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Il vero 18 che deve essere abolito

Il vero 18 che deve essere abolito

Giordano Riello – Libero

L’inventiva e l’agilità. Sono queste le due caratteristiche che secondo il Fondo Monetario Internazionale hanno consentito all’ltalia di mantenere il proprio livello di import/export su base competitiva in campo internazionale. Una analisi quella del Fmi che però si scontra con una realtà statistica diversa, dove a fronte del brand Made in Italy che continua ad attirare investitori e risorse, risulta esserci una ondata, continua e contraria, a questo movimento. Prendendo infatti ad analisi i dati del rapporto Eurostar riferito al periodo 2008-2013, il quinquennio gravato dalla crisi economica, il costo del lavoro nei 2,8 Paesi Ue è aumentato del 10,2%, mentre in Italia è stato superiore, stabilendosi su una percentuale dell’1 1,4%.

Non basta. Se vogliamo parlare del numero 18 – più volte richiamato in questi giorni dal Presidente del Consiglio – l’attenzione, ma soprattutto la concentrazione degli sforzi riformatori, deve porsi su quel 18% che interessa sempre la tassazione lavorativa e che colpisce l’Italia ponendola in una posizione svantaggiata rispetto al valore intermedio Ocse. Se tale media infatti si stabilisce su dati del 35%, in Italia il costo del lavoro che grava sulle imprese è pari al 53%, con un differenziale del 18% che rende minore la competitività dell’intera economia italiana. Questo è dunque il 18 che deve essere abolito. Per un imprenditore è certo un segno di sconfitta non poter assumere una persona che ha un reale bisogno di una busta paga, perché si è sotto continuo ricatto di un sindacato che difende dei diritti – giusti e protetti dalla legge – che però lo stesso per primo non applica. Bisogna però ragionare in una più ampia analisi.

La fase di riforme intrapresa dal Governo per una modifica dell’articolo 18 è quindi di valore, ma mira agli obiettivi sbagliati poiché per un new deal italiano occorre in prima fase una riduzione del clup, il costo del lavoro per unità di prodotto, che deve essere coordinato ad un taglio della pressione fiscale sui contratti a tempo indeterminato. Bisogna infatti prima essere in grado di creare un environment ideale a generare nuove e più efficaci condizioni lavorative: tale risultato si raggiunge esclusivamente mettendo in moto azioni atte ad ottenere sgravi fiscali ed una più efficace e rapida riforma della burocrazia, capaci di generare insieme un sicuro circolo virtuoso che possa permettere alle aziende di ritornare ad assumere ed investire.

In Italia – riprendendo i dati di apertura – il costo del lavoro continua a salire, ma a beneficiarne non sono i lavoratori: ne sono interessati invece i costi non salariali della busta paga, ovvero le tasse su datori di lavoro e dipendenti, che cosi foraggiati continuano a bloccare il meccanismo di crescita. È un problema di linguaggio forse, ma non solo. Perché se nella passata fase espansiva si parlava di una economia capace di «dare di più a tutti», con l’avvento dell’austerity lo stesso tema si è trasformato in un «togliere qualcosa a tutti», bloccando non solo le possibilità di sviluppo, ma lo stesso rilancio del Paese. Non è più possibile pensare ad uno Stato che resti immobile, incapace di creare nuovo slancio economico ed ancora fermo ad un assistenzialismo figlio di un ’68 ormai anacronistico. Il paradosso è quello di avere uno Stato con il potenziale migliore a livello produttivo, che si continua a mettere i bastoni tra le ruote con una politica fiscale da rivedere. Resta quindi questo il 18% da eliminare, quello di un costo del lavoro che negli ultimi anni è stato freno e tra le maggiori cause dei necrologi industriali nel nostro Paese.

Uno stato che non vuole dimagrire

Uno stato che non vuole dimagrire

Gaetano Pedullà – La Notizia

Resistere, resistere, resistere. Più si rischia di finire asfaltati dalla storia – prima ancora che dalle riforme – e più l’imperativo è alzare le barricate per non sparire. E conservare i privilegi di sempre. Guardiamo all’ultimo allarme della Banca d’Italia. Il Governo prova a mettere il Tfr in busta paga per sostenere i consumi e Palazzo Koch cosa fa? Boccia tutto, gettando nel panico chi potrebbe essere presto chiamato a scegliere, avvisando che le pensioni saranno più povere. Beh, è evidente anche al più sprovveduto che le risorse utilizzate oggi non ci saranno domani. Quello che appare meno chiaro è cosa ci stia a fare oggi la Banca d’Italia, priva di competenze sulla moneta e sulla vigilanza bancaria. Buon senso vorrebbe che si sciogliesse, anche per risparmiare i molti milioni che brucia strapagando dal governatore all’ultimo dei suoi privilegiatissimi impiegati. Un rischio concreto, che bisogna scongiurare, magari prima che a qualcuno venga voglia di cambiare verso pure su via Nazionale. Una musica identica a quella che si sente dalle parti dei sindacati, delle Regioni, di una burocrazia che sa di aver fatto il suo tempo. Ma che di mollare non ci pensa proprio.

