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CNEL: la Legge di Stabilità blocca il suo funzionamento ma non gli sprechi

CNEL: la Legge di Stabilità blocca il suo funzionamento ma non gli sprechi

NOTA

Si può essere più o meno d’accordo sulla necessità di tenere in vita il CNEL, che verrebbe ‘soppresso’ nel disegno di legge costituzionale approvato dal Senato e tra breve all’esame della Camera. Tuttavia, il secondo comma dell’art. 25 del disegno di Legge di Stabilità contiene misure che ne rendono impossibile il funzionamento poiché prescrive che «l’espletamento di ogni funzione connessa alla carica di Presidente o Consigliere del CNEL così come da qualsiasi attività istruttoria finalizzata alle deliberazioni del Consiglio non può comportare oneri a carico della finanza pubblica ad alcun titolo».
Non solo vengono eliminate le indennità (circa 25.000 euro lordi l’anno per consigliere) ma anche i rimborsi dei viaggi per i consiglieri che risiedono fuori Roma. In questo modo si rende impossibile il raggiungimento del numero legale nelle Commissioni ed in Assemblea. Al limite sarebbe vietato anche accedere la luce. Appare davvero molto dubbia la costituzionalità di una norma che rende impossibile il funzionamento di un organo di rilevanza costituzionale.
Al tempo stesso, però, il Segretariato generale e l’ottantina di dipendenti attualmente in organico resterebbero comunque a Villa Lubin. Non è chiaro a fare cosa. È invece chiarissimo che in questo modo, ‘risparmiando’ solo un milione di euro del bilancio annuale del CNEL, andrebbero sprecati i restanti 12 milioni. Non sarebbe meglio sopprimere questo comma della Legge di Stabilità e procedere invece speditamente con la riforma costituzionale che prevede anche la soppressione del CNEL?
Ecco la vera disputa fra Padoan e Katainen

Ecco la vera disputa fra Padoan e Katainen

Giuseppe Pennisi – Formiche

Indubbiamente, per i lettori in senso lato non è facile comprendere il significato dello scambio di lettere tra il ministro dell’Economia e delle Finanze Pier Carlo Padoan ed il Commissario Europeo Jyrki Katainen sulla Legge di stabilità. Così come è stato arduo capire cosa fossero le richieste spesso ripetute di una “maggiore flessibilità” come “scambio politico” per le “riforme di struttura”.

Una responsabilità di non poco conto la hanno i media. In primo luogo la televisione: i talk show trattano principalmente di economia e di politica economica ma sono quasi sempre affidati a conduttori che masticano poco della prima e nulla della seconda. Hanno la scusa – dicono – di avere poco tempo; forse sono solo poco preparati e peggio organizzati. In secondo luogo, anche la stampa su carta non ha colto il punto essenziale. Lo hanno fatto molto meglio i giornalisti francesi; forse il fatto che Oltralpe si richieda una laurea per l’accesso alla professione, e che il trattamento dell’economia viene affidato a giornalisti che hanno sudato sulla materia in università ha un certo peso.

In effetti, l’utilizzazione di “riserve” o di aumenti dell’Iva per restare entro il vincolo di un indebitamento netto della pubblica amministrazione non superiore al 3% del Pil sono i temi su cui viene posto l’accento. Il nodo del problema, invece, è la differente percezione tra i servizi della Commissione Europea e numerosi economisti italiani (e non solo) di quale è l’output gap dell’Italia. L’output gap è la differenza tra il prodotto potenziale di beni e servizi e quello effettivo. Una lettura attenta del Trattato di Maastricht e dello stesso Fiscal Compact indica che le “circostanze straordinarie” (che consentono deroghe ai parametri) si verificano quando, per un lasso lungo di tempo, c’è un output significativo. E’, quindi, necessario stimare tale gap ed avere metodi di stima convergenti per potere collaborare efficacemente.

