cifre certe e di valutazioni precise, ed è questo il campo dove trovare le risorse per far quadrare i conti della spesa di parte corrente ed avere spazi per rilanciare gli investimenti. Ove ciò non bastasse, nuove metodologie di valutazione della spesa sono state varate dal Cnel nel 2012 ed hanno avuto il consenso dei maggiori ministeri nonché delle istituzioni finanziarie internazionali.
Purtroppo esponenti della Cgil al Cnel hanno chiesto che il lavoro non venisse proseguito; sta alla segreteria della Cgil chiedere ai suoi nominati spiegazioni in proposito, anche in quanto l’opposizione della Cgil al lavoro sulla qualità della spesa pone la confederazione in una situazione almeno imbarazzante nelle discussioni sulla legge di stabilità. Sulla base del lavoro Cnel ed in collaborazione con gli enti di ricerca di alcune regioni, l’Uval (Unità di Valutazione), ora operante nell’agenzia per la coesione territoriale (quindi in seno alla stessa presidenza del Consiglio) ha completato in luglio un aggiornato buon manuale della valutazione della spesa per ora disponibile (anche al presidente del Consiglio) su supporto telematico (è in corso l’approntamento dell’edizione a stampa).
Quindi, esiste la strumentazione per affrontare la riduzione della spesa distinguendo tra quella “socialmente produttiva” (nel lessico dell’economia del benessere) a quella “socialmente improduttiva”, senza ricorrere a tagli e blocchi lineari, a red herring e a specchietti per le allodole come paiono essere i lineamenti per labuona scuola. 
Veniamo ai punti principali, riservandoci di esaminare gli altri man mano che il débat proseguirà.
a) Stabilizzazione dei precari. Le statistiche Ocse ed Unesco dimostrano che, in rapporto agli allievi, abbiamo il numero di insegnanti maggiore al mondo. Per arrivare alla media europea si potrebbe fare a meno di circa 50mila precari. Ciò che conta, soprattutto, è la qualità degli insegnanti. Occorre non ripetere l’errore del decreto Misasi del 1972 che stabilizzò ope legis tutti gli assistenti ed i docenti incaricati nelle università della Repubblica, dando un colpo mortale agli atenei pubblici italiani, quasi tutti al di fuori della statistiche sulle 150 migliori università mondiali, ed incoraggiando la nascita di quelle private. Quindi, per il bene dei nostri figli e nipoti occorre coniugare “stabilizzazione” con “selezione”. Ciò comporta procedure (concorsi) e tempi lunghi. Ciò implica anche tenere adeguante conto dell’apporto che possono dare le scuole paritarie, ignorate o quasi nei lineamenti per la buona scuola.
b) Modernizzazione dei programmi. Non si può non essere d’accordo con la modernizzazione dei programmi per le scuole “generaliste” e con un sistema duale di alternanza con il lavoro per l’istruzione tecnica, commerciale, industriale, agraria, turistica e via discorrendo. Ciò comporta però, per ragioni d’efficienza e economicità, istituti scolastici di almeno 400 allievi od un sistema di rotazione dei docenti in varie scuole. Inoltre, sono essenziali aule specializzate ed un sistema (consueto in molti Paesi ma raro in Italia) in cui gli studenti si spostano da aula ad aula a seconda della materia, mettendo fine al nesso tra classe (gruppo di studenti) ed aula. A sua volta, ciò richiede presidi o direttori addestrati in questo campo. Ciò comporta forte spesa pubblica in edilizia scolastica e formazione. I lineamenti non ne fanno alcun cenno.
c) Rendimenti dei livelli e tipologia di istruzione. Sono anni che non vengono effettuati studi sui rendimenti dei vari livelli e delle varie tipologie d’istruzione (ne feci uno con George Pscharopoulos nel lontano 1984 ma ora non presenta più alcuna utilità). Sono necessari per orientare studenti a scegliere in funzione delle opportunità del mercato del lavoro. Ma in questa materia, i lineamenti sono muti e silenti.
Le aziende cercano 30mila posti. Se sei straniero è più facile lavorare