L’aumento dell’Iva è da evitare

L’aumento dell’Iva è da evitare

Cristina Bartelli – Italia Oggi

Aumento dell’Iva da evitare. Lo scatto in avanti, a partire dal 2016, contenuto nella legge di stabilità, porterebbe le aliquote Iva a livelli molto elevati. E la cura, individuata per le casse dello stato, potrebbe avere effetti peggiori del male con un aumento delle transazioni in nero. A tratteggiare lo scenario, ieri, intervenendo in audizione sulla legge di stabilità, davanti le commissioni Bilancio riunite di Camera e Senato, e stato il vicedirettore della Banca d’Italia, Luigi Federico Signorini. Per Banca d’Italia infatti «è preferibile si arrivi a non far scattare le clausole di salvaguardia completando le misure di razionalizzazione della spesa». La conseguenza, per il vicedirettore di Banca d’Italia (le aliquote Iva sui maggiori prodotti e servizi fino a 25% e 13% in due anni) dietro la cura di cavallo dell’Iva è un aumento delle transazioni in nero: «Più elevata e l’imposizione tanto maggiore l’incentivo all’occultamento delle transazioni finanziarie».

Ma le critiche al ricorso delle clausole di salvaguardia sono arrivate anche da Raffaele Squitieri, presidente della Corte dei conti, in audizione sempre ieri. «Appare opportuno sottolineare l’acuirsi delle incertezze sul gettito futuro, per effetto del crescente ricorso a clausole di salvaguardia che si connotano sempre più come soluzioni che rispecchiano difficoltà e ritardi nell’effettiva realizzazione della revisione della spesa pubblica» ha evidenziato Squitieri facendo il caso delle accise con aumenti di prelievo per complessivi 2,2 miliardi «gia prenotati», sottolinea Squitieri, «fino al 2021 per coprire esigenze di bilancio manifestatesi fin da otto anni prima». Sull’Iva il governo ha calcolato che l’aumento di un punto percentuale dell’aliquota del 10% vale 2,3 mld di euro. L’aumento di un punto dell’aliquota del 22% vale invece ben 4 mld. Dall’innalzamento di due punti percentuali dell’aliquota del 10% nel 2016 e di un punto percentuale nel 2017 (arrivando quindi al 13%) entrerebbero nelle casse dello Stato 6,9 mld mentre nel caso dell’aliquota del 22% si arriverebbe a un incremento di 8 mld all’anno.

Il vicedirettore di Banca d’Italia ha bacchettato inoltre il governo sulla voce del gettito, 3,5 mld, iscritto al contrasto all’evasione. La legge di Stabilità realizza «ulteriori passi» nell’affrontare l’evasione fiscale, spiega Bankitalia, e «alcuni interventi sono potenzialmente in grado di incidere sull’evasione» ma data la natura dei fenomeni «gli effetti di gettito vanno stimati con cautela». Per Banca di Italia inoltre è cruciale che la temporaneità del provvedimento» sul tfr contenuto nel ddl Stabilità «venga mantenuta». «Lo smobilizzo del tfr maturando», ha spiegato Signorini, «inciderebbe negativamente sulla capacità della previdenza complementare di integrare il sistema pensionistico pubblico soprattutto per i giovani, mediamente più soggetti a vincoli di liquidità».

Il presidente della Corte dei conti ha invece invitato a riflettere sulla natura del bonus Irpef degli 80 euro: «Nel momento in cui la legge di Stabilità rende permanente il bonus, sarebbe opportuna una riflessione sulla natura dell’istituto, per deciderne o l’assorbimento nella struttura dell’Irpef ovvero l’esplicito inquadramento fra le misure a sostegno dello stato sociale».

L’Irap, dopo l’amputazione di Renzi, è soltanto un mostro da eliminare

L’Irap, dopo l’amputazione di Renzi, è soltanto un mostro da eliminare

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

L’imposta più odiata dai contribuenti e dalle imprese italiane è stata mutilata dal governo Renzi. Non completamente abrogata e neppure oggetto di una radicale riduzione di aliquota come solitamente accade con le imposte colpevoli della perdita di competitività di un’economia, quale l’Irap da quasi due decenni è, ma più semplicemente amputata nella sua base imponibile. Il premier e il suo ministro dell’Economia, Piercarlo Padoan, hanno, infatti, preferito lasciare l’Irap in vita, rispristinando con effetto retroattivo l’aliquota ordinaria del 3,90%, ma escludendo il costo del lavoro derivante da contratti a tempo indeterminato dal calcolo della base imponibile del tributo. Significa che dal 2015 quello che rimane in vita dell’Irap è un’imposta davvero mostruosa che sfugge ad ogni analisi di intelligibilità economica.

Il tributo si pagherà su voci di costo aziendale tra loro davvero disomogenee quali: il costo annuo dei contratti di lavoro precari; il costo annuo degli interessi passivi; i ricavi da privative e opere dell’ingegno; il costo annuo del lavoro della pubblica amministrazione (questa è una partita di giro contabile nel bilancio pubblico). Quale logica di politica fiscale è individuabile oggi nell’applicazione dell’Irap? L’unica possibile è quella che rinvia al fatto che il legislatore ha scelto di premiare fiscalmente le imprese con specifiche caratteristiche nell’organizzazione della produzione, quali: l’utilizzo quasi esclusivo di contratti di lavoro a tempo indeterminato e la capitalizzazione del business mediante apporto di capitale proprio o di utili reinvestiti. Penalizzati, invece, sono il ricorso al credito bancario o all’indebitamento e la scelta di forme contrattuali flessibili del lavoro, in controtendenza con il primo intervento di Jobs Act dello stesso governo Renzi che ha reso rinnovabili e più flessibili per le imprese i contratti a termine.

Insomma ora l’Irap, per come è sopravvissuta all’amputazione di Renzi, diventa uno strumento di politica aziendale, nel senso che favorisce l’adozione di talune forme contrattuali rispetto ad altre nell’organizzazione della produzione. Nei fatti si riduce la flessibilità delle scelte, a parità di costo fiscale, per manager ed imprenditori e, quindi, si introduce una distorsione nell’allocazione dei fattori produttivi. L’aspetto positivo dell’amputazione renziana dell’Irap è dato dal fatto che, con queste fattezze, l’imposta non può rimanere vigente a lungo. Renzi, senza dirlo chiaramente, ha già abrogato l’Irap e una prossima legge di Stabilità sancirà la definitiva uscita di scena della peggiore imposta mai applicata in Italia e nell’intera eurozona.

“Garanzia Giovani” labirinto burocratico: ogni offerta di lavoro è costata 58.700 euro

“Garanzia Giovani” labirinto burocratico: ogni offerta di lavoro è costata 58.700 euro

Emanuela Micucci – Italia Oggi

Garanzia Giovani sale a quota 273.124 iscrizioni, di cui 76.003, il 28%, sono giovani presi in carico e profilati. Mentre 29.229 sono i posti di lavoro disponibili. Un trend, quello delle registrazioni, salito negli ultimi due mesi a 50mila iscrizioni al mese, come ha sottolineato in Commissione Lavoro del Senato il ministro del Lavoro Giuliano Poletti indicandolo come «un buon risultato».

Dedicato ai 2.254.000 giovani tra i 15 e i 29 anni che né studiano né lavorano (i Neet), di cui circa 1,27 milioni hanno fino a 24 anni e tra questi 181mila sono stranieri, cioè il 21% dei ragazzi di questa fascia di età, il programma Garanzia Giovani «più che uno strumento efficace per offrire concrete opportunità di lavoro a centinaia di migliaia di giovani italiani, si è purtroppo rivelato un labirinto burocratico che non conduce da nessuna parte», osserva il Centro Studi ImpresaLavoro nella ricerca “Il labirinto della Garanzia Giovani” (www.impresalavoro.org). Analizzando i report periodici del ministero del Lavoro dall’avvio del programma (il 1 maggio scorso) fino al 9 ottobre, quando vi avevano aderito 250.770 giovani, di cui 59.150 sono stati poi effettivamente presi in carico dal sistema Garanzia Giovani ed erano stati offerti 25.747 posti di lavoro. Numeri leggermente aumentati a fine ottobre, come riportiamo in apertura del nostro articolo, ma che sostanzialmente confermano la conclusione di ImpresaLavoro: ogni ragazzo preso in carico è costato sin qui 25.600 euro e ogni offerta di lavoro ci è costata finora la somma ragguardevole di 58.700 euro.

«Sulla base dei dati sui Neet – spiega Giancamillo Palmerini, curatore della ricerca – il nostro Pese riceverà infatti risorse, a titolo della YEI (Youth Employment Initiative) pari a circa 567 milioni di euro. A questi si dovrà sommare un pari importo a carico del FSE, oltre al co-finanziamento nazionale. La disponibilità complessiva del programma sarà, pertanto, pari a circa 1.512 milioni di euro». Risorse su cui è intervenuto Poletti in Commissione Lavoro al Senato, indicando in 1,5 milioni la platea massima potenziale di giovani e in 900mila quella ragionevole, ma precisando che le risorse disponibili sono in grado di garantire il servizio potenzialmente a 400-500mila giovani». A oggi, ha aggiunto, «complessivamente sono stati impiegati 561 milioni di euro».

Secondo l’analisi di ImpresaLavoro, la maggior parte delle occasioni di lavoro è concentrata al Nord, ben il 71,7%, contro il 14,3% al Centro e il 13,9% al Sud mentre quelle all’estero rappresentano solamente lo 0,1%: percentuali rimaste invariate nel corso del mese.

Alla flexicurity servono più risorse e strategie

Alla flexicurity servono più risorse e strategie

Alessandro Giovannini e Ilaria Maselli – Il Sole 24 Ore

Riformare davvero il mercato del lavoro in Italia, non vuol dire soltanto affrontare il tabù dell’articolo 18, ma costruire un mercato del lavoro nuovo. Una sfida che sembra essere raccolta dalla legge delega, la quale prevede anche l’armonizzazione dei sussidi di disoccupazione, la riorganizzazione delle politiche attive (ispirati alle linee guida della Strategia europea per l’occupazione e al modello di flexicurity) e la creazione di un salario minimo legale. Tutti elementi cruciali per trasformare il sistema nel suo complesso e aumentare l’efficienza del mercato del lavoro, ma sul cui merito si è poco discusso.

Per esempio, non si è discusso delle coperture. Nel testo approvato al Senato si legge: «dall’attuazione delle deleghe recate dalla presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica». La legge di Stabilità prevede poi solo 2 miliardi per l’attuazione della legge delega. È credibile promettere un sistema di flexicurity a spesa praticamente invariata? Basta confrontare la situazione italiana con quella del resto d’Europa, dove il sistema già esiste, per capire che difficilmente funzionerebbe.

L’Italia ha speso all’anno, in media, per le politiche del lavoro l’1,5% del Pil a fronte di una media europea dell’1,9 per cento. Se però si divide questa spesa per i disoccupati si scopre che la spesa per le politiche del lavoro in Italia è molto lontana da quella dei Paesi della flexicurity. Nel 2012 l’Italia ha speso in media 7.800 euro per il sostegno al reddito dei disoccupati, a fronte dei 18.100 in Danimarca e 21mila in Belgio. Nello stesso anno, l’investimento medio in politiche attive è stato di 1.800 euro in Italia, 16.900 in Danimarca e 6.500 in Belgio. È realistico promettere un sistema di flexicurity senza avere un chiaro piano per le finanze pubbliche?

Oltre l’aspetto finanziario, vi è poi quello della capacità amministrativa. I centri per l’impiego italiani sono capaci di svolgere l’attività di matching tra domanda e offerta dei mercati del lavoro locali? Sono capaci di soddisfare la domanda di formazione delle aziende nei loro distretti? Se no, perché e di quali strumenti avranno bisogno? I dati arrivati finora da Garanzia giovani non sembrano incoraggianti: a più di cinque mesi dal lancio dell’iniziativa, meno del 25% dei giovani registrati sono stati presi in carico e profilati dai Centri per l’Impiego (CpI). Questo nonostante le risorse siano già disponibili (più di 1,5 miliardi di euro). Come il Jobs Act vuole intervire su questo punto? Il testo approvato al Senato prevede un’«Agenzia nazionale per l’occupazione», che riesca a superare la frammentazione territoriale dei CpI attuali. Un’agenzia composta anche da «personale proveniente dalle amministrazioni o uffici soppressi o riorganizzati». Ma queste persone sono in grado di effettuare attività di front-office o andranno a ingrossare le fila della burocrazia di questa agenzia?

Considerato che con il Jobs Act cambia radicalmente l’impianto delle politiche del lavoro, volte non più alla tutela del posto di lavoro sempre e comunque, ma orientate verso la tutela dell’occupazione in generale e del reddito in caso di disoccupazione, è bene proporre una riforma solida e credibile altrimenti l’innesto di un sistema nuovo in un sistema che già fa resistenza rischia di creare un bel nulla. Per andare in questa direzione ciò che serve è prima di tutto ricordare che la flexicurity è un pacchetto e va implementata nel suo insieme. Non ha senso infatti pensare di attuare la flexibility prima e la security poi. In secondo luogo, è importante tenere a mente che la gestione moderna delle politiche del lavoro necessita di un approccio moderno alle politiche pubbliche, fatto di progettualità, monitoraggio e formazione. Non si possono infatti trasformare i funzionari dei centri per l’impiego semplicemente cambiando il loro job title. In maniera complementare rispetto a questo, è anche necessario stanziare risorse adeguate per finanziare politiche attive e passive, cosa che aiuterebbe a superare lo scetticismo di chi teme di passare da un regime a un altro.

La carica delle slot 2.0, raccolgono soldi in Italia e pagano le tasse all’estero

La carica delle slot 2.0, raccolgono soldi in Italia e pagano le tasse all’estero

Alessandro Barbera – La Stampa

A Bolzano, dove il gioco l’hanno dichiarato illegale tout court con una grida di stampo manzoniano, nei bar si trovano ormai solo quelli. Si chiamano «totem», e somigliano in tutto per tutto a bancomat per il prelievo di contante. All’ultima fiera del settore, a Roma, sono andati a ruba. Ne vendevano di ogni tipo: neri o colorati, multitouch, con distributore di gettoni o ricariche per cellulare. Per quanto tentino di camuffarle, altro non sono che macchine per il gioco on line: poker, gratta e vinci, scommesse sportive. Non sono le slot machine tradizionali, quelle macchine protagoniste di una querelle iniziata ai tempi di Vincenzo Visco su quanto dovessero versare al fisco. I «totem» non sono collegati alla rete dei Monopoli, non sono gestiti dai concessionari italiani, non pagano le tasse in Italia. I totem sono collegati a internet, e pagano le tasse dove sta il concessionario che le gestisce. Poco importa se in un paradiso fiscale, in Gran Bretagna o a Malta. Un ordine del giorno presentato alla Camera pochi giorni fa ha chiesto al governo di «rafforzare gli interventi repressivi», nel timore che finiscano per far crollare il gettito dei concessionari italiani.

Per capire il perché di questa esplosione occorre leggere un passaggio dell’articolo 44 della legge di Stabilità, quello che aumenta per quasi un miliardo il prelievo sulle slot machine dei concessionari italiani. «In attesa del riordino della disciplina in materia di giochi pubblici» e «per assicurare parità di condizione fra imprese che offrono scommesse per conto dello Stato e persone che offrono comunque scommesse con vincite in denaro»›…segue una lunga lista di disposizioni. In sintesi: i totem non sono autorizzati, ma nemmeno del tutto illegali. Basta scorrere la lunga serie di dissequestri avvenuti negli ultimi mesi: a Bolzano, a Venezia, Roma, Castel di Sangro, Catania. La Guardia di Finanza chiude i centri, il giudice non convalida. La ratio è la stessa che già nel 2012 aveva permesso il dissequestro di un centro scommesse di Stanleybet, la multinazionale inglese con sede a Liverpool. In quel caso il giudice sottolineò l’«assoluto dispregio delle regole comunitarie nella distribuzione delle concessioni».

Nel settore dei giochi, come già è accaduto nel caso di Google, tracciare il confine fra ciò che è italiano e ciò che non lo è a fini fiscali è sempre più difficile. Lo dimostra la soluzione kafkiana scelta dall’articolo 44 per una delle sanzioni da infliggere a chi installa un totem: non è pagata per l’apparecchio cosiddetto «abusivo», ma per ciascuno degli apparecchi installati e dotati di regolare concessione. La norma sembra folle ma non lo é: serve a dissuadere i gestori delle macchine dal far installare apparecchi «legali» negli stessi spazi dei totem.

Fino a che lo Stato non riuscirà a farsi pagare le tasse dai gestori stranieri non resta che farne pagare di più a chi ha una concessione in Italia. L’articolo 44 aumenta la tassa a carico delle vincite fino al 9 per cento per le videolotterie (oggi è al 5 per cento, tre anni fa era del 2), al 17 per cento (oggi è del 12 per cento) per le altre macchine come ad esempio il videpoker: per i concessionari italiani significherebbe azzerare o quasi i margini. Per limitare l’impatto dell’aumento, il governo propone di abbassare la vincita a chi gioca, riducendo la percentuale minima dal 75 al 70 per cento. C’è un ma: la revisione delle quote significa intervenire sul software di ciascuna slot. Secondo Fabio Schiavolin di Cogetech per adeguare le macchine sono necessari «da un anno a un anno e mezzo»: il rischio è quello di un nuovo maxicontenzioso. Confindustria stima che nel frattempo saranno stati persi 75mila posti di lavoro e fino a un quarto del gettito fiscale. Non un grande affare.

La lunga marcia del fisco semplice

La lunga marcia del fisco semplice

Primo Ceppellini e Roberto Lugano – Il Sole 24 Ore

La legge delega per la riforma fiscale ha prodotto il primo risultato: il Consiglio dei ministri ha varato in via definitiva il decreto legislativo sulle semplificazioni. Dall’esame dei trentasette articoli del provvedimento si capisce subito che è stato seguito un approccio minimalista: sono poche le questioni veramente importanti che sono state toccate, mentre si è scelto di “limare” alcuni adempimenti per alleggerire (leggermente) la vita delle imprese e dei professionisti.

In estrema sintesi, possiamo classificare gli interventi in tre grandi aree. Innanzi tutto, ci sono le disposizioni che incidono (in meglio) sul complesso rapporto con il fisco: sono le norme sulle società in perdita sistematica e quelle sui compensi dei professionisti. Un secondo lotto di misure è volto a rendere più snelli, senza però sopprimerli, alcuni adempimenti: si va dalle regole sui rimborsi Iva alle opzioni per i regimi fiscali alternativi, per arrivare agli elenchi intrastat, alle comunicazioni dei costi black list e alla gestione delle lettere di intento. Il terzo gruppo di novità ruota intorno alla dichiarazione dei redditi precompilata per i lavoratori dipendenti e gli assimilati: è il tema meno tecnico, visto che impatta in modo marginale sul mondo dell’impresa.

L’elenco più impressionante, però, è quello degli aspetti che non sono stati presi in considerazione dal decreto legislativo, anche se previsti dagli articoli 7 e 11 della legge delega. Nelle novità, che nella maggior parte dei casi si applicheranno dal 2015, mancano infatti la nuova Iri (l’imposizione sugli utili di imprese individuali e società di persone), la revisione della tassazione separata, la definizione dei requisiti per l’esclusione da Irap, la semplificazione delle regole per gli ammortamenti e per i costi parzialmente indeducibili, le modifiche alla tassazione delle operazioni frontaliere, la revisione della tassazione delle cessioni di azienda. Per non parlare di altri aspetti, come la riorganizzazione dei regimi contabili, che sono stati dirottati in altri provvedimenti, come il disegno di legge per la stabilità. Insomma, la conclusione è facile: la “polpa” delle semplificazioni è rimasta pacificamente fuori da questo provvedimento. Se poi ricordiamo che le altre norme di delega, a tutt’oggi ben lontane dall’attuazione, riguardano i temi ancora più complessi e importanti dell’abuso del diritto, del sistema sanzionatorio amministrativo e penale, del Catasto e dei giochi, il quadro che ne esce è piuttosto desolante.