Prima della crisi, nel 2008, la Commissione Europea, il Fondo monetario, l’Ocse e le altre maggiori istituzioni internazionali (esiste a riguardo un ottimo documento del servizio studi della Banca centrale europea) stimavano attorno all’1,3% la crescita potenziale del Pil dell’Italia. Per avere un termine di paragone i “piani triennali” predisposti all’inizio degli Anni Ottanta la ponevano sul 2-2.5%, spiegando eloquentemente che è quello che ci si poteva aspettare da un Paese con una popolazione anziana, un apparato produttivo non modernizzato eccetto che in certe nicchie specifiche, ed un’amministrazione pubblica tutt’altro che efficiente. Le stime econometriche che giungevano ad un potenziale di crescita dell’1,3% tenevano conto dell’evoluzione avvenuta negli ultimi trent’anni (non positiva né sotto l’aspetto demografico né sotto quello dell’apparato produttivo), nonché dal peso del debito che incide comunque sulla crescita.

Nel 2010 il servizio studi della Banca d’Italia ha pubblicato un ottimo lavoro di Antonio Bassanetti, Michele Caivano ed  Alberto Locarno (il “Temi di Discussione” n. 771) che esaminava il periodo 1999-2005 (ossia pre-crisi) con vari metodi e poneva l’output gap tra lo 0,5% e lo 0,7% del Pil. Se la crescita potenziale è lo 1,3%, quella effettiva si poneva attorno tra lo 0,8% e lo 0,6%. Di recente, l’Ocse ha stimato l’output gap dell’Italia a -5 punti percentuali del Pil; una chiara giustificazione di ‘circostanze straordinarie’ tale da giustificare un disavanzo dei conti pubblici ben superiore al 3% del Pil.

Non è affatto chiaro quale metodo venga ora utilizzato a Bruxelles per stimare l’output potenziale dell’Italia. Se come nei manuali degli anni Settanta si impiega il tasso di disoccupazione che non accelera l’inflazione, si arriverebbe paradossalmente che la situazione potenzialmente ottimale sarebbe quella di crescita zero e un tasso di disoccupazione del 12% delle forze di lavoro. Il problema è solo apparentemente tecnico, come ha scritto la stampa francese rispetto al loro output gap. E’ molto politico. Il governo dovrebbe chiedere a Bruxelles di scoprire le carte, mostrare i “suoi” numeri e spiegare come ad essi si è arrivati.

Stress e test

Stress e test

Davide Giacalone – Libero

Il problema non è farsi misurare, ma non misurarsi. In una Unione europea sempre più conflittuale. I test sulle banche sono andati, per l’Italia, alla grande. Certo che ci sono dei problemi, ma guai a non ricordarsi di come eravamo messi due o tre anni addietro. Abbiamo una singolare propensione a ingigantire i nostri svantaggi e miniaturizzare i vantaggi. Non si tratta di praticare un ottimismo di maniera, ma di usare il materialismo realista. Altrimenti si creano classi dirigenti subalterne e incapaci. Dunque: una premessa e sei osservazioni.

La premessa: la vigilanza bancaria unica europea è una cosa positiva, se la si interpreta e usa al meglio. Gli stress test sono cosa buona e giusta. Se li avessero fatti per tempo, negli Usa, non sarebbe successa la tragedia che s’è vista. Il sistema bancario non può essere accusato, a intermittenza, oggi di non prestare a tutti e domani di avere prestato senza considerare i pericoli. Veniamo alle osservazioni, che sono la sostanza.

1. Nel corso della bufera, dal 2010 in poi, le nostre banche non hanno avuto aiuti di Stato, al contrario di quelle francesi, inglesi, spagnole e tedesche. I soldi prestati al Monte dei Paschi sono stati restituiti. Non solo: l’intervento europeo, con il fondo salva stati da noi cofinanziato, ha salvato le banche che avevano investito, per lucro e speculazione, nei titoli dei paesi avviati al default. Tali banche sono principalmente tedesche e francesi.

2. I tedeschi hanno chiesto e ottenuto di tenere le casse dei Lander, le Landesbank, fuori dalla vigilanza comune. Tale situazione deve essere cancellata, perché se uno scolaro si rifiuta di fare i compiti a casa non è un buon motivo per escludere tale rifiuto dalla valutazione della sua condotta e della sua preparazione.

3. Si ritrovano in difficoltà, e nella necessità d’integrare il proprio capitale, due banche italiane: Mps e Carige. Lo sapevamo di già. Ce lo siamo raccontati in tutte le salse. Semmai s’è fatto finta di niente, propiziando il calo borsistico successivo. Mentre altre sette banche, italiane, non vengono bocciate perché le operazioni sul capitale, effettuate l’ultimo anno, sono esaustive. Bene, vuole dire che se si vuole e si sa fare, si può fare.

4. Il presidente dell’Associazione bancaria, Abi, Antonio Patuelli, ha giustamente osservato che non è stato certo un favore all’Italia andare a fare i conti usando i dati del 2013, che risentono del momento peggiore per la divaricazione degli spread. Sarebbe stato meglio usare i dati del 2014. Certamente, ma vado oltre: si è introdotta l’idea che anche i titoli di Stato comportano un rischio e si è considerato che le banche italiane ne hanno in pancia per 427 miliardi, le tedesche per 359 e le francesi per 275. Se si calcola la percentuale rispetto al prodotto interno lordo, l’esposizione delle nostre banche a quel rischio cresce. Ci sto. Ma si deve fare osservare che l’Italia, al contrario della Germania, non ha mai mancato di pagare i propri debiti. Come anche che noi teniamo al nostro interno il 65% del nostro debito pubblico, mentre la Francia ne ha fuori il 55%. Chi crea maggiori rischi sistemici e collettivi?

5. Le banche sono state utilizzate per spegnere l’incendio della speculazione sui debiti sovrani, in tal senso ricevendo soldi all’1%, dalla Bce. Ha funzionato, applausi. Ma ora che i pompieri sono vittoriosi non si vorrà mica considerare peggiori quelli che hanno usato più acqua, avendo più fiamme da domare?! Così la recessione si perpetua, i prestiti si contraggono e i conti delle banche peggiorano. E queste non sono faccende tecniche, ma terreno di schietto scontro politico.

6. Infine, stress test e vigilanza comune preludono al mercato bancario unico. Evviva. Ciò porta con sé la necessità di aggregazione fra le banche (come in Italia s’è già fatto). Chi governa questo processo? Occhio, perché se i titoli del debito italiano sono considerati più rischiosi dei derivati spericolati nella pancia delle banche tedesche la conseguenza è che gli scassoni saranno in grado di comprare banche forse non modernissime, certamente non spericolate, sicuramente troppo generose con i peggiori e avare con chi produce, ma decisamente meno malate e più trasparenti di quelle da cui si spera che non prendano esempio.

Ecco perché questa è una faccenda politica. A noi italiani è mancata la politica. Sono stati i governi supposti tecnici (Monti) e di salvezza nazionale (Letta) ad avere accettato condizioni tecnicamente svantaggiose e di affossamento nazionale. Guai, oggi, a leggere i risultati di quei test senza cogliere i punti di forza che nascondono. Quelli da far valere con fermezza, senza mettersi a fare gli ondivaghi sui conti pubblici.

L’ultimo inganno di Bruxelles, la Garanzia Giovani è un flop

L’ultimo inganno di Bruxelles, la Garanzia Giovani è un flop

Sergio Patti – La Notizia

Un’altra grossa fregatura dall’Europa. Più che uno strumento efficace per offrire concrete opportunità di lavoro a centinaia di migliaia di giovani italiani, l’applicazione italiana del Programma comunitario Garanzia Giovani (che il Ministero del Lavoro ha di fatto delegato nella sua gestione alle singole Regioni) si è purtroppo rivelata un labirinto burocratico che non conduce da nessuna parte. Lo dimostra una ricerca del Centro Studi “ImpresaLavoro” (consultabile all’indirizzo www.impresalavoro.org) le cui conclusioni sono sconfortanti, a maggior ragione se si tiene conto che tale programma è volto in particolare a risolvere il fenomeno dei giovani Neet 15-24enni (non impegnati in un’attività lavorativa, né inseriti in un percorso scolastico o formativo), stimabili, in Italia, in circa 1,27 milioni (di cui 181mila stranieri) e che corrispondono al 21% della popolazione di questa fascia di età. Un dato estremamente rilevante in ragione della stretta connessione tra l’identificazione della platea dei destinatari e l’entità delle risorse attribuite, per la gestione della Garanzia Giovani, dalla Commissione Europea.

L’Italia ha peraltro deciso di allargare il target group ai giovani di età compresa tra 25 e 29 anni, per un totale di ben 2.254.000 ragazzi. Sulla base di tali dati il nostro Paese riceverà infatti risorse, a titolo della YEI (Youth Employment Initiative), pari a circa 567 milioni di euro. A questi si dovrà sommare un pari importo a carico del FSE, oltre al co-finanziamento nazionale. La disponibilità complessiva del Programma sarà, pertanto, pari a circa 1.513 milioni di euro. Una montagna di denaro pubblico che ha partorito un costosissimo topolino: la ricerca di “ImpresaLavoro” rende noto che al programma comunitario hanno infatti aderito 250.770 giovani, di cui solo 59.150 sono stati poi effettivamente presi in carico dal sistema di Garanzia Giovani.

Mentre l’Europa chiede ai sistemi Paese ingentissime risorse, persino aumentando il budget dei trasferimenti dei singoli Stati alla Comunità, dall’inizio del programma sono stati offerti ai Neet 25.747 posti di lavoro. Questo significa che ogni ragazzo preso in carico è costato sin qui 25.600 euro e che ogni offerta di lavoro ci è costata finora la somma ragguardevole di 58.700 euro. Mentre molte iniziative valide sono rimaste escluse dai fondi.

Il flop della Garanzia Giovani

Il flop della Garanzia Giovani

Metronews

«Più che uno strumento efficace per offrire concrete opportunità di lavoro a centinaia di migliaia di giovani italiani, l’applicazione italiana del Programma comunitario “Garanzia Giovani”, attuata in ordine sparso dalle Regioni, si è rivelata un labirinto burocratico che non conduce da nessuna parte». Lo rivela una ricerca del Centro Studi “ImpresaLavoro” le cui conclusioni sono sconfortanti. «A maggior ragione – sosiene lo studio – se si tiene conto che tale programma è volto in particolare a risolvere il fenomeno dei giovani NEET 15-24enni (quelli non impegnati in un’attività lavorativa, né inseriti in un percorso scolastico o formativo), stimabili nel nostro Paese in circa 1,27 milioni». L’Italia ha peraltro deciso di allargare il target group ai giovani di età compresa tra 25 e 29 anni, per un totale di ben 2.254.000 ragazzi. Sulla base di tali dati il nostro Paese riceverà infatti risorse, a titolo della YEI (Youth Employment Initiative), pari a circa 567 milioni di euro. A questi si dovrà sommare un pari importo a carico del FSE, oltre al co-finanziamento nazionale. La disponibilità complessiva del Programma sarà, pertanto, pari a circa 1.513 milioni di euro.

«Una montagna di denaro pubblico – spiega Giancamillo Palmerini, curatore della ricerca – che ha partorito un costosissimo topolino». Al programma comunitario hanno infatti aderito 250.770 giovani, di cui solo 59.150 sono stati poi effettivamente presi in carico dal sistema di Garanzia Giovani. Dall’inizio del programma sono stati offerti ai NEET 25.747 posti di lavoro. Questo significa che ogni ragazzo preso in carico è costato sin qui 25.600 euro e ogni offerta di lavoro 58.700 euro. «Sono stati offerti pochi posti perché l’economia non va e nessuno assume solo per un incentivo ma quando ne ha necessità» spiega ancora Palmerini. «Occorrerebbero interventi strutturali con l’adeguamento della formazione alle richieste del mercato e la ricucitura dello scollamento tra scuola e mondo del lavoro».

Le simulazioni dimostrano che la crisi è superata. Ora però serve più credito

Le simulazioni dimostrano che la crisi è superata. Ora però serve più credito

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Molto rumore per nulla, si potrebbe shakespeariamente dire una volta letti i risultati di uno stress test che per alcuni giorni ha causato nervosismo ai mercati. Dopo una crisi economica e finanziaria che si protrae dal 2008, deve essere considerato, tutto sommato, segno di buona salute che solo 25 delle 131 maggiori banche (ossia il 19%) dell’eurozona abbiamo problemi di capitalizzazione, o meglio presentino tali problemi nei conti 2013. Dei due istituti bancari italiani nell’elenco, probabilmente uno ne è uscito nel primo semestre 2014. Ciò non deve, però, essere motivo di compiacimento. Da un lato, occorre chiedersi ancora una volta perché i finanziamenti non arrivano alle imprese. È scattata la trappola della liquidità a ragione del diffondersi ed approfondirsi di aspettative negative, specialmente nell’eurozona? Oppure, la lunga recessione , preceduta da una ancor più lunga stagnazione, fa sì che le imprese abbiano i cassetti vuoti, che manchino di progetti ‘bancabili’ di rinnovo e di espansione di impianti perché troppo assillati dalle difficoltà di riuscire a resistere?

Da un altro, c’è la minaccia di un aumento dei tassi negli Stati Uniti, dove il direttivo della Fed si riunisce oggi e domani: da mesi il tasso base di riferimento, l’interbancario, è rimasto ancorato allo 0,25% (in effetti è negativo dato che l’aumento dei prezzi viaggia sull’1,8%) e quello sui titoli di Stato decennali è al 2,24% (rispetto alla media dello 0,90% nell’eurozona). Negli ultimi mesi, ragioni macroeconomiche sembrano suggerire l’esigenza di una politica monetaria meno espansionista: nell’ultimo trimestre il Pil è aumentato a un tasso annuale del 4,6% e la produzione industriale a quello del 4,2% mentre la disoccupazione è sotto al 6%.

Più eloquente un dato poco seguito in Europa; l’aumento dei ‘tetti’ nelle norme (di competenza dei singoli Stati dell’Unione) agli interessi per i prestiti personali a individui e famiglie a basso reddito e prive di garanzie reali. Nelle ultime settimane, otto Stati hanno aumentato, in vario modo, tali ‘tetti’ (introdotti in gran misure per impedire nuove crisi di prestiti subprime oltre che a fini antiusura). Ciò vuol dire che c’è una forte spinta ‘dal basso’. I governatori delle 12 Banche federali di riserva, prossimi al territorio, potrebbero mettere in minoranza il presidente della Fed, Janet Jellen, favorevole a mantenere una politica monetaria espansionista per almeno altri due mesi. Ciò non resterebbe senza implicazioni per la Bce: il mercato finanziario atlantico è integrato. Un’asimmetria sostanziale genererebbe un flusso di capitali verso la sponda Usa, rendendo più difficile e la politica monetaria Bce e la ricapitalizzazione di quelle banche europee che ne hanno esigenza.

Il rimedio antiscioperi: privatizzare i servizi

Il rimedio antiscioperi: privatizzare i servizi

Francesco Forte – Il Giornale

Susanna Camusso, nell’adunata a Roma della Cgli cui partecipa l’anima dura del Pd ha minacciato lo sciopero generale sula legge di Stabilità, come se con questo sistema di potessero creare posti di lavoro e crescita del Pil. Al contrario, Davide Serra, finanziere renziano della prima ora, nella convention della Leopolda cui partecipa l’anima populista- versione british – del Pd, ha chiesto la limitazione del diritto di sciopero dei servizi pubblici. Citando Alitalia e trasporti pubblici, ha detto che una impresa estera che li ha visti perde la voglia di investire in Italia.

La proposta di Serra, alla Leopolda, è stata accolta con imbarazzo, ovattato dal garbo che è nello stile della convention, nel garage che evoca i creativi di internet della Silicon Valley. Nella tesi del Serra c’è del vero. L’attuale regolamentazione dello sciopero di pubblici servizi è cucita su misura della Cgil e dei lavoratori del pubblico impiego, garantiti dai soldi del contribuente. Infatti, si può annunciare lo sciopero nel pubblico servizio, creando la disdetta di viaggi, appuntamenti, udienze, con gravi danni al servizio e al suo pubblico e poi revocarlo all’ultimo minuto, beffando datori di lavoro e pubblico. Si possono concentrare questi scioperi prima dei giorni festivi settimanali e di Natale, Pasqua e altre festività, in modo da creare «ponti lunghi» a beneficio degli scioperanti e danni speciali per il pubblico. Ma ciò è secondario.

Il punto centrale è che quando i servizi pubblici sono privatizzati, con aziende quotate in borsa e senza pubbliche sovvenzioni, i contratti di lavoro aziendali prevalgono su quelli nazionali e sono orientati alla produttività e le imprese possono ricorrere a part-time, lavoro flessibile cosiddetto precario e a partite Iva e lo sciopero nei servizi pubblici lo si fa solo in casi estremi e delimitati. Ciò perché il lavoratore, allora, è al servizio del pubblico, anziché viceversa. Solo così il suo posto di lavoro regge e la sua retribuzione è basata sul risultato di mercato. Non si tratta tanto di limitare lo sciopero dei pubblici servizi quanto di privatizzare i servizi pubblici, dalle ferrovie, alle poste, alle migliaia di imprese di comuni e regioni e di recidere i legami fra politica e imprese e banche. Ma questa spending review e le privatizzazioni nella legge di Stabilità dei leopoldiani non ci sono.