Le aziende cercano 30mila posti. Se sei straniero è più facile lavorare

Francesco De Dominicis – Libero

L’Italia dei paradossi. Con migliaia di posti di lavoro «vacanti», perché non ci sono figure professionali all’altezza, e l’occupazione sempre meno «tricolore». Sono gli effetti della crisi e pure di un Paese che non è capace di formare i giovani secondo le effettive esigenze delle aziende né di mettere gli imprenditori di offrire «posti» con condizioni allettanti (o almeno ragionevoli) agli italiani, spesso superati dagli stranieri, più portati ad accettare condizioni, mansioni e salari snobbate dai «locali». Tuttora in piena crisi e forse non ancora completamente fuori dalla più dura recessione della storia, l’Italia si mette davanti allo specchio e scopre di non essere capace di far lavorare i suoi cittadini. Una fotografia piena di ombre che viene fuori mettendo insieme i risultati di due recenti ricerche.

Quella del Centro studi ImpresaLavoro rivela che l’analisi dei tassi di occupazione degli stranieri in Europa ci consegna un dato davvero curioso: l’Italia è uno dei pochi paesi dell’Unione europea in cui gli stranieri sono occupati più e meglio dei cittadini nazionali. I dettagli: la Penisola sconta un basso tasso di attività tra i suoi cittadini residenti (59.5%), di circa 9 punti inferiore alla media europea. E il nostro Paese, come accennato, è uno dei pochi in grado di garantire agli stranieri residente un tasso di occupazione migliore (61,9%) di quello che riescono a far segnare i cittadini italiani. Il dato, peraltro, è in controtendenza con tutti i maggiori paesi Ue: confrontando il tasso di occupazione dei francesi (70,6%) e quello degli stranieri residenti in Francia (55,9%), si scopre che i locali sono in vantaggio del 4,7%; in Germania i tedeschi (78.7%) sono in vantaggio del 13,7% sugli stranieri (65,0%). E ancora: in Spagna i locali sono avanti del 6,7%, in Gran Bretagna del 5%, in Grecia del 3,1%. Insomma, o l’Italia è troppo generosa o qualcosa non va.

Che il motore sia inceppato, in ogni caso, lo dimostra pure la ricerca della Cgia di Mestre: su ben 29mila nuovi posti di lavoro, quasi 8.500 corrono il rischio di non essere coperti perché non reperibili sul mercato del lavoro. C’è da dire che si tratta di un dato, quest’ultimo, molto inferiore a quello riferito al 2009 che, in termini assoluti, era pari a quasi 17.600. In buona sostanza, negli ultimi sei anni i «lavoratori introvabili» sono pressoché dimezzati. Di là dal calo, gioco forza cagionato dalla bufera finanziaria e dalla crisi, esiste una lunga lista di professioni poco «coperte», dove la difficoltà di trovare personale è molto elevata: si tratta di analisti e progettisti di software, tecnici programmatori, ingegneri energetici e meccanici, tecnici della sicurezza sui lavoro ed esperti in applicazioni informatiche. In questi ultimi sei anni, secondo l’analisi Cgia che ha messo a confronto i dari di quest’anno con quelli riferibili all’inizio della crisi, c’è stata una profonda trasformazione del mercato del lavoro, sia per la domanda sia per l’offerta. La geografia delle professioni – e con essa anche la graduatoria dei lavoratori più difficili da reperire – è mutata profondamente. Se all’inizio della crisi non si trovava oltre la metà degli infermieri e ostetriche, dei falegnami e degli acconciatori, nel 2014 le professionalità più difficili da trovare (per numero o per caratteristiche personali o di competenza) risultano gli analisti e i progettisti di software (37,7%), i programmatori (31,2%), ingegneri energetici e meccanici (28,1%), i tecnici della sicurezza sul lavoro (27,7%) ed i tecnici esperti in applicazioni informatiche (27,/1%), figure con alta specializzazione e competenza.

Per il rimborso dei debiti PA, Renzi ha fatto più di Monti e Letta ma difficilmente potrà chiudere la partita entro il 21 settembre

Per il rimborso dei debiti PA, Renzi ha fatto più di Monti e Letta ma difficilmente potrà chiudere la partita entro il 21 settembre

Tino Oldani – Italia Oggi

Manca poco al 21 settembre, giorno di San Matteo, e non è affatto chiaro se per quella data saranno stati pagati tutti i debiti della pubblica amministrazione ai fornitori privati. È stato lo stesso premier Matteo Renzi a fissare questa data come dead line, durante un’intervista con Bruno Vespa a Porta a porta, quando, al conduttore che si mostrava scettico sui tempi dei rimborsi, disse: «Per San Matteo, ultimo giorno d’estate, se ci riusciamo, lei va in pellegrinaggio a piedi da Firenze a Monte Senario». Era il 14 marzo. Da allora è successo un po’ di tutto.

Prima delle europee (25 maggio), Renzi promise rimborsi sempre più rapidi, salvo cambiare la dead line tra un annuncio e l’altro. Il 28 marzo dava per archiviata la vicenda con un tweet: «Debiti Pa? Problema risolto dal 6 giugno con la fatturazione elettronica a 60 giorni». Per nulla convinto, l’allora commissario Ue all’Industria, Antonio Tajani, fece alcuni controlli e il 18 giugno aprì una procedura d’infrazione contro l’Italia per la violazione sistematica dei termini di pagamento fissati da una direttiva Ue del 2012: le fatture vanno saldate entro 30 giorni, con limitate eccezioni fino a 60 giorni, gravate da interessi di mora dell’8%. Per tutta risposta, il sottosegretario alla Presidenza, Graziano Del Rio, accusò Tajani (dirigente di Fi) di «strumentalizzazione politica». Ma restava il fatto che la direttiva europea del 2012 sui tempi di pagamento, recepita dall’Italia nel 2013, era stata fino ad allora ignorata proprio dal governo. Per Renzi, un pessimo esordio del semestre europeo.

A complicare la situazione, poi, sono sopraggiunti la recessione e l’aumento del debito pubblico (arrivato al record di 2.168 miliardi), che ha ulteriormente ristretto i margini di manovra del Tesoro. In più, il patto di stabilità europeo, il famigerato Fiscal compact, obbliga a coperture certe per saldare i debiti in conto capitale dello Stato, perché incidono sul debito pubblico. E trovare risorse fresche per rimborsare migliaia di imprese fornitrici dello Stato è diventato quasi un incubo per il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, costretto a continue acrobazie dialettiche e finanziarie, vuoi per non contraddire i tweet ottimistici del premier, vuoi per racimolare, di volta in volta,modesti stanziamenti, sempre accolti dalla stampa amica come risolutivi, mentre è evidente che la partita non è affatto chiusa, né chiara.

In agosto, un centro studi di Udine, «ImpresaLavoro», ha quantificato in 74,2 miliardi il debito della Pa verso le imprese fornitrici, pari al 4,8% del pil. I tempi di pagamento della Pa, sostiene lo studio, continuano ad aggirarsi sui 170 giorni, contro i 60 del settore privato: un ritardo che avrebbe provocato alle imprese un danno di oltre 6 miliardi l’anno, per un totale di circa 30 miliardi per il periodo 2009-2013. Dati negativi, che il governo considera ormai superati. Sul sito del ministero dell’Economia, un post intitolato «Pagamento debiti della Pa ai creditori», con tanto di cartina a colori, spiega che, alla data del 21 luglio, sono stati pagati ai creditori 26,1 miliardi a fronte di finanziamenti disponibili per 30,1 miliardi, pari al 63% dello stanziamento del 2013. Dunque, un dato positivo ma parziale, se non deludente, visto che, tra il 2013 e il 2014, lo stanziamento effettivo era stato di 56,8 miliardi. All’appello, per chiudere la partita, mancano ancora circa 31 miliardi. Ce la farà Padoan a trovare questi soldi e saldare i debiti entro il 21 settembre?

