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Così la pressione fiscale brucerà l’ossigeno di Draghi
Redazione Edicola - Argomenti fisco, gian maria de francesco, il giornale, l'espresso, mario draghi
Gian Maria De Francesco – Il Giornale
Senza una riduzione delle tasse il bazooka anticrisi di Mario Draghi sparerà a salve. È questo il senso di un’analisi condotta dal Centro studi Unimpresa sulla base della Nota di aggiornamento al Def. Il peso delle imposte sulle famiglie e imprese italiane tra il 2014 e il 2018 è atteso attestarsi sempre su una quota superiore al 43% del Pil, un valore decisamente incompatibile con qualsiasi prospettiva di rilancio.
Nei cinque anni dell’orizzonte previsionale del governo Renzi, l’aumento delle entrate tributarie dovrebbe attestarsi a oltre 45,7 miliardi di euro, portando il totale cumulato sopra i 2.540 miliardi. Quest’anno la pressione fiscale dovrebbe attestarsi al 43,4% del Pil (43,5% nel 2014) per raggiungere il picco del 43,6% l’anno prossimo, vista la scadenza delle clausole di salvaguardia su Iva e accise. Per poi registrare una impalpabile diminuzione: 43,3% nel 2017 e 43,2% nel 2018. Anche i valori assoluti fanno paura: la soglia dei 500 miliardi di entrate fiscali sarà avvicinata quest’anno (493,8 miliardi) per essere superata nel 2016 (508 miliardi). «La sola immissione di nuovo denaro in circolazione con il quantitative easing della Bce – spiega il presidente di Unimpresa, Paolo Longobardi – non può bastare a superare la dura recessione dalla quale non si riesce a uscire». Parole da Cassandra? Volontà di smorzare l’ottimismo del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, che ieri, intervistato da Repubblica , ha preannunciato una revisione al rialzo delle stime di crescita del Pil 2015? Nulla di tutto questo.
I 1.140 miliardi che la Bce dovrebbe immettere nell’economia di Eurolandia da marzo fino a settembre 2016 avranno, infatti, un impatto limitato sull’economia reale. Confindustria ha accolto la misura positivamente e vede addirittura un incremento del Pil italiano dell’1,8% nel biennio 2015-2016. Gli economisti di Société Générale sono stati più prudenti e credono che quei mille miliardi potranno avere un impatto compreso tra lo 0,2% e lo 0,8% annuo, direttamente proporzionale ala maggiore inflazione che si dovrebbe creare. L’inflazione rende l’ambiente più favorevole a chi si indebita, mentre il quantitative easing contribuisce a mantenere basso il livello dei tassi di interesse, garantendo un flusso continuo di denaro verso gli operatori finanziari. Se a questo si aggiunge il deprezzamento dell’euro nei confronti del dollaro, si può osservare il quadro economico con maggiore serenità.
Il problema è che per sfruttare i vantaggi offerti da una maggiore offerta di moneta (quella immessa dalla Bce con gli acquisti di titoli di Stato) bisogna essere nelle condizioni di potersi indebitare, ossia disporre di almeno un patrimonio minimo da rischiare. Ed è quello che in molti casi manca, perché la pressione fiscale mangia via le disponibilità residue di famiglie e imprese. Quello che ha scritto ieri Renato Brunetta nel suo intervento sul Giornale è solo la logica conseguenza di questo stato di cose: senza una «riduzione delle tasse, soprattutto sulla casa, e una liberalizzazione del mercato del lavoro» sarà difficile se non impossibile che lo stimolo di Mario Draghi si trasmetta all’economia reale. Molto più facile, di questo passo, che il prossimo futuro sia costituito da banche con i bilanci in ordine con poche richieste di prestiti da parte di aziende e cittadini. Cosa volete che cambi per il signor Rossi che vede il suo reddito annuo lordo di 24.500 euro ridursi a soli 11.929 euro, dopo tutte le tasse che è costretto pagare, che oggi il denaro costa zero? Come può pensare di investire odi consumare di più se deve barcamenarsi con 990 euro ogni mese? Renzi dovrà per forza tenerne conto.
I buoni propositi, le occasioni sprecate
Redazione Edicola - Opinioni angelo cremonese, dichiarazione dei redditi, fisco, il sole 24 ore, tasse
Angelo Cremonese – Il Sole 24 Ore
Una delle semplificazioni più rivoluzionarie che il governo si appresta a varare è costituita dalla dichiarazione precompilata. Nei prossimi mesi, infatti, circa 20 milioni di italiani, lavoratori dipendenti e pensionati, non dovranno più provvedere alla compilazione della dichiarazione dei redditi che a partire dal 15 aprile sarà messa a disposizione dall’agenzia delle Entrate. Sulla scia delle esperienze vissute negli ultimi anni da diversi paesi europei ed extraeuropei, che nel tempo ne hanno esteso l’operatività a molte altre categorie di redditi, questo nuovo servizio si propone di semplificare gli adempimenti per alcune fasce di contribuenti, ridurre gli oneri di controlli e verifiche su una vasta platea di soggetti, diminuire il rischio di errori e, soprattutto, migliorare il senso di fiducia del cittadino verso le istituzioni tributarie.