Ecco le riforme urgenti che il governo non sa fare

Ecco le riforme urgenti che il governo non sa fare

Renato Brunetta – Il Giornale

Oggi Renzi è un leader dimezzato. Nel Pd si riconoscono centinaia di migliaia di persone che gridano in piazza slogan terrificanti contro il premier, guidati da leader sindacali e parlamentari militanti nelle sue fila. Come può fare le riforme che la drammatica situazione richiede con assoluta urgenza? Semplicemente, non può. A oggi non ne ha fatta neanche una. Ma questa ambiguità non può durare. L’analisi economico-finanziaria chiede credibilità e forza democratica, che il presidente del Consiglio non ha. Ed è questa la maledizione di Renzi: è leader grazie a un imbroglio e alla pavidità dei suoi compagni di partito. In piazza ormai il re è nudo. È impossibile che un governo sostenuto da un partito diviso a tutto faccia le riforme necessarie per portare l’Italia fuori dalla crisi. E la situazione internazionale rischia di volgere al peggio.

Sul piano politico, l’Europa è assediata da conflitti militari ed economici che minano la sicurezza ed espongono il continente alle possibili scorrerie del terrorismo. La Russia sta vivendo un periodo travagliato. Le vicende ucraine hanno alimentato diffidenze che sembravano appartenere a un lontano passato. L’improvvisa caduta del prezzo del petrolio mina l’economia russa, privandola di quei mezzi finanziari che in questi anni hanno consentito di accelerare il processo di modernizzazione economica e finanziaria, dopo il crollo dell’ancien régime. Un’Europa politicamente divisa e incerta non riesce a coprire quel vuoto che gli avvenimenti appena richiamati rischiano di allargare. E tutto ciò determina una crisi di leadership di cui sarebbe sbagliato non cogliere i pericoli.

Sul piano economico-finanziario si assiste a un rallentamento dell’economia reale e a una forte volatilità dei mercati finanziari, con pesanti ricadute su Borse e spread nei confronti dei paesi dell’area euro più indebitati e a vantaggio dei bund tedeschi. Lo stesso Fondo monetario internazionale è stato costretto a rivedere a ribasso le stime sulla crescita dell’economia mondiale al +3,4 dal 3,7%. Secondo i principali osservatori, al centro delle preoccupazioni dei mercati c’è la forte caduta del prezzo del petrolio e delle altre materie prime; lo spettro della recessione e della deflazione in Europa; la crescita del debito (pubblico e privato) della Cina, pari al 250% del Pil e all’intera ricchezza nazionale, cresciuto del 150% solo negli ultimi 6 anni.

In quest’ultimo anno il prezzo del petrolio è sceso da 115 dollari al barile a 85 (quasi -30%), raggiungendo un valore pari a quello di 4 anni fa ma senza aumento della produzione. La caduta è dovuta a carenza di domanda e ai mancati investimenti, come dimostra il calo della produzione elettrica per usi industriali. Fenomeni analoghi, anche se più contenuti, si registrano in tutti i comparti delle commodities. Negli ultimi 6 mesi il prezzo dei prodotti agricoli è sceso in media del 15,5%. Quello delle materie prime industriali del 3,4%.

Negli Stati Uniti la quasi raggiunta autosufficienza nel settore energetico (lo sfruttamento dello shale-oil negli Usa è cresciuto del 13%, il 56% in più rispetto a quanto cresceva nel 2011) ne riduce la dipendenza dall’estero, con un contenimento delle importazioni e impulsi meno espansivi sul resto dell’economia mondiale. Il break-even point è sotto i 70 dollari al barile (ora siamo a 85 rispetto ai 115 di inizio anno, il prezzo è destinato quindi a scendere ancora).

In Giappone si assiste a un primo rallentamento della crescita (che rimane comunque a +7,1% nel secondo trimestre 2014), determinato dall’aumento delle tasse sui consumi (dal 5% all’8%) che ha determinato una forte contrazione della domanda interna. A influire è stata la motivazione del governo, cioè frenare la crescita del debito pubblico giapponese ormai al 240% del Pil.