Abbiamo fatto riferimento ad alcuni aspetti particolarmente positivi del decreto; questi meritano un approfondimento, non tanto sui dettagli tecnici, quanto piuttosto per le scelte di fondo che sono state adottate. In primo luogo, è stato rivisto il periodo di osservazione per le società in perdita sistematica: non bisogna più fare riferimento al triennio, bensì al quinquennio precedente. Ovviamente, sarà più facile trovare un periodo con un reddito positivo e superiore a quello minimo, quindi diminuiranno le ipotesi di società non operative, di interpelli da presentare, di accertamenti e di contenziosi. Ebbene, su questo aspetto è stata fatta la scelta di applicare immediatamente la novità: dopo un corretto richiamo allo Statuto del contribuente, infatti, l’articolo 18 applica la novità al periodo di imposta in corso alla data di entrata in vigore del decreto legislativo. Questo dimostra che, quando si vuole, è possibile semplificare da subito, cioè con effetti immediati.

Il secondo esempio virtuoso riguarda le norme sui professionisti, e dimostra che quando una norma è assurda può essere abrogata. Si tratta delle spese che le aziende sostengono per vitto e alloggio di professionisti esterni: oggi le aziende, dopo avere sostenuto la spesa, devono comunicarla al professionista, e questo deve esporla nuovamente nella sua fattura di consulenza; un “giro” di documenti e di adempimenti privo di qualsiasi effetto se non aumentare costi e rischi per tuti i soggetti coinvolti. Dal 2015 si torna alla normalità: l’impresa sostiene il costo e se lo deduce, e non comunica nulla al lavoratore autonomo, che rimane sollevato da assurde duplicazioni di adempimenti.

La domanda finale è ovvia: ma ci volevano tutti questi anni, una legge delega e un decreto legislativo di semplificazione per fare semplicemente “marcia indietro” ed eliminare un chiaro errore? Speriamo almeno che da questa vicenda si possa trarre un insegnamento concreto. Per esempio, proprio mentre si discuteva di soppressione di adempimenti inutili, è stata istituita la nuova comunicazione (in scadenza pochi giorni fa) per i beni concessi in godimento ai soci. È un altro caso di regola scritta male, complicata da applicare e inutile (visto che i dati possono essere richiesti semplicemente dalla dichiarazione dei redditi). C’è da augurarsi che non serva un’altra delega per cancellare anche questo.

La Corte dei Conti: così le regioni truccano i conti

La Corte dei Conti: così le regioni truccano i conti

Federico Fubini e Roberto Mania – La Repubblica

Prestiti dal Tesoro non regolarmente iscritti fra debiti, in Piemonte. Cessioni di immobili della Liguria che risultano partite di giro in grado di arricchire, grazie alle commissioni, solo la Cassa di Risparmio di Genova. “Discrasie” che impediscono alla Corte dei conti di “parificare” (cioè dichiarare credibile) il bilancio della Campania. POI le spese non coperte della Sardegna, i controlli inesistenti della Calabria, le leggi senza relazione tecnica della Sicilia, gli aumenti di capitale delle società termali della Toscana, le spese non giustificate dei presidenti in Trentino-Alto Adige, i 1.600 dipendenti fuori bilancio del Friuli. Non c’è quasi Regione che ne esca indenne. Da quest’anno la Corte dei Conti ha il potere di controllare e certificare i conti dei governatori, grazie a una norma dell’ottobre 2012. E da qualche mese nelle relazioni della Corte stanno venendo alla luce centinaia di trucchi e imbellettature che a volte sconfinano nella falsificazione dei bilanci.

L’esercizio della magistratura contabile è di quelli condotti al di sotto dei radar, senza clamori. È un’operazione fra le più ardue perché – miracolo del federalismo all’italiana – ogni Regione d’Italia scrive il bilancio in base a regole che si è scelta da sola. Nell’ultimo decennio quasi nessuna si era mai dovuta assoggettare a un controllo esterno. Ora però sta succedendo mentre si avvicina una legge di Stabilità che taglia 4 miliardi alle Regioni stesse. E da un esame delle carte della Corte emerge che in molti casi i tagli e la pulizia di bilancio saranno durissimi.

Fra i casi più controversi c’è il Piemonte, dove la magistratura contabile ha negato la “parifica”, cioè la certificazione, di parte del bilancio. Una relazione della Corte dell’11 luglio parla di “dubbi sulla corretta iscrizione a bilancio della anticipazioni”, cioè di oltre due miliardi di euro prestati dal Tesoro nel 2013 per pagare gli arretrati alle imprese fornitrici della sanità. La Corte nota che il Piemonte nel 2012 “ha finanziato con le risorse ricevute dei debiti diversi”, e “passività pregresse extra bilancio”. L’accusa sarebbe dunque duplice: la giunta ha preso un prestito dal Tesoro per saldare le imprese creditrici, ma ha usato quei soldi per altre spese; in più, ha cancellato dal bilancio i debiti verso i fornitori già pagati, ma non ha iscritto i prestiti del Tesoro come nuovo debito. Se lo facesse uno Stato europeo, sarebbe un caso politico dirompente a Bruxelles e a Francoforte.

Ancora più drastico il giudizio sulla Campania, relativo al bilancio 2012. La Corte nega in blocco la parifica. “La Procura Regionale – si legge nella requisitoria del giudice – condivide le osservazioni attinenti alla mera regolarità contabile formulate dalla Sezione di controllo”. Poche parole burocratiche ma devastanti, a fronte di un bilancio da 16,8 miliardi con un deficit di 1,7 miliardi. La giunta ha fatto ricorso e per ora ha ottenuto il ritiro del giudizio della Corte dei Conti, ma questa resta un’amministrazione “vicina al default”.

Molto duro poi anche il giudizio sulla Liguria, dove la Corte nega il timbro su 91 milioni di “residui attivi” (crediti presunti ma in realtà inesigibili), su 103 milioni di cessioni di immobili e su 17,5 milioni di operazioni in derivati con la banca americana Merrill Lynch. L’amministrazione ligure presenta in realtà anche problemi più piccoli ma quasi grotteschi. Primo fra tutti, un bonus fino al 20% della paga in più dato ai direttori delle Aziende sanitarie. La Corte parla di “stortura”, perché l’obiettivo di produzione del premio di produzione 2013 ai dirigenti Asl viene fissato un mese prima della fine dell’anno stesso a un livello molto vicino: impossibile mancarlo, a quel punto. “Una scelta del tutto irrispettosa dei principi di efficienza”, dice il magistrato. Ancora peggio la presunta “cessione” per 103 milioni di immobili della Regione a Arte, un ente strumentale della Regione e con i soldi sempre della Regione transitati da un conto di Carige: certificazione negata.

Assai seri anche i problemi del Veneto, anch’esso a rischio bocciatura: la requisitoria del magistrato parla di “errori” di contabilizzazione dell’indebitamento e “rappresentazioni contabili scorrette”. Ma pure le giunte che passano l’esame non ne escono bene. Nelle provincie autonome di Trento e di Bolzano spese “di rappresentanza” dei due presidenti per decine di migliaia di euro non hanno giustificativi ritenuti credibili. In Toscana nel 2013 emerge uno scostamento al rialzo addirittura del 75% delle spese fra preventivo e consuntivo, da quota 10,4 miliardi fino a 18,4 miliardi. La giunta, invece di privatizzare, si è addirittura spinta a salire nel capitale della società Terme di Chianciano e in Fidi Toscana, una finanziaria in perdita che ha partecipazioni in tutto: dai caseifici della Maremma agli allevamenti ittici. Quanto al Friuli-Venezia Giulia, la Corte mostra che presenta 2.800 dipendenti, ma altri 1.700 lavorano per la stessa Regione, fuori bilancio, in un “sistema satellitare composto da enti, agenzie, aziende, società, enti funzionali”.

Insomma, credevamo che il fiscal compact ci avesse cambiato la vita. Fine della finanza pubblica allegra, nessuno sforamento se non in casi eccezionali. Le Regioni italiane, però, senza troppo clamore, vivono in un’altra epoca. Violando le regole dell’Unione, quelle del Parlamento nazionale, quelle del buon senso come quelle, infine, delle “più elementari regole contabili “, come ha scritto la Corte dei Conti nella relazione al bilancio della Sardegna. Già perché da quelle parti, ma non solo da quelle parti, si è davvero esagerato. Come nel 2010 e nel 2011 anche nel 2013 si è ricorso all’esercizio provvisorio. Il bilancio 2013 è stato approvato a maggio. Ma nel frattempo i legislatori sardi hanno approvato leggi senza alcuna copertura finanziaria, rinviando, per le coperture, proprio alla legge di bilancio che sarebbe arrivata dopo.

Pensate se un simile schema fosse adottato da un governo nazionale nei confronti di Bruxelles: prima spendo poi troverò le coperture. I giudici contabili parlano di una situazione “particolarmente grave”, di una situazione di “irregolarità complessiva”. E irregolarità per irregolarità, la regione Sardegna ha continuato a trasferire risorse alle partecipate, spesso senza che queste abbiamo un regolare contratto di servizio e spesso nonostante siano in perdita. Trasferimento, in quest’ultimo caso, in violazione della legge. C’è pure il caso della Fluorite di Silius (manutenzione e bonifica delle strutture minerarie) finita in liquidazione dal 2009. Bene, nel 2013 la Fluorite ha aumentato la propria spesa per il personale passando da poco più di tre milioni a 3,7 milioni. Si può? Certo che no. E la legge stabilisce che spetti proprio all’amministrazione regionale controllante il compito di contenere le voci della spesa corrente. Ma questa è una società partecipata da una Regione per di più a statuto speciale. Regione che non controlla nulla, non le partecipate, ma nemmeno i suoi assessorati. Hanno scritto i giudici della Corte dei Conti: “Si è potuto riscontrare che la Regione non esercita alcun controllo, in termini di semplice conoscenza, su aspetti essenziali ai fini dell’esercizio dei propri compiti gestionali e della propria programmazione finanziaria “. Regioni come le tre scimmiette: non vedo, non sento, non parlo.

In Sicilia solo la metà delle leggi presentate dalla giunta sono accompagnate dalla relazione tecnica. “Ciò – scrivono i giudici contabili – non consente l’emersione di oneri che potrebbero rimanere occulti “. D’altra parte siamo nella regione in cui ci sono ancora pensionati con l’assegno calcolato sull’ultima retribuzione tanto che dal 2009 al 2013 la spesa previdenziale è cresciuta dell’8%. L’89% delle risorse va a spesa corrente il che pone “a serio rischio, per il futuro, il mantenimento dei necessari equilibri di bilancio”, scrive la Corte.

Andiamo in Calabria. Qui i debiti fuori bilancio sono diventati la norma, non l’eccezione. Nell’esercizio del 2013 sono stati riconosciuti oltre 2,3 milioni di debiti senza copertura ai quali aggiungere 24,5 milioni di debiti “da riconoscere ” già pagati a seguito di pignoramenti senza però copertura. In totale quasi 27 milioni di debiti scoperti. “L’esistenza di debiti senza copertura finanziaria condiziona pesantemente gli equilibri finanziari della Regione, in piena continuità ed assonanza con la deleteria prassi di procedere al riconoscimento di debiti fuori bilancio per somme sempre più ingenti”. Ma quando si arriva a pagina 55 del Giudizio sulla Calabria si rischia di rimanere allibiti: “La Regione non solo non è dotata di strumenti e sistemi atti a garantire in termini di cassa il rispetto dei vincoli tra entrate e spese, ma non è oggettivamente nelle condizioni di conoscere le proprie disponibilità di cassa vincolata dell’anno, né quelle per le quali occorrerebbe provvedere alla ricostituzione. Tale situazione costituisce violazione del principio di trasparenza ed è certamente foriera di una grave situazione di squilibrio della gestione vincolata della cassa regionale”. E anche di quelle statali, aggiungiamo noi.

Ricercatori precari a vita, solo uno su cento ce la fa

Ricercatori precari a vita, solo uno su cento ce la fa

Flavia Amabile – La Stampa

Solo un ricercatore precario su 100 nelle università italiane ha davanti a sé una possibilità vera di stabilizzazione, gli altri 99 stanno perdendo tempo. O, più semplicemente, stanno preparando le valigie per andare altrove, a molti chilometri di distanza da un’Italia che, lontano dai proclami dei consigli dei ministri di governi di ogni colore politico, non riesce a fare nulla per i suoi cervelli. L’Apri, associazione dei precari della ricerca, ha analizzato i dati attuali del ministero dell’università. Il ritratto che ne è emerso non è dei più lusinghieri per le università e per la politica italiana. Esistono 2450 ricercatori a tempo determinato di tipo A, cioè quelli che hanno durata triennale, rinnovabili per altri due anni e poi fine, si fermano lì, non possono fare altro. Ci sono 15.237 titolari di assegni di ricerca di vario tipo, in pratica persone che lavorano nelle facoltà come dei borsisti, dopo essersi procurati da soli i fondi per la loro attività ma che non otterranno mai alcuna stabilizzazione. Ed esistono 224 fortunati ricercatori a tempo determinato di tipo B, con contratti di tre anni, gli unici che possono portare alla promozione a professore associato se, al termine dei tre anni, avranno conseguito l’Abilitazione Scientifica Nazionale. Sono 224 persone in tutt’Italia, assunte con contratti basati su una legge del 2010 che ha portato ai primi bandi solo dopo tre anni di attesa, nel 2013. A queste condizioni, quasi 99 ricercatori su 100 saranno espulsi dal sistema accademico, una cifra ancora più negativa di quella dello scorso anno, comunque drammatica, di 96 ricercatori che il sistema avrebbe buttato fuori.

In questa situazione che cosa sta facendo il governo Renzi? La riforma Gelmini che prometteva di risolvere il problema del precariato nelle università ha soprattutto cancellato il problema come dimostrano i dati e come denunciano le associazioni. La ministra Gelmini aveva anche previsto che il 40% delle risorse degli atenei per il turnover fossero destinate obbligatoriamente a posti di ricercatore a tempo determinato. Dopo di lei Francesco Profumo eliminò il vincolo e introdusse l’obbligo di creare un posto da ricercatore a tempo determinato di tipo B ogni nuovo professore ordinario per dare spazio vero ai giovani. Ora che stanno ripartendo i concorsi, la Crui, la Conferenza dei rettori, ha chiesto più volte di abolire la norma di Profumo. Il governo Renzi ha ceduto con una manovra molto furba: nella legge di stabilità si è esteso il vincolo rendendolo valido anche per i ricercatori di tipo A, quelli che non hanno speranze di trovare una sistemazione stabile nelle università.

«Ovviamente nessun ateneo avrà interesse ad assumere ricercatori di tipo B che costano di più e creano problemi in fatto di organico – commenta Luigi Maiorano, presidente dell’Apri -. È inutile, quindi, che anche questo governo annunci di poter risolvere il problema dei precari. L’esito delle decisioni prese dal governo è facilmente prevedibile: avremo più promozioni di associati ad ordinari e più precariato». «Si tratta di una mano di vernice su un sistema ormai arrugginito», spiega Antonio Bonatesta, segretario nazionale dell’Adi, l’associazione dottorandi e dottori di ricerca. «Ci troviamo dinanzi a interventi di maquillage che non si pongono in modo serio e credibile l’ obiettivo di risolvere strutturalmente la drammatica situazione dei giovani ricercatori in Italia». Ed estendere il vincolo, come ha fatto il governo Renzi, significa che – prosegue l’Adi – «Gli atenei -si orienteranno verso la figura che richiede il minor aggravio e cioè quella del ricercatore di tipo «a», sprovvisto di tenure track e più precario».