Questi principi appartengono senz’altro a un modo nuovo e più moderno di gestire la materia fiscale e vanno dunque valutati positivamente. Va peraltro ricordato che, soprattutto per il mondo delle imprese, la semplificazione vera resta una pagina ancora tutta da scrivere, per la quale è urgente una profonda riforma. È infatti difficile immaginare un rapporto sereno tra fisco e imprese con un livello del prelievo effettivo che raggiunge il 68,5% (total tax rate, Rapporto Paying Taxes 2013), ancora più elevato per le piccole e medie imprese, una giungla di norme spesso di difficile comprensione, adempimenti così complessi che rendono gli oneri tributari indiretti insostenibili, un sistema di giustizia tributaria lento e dai costi elevati con esiti spesso imprevedibili e contrastanti, un sistema sanzionatorio incapace di rispondere a criteri di proporzionalità. L’auspicio, dunque, è che con i decreti delegati si sia solo iniziato a percorrere, nella giusta direzione, il cammino della semplificazione. Un obiettivo fondamentale che, pur mantenendo invariato il livello complessivo del prelievo, potrebbe costituire una importante risorsa per lo Stato e per i cittadini, facendo realizzare forti risparmi in termini di oneri amministrativi.
Dalla sola dichiarazione precompilata, a regime, sono previsti benefici per oltre un miliardo di euro. Appare quindi poco comprensibile come, in un clima che spinge fortemente verso l’alleggerimento degli adempimenti per i contribuenti, proprio in questi giorni si sia sprecata una prima importante occasione per far esordire gli effetti del “nuovo corso”. L’invio con un modulo già precompilato della dichiarazione sostitutiva unica (Dsu), da trasmettere all’Inps al fine di ottenere il nuovo Isee, avrebbe infatti evitato il caos che stanno vivendo tutti coloro che, già svantaggiati economicamente, cercano di non perdere il diritto all’accesso a servizi sociali quali asili nido, prestazioni socio-assistenziali, mense scolastiche ecc, e sono costretti a rimbalzare, come una pallina del flipper, fra siti web dell’Inps, Caf in rivolta e uffici comunali. La modifica dei parametri del cosiddetto riccometro, dopo oltre 17 anni dal suo varo, risponde alla giusta esigenza di ottenere una fotografia più chiara e aggiornata delle reali condizioni economiche dei cittadini e di riservare il welfare ai soggetti realmente bisognosi. Considerando, però, che la maggior parte dei dati richiesti sono già disponibili nei sistemi informativi, fiscali e contributivi, dell’Amministrazione, si sarebbe potuto pensare di utilizzare il nuovo metodo, inviando una dichiarazione precompilata, con il solo onere per il contribuente di completarne il contenuto inserendo i dati eventualmente sconosciuti al fisco.
Guardando al prossimo futuro un limite del nuovo modello 730 inviato direttamente dalle Entrate è che, almeno sino al 2016, non terrà conto delle spese sanitarie. In questa prima fase, pertanto, si prevede un’alta percentuale, superiore al 70%, di soggetti che saranno costretti ad effettuare integrazioni. Successivamente questa percentuale è destinata a scendere drasticamente, come è anche auspicabile che si possa allargare la platea di soggetti che potranno usufruire di questo servizio. Il modello sono i paesi del nord Europa, la Danimarca su tutti, dove, dopo oltre 25 anni, il 100% dei contribuenti individuali riceve annualmente la propria dichiarazione dei redditi completa di stipendio, interessi, dividendi, capital gain, detrazioni, esenzioni e deduzioni, con una percentuale di richieste d’integrazione scesa sotto il 6%. Anche in Francia si è attuato questo esperimento da circa 10 anni e, pur con risultati molto diversi, si è ormai instaurata una linea di comunicazione diretta con i contribuenti, attivando canali telematici con cui l’Amministrazione è in grado di fornire risposte in tempo reale.
Per creare anche nel nostro Paese i presupposti di un rapporto tra fisco e contribuente diverso, ispirato a principi di trasparenza e di modernità non sono necessarie rivoluzioni o ricette nuove e sorprendenti, occorre solo perseverare sulla strada della semplificazione con serietà, coerenza e determinazione.
Quando semplificare fa rima con complicare
Redazione Edicola - Opinioni elsa fornero, il sole 24 ore, jobs act, lavoro, piercamillo falasca
Giampiero Falasca – Il Sole 24 Ore
Con il Jobs Act il processo del lavoro viene riformato ancora una volta, dopo le novità del 2012, e ancora una volta le nuove norme si caratterizzano per un buon livello di complessità applicativa. Un fardello che il diritto del lavoro italiano si porta dietro da tanti, troppi, anni, e che riemerge sempre, anche quando – come fa l’attuale riforma – vengono approvate regole che mirano a semplificare in maniera importante il sistema normativo.
Il paradosso – che potremmo definire della “semplificazione complessa” – ruota intorno ai concetti di “vecchi assunti” e “nuovi assunti”, che nel Jobs act segnano la linea di demarcazione tra i lavoratori per i quali la riforma non si applica e quelli interessati dalle nuove regole. Chiunque nei prossimi anni avrà l’esigenza di cimentarsi con il processo del lavoro dovrà sempre verificare se un dipendente rientra nell’una o nell’altra categoria.
Se il licenziamento sarà impugnato da un “vecchio assunto”, nulla cambierà rispetto alle regole processuali (e no) oggi vigenti, introdotte nel 2012 dalla riforma Fornero; se invece la causa sarà promossa da un “nuovo assunto” (cioè un lavoratore impiegato a tempo indeterminato dopo l’entrata in vigore della riforma), si applicherà il rito ordinario, tornando a quanto accadeva prima del 2012. I motivi di questo ritorno al passo sono da ricercare nei risultati modesti prodotti dal rito sommario della legge Fornero, che era nato con lo scopo di velocizzare il processo e ha finito per allungare le liti, introducendo di fatto un quarto grado di giudizio. I nuovi assunti saranno interessati anche dall’abrogazione della norma che, prima della causa, imponeva l’attivazione procedura di conciliazione preventiva, in caso di licenziamenti economici: l’obbligo resterà in vita solo per i vecchi assunti, per gli altri verrà meno, ma si apriranno le porte del nuovo istituto della conciliazione volontaria.
Come si vede, la riforma introduce semplificazioni importanti, ma solo per alcuni gruppi di lavoratori, con la conseguenza che per molti anni conviveranno nel mercato del lavoro due processi del lavoro, due procedure conciliative, due regimi di impugnazione dei licenziamenti. Questo doppio binario potrebbe frenare molto la portata innovativa delle nuove regole. Una semplificazione così importante ed efficace come quella contenuta nel decreto attuativo del Jobs act meriterebbe invece di essere applicata a tutti, senza distinzioni, anche per evitare di allungare la lista già corposa dei muri che separano i lavoratori più garantiti da quelli meno tutelati, e per scongiurare l’ennesima sovrapposizione di norme, che crea delle complicazioni poco comprensibili agli investitori, italiani e stranieri.
Italia, Cottarelli “batte” Draghi
Redazione Edicola - Opinioni carlo cottarelli, euro, europa, giuseppe pennisi, mario draghi, sussidiario
Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net
Tutti coloro che in questi giorni cantano le lodi del bazooka probabilmente non sanno cos’è un bazooka. All’inizio della Seconda guerra mondiale, i fanti avevano contro i carri armati ultimamente usando i fucili anticarro della Grande Guerra, praticamente impotenti: quando i carri migliorarono mobilità e protezione, infatti, i fucili diventarono solo un peso inutile per i fanti. A quel punto fu necessario utilizzare un tipo diverso di arma, i lanciarazzi, che furono sviluppati sia dai tedeschi che da inglesi e americani Quello degli yankee era il M1 Rocket Launcher 2.36 in Bazooka, che diede risultati soddisfacenti negli ultimi anni di guerra, ideato da Edward Uhl nel 1942. Il soprannome bazooka deriva dal fatto che un uomo, addetto ai collaudi, disse che il tubo assomigliava a uno strano strumento musicale, usato dall’attore radio Bob Burns per creare effetti comici. In effetti, il bazooka, se non è parte di una strategia ben pensata e di una tattica ben coordinata, ha effetti limitati. Vi ricordate il detto di Totò: Bazooka, ogni colpo una buca, ossia più si spara e meno si centra il bersaglio?
Eppure i mercati esultano. Non occorre essere il Premio Nobel Robert Shiller che con una fine teoria ha dimostrato come l’esuberanza delle piazze finanziarie possa essere “irrazionale”. I mercati brindano perché in caso di mancato accordo si sarebbe andati allo sfascio. Alla Banca centrale europea le bocche sono cucite, ma nei felpati saloni del Frankfurter Hof si bisbiglia che Draghi avrebbe minacciato le dimissioni, mettendo in crisi Bce ed eurozona. Ci sarebbe un accordo segreto – da lui smentito – con Renzi per farlo eleggere Presidente della Repubblica italiana, proprio per farlo andare lontano dalle rive del Meno.
In effetti, nella storia degli ultimi due secoli, i mercati hanno esultato solo per pochi giorni o settimane ad accordi monetari redatti unicamente da tecnici e politici, tranne che dopo una guerra mondiale, quando si doveva ricostruire il sistema dalle fondamenta, e quindi la politica, aiutata da grande tecnica (Keynes, White), doveva scendere in campo. Vi ricordate l’intesa del Smithsonian Institution del dicembre 1971, pubblicizzata dal Presidente degli Stati Uniti a reti unificate come “il più grande accordo monetario della storia dell’umanità” e lodato con pari enfasi dalla Commissione europea? Ebbe vita breve (tre mesi) e contrastata, arricchendo la speculazione sui cambi. Anche il Trattato di Maastricht venne esaltato come veicolo di crescita nella stabilità per gli Stati dell’unione monetaria. Soprattutto, sei mesi dopo la firma, Gran Bretagna, Danimarca e Italia ne chiesero la sospensione (dopo che molti, anche loro concittadini, si erano gonfiati i portafogli alle spalle di governi e banche centrali). Londra e Copenhagen restarono i fuori. Roma prese la via del rientro, un percorso come quello per andare al Santuario di Compostela. Lo guidava Carlo Azeglio Ciampi, che fece pagare agli italiani un dazio di un aumento di sette punti percentuali della pressione fiscale sul Pil. Da allora siamo a sviluppo rasoterra.
Oggi nessuno sa come i mercati reagiranno a un accordo contro il quale forze politiche dello stesso azionista di maggioranza (la Repubblica Federale Tedesca, unitamente ad Austria, Finlandia, Estonia, Lettonia) hanno espresso una tale opposizione che un gruppo di distinti cattedratici del diritto e dell’economia ha fatto ricorso alla Corte Suprema (che attende pazientemente sulla riva del Reno superiore, a Karlsruhe, l’evolversi degli eventi). Il problema è politico, non giuridico. Lo esprime con grande chiarezza Antonio Luca Riso dell’ufficio legale Bce nel documento pubblicato nel numero speciale di Imfs (Interdisciplinary Studies in Monetary anf Financial Stability) dedicato alle Outright Monetary Transactions (OMT) e pubblicato a metà gennaio.
Per “politico” deve intendersi che tutto dipende dalle altre politiche che gli Stati dell’eurozona metteranno in campo per dare corpo alla possibile politica di ripresa. Ovviamente, il tasso d’integrazione nell’eurozona sta nel fatto che le politiche di uno Stato incidono anche su quelle degli altri. Ad esempio, si dovrebbe dare maggiore attenzione alla crescita della propria domanda aggregata che, pur se in misura minore di quanto sostengono numerosi media e tanti politici poco informati, può avere un effetto di trazione su altri soci del club. In Italia, tuttavia, ci siamo inflitti dei nostri mali: uno studio del Centro Studi Impresa Lavorodocumenta che dal 2011 l’imposizione su conti correnti e investimenti è aumentata del 130% da 6,9 a 15,9 miliardi di gettito, azzoppando imprenditori e consumatori proprio in una fase in cui da recessione si scivolava in deflazione.
Cosa fare? Uno stop alla pressione tributaria, e se possibile una sua riduzione con paralleli tagli alla spesa corrente. Sono misure che si possono mettere in atto subito agendo su quel capitalismo (o socialismo) regionale e comunale, analizzato dal “segretato” Rapporto Cottarelli (alla faccia della trasparenza e della democrazia). Si può anche mettere in atto immediatamente un programma di privatizzazioni di vaste dimensioni; unitamente alle misure Bce, tale programma dovrebbe portare a una riduzione almeno del 30% dello stock entro il 2015 e rimuovere il blocco principale alla ripresa. In parallelo occorre rilanciare la politica dei prezzi e dei redditi, al fine di porre fine alla discesa nella povertà dei ceti medio bassi e liberalizzare i mercati di merci e di servizi (segnatamente delle professioni un tempo dette “liberali”) per aumentare, tramite la concorrenza, la produttività. Il Governo Renzi è pronto a mettere in atto questa batteria? Altrimenti – ricordiamoci Totò – il bazooka di Draghi farà “buca”.
Patrimoniale mascherata sui nostri risparmi: 9 miliardi in più tra 2011 e 2014
Redazione Scrivono di noi fisco, imprenditori, libero, risparmi, tasse
Liberoquotidiano.it
Il prelievo forzoso sui conti correnti degli italiani c’è già stato, e negli ultimi 3 anni ha tolto dalle nostre tasche qualcosa come 9 miliardi di euro. Per interdersi sulle proporzioni: quello ufficiale e dichiarato, anche se eseguito nottetempo, ad opera dell’allora premier Giuliano Amato nel luglio 1992 oggi corrisponderebbe a 3 miliardi di euro. A fare la conta sull’incredibile escalation di pressione fiscale sui 3.800 miliardi di euro di attività finanziarie detenute dalle famiglie italiane è una ricerca del centro studi ImpresaLavoro pubblicata sul settimanale Panorama. E i numeri del triennio 2011-2014, corrispondente ai governi di Mario Monti, Enrico Letta e Matteo Renzi, se messi l’uno dopo l’altro sono impressionanti.
La patrimoniale occulta di 9 miliardi – A pesare sulle tasche degli italiani sono stati tre interventi massicci, che sommati risultano una vera e propria patrimoniale mascherata. Innanzitutto, l’aumento delle aliquote sui redditi di natura finanziaria, passata dal 12,5% al 26% (eccetto i titoli di Stato), che nel 2015 porterà all’Erario 11,2 miliardi di euro rispetto ai 6,5 stimati per il 2011. Quindi l’introduzione della tassa su una parte delle transazioni finanziarie, la celebre Tobin Tax: secondo gli analisti, la tassa non ha portato nelle casse dello Stato non più di qualche centinaia di milioni di euro. Le stime parlano di 300 milioni, praticamente la stessa entità della diminuzione degli scambi sui mercati italiani, riflesso negativo della misura. Infine, l’imposta di bollo sul deposito titoli che, sottolinea Panorama, da imposta si è trasformata in vera e propria patrimoniale occulta. Dal 2012 a oggi ha già raddoppiato la sua portata e pesa per lo 0,2% su depositi bancari, fondi e alcune polizze e per 34,20 euro sui conti correnti con una giacenza media di 5.000 euro. Rispetto al 2011, nel 2015 questa misura dovrebbe portare allo Stato 4,4 miliardi, 4 in più rispetto al 2011. In tutto, dunque, le tasse sui risparmi degli italiani oggi ammontano a 15,9 miliardi, rispetto ai 6,9 del 2011. Una mazzata, in un quadro in cui a causa della crisi la ricchezza complessiva dei contribuenti si è ridotta contemporaneamente di 814 miliardi.
L’aumento su interessi e capital gain – Basta dare un’occhiata nello specifico alla progressione dell’imposta su interessi e capital gain per comprendere la portata degli interventi fiscali degli ultimi tre governi. Soltanto sui conti correnti e depositi bancari e postali c’è stato un leggero miglioramento, passando dal 27% del 31 dicembre 2011 al 26% attuale. C’è da dire però che fine al 30 giugno 2014 l’imposta era stata abbassata al 20 per cento. Invariata l’aliquota sui titoli di stato sovranazionali e governativi (12,5%), è cresciuta in modo esponenziale quella sui titoli azionari, obbligazionari societari e bancari, dal 12,5% del 2011 al 20% del 2014 fino al 26% attuale. Aumentate anche le imposte su fondi comuni e polizze vita (dal 12,5% alla media ponderata comunque oscillante tra il 12,5 e il 20%) e sui fondi pensione e piani pensionistici individuali (dall’11% alla media tra 12,5 e 20%). Alla luce di tutto ciò, ritrovare Amato al Colle sarebbe non tanto una beffa, quanto la perfetta chiusura del cerchio.
L’occasione giusta per le imprese italiane
Redazione Edicola - Opinioni Corriere della Sera, danilo taino, impresa
Danilo Taino – Corriere della Sera
Com’è possibile che l’economia italiana, in recessione da oltre due anni, abbia continuato a tenere sui mercati esteri? Con un aumento medio annuo delle esportazioni, tra il 2005 e il 2013, del 2% in volume e di quasi il 4% se misurato in dollari (dati Wto)? Ristrutturazione delle aziende, in particolare uso intenso dell’innovazione – sembra essere la risposta. È vero che lo Stato è inefficiente. È vero che il tasso di cambio dell’euro rispetto al dollaro è stato elevato durante gli anni della Grande Crisi. Ma forse proprio per questi vincoli le imprese che hanno voluto sopravvivere non hanno potuto fare altro che innovare, a 360 gradi.
Eurostat ha calcolato che nell’Unione Europea l’Italia è quarta per quota d’imprese considerate innovative. Se la media Ue conta il 48,9% di aziende che tra il 2010 e il 2012 hanno innovato, l’Italia è al 56,1%. Meglio hanno fatto solo Germania (66,9%), Lussemburgo (66,1%) e Irlanda (58,7%). In tutti e quattro i settori considerati, le italiane sono sopra la media Ue. Il 29,1% ha effettuato innovazione di prodotto (sempre nei tre anni 2010-2012), contro una media europea del 23,7%. Nell’innovazione di processo, le percentuali sono rispettivamente del 30,4 e del 21,4. Il 33,5% delle aziende italiane ha cambiato e modernizzato l’organizzazione, mentre in Europa lo ha fatto il 27,5% delle imprese. Nelle novità di marketing, infine, la quota delle italiane è il 31% e la quota europea il 24,3%.
L’Ufficio statistico della Ue fornisce anche dati, aggregati a livello europeo, della differenza di risultati tra le imprese che hanno innovato e quelle che non l’hanno fatto. Tra le innovative, il 60% ha aumentato il fatturato, il 56% ha abbassato i costi, il 51% ha aumentato i margini di profitto e il 42% ha accresciuto la propria quota di mercato. Tra le non innovative, solo il 48% ha aumentato il fatturato e abbassato i costi, il 36% ha aumentato gli utili e il 29% ha conquistato fette di mercato.
A parte l’importanza, ben conosciuta, dell’innovazione, i dati sembrano indicare che l’intreccio tra lo Stato inefficiente e l’euro forte ha costretto a ristrutturazioni serie le imprese italiane. Questo non per dire che ora l’euro indebolito sarà negativo e che le riforme strutturali, se ci saranno, indeboliranno l’energia delle aziende italiane. Al contrario, per dire che siamo su una base solida: l’opportunità del momento può essere notevole.
Quei bazooka della Bce manomessi dai veti tedeschi
Redazione Edicola - Opinioni bce, euro, il giornale, mario draghi, renato brunetta
Renato Brunetta – Il Giornale
Finalmente è arrivato il bazooka. Il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, improbabile Rambo, ha annunciato, infatti, giovedì scorso il lancio di un piano di acquisti di titoli sul mercato secondario da 60 miliardi di euro al mese, a partire da marzo 2015 fino a settembre 2016 (per un totale di circa 1.100 miliardi di euro), salvo continuare se a quella data il tasso di inflazione non avrà raggiunto un livello coerente con l’obiettivo della stabilità dei prezzi (inflazione intorno al 2%).
La strategia per fronteggiare la crisi dell’eurozona adottata dal consiglio direttivo della Bce, presieduto da Mario Draghi è senza dubbio apprezzabile, e vedremo mese dopo mese se l’intervento sarà efficace, le quantità bastevoli, le modalità coerenti. Una sola, amara, riflessione. Se lo stesso sforzo di «acquisto massiccio di titoli» fosse cominciato strategicamente e strutturalmente già nell’estate-autunno del 2011, la storia di questa crisi sarebbe stata diversa.
Fin qui una lettura buonista, e fatta di sole luci, di quanto accaduto. Ma a una lettura più attenta emergono le ombre. Certamente le percentuali di «risk sharing», vale a dire il fatto che il rischio di eventuali perdite sarà per l’80% in capo alle singole banche centrali nazionali, eviteranno che i tedeschi dicano che con i loro soldi si comprano titoli dei Paesi considerati più deboli, ma allo stesso tempo rappresentano una frammentazione della politica monetaria e del sistema finanziario europeo, nonché una sorta di presa di distanze dal debito pubblico dei singoli Stati, e di alcuni in particolare rispetto ad altri. A ciò si aggiunga che la banca centrale nazionale che potrà acquistare il maggior quantitativo di titoli è quella tedesca, vale a dire la banca centrale di quel Paese che meno di tutti ha bisogno che i titoli del proprio debito sovrano vengano acquistati.
Come sempre avvenuto negli anni della crisi, anche in questo caso pensiamo sia stato fatto troppo tardi e troppo poco. E quello che giovedì la Bce ha deciso altro non è che cercare di contrastare con un bazooka da oltre mille miliardi l’effetto nefasto delle misure sangue, sudore e lacrime imposte dal 2008 a oggi ai Paesi dell’eurozona da un’Europa a trazione tedesca. Misure recessive che, oltre all’impatto negativo sulle economie degli Stati e all’allargamento del divario tra Paesi del Nord e del Sud Europa, hanno avuto l’effetto collaterale di blocco della trasmissione della politica monetaria che il presidente della Bce, Mario Draghi, ha cercato di far convergere verso l’impostazione espansiva adottata dalle altre banche centrali mondiali. È così che sono fallite, infatti, le due aste di credito a breve termine al tasso dell’1% alle banche tenutesi il 21 dicembre 2011 e il 29 febbraio 2012 per 1.000 miliardi di euro. Come è fallito il Securities Markets Programme (Smp), vale a dire l’acquisto sul mercato secondario di titoli del debito sovrano dei Paesi dell’area euro sotto attacco speculativo per 213,5 miliardi di euro, di cui circa 103 miliardi di titoli italiani, cominciato a maggio 2010 e terminato a settembre 2012. Lo scorso anno, inoltre, sono state annunciate, da effettuarsi tra giugno 2014 e giugno 2016, otto nuove aste di finanziamento alle banche, simili alle precedenti due del 2011-2012, con una sorta di correzione: gli istituti che prendono in prestito liquidità agevolata dalla Bce devono destinare quelle risorse al credito a famiglie e imprese. Tuttavia, il numero delle banche che ha partecipato al programma si è rivelato fin troppo esiguo, e il totale degli importi assegnati nelle prime due aste è stato pari a 212,4 miliardi di euro: ben inferiore rispetto ai 400 miliardi messi a disposizione dalla Bce. Così come è fallito, infine, ma qui la responsabilità è soprattutto delle istituzioni europee obbedienti ai diktat tedeschi, il Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes).