In Europa il rallentamento complessivo è noto, ormai siamo considerati l’epicentro della deflazione. La produzione industriale è in caduta ad agosto (-1,4% su base annua). In difficoltà ci sono Francia, Italia e Grecia, stremata dal punto di vista sociale e forse pronta per un cambio di leadership a favore dei movimenti antieuropeisti. Anche la stessa Germania ha rivisto la crescita da +1,8% a +1,2% nel 2014 e da +2% a +1,3% nel 2015. In compenso cresce l’attivo della bilancia commerciale dell’Eurozona: 9.200 miliardi di surplus nell’agosto 2014, contro i 7.300 dell’agosto 2013 per la compressione della domanda interna.

All’origine di queste contraddizioni c’è l’artificioso rialzo dell’euro su dollaro e yen e l’austerity contro cui la politica monetaria voluta da Mario Draghi si sta dimostrando poco efficace. Non ci può essere una politica monetaria espansiva e una di bilancio restrittiva. L’asimmetria determina un corto circuito che accentua il «circolo vizioso» che divide l’Europa e favorisce i paesi più forti, che beneficiano di tassi di interesse più bassi, in un gioco a somma negativa. La carenza di domanda effettiva complessiva impedisce anche alle industrie dei paesi più forti di avere un mercato adeguato alle potenzialità della rispettiva offerta. Sono questi squilibri, assieme ai risultati non del tutto positivi, degli stress test sulle banche dell’Eurozona, che accentuano la deflazione e rischiano di mettere a repentaglio la sopravvivenza dell’euro.

Per risalire la china è indispensabile che i paesi più deboli diano priorità alle riforme che aumentino la loro produttività e – solo dopo, non prima – pensino a misure di carattere espansivo per il rilancio dell’economia. Mentre i Paesi più forti devono reflazionare le loro economie: in Germania la spesa per infrastrutture può aumentare fino allo 0,7% del Pil nel 2015 e allo 0,5% nel 2016 senza alcuna violazione delle leggi di bilancio. Al tempo stesso servono interventi della Ue sugli investimenti che vadano oltre il piano Juncker, potenziando a tal fine il ruolo della Banca europea degli investimenti, e riflettendo sull’opportunità di emettere Eurobond per trasformare almeno una parte dei debiti sovrani in obbligazioni europee. È quindi doveroso sostenere le misure non convenzionali che il presidente della Bce intenderà adottare.

Le cose da fare sono tante, in Europa e in Italia. Il governo Renzi ha la forza di farle? L’agenda parlamentare è infernale: Jobs Act, già snaturato al Senato; delega fiscale; Italicum; riforma di Senato, Pubblica amministrazione e giustizia. Ha gli strumenti per farlo? Noi pensiamo che un leader dimezzato non riuscirà a portare a compimento nessuna delle promesse fatte all’Italia e all’Europa. Con questa maggioranza ci sarà sempre una mediazione intollerabile tra il liberalismo (a parole) del premier (che mentendo sostiene di aver tagliato le tasse, e l’altra metà del Pd che vuole la patrimoniale, aggredendo i beni del ceto medio. Questo equivoco deve finire.

La scorciatoia miope di spronare i consumi con i risparmi di domani

La scorciatoia miope di spronare i consumi con i risparmi di domani

Alessandro Pansa – Corriere della Sera

Meglio un uovo oggi che una gallina domani. Con il trattamento di fine rapporto (Tfr) in busta paga e l’aumento delle imposte sui rendimenti dei fondi pensione e degli enti di previdenza, la legge di Stabilità privilegia i consumi a scapito dei risparmi. E poco importa se chi si anticipa la liquidazione paga più tasse diventando complessivamente più povero, o se in Europa tutti i Paesi tranne la Norvegia non tassano i redditi della previdenza. La crescita non c’è? Sproniamola con i soldi di domani. Al contrario, l’Italia ha bisogno di risparmi ed investimenti per gestire la profonda crisi in cui è precipitata e dalla quale uscirà con difficoltà, sacrifici e tempi lunghi. Le leggi per la crescita servono a poco e l’ottimismo degli annunci è controproducente. Anche perché il governo, per ora, di questa crisi non porta la responsabilità.