Il ministro ne è così convinto che il 27 agosto, intervistato dal Corriere della sera, ha affermato: «Il problema dei debiti arretrati della pubblica amministrazione è di fatto risolto, in anticipo rispetto all’onomastico di Renzi. Il meccanismo dello sconto fatture presso le banche è decollato e sta funzionando molto bene. I fornitori, fin da oggi, possono cedere alle banche il loro credito a condizioni vantaggiose». Che è successo? Semplice: a fine luglio il ministero dell’Economia ha firmato con l’Abi (l’associazione delle banche) una convenzione in base alla quale le imprese possono cedere agli intermediare finanziari i loro crediti con lo Stato, purché certificati. Costo dell’operazione: 1,60% per importi superiori a 50 mila euro, un po’ di più (1,90%) per importi fino a 50 mila euro. L’iniziativa, benché implichi un aggravio burocratico (non bastando le fatture, le imprese devono presentare un’istanza di certificazione per autenticare il loro credito), ha avuto un discreto successo. Tanto che in agosto, ha spiegato Padoan al Corsera, «sono state ben 55 mila le imprese che hanno fatto domanda di certificazione, per un importo di 6 miliardi, che si aggiungono ai 26 già pagati. Ci aspettiamo che le certificazioni crescano ancora, come i rimborsi».

Insomma, per Padoan è tutto risolto. «Un regalo al premier», dice il ministro, che ricordando male la battuta di Renzi a Porta a porta, aggiunge: «Gli ho risparmiato un pellegrinaggio a Monte Senario». Ma nei panni di Bruno Vespa, saremmo certi di vincere la scommessa. Basta leggere con attenzione il sito del ministero dell’Economia, dove si precisa che «l’istanza di certificazione va presentata entro il 31 ottobre». Questo significa che i pagamenti arriveranno dopo, forse entro la fine dell’anno, oppure nel 2015. Non solo. Lo stesso Padoan ha ammesso nell’intervista che «i debiti in conto capitale impattano sull’indebitamento netto dello Stato e necessitano di una copertura», che ora evidentemente non c’è (è il Fiscal Compact, bellezza). Si tratta di 2-300 milioni quest’anno, e di 2-3 miliardi nel 2015, da trovare con la prossima legge di stabilità (speriamo non con le tasse). Che dire? Il governo Renzi-Padoan ha fatto certamente più di quelli di Monti e Letta per pagare i debiti della Pa. Anche la frustata europea di Tajani ha avuto il suo peso. Ma la partita non è affatto chiusa.

Lavoro in Italia: gli stranieri trovano un’occupazione più facilmente rispetto agli italiani

Lavoro in Italia: gli stranieri trovano un’occupazione più facilmente rispetto agli italiani

SINTESI DEL PAPER

L’analisi dei tassi di occupazione degli stranieri in Europa ci consegna un dato davvero curioso: l’Italia è uno dei pochi paesi dell’Unione Europea in cui gli stranieri sono occupati più e meglio dei cittadini nazionali. Lo rivela un’elaborazione del Centro Studi “ImpresaLavoro” sulla base dei dati Eurostat del 2013.
L’Italia sconta un basso tasso di attività tra i suoi cittadini residenti (59,5%), di circa 9 punti inferiore alla media europea. Quel che colpisce maggiormente è però il fatto che, all’interno di un mercato del lavoro così complesso, il nostro Paese sia uno dei pochi in grado di garantire agli stranieri residente un tasso di occupazione migliore (61,9%) di quello che riescono a far segnare i cittadini italiani. Si tratta di un dato in controtendenza con tutti i maggiori Paesi dell’Europa a 28. Ad esempio il confronto tra il tasso di occupazione dei francesi (70,6%) e quello degli stranieri residenti in Francia (55,9%) segna un -14,7%; quello tra il tasso di occupazione dei tedeschi (78,7%) e degli stranieri residenti in Germania (65,0%) segna un -13,7%; quello tra il tasso di occupazione degli spagnoli (59,5%) e degli stranieri residenti in Spagna (52,8%) segna un -6,7%; quello tra il tasso di occupazione dei britannici (75,4%) e degli stranieri residenti nel Regno Unito (70,4%) segna un -5,0%; quello tra il tasso di occupazione dei greci (53,4%) e degli stranieri residenti in Grecia (50,3%) segna un -3,1%.
Il dato è particolarmente significativo se si osserva il confronto relativo ai cittadini extracomunitari. Solo altri tre paesi – oltre all’Italia – hanno tassi di occupazione più alti tra la popolazione extracomunitaria rispetto a quanto avviene per i propri connazionali. In Svezia il tasso di occupazione dei soggetti extracomunitari è più basso del 31% rispetto a quello degli svedesi. E il dato è molto simile anche nelle economie che sono per noi un benchmark naturale: nel Regno Unito la differenza è del 13,5%, in Germania del 20,2%, in Francia del 22%, in Spagna del 9,5%, in Grecia del 3,7%. In media, i paesi dell’Unione a 28 registrano tassi di occupazione tra i loro cittadini di circa 13 punti percentuali superiori a quelli degli extracomunitari residenti. L’Italia, come detto, fa eccezione e seppur di poco il tasso di occupazione dei cittadini extracomunitari (60,1%) supera quello dei cittadini italiani (59,5%) ponendo il nostro Paese al quarto posto in Europa, dietro soltanto a Cipro, alla Repubblica Ceca e – di pochissimo – alla Lituania.
Anche i soggetti che vengono in Italia da altri paesi UE sembrano avere una maggior capacità di collocamento rispetto ai nostri connazionali. Il tasso di occupazione degli stranieri comunitari nel nostro Paese (65,8%) è infatti di ben 6,3 punti superiore a quello dei cittadini italiani (59,5%). Davanti a noi, in Europa, ci sono solo la Polonia e la Slovacchia. Anche in questo caso, larga parte delle economie continentali avanzate riesce ad occupare meglio i propri connazionali che gli stranieri comunitari con differenziali che vanno dal 15% della Slovenia al 3,5% della Germania, passando per lo 0,5% della Francia e l’1,3% della Spagna. Fa eccezione, in questo caso, la Gran Bretagna che riscontra un tasso di occupazione tra i cittadini comunitari di quasi 4 punti superiore a quello dei sudditi di Sua Maestà.
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Massimo Blasoni: «Per tornare sani servono 28 anni, non mille giorni»

Massimo Blasoni: «Per tornare sani servono 28 anni, non mille giorni»

Chiara Daina – Il Fatto Quotidiano

La risposta per le rime a Renzi arriva da Massimo Blasoni, 49 anni, imprenditore udinese, che ha comprato un’intera pagina su Il Giornale di ieri. Due tondi, una con la foto del premier come è adesso, l’altro con un fotomontaggio che lo ritrae anziano e canuto. Sotto, la scritta “Torneremo ai livelli del 2008 quando Renzi avrà 67 anni”. Non è una stima sparata a caso. All’inizio di agosto Blasoni ha fondato il centro studi ImpresaLavoro, che ha ipotizzato il conto e di cui fa parte anche Salvatore Zecchini, presidente del gruppo di lavoro dell’Ocse su Pmi e imprenditoria.
Come è venuto in mente di comprare una pagina di giornale?
«Volevo comunicare a Renzi con un linguaggio schietto e mediatico come il suo. Il governo aveva previsto un livello di crecita del Pil dello 0,8 per cento. Balle. Per tornare ai livelli pre-crisi, considerando una crescita media tra il 2008 e il 2014 dello 0,3%, ci serviranno altri 24 anni».
Cosa le fa più paura?
«Quella di Renzi è solo una politica degli annunci. La pressione tributaria non è diminuita. Nessuna semplificazione burocratica per le imprese e nessuna facilitazione per l’accesso al credito. Imsomma, zero segnali di ripresa, nonostante le belle parole. Lo sa quanto costano i ritardi nei pagamenti della Pa alle imprese?».
Quanto?
«Cinque miliardi di euro l’anno. Lo abbiamo calcolato nella nostra prima ricerca».
Lei ha votato Renzi?
«No, anche se all’inizio gli davo fiducia. Ma di riforme vere finora neanche l’ombra. Renzi è un politico di vecchio corso con una faccia da giovane. Ma noi l’abbiamo già invecchiato».