Negli stessi anni in cui la Bce ha provato ad utilizzare almeno sei strumenti di politica monetaria non convenzionale diversi, sbagliandoli tutti e senza produrre effetti significativi in termini di inflazione (obiettivo che è nel suo mandato) e di crescita dell’economia e dell’occupazione nell’area euro, la Federal Reserve, oltre alla riduzione dei tassi di interesse al minimo storico (0%), ne ha messi in campo solo due: da subito, il Quantitative easing, per 4.500 miliardi di dollari tra novembre 2008 e ottobre 2014; e la cosiddetta «operation twist», vale a dire una operazione di vendita di titoli di Stato a breve termine e contestuale acquisto, per lo stesso ammontare (nel caso di specie: 700 miliardi di dollari), di titoli di Stato a lungo termine.
L’immediatezza, la determinazione strategica, la semplicità, il coraggio e, se vogliamo, la ruvidezza del cow-boy americano ha vinto alla grande rispetto alla timidezza, l’incertezza e gli opportunismi egoistici europei. Nulla di nuovo sotto il sole. Nell’Unione europea, infatti, al contrario di quanto avvenuto negli Usa, la risposta alla crisi della moneta unica è stata sempre insufficiente, tardiva, ma, soprattutto, costosa e, guarda caso, sempre a favore di un unico Stato egemone: la Germania. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.
In questo contesto, quella di giovedì è una sorta di «ultima spiaggia». La Bce ha sparato l’ultimo colpo a sua disposizione: dopo non vi saranno ulteriori reti di salvataggio. Tanto più che nelle sue decisioni, Mario Draghi ha preferito il più ampio consenso, cedendo alle pressioni, alla miopia e all’egoismo tedesco e «annacquando» il bazooka, piuttosto che il conflitto, che, al contrario, avrebbe rafforzato la potenza di fuoco della sua nuova, e ultima, arma. Il suo sforzo, inoltre, appare già indebolito dal comportamento post-decisione dei rappresentanti della Bundesbank. È qui il vero problema. Basta con la teoria delle riforme «sangue, sudore e lacrime» di cui avrebbero bisogno gli Stati del Vecchio continente, perché a cambiare, invece, dovrebbe essere prima di tutto la «mission» della Bce e l’architettura istituzionale dell’Unione europea. Finiamola con la retorica dei «compiti a casa».
Di questa complessa situazione occorre tener conto sia al fine di un giudizio sui vari protagonisti della vicenda, sia per individuare i possibili sviluppi. Con ogni probabilità l’euro tenderà a svalutarsi ancora. Le conseguenze per le esportazioni europee in generale, e italiane in particolare, saranno positive. Ma per il resto? Dipenderà dal giudizio comparato dei mercati sulle diverse economie. Se una parte della maggiore liquidità continuerà a defluire verso Wall Street, il resto cercherà i migliori rendimenti europei. Sui mercati vi saranno, pertanto, movimenti al rialzo e al ribasso, con conseguenti perdite o guadagni.
Come reagire di fronte a questi rischi? Cambiare la politica economica dell’Italia, per cambiarla in Europa. In questa corsa contro il tempo occorrerà che l’Italia faccia sul serio per riempire il programma di governo degli adeguati contenuti: a partire dalla riforma fiscale e dal Jobs act, fino a cancellare la suicida politica sulla tassazione degli immobili fin qui adottata. Poche cose, dunque: riduzione delle tasse, in particolare sulla casa; liberalizzazione del mercato del lavoro; riforma della burocrazia; riforma della scuola. Sono obiettivi realistici? Lo vedremo nei prossimi giorni. Draghi-Rambo ha fatto il possibile, ma il rischio che l’Europa si assume nell’immissione di denaro fresco per acquistare titoli di Stato è solo del 20%. Ancora una volta troppo poco e troppo tardi. Prima adotteremo in pieno il modello cow-boy della Federal Reserve, meglio sarà. Altro che bazooka caricato ad acqua.
Proibizione & superstizione
Redazione Edicola - Opinioni agricoltura, davide giacalone, libero, ogm
Davide Giacalone – Libero
Lesti son lesti, quando si tratta di proibire. Garantendo all’Italia un ulteriore elemento d’arretratezza e violazione del diritto dei cittadini. Quando il ministro dell’ambiente, Gian Luca Galletti, tornò trionfante annunciando di avere indotto i colleghi europei a stabilire che, circa le coltivazioni Ogm, ciascun Paese avrebbe deciso per i fatti propri, scrivemmo subito che trattavasi dell’apoteosi dell’antieuropeismo, nonché la premessa, dalle nostre parti, per la proibizione oscurantista. È puntualmente, nonché malauguratamente, accaduto.
Si deve ragionare su basi razionali, senza accecarsi e farsi accecare da paure e stregonerie mediatiche. La prima domanda è: la coltivazione degli Organismi geneticamente modificati può arrecare danni collaterali o, addirittura, comportare pericoli per la collettività? La risposta è: no. Non è “forse”, è “no”. Non c’è nessuna evidenza scientifica di danni o pericoli. Questo non è un buon motivo per metterci tutti a coltivare Ogm, perché non basta una cosa non sia pericolosa perché sia anche conveniente e utile. Ma è un buon motivo per non proibirla. Oggi, e per la precisione dal luglio del 2013, un agricoltore italiano è meno libero di un agricoltore spagnolo. Ciò vuole dire che un cittadino italiano è meno libero di un cittadino spagnolo. Tanto è evidente la violazione dei diritti, collettivi e individuali, che non hanno il coraggio né la base giuridica per proibire definitivamente quel che altrove non è solo consentito, ma praticato, e allora ricorrono a un trucco: la proroga della proibizione temporanea. Un trucco che serve a evitare che un cittadino italiano si rivolga alla Corte di giustizia e ottenga la sicura condanna dello Stato.
Perché proibiscono? Perché, dopo avere in tutti i possibili modi tassato il settore dell’agricoltura, cedono alla pressione corporativa di organizzazioni che pensano, in questo modo, di tutelare le coltivazioni tradizionali. Tanto è vero che parlano di rispetto dei sapori e dei profumi della nostra tradizione. Il che è comico assai, visto che gli Ogm che taluni pensavano di coltivare erano mais, con cui far mangiare gli animali. Negli allevamenti italiani, del resto, il mais dei mangimi è per la quasi totalità importato e Ogm. E dato che si è quel che si mangia: loro mangiano Ogm e noi mangiamo loro, o beviamo il loro latte. A qualcuno sono spuntate le branchie?
Oltre al danno per il diritto e i diritti, oltre a quello che subiscono gli agricoltori che avrebbero voluto coltivare (e alcuni, in Friuli, già annunciano che lo faranno ugualmente), c’è anche il danno per la ricerca scientifica. Se c’è un problema, sicuramente legato agli Ogm, è che importando le sementi si dipende da chi le ha prodotte (Monsanto, il più delle volte). Poi c’è la fastidiosa cantilena delle lamentazioni per i nostri cervelli che fuggono all’estero. Ebbene, ma come si può pensare di non dipendere dalle multinazionali dell’Ogm, e come si può credere che i ricercatori restino in Italia, se qui è proibito fare quel che altrove sono premiati e pagati per realizzare? Dentro il valore di quelle multinazionali c’è anche il peso dei nostri cervelli che hanno portato le loro capacità e scoperte dove non fosse proibito utilizzarle. Quindi, anche in questo caso, il problema non sono i cervelli che vanno via, ma quelli che rimangono e non funzionano. Uno speciale ringraziamento, allora, ai ministri dell’ambiente, dell’agricoltura e della sanità, che ci hanno conquistato, per altri diciotto mesi, uno spazio d’illibertà, povertà e superstizione.
Imu agricola, 3.456 Comuni saranno esenti anche per il 2014
Redazione Edicola - Argomenti agricoltura, Corriere della Sera, imu, mario sensini
Mario Sensini – Corriere della Sera
Con un decreto varato da un Consiglio dei lampo, durato pochi minuti, il governo ha sistemato il pasticcio dell’Imu sul terreni agricoli. Il decreto prevede l’esenzione dell’imposta sui terreni agricoli e incolti in 3.456 Comuni riclassificati come interamente «montani» e su quelli di proprietà o in affitto ai coltivatori diretti e alle imprese agricole nei municipi (sono 650) il cui territorio è considerato parzialmente montano. I nuovi criteri si applicano dal 2015 ma anche alle tasse dovute per il 2014, che andranno pagate entro febbraio, risolvendo così l’enorme incertezza che si era creata sul versamento dell’imposta. I sindaci, infatti, avevano presentato ricorso contro la decisione del governo di rivedere i criteri altimetrici per la definizione del Comune montano, ora ripristinati, ed il Tar del Lazio lo aveva accolto, sospendendo il pagamento dell’imposta che avrebbe dovuto essere pagata entro lunedì prossimo, 26 gennaio. La soluzione è arrivata ieri mattina nel corso di un incontro tra i ministri dell’Economia, Pier Carlo Padoan, e dell’Agricoltura, Maurizio Martina. L’estensione dell’esenzione dovrebbe costare circa 100 milioni di minori incassi per l’erario dello Stato.