Il quadro è impressionante. I posti di lavoro disponibili nell’industria sono scesi, in dieci anni, di oltre il 15 per cento; la quota dei beni ad alto contenuto di conoscenza prodotti dalle imprese italiane si è ridotta di oltre il 30 per cento dal 2000; il divario (gap) tecnologico con i Paesi emergenti – cioè il tempo che occorre a questi ultimi per costruirsi una tecnologia simile alla nostra – è crollato da undici a sette anni dal 2004 ad oggi; la maggiore sensibilità (gli economisti direbbero elasticità) delle esportazioni ai prezzi si accompagna al ritiro dell’industria dai settori dove c’è più domanda di conoscenza e di occupazione qualificata; ci siamo mangiati, a partire dagli Anni 90, più del 30 per cento dello stock di capitale accumulato nei decenni passati: senza capitale non crescono produttività ed occupazione, qualsiasi siano le leggi. Se poi dovesse continuare l’uscita di capitali – 70 miliardi netti in due mesi – si indebolirebbe la struttura finanziaria.

Non è colpa del governo Renzi, né di quelli prima di lui. Dal 1989 abbiamo scelto di aderire progressivamente ad un sistema fondato su libertà di movimento dei capitali, cessione di sovranità monetaria e trasferimento di consistenti quote di potere ai mercati. Condivisibile. Di più: necessario, per l’Italia di allora. Ma, a differenza di altri Paesi europei – la Germania ha puntato sulla resilienza della manifattura, la Francia sull’alta tecnologia e la Gran Bretagna sul dominio della finanza – l’abbiamo fatto senza creare né valorizzare vantaggi competitivi, che pure c’erano. Venticinque anni dopo, ci interroghiamo sul costo della liquidazione dell’Ente partecipazioni e finanziamento industrie manifatturiere (Efim); ci domandiamo se abbiamo fatto bene a cancellare l’Istituto per la ricostruzione industriale (Iri); scontiamo privatizzazioni condotte senza modelli industriali definiti; rimpiangiamo di aver ostacolato la creazione di grandi imprese nei settori agroalimentare, elettronico, farmaceutico, delle infrastrutture di telecomunicazione.

Vogliamo continuare ad illuderci delle «magnifiche sorti e progressive» dell’Italia? O non sarebbe meglio raccontarci la verità? La verità è rivoluzionaria, diceva Gramsci; a chi vuole fare la rivoluzione converrebbe partire da lì. Gli 80 euro, il Tfr in busta paga, il bonus alle neo mamme sono misure che potranno, forse, soccorrere la congiuntura: ma l’assenza di un sistema produttivo in grado di trarne vantaggio le rende irrilevanti rispetto ad una crisi strutturale. Il sistema in cui siamo – per fortuna! – integrati, ci obbligherà ad affrontare un doloroso processo di ristrutturazione, qualcuno lo chiama svalutazione interna: compressione dei consumi, riduzione del valore degli asset, aumento del ritorno sugli investimenti e della produttività del lavoro. Più tardi accadrà, peggio sarà. Il nostro tenore di vita dovrà ridursi sino a quando il risparmio domestico e di capitali esteri faranno crescere gli investimenti, l’occupazione, i salari. Ed il Paese riguadagnerà competitività sui mercati e ruolo nel mondo. Non è roba da gufi, è la sola possibilità per dare una prospettiva alle prossime generazioni, cui non abbiamo il diritto di negare il futuro visto che il nostro ci è stato servito sul piatto d’argento del benessere e della sicurezza, e l’abbiamo in parte buttato via.

Ma il governo? Aiutare i cittadini a prendere coscienza della realtà e gestire questa «traversata nel deserto» come opportunità di rinascita nazionale costituirebbe un merito enorme. Lo potrà fare favorendo il risparmio di oggi e gli investimenti di domani, adeguando i sistemi di welfare, sostenendo lo sviluppo tecnologico ed incalzando gli imprenditori a rafforzare le loro aziende. I politici che hanno condiviso con i propri cittadini «lacrime e sangue» si sono guadagnati un posto nella storia. Chi non ha avuto il coraggio di farlo e ha scelto la politica del «bagnasciuga» è finito nel dimenticatoio della cronaca.