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Renzi è solo un disinvolto boyscout o sta cambiando la politica e il Paese?

Renzi è solo un disinvolto boyscout o sta cambiando la politica e il Paese?

Pierluigi Magnaschi – Italia Oggi

Renzi ha fatto macroscopici errori. Basti prendere la riforma del Senato. Aveva in mano una carta clamorosa, quella dell’abolizione completa, pura e semplice, del Senato stesso e l’ha sprecata puntando invece su una sua trasformazione pasticciata che non taglia i costi e, nei fatti, mortifica la democrazia. Ma, accanto agli errori, Renzi ha anche cambiato la politica, dentro e fuori il suo partito. Dentro e fuori anche dal perimetro della politica politicante. E lo ha fatto in un periodo di tempo incredibilmente breve, rispetto ai tempi brontosaurici della politica italiana. Renzi infatti ha conquistato il suo partito da solo un anno ed è al governo da soli sette mesi.

In un paese normale (ma l’Italia, sinora, non lo è stato) la classe dirigente politica apicale viene costantemente rinnovata, dall’andamento delle elezioni. Chi viene sconfitto dal voto, non viene immediatamente riciclato ma torna all’attività privata. Siccome però, in Italia, l’attività politica non è, di solito, una fase della propria vita professionale, ma soltanto l’intera e sola vita professionale di un leader politico, se quest’ultimo soccombe, non può essere mandato a casa perché, non sapendo fare nient’altro, finirebbe ai giardinetti, magari anche in relativa giovane età. La classe dirigente politica italiana è quindi a esaurimento. Non potendoci pensare gli elettori a darle il benservito, è solo la mano di Dio che, a un certo punto, ma per tutti, interviene dicendo: stop.

In un paese normale, l’invasione sovietica dell’Ungheria del 1956, che aveva dato una bella salassata a tutta la nomenclatura comunista occidentale, avrebbe mandato a casa la vecchia classe comunista. Da noi invece quella terribile e illuminante vicenda è passata come l’acqua sulle piume di un’anatra. Il successivo crollo del Muro di Berlino, avvenuto 25 anni fa, ridusse, comprensibilmente, ai minimi termini il Partito comunista francese (Pcf), che pure era stato il secondo più importante partito comunista in Europa occidentale (dopo il solo Pci). Da noi invece il crollo del Muro si è concluso con il cambio del nome del Pci avvenuto alla Bolognina da parte dell’allora segretario Achille Occhetto che infatti, paradossalmente, ma non tanto, fu poi l’unico a essere stato rottamato. A capo del Pci, nelle sue successive diverse sigle, sono rimasti, senz’alcun imbarazzo, gli uomini che si erano formati alla scuola di partito sui sacri testi marxisti, ritenuti per buoni.

Renzi ha dovuto battersi contro questo enorme moloch organizzativo, fatto non solo di parlamentari ma anche di sezioni, di sindacato (Cgil), di coop e soprattutto di enti locali, di Asl, di municipalizzate, di patronati. Una ragnatela immensa di interessi, di consuetudini, di condizionamenti e di posti di lavoro. Il successo di Renzi, che oggi sembra ovvio, ha dell’incredibile. E il fatto che, successivamente, non sia stato divorato dal Pd (che ha tentato di reagire ma non aveva più fiato in corpo) è ancor più inspiegabile. Il merito di questo cambiamento epocale, che è stato radicale ed ormai è anche irreversibile, è tutto e solo di Renzi che, coscientemente o meno, ha colto il momento. Il corpaccione Pd (a gestione Pci, perché questa è la realtà anagrafica del partito) era diventato torpido, indebolito com’era dalla troppa lunga consanguineità, dovuta al mancato ricambio della classe dirigente. Non a caso la sinistra Dc, dai Prodi alle Bindi ai Fioroni, per intenderci, (che ci si era insinuata nel Pd) aveva accettato l’ospitalità della nomenclatura e si era accontentata dello strapuntino offerto da chi aveva in mano le redini del partito.

Ma Renzi ha fatto altro e di più. Ha osato riportare i sindacati alla fisiologia che compete loro, in una società pluralistica, mettendo in riga anche il sindacato che è sempre stato l’azionista di maggioranza del suo partito: la Cgil. Un sindacato che, durante gli anni del centrismo imperante, bastava che accennasse di voler fare (non, facesse) uno sciopero generale, per indurre il governo a dimettersi immediatamente dallo spavento. Era lo stesso sindacato che, in occasione delle Finanziarie, pretendeva di sedersi a fianco del governo per determinarne le scelte. Per rendersi conto del salto di qualità fatto da Renzi e della sua radicale rottura rispetto alle prassi del passato, basti pensare che col governo Ciampi (non secoli fa, dunque) le trattative dei sindacati con il governo durarono per ben 41 giorni. Ciò voleva dire, sul piano simbolico (e, in politica, i simboli sono quasi tutto), che il sindacato, se era in grado di bloccare per 41 giorni l’attività del governo, aveva preso, di fatto, il governo per il collo come se fosse un pollo e lo avrebbe lasciato andare solo quando avesse ottenuto tutto quanto il sindacato voleva ottenere da esso. Ora, se il sindacato (che rappresenta solo i suoi iscritti; che, tra l’altro, sono enormemente gonfiati) ha la meglio sul governo, che rappresenta invece la maggioranza di tutti gli elettori, ciò significa che è stata alterata (nei fatti, in concreto e in profondità) la fisiologia democratica specificamente dettata dalla Costituzione tanto lodata a parole, quanto violata, e per così lungo tempo, nei fatti.

Con i sindacati, Renzi ha subito detto che essi sono degli organismi corporativi (nel senso che rappresentano degli interessi settoriali; legittimamente, intendiamoci bene) e che quindi non hanno nessun titolo per voler cogestire, con il governo, la politica economica che, sempre ai sensi della Costituzione, è di esclusiva competenza del governo stesso. Inoltre, al pari di altri grossi organismi di rappresentanza economica, anche i sindacati confederali hanno il diritto di essere informati dal premier sulle intenzioni del governo. Cosa che è regolarmente avvenuta: Renzi ha convocato le organizzazioni sindacali alle 8 del mattino (uno scandalo, a Roma) e ha finito l’incontro un’ora dopo, a palese e pubblica dimostrazione che si trattava di un incontro per fare una comunicazione, non certo di un incontro per intavolare una trattativa.

Lo stesso atteggiamento, Renzi lo ha assunto anche nei confronti della Confindustria che aveva nutrito, con gli anni, nei confronti del sindacato, e in particolare nei confronti della Cgil, una sorta di sindrome di Stoccolma che è la sindrome che si impadronisce dei sequestrati quando, in occasione dell’assedio della polizia per liberarli, i sequestrati stessi finiscono per solidarizzare nei confronti di chi li tiene prigionieri, contro la polizia che vuole liberarli. La sindrome è inevitabile ma non per questo può essere accettata. Questa complicità (al posto della salutare conflittualità fra sindacati e datori di lavoro) era infatti il frutto rancido della passata concertazione quando sindacati e imprenditori, quando non riuscivano a mettersi d’accordo, chiedevano (e ottenevano) di far mettere dal governo, la parte che mancava, affinché potesse essere raggiunta l’intesa.

Insomma Renzi, forse senza accorgersene completamente, in questo è molto boyscout, ha tirato già in Italia il Muro di Berlino di un passato che, da noi, non riusciva a passare. Non so che cosa riuscirà a fare in futuro. Ma sicuramente, in sette mesi, sfidando un potere decrepito, ha fatto ciò che nessuno politico era mai riuscito a fare nei precedenti settant’anni.

Bondage tributario

Bondage tributario

Davide Giacalone – Libero

Dal governo dicono: aboliamo il canone Rai. Bravi. Bravissimi. Applausi. Poi leggi con attenzione: hanno in animo di abolire la tassa per il possesso del televisore, ma introducono un obbligo di finanziamento della Rai, proporzionale al reddito e ai consumi, che grava su tutti i contribuenti, anche quelli che non possiedono il televisore. Meno bravi. Molto meno. Vabbe’, non lo aboliscono, ma lo riducono, facendolo passare dagli attuali 113.50 euro a una somma variabile fra 35 e 80 euro. Bravini. Però poi ci ragioni e ti accorgi che no, alla fine il prelievo fiscale aumenterà. E non solo perché sarà più facile colpire l’evasione, ma anche perché sarà lecito colpire le persone oneste. Che non è una bella cosa.

Come al solito, ci tocca ragionare sugli annunci. Costantemente divisi dai testi di legge da un congruo lasso di tempo. Questa volta l’attesa dovrebbe essere breve, dato che siamo alla fine di ottobre e sono prossimi alla stampa i bollettini da inviare agli italiani, in partenza a gennaio. Quei bollettini dovrebbero sparire e il corrispettivo dovrebbe essere pagato con il modello F24. Qui comincia la nebbia, perché dal governo dicono che ciascuna “famiglia” pagherà in ragione del reddito e dei consumi. Ma le famiglie non compilano dichiarazioni dei redditi e non pagano modelli F24, quelli sono i singoli contribuenti. Chi e come calcola il reddito e i consumi familiari? Ancora prima: cos’è una famiglia? Domanda pertinente, perché oggi la Rai non considera “famiglia” neanche marito e moglie, ove risiedano in case diverse, arrogandosi, una televisione di Stato, il diritto di stabilire che non basta un canone, ma ne devono pagare due. Una famiglia, due canoni. Del resto, pensate a tutte le unioni di fatto, etero od omosessuali: in attesa che si concluda l’ozioso dibattito su matrimoni, equiparazioni e diversità, fin qui era chiaro che se sto a casa mia (proprietà o affitto, non cambia) e pago il canone, ove ospiti, a scopo di lussuria o conversazione, un altro individuo, del mio sesso o di sesso diverso, quell’altro non è tenuto al pagamento del canone. Con la novità, invece, paghiamo tutti: quattro conviventi, quattro canoni.

Con la novità, del resto, paga il canone anche la badante del nonno. È stata assunta per assisterlo e conviverci, già oggi la Rai le manda il bollettino, trattandola da evasore senza che minimamente lo sia, ma domani non riceverà la missiva, non avrà casa propria, non possiederà un televisore, ma dovrà pagare. Diciamo che le stiamo fornendo una ragione in più per sposare il nonno. Sperando che il vegliardo sia ancora nelle condizioni di accorgersene e usufruirne, ma mettendo in conto che, in quel modo, ella s’appropria di una parte dell’eredità. Tirate le somme, si raggiunge una vetta d’illogicità ideologica: dopo avere sostenuto la bischerata che se pagassimo tutti pagheremmo meno, si realizza un sistema nel quale paghiamo tutti, paghiamo meno, ma ci costa di più. Segnalo la cosa perché, se riescono a farla, è degna dei manuali sulle perversioni fiscali. Una specie di bondage tributario.

Chiudo segnalando il reiterato imbroglio, dato che la Rai, nel succedersi di vertici politici, tecnici, professorali, al di sopra e al di sotto delle parti, continua a ripetere sempre la stessa solfa: il canone italiano è fra i più bassi d’Europa. È falso. Quel gettito copre il 50% del finanziamento Rai, ed essendo l’altra metà procurata da introiti pubblicitari, facilissimi da raggiungere perché con spazi illimitati, venduti anche a prezzi stracciati, in reti rette da soldi pubblici, ne deriva che ciò che lo Stato, con le sue leggi, garantisce alla Rai è il doppio del canone. Che, a quel punto, non è proprio per niente fra i più bassi d’Europa, ma il più alto. Si obietta: molti lo evadono. Sono dei cattivoni, perché non si evade. Ma hanno ragione, perché è un prelievo iniquo e insensato. Apposta sostengo che va abolito, cancellato, incenerito. Non camuffato e illegittimamente travestito da imposta progressiva sui redditi, quale con questa riforma diviene. E la Rai, come fa a campare? Vende, si ridimensiona. Magari prova anche a fare il servizio pubblico, sempre che si trovi qualcuno in grado di stabilire cosa sia.

Nel secolo di Internet tutti in attesa della bollinatura

Nel secolo di Internet tutti in attesa della bollinatura

Massimo Tosti – Italia Oggi

I retroscena sulla mancata «bollinatura» della ragioneria generale dello stato alla legge di stabilità porta ulteriore acqua al mulino di Renzi. Pare che la verifica sulla copertura finanziaria sia stata effettuata da una signora, alto funzionario della ragioneria, incaricata dei rapporti con palazzo Chigi (e delegata anche a partecipare alle riunioni preparatorie del consiglio dei ministri e del Cipe). Il ragioniere generale dello stato, Daniele Franco, si sarebbe irritato per essere stato scavalcato e, quindi, si sarebbe preso il tempo necessario per «bollinare» il provvedimento. Piccole beghe interne all’alta burocrazia, che (non a caso) il premier ha additato tra i responsabili dei ritardi, causati da procedure logoranti, che ostacolano l’azione di governo (e anche le attività imprenditoriali, e persino la vita dei comuni cittadini, costretti a riempire quintali di moduli inutili per sentirsi in regola con la piovra statale).

La «bollinatura», non a caso, è una pratica che risale all’Ottocento, quando il ragioniere generale aveva un bollo di stagno che apponeva sulla legge di bilancio. Erano i tempi di Silvio Spaventa e del pareggio di bilancio: preistoria rispetto alla comunicazione via web ed e-mail e al deficit spending. La burocrazia si muove ancora con la lentezza di centocinquant’anni fa, e dietro l’andatura da bradipo si nascondono anche le gelosie fra gli altri dirigenti. Il presidente Napolitano si è giustamente angustiato quando si è visto recapitare la manovra economica del governo senza i necessari bolli e controbolli, temendo che il governo avesse eluso l’obbligo di sottoporre all’organo di controllo la copertura finanziaria del provvedimento. Ma le cose non starebbero così (stando al gossip successivo).

Renzi esce rafforzato nel suo proposito di semplificare le procedure e di eliminare, per quanto possibile, l’onnipotenza dei funzionari. Quando, una decina di anni fa, Berlusconi denunciava l’impossibilità di governare questo paese, diceva una cosa giusta. Ma aveva il torto di essere l’uomo sbagliato per protestare. Renzi, che gode di un consenso popolare vastissimo, ha la chance di modificare le regole ed evitare le trappole insite in un sistema che fa acqua da tutte le parti.

In Europa qualcosa si muove

In Europa qualcosa si muove

Stefano Lepri – La Stampa

Il debutto di Jean-Claude Juncker davanti al Parlamento europeo mostra che qualcosa si muove: diventa sempre più chiaro che l’austerità non porta la ripresa, e che occorre cambiare strada. L’interrogativo è se il mutamento sarà abbastanza rapido da evitare uno scontro politico tra i maggiori Paesi dell’area euro. A poco è servito sceneggiare i rapporti tra Italia e Commissione europea secondo i ricordi del passato, bacchettate, bocciature, rimbrotti, sberleffi. Il «fondo di riserva» inserito nella manovra 2015 contiene i margini per intendersi a metà strada salvando la faccia a entrambe le parti, come probabilmente avverrà nei prossimi giorni.

Quale realtà corrisponderà poi alle cifre contabili, è tutto da vedere; e ha una importanza relativa. Di fatto, la manovra economica italiana rifiuta di rispettare alla lettera il «Fiscal Compact» europeo; questo andava pur detto, da chi ha il compito di dirlo. D’altra parte, ormai (quasi) tutti nel continente sanno o sospettano che applicare quella regola oggi sarebbe letale. Il nuovo presidente della Commissione europea, politico astuto, sta studiando come destreggiarsi. Un po’ di faccia severa contro Francia e Italia potrà forse aiutarlo ad ammorbidire la resistenza della Germania al piano di investimenti aggiuntivi per 300 miliardi sul quale si è di nuovo impegnato ieri mattina davanti all’assemblea di Strasburgo. Però l’accordo è già in vista.

I rischi sono altri. Un compromesso pasticciato come se ne sono conclusi tanti negli anni scorsi non risolverà nulla. L’attenzione va spostata altrove: il governo italiano dovrà soprattutto mostrarsi capace di riformare l’Italia sulle linee che ha promesso. Questo è il contributo migliore alla ripresa in un’Europa purtroppo paralizzata nei suoi due centri politici più importanti.

A Parigi non si riesce a decidere quasi nulla (e sì che tanti in Italia esaltavano la repubblica presidenziale!). A Berlino ci si comporta come se nulla stesse accadendo. Negli anni scorsi avevano aggravato le difficoltà dell’area euro contrastanti interessi nazionali, legati anche a questioni di potere bancario. Ora, a impedire di uscire dalla crisi è soprattutto il peso di idee vecchie. In Francia si tratta soprattutto della «sinistra passatista, nostalgicamente attaccata a un passato lontano» nelle parole del primo ministro Manuel Valls che se ne vuole distanziare; una sinistra ostile perfino a liberalizzazioni tipo quelle di Prodi e Bersani nel 2006, che non esita a far traballare il governo quando l’estrema destra xenofoba è lanciatissima nei sondaggi. Nell’altro caso si tratta della maggioranza di governo tedesca, orgogliosa di un passato più recente, della Germania che si risolleva negli anni Duemila e supera la prima fase della crisi senza perdita di posti di lavoro; eppure oggi solo capace di impartire agli altri Paesi prediche obsolete e di far muro contro tutte le iniziative che Mario Draghi studia per ravvivare l’economia.

All’interno della Banca centrale europea le idee nuove si sono fatte strada, ultima prova un discorso tenuto dal membro del direttorio Benoît Coeuré qualche giorno fa: le riforme strutturali sono indispensabili ma nell’immediato possono perfino essere controproducenti se non si avrà allo stesso tempo un impulso della politica di bilancio da parte dei Paesi che se lo possono permettere. L’unica speranza sta nell’adoperare insieme tutti gli strumenti, perché combinati funzionano meglio. L’Italia ne è un esempio chiaro. A poco servirebbero cali di tasse anche forti oppure buoni investimenti se non si ha – dalle strutture dello Stato, dalla vita pubblica – l’impressione che in questo Paese valga la pena darsi da fare, impegnarsi, scommettere sul futuro.

Un bluff i conti del governo

Un bluff i conti del governo

Mario Baldassarri – Panorama

Il governo ha detto che la manovra per il 2015 «pesa» 36 miliardi di euro, con 18 miliardi di tagli di tasse e 15 miliardi di tagli di spesa. Questi numeri sono poi stati diffusi e amplificati pedissequamente da tutti i media. C’è un problema. però. Quei tagli di tasse e di spese sono riferiti ai valori «virtuali» delle previsioni tendenziali per l’anno prossimo, numeri che non sono ancora «entrati» nell’economía reale e finanziaria italiana. Ciò che invece conta per l’economia sono i dati «veri» del prossimo anno, che si avranno «dopo» aver tagliato o aumentato i valori virtuali delle previsioni tendenziali. Se quest’anno ho speso 1.000 euro e prevedo di spenderne 1.200 l’anno prossimo, un «taglio» di 100 euro sui 1.200 «previsti» significa un aumento di 100 euro rispetto a quest’anno e non una diminuzione. I numeri riferiti ai dati tendenziali virtuali del 2015 (che esprimono la manovra da 36 miliardi) e i numeri che si ottengono dopo i tagli di tasse e di spese proposti vanno confrontati con i dati veri dell’anno in corso, cioè il 2014.

Sul fronte delle entrate si vede allora che:
1) Gli 11 miliardi di deficit in più in realtà determinano un deficit pubblico del 2015 esattamente uguale a quello di quest’anno. Quindi. .. nessuna risorsa in più o in meno.
2) I 15 miliardi di spending review sono in realtà 10,3, poiché 2,7 miliardi sono già stati fatti quest’anno e i tagli alle regioni determinano rispetto a quest’anno una riduzione di soli 2 miliardi.
3) Dei 3,6 miliardi di aumento della tassazione sulle rendite finanziarie, 2,2 miliardi sono già stati realizzati nel 2014: il vero effetto sul 2015 è di 1,4 miliardi in più.
4) I 3,8 miliardi da lotta all’evasione si possono contabilizzare dopo averli realizzati e non ex ante (su questo la Commissione europea potrebbe avere da ridire).
5) Il miliardo di riprogrammazione significa solo spostare nel tempo futuro quelle spese e non ha niente a che vedere con il confronto con le spese del 2014.

Sul fronte delle spese si verifica che:
1) Dei 9,5 miliardi di bonus fiscale, 6 miliardi sono già stati dati quest’anno, quindi nel 2015 avremo soltanto 3,5 miliardi in più.
2) Dei 5 miliardi di riduzione Irap, 1,5 miliardi erano già stati dati nel 20l4, quindi le imprese avranno un ulteriore sgravio pari a 3,5 miliardi. Va detto inoltre che il gettito totale Irap è pari a circa 24 miliardi di euro. Il costo del lavoro rappresenta il 50-60 per cento della base imponibile. Se si eliminasse totalmente il costo del lavoro dall’Irap il mancato gettito sarebbe di 12-13 miliardi
di euro. Pertanto, con 5 miliardi si riuscirà a ridurre solo il 35 per cento del costo del lavoro dall’Irap.
3) 1,9 miliardi assegnati alla decontribuzione dei nuovi assumi a tempo indeterminato non possono essere considerati come maggiori spese o minori entrate. Infatti, se si attiverà più occupazione che altrimenti non si sarebbe ottenuta, l’Inps non riscuoterà i relativi contributi, ma lo Stato riscuoterà una maggiore Irpef che controbilancia quasi esattamente il mancato gettito contributivo. Se invece il provvedimento non attivasse nuove assunzioni non ci sarebbe allora alcun onere da parte del bilancio pubblico.
4) L’eliminazione delle maggiori imposte per 3 miliardi che sarebbero scattate l’anno prossimo è cosa «buona e giusta». Ma questo non significa alcuna riduzione di imposte rispetto al 2014 visto che ancora per nostra fortuna non c’erano.
5) La somma messa sugli ammortizzatori sociali per l,5 miliardi sembra essere aggiuntiva. Ma rispetto a cosa? Se, come tutti speriamo, i cassaintegrati si riducono forse dovremo spendere anche meno di quanto speso quest’anno. E se aumentassero?
6) I 3,4 miliardi di «riserva» potrebbero svanire se qualcuno non accettasse di contabilizzare i 3,8 miliardi di lotta all’evasione.
7) I 6,9 miliardi di conferma di provvedimenti della legislazione vigente erano già compresi nei numeri virtuali delle previsioni tendenziali e corrispondono, più o meno, a spese effettuate anche quest’anno.

Nel complesso, nell’economia italiana nel 2015 rispetto al 2014 ci saranno 13,3 miliardi veri in più di entrate (e non 36) e 11,8 miliardi in più di spese «vere» (e non 36). Dei 13,3 miliardi di maggiori entrate ne avremo 10,3 da tagli di spesa e 3 da maggiori tasse. E questi tagli di spesa sugli enti locali sono pressoché lineari. Infatti, non sono mirati alle tre voci di spesa che, in tutti gli enti pubblici, contengono sprechi, malversazioni e ruberie: acquisti di beni e servizi, fondi perduti ed ex municipalizzate. In più c’è il rischio che regioni ed enti locali aumentino le tasse anziché tagliare le spese.

Degli 11,8 miliardi di maggiori spese avremo 4,8 miliardi di sgravi fiscali alle famiglie. Tra questi appaiono 500 milioni di euro che andranno come buono-bebè agli oltre 500 mila bambini che nasceranno nel 2015. Ma se il bonus va dato per 3 anni, allora il costo nel 2016 è pari a l miliardo e dal 2017 in poi a 1,5 miliardi. Da dove si prendono? Ci sono poi 3,8 miliardi di sgravi fiscali alle imprese e 3,2 miliardi di maggiori spese per le assunzioni nelle scuole, per l’allentamento del Patto di stabilità interno, per il cofinanziamento e per le briciole a Giustizia, Roma Capitale e Milano Expo.

Alla luce del peso vero della manovra, appare quindi condivisibile e coerente la previsione del governo che stima, con la legge di stabilità e le riforme strutturali, una maggiore spinta alla crescita pari al più 0,1 per cento nel 2015 e al più 0,2 dal 2016 in poi. Purtroppo però con questi impulsi la disoccupazione aumenta almeno fino al 2016. Da dove verranno allora gli annunciati 800 mila occupati in più?

Renzi tassa più di Letta

Renzi tassa più di Letta

Franco Bechis – Libero

Al momento la differenza è di 10 miliardi di euro, cifra che è sicuramente destinata a cambiare quando finalmente sarà rivelata la relazione tecnica alla legge di stabilità 2015. Ma fino a quel documento – che non incide sui conti del 2014 – la differenza fra il governo di Matteo Renzi e quello di Enrico Letta è esattamente quella: 10 miliardi. E non è poco, perché si tratta di tasse. Con i suoi provvedimenti fino ad oggi il governo Renzi ha segnato nelle relazioni tecniche che li accompagnavano 13 miliardi e 414 milioni di euro di nuove entrate fiscali. Durante tutto il governo di Enrico Letta, con la sola esclusione delle clausole di salvaguardia future (che vengono contabilizzate solo quando scattano), le nuove entrate nette furono di 3 miliardi e 436,5 milioni di euro (anche in questo caso la fonte è nelle relazioni tecniche dei provvedimenti che accompagnavano disegni di legge e decreti).

Sarete sorpresi dal Renzi tassatore. Il premier in carica sostiene infatti di avere fatto la più grande operazione di alleggerimento della pressione fiscale nella storia di Italia. E si riferisce al suo bonus 80 euro e alla riduzione Irap per le imprese. Gli 80 euro sono effettivamente arrivati in busta paga. Ma tecnicamente quelli erogati nel 2014 non hanno toccato nemmeno di un decimale di punto la pressione fiscale prevista. Era un bonus, una sorta di elargizione da parte dell’esecutivo in carica proprio alla vigilia delle elezioni europee (che infatti hanno premiato Renzi e il suo Pd più o meno come al- l’epoca la scarpa donata ai napoletani prima del voto aveva premiato Achille Lauro e la dc dell’epoca). È stato contabilizzato in aumento della spesa pubblica fra i trasferimenti alle famiglie, e così è stato inserito anche nei provvedimenti di finanza pubblica del governo. Non è andato quindi a diminuire la pressione fiscale complessiva, come invece ha fatto (per cifre molto inferiori) lo sconto Irap alle imprese che ora verrà completamente riassorbito nei 5 miliardi del 2015 previsti dalla nuova legge di stabilità.

Il cosiddetto decreto sugli 80 euro (che comprendeva anche l’Irap) aveva invece in relazione tecnica 10,8 miliardi di maggiori entrate tributarie, altri 4,7 miliardi di maggiori entrate extratributarie e 7,2 miliardi di minori entrate tributarie. La variazione netta che si è portata dietro era di 8,3 miliardi di maggiori tasse. Tre di queste erano state conteggiate per l’aumento di sei punti dell’aliquota di tassazione sulle rendite finanziarie, che è passata dal primo luglio scorso dal 20 al 26 per cento. Al governo Renzi spetta la firma anche sul decreto che fa entrate in vigore la Tasi: è stato il suo primo provvedimento, e poco importa che sia conseguente alle previsioni della legge di stabilità precedente. In quel decreto veniva di fatto riassorbita l’Imu sulla prima casa che il governo Letta aveva cancellato nel 2013: si tratta di 3,7 miliardi di tasse in più sulle famiglie. Ma la cifra è indirettamente aumentata, perché il governo precedente aveva approvato un fondo da 500 milioni per il 2014 da girare ai Comuni finalizzato per legge alla concessione delle detrazioni prima casa e figli per le famiglie con redditi più bassi (per loro la Tasi rappresenta una stangata imprevìsta, perchè di fatto con le detrazioni prima l’Imu non la pagavano).

Come suo primo atto Renzi ha incrementato di 125 milioni di euro quel fondo per i Comuni, ma ha abrogato la finalizzazione.Via le detrazioni, è come fosse aumentata la pressione fiscale sulla prima casa per 625 milioni di euro. Nei mesi scorsi con altri due provvedimenti Renzi ha aumentato la tassazione dei tabacchi di 163 milioni di euro l’anno e – per finanziare l’Ace – le accise sulla benzina di 435,4 milioni di euro in più anni futuri (ma già decisi con legge). Altre piccole tasse messe vanno da quelle inserite nel decreto sulla cultura, al nuovo contributo unificato previsto per i pignoramenti, alle maggiori entrate contributive obbligatorie previste dal primo decreto sul jobs act.

Anche Letta non ha scherzato con le nuove tasse, ma è riuscito ben più del suo successore a equilibrarle con la cancellazione di altri tributi. Ha tolto l’Imu e inserito le detrazioni sulla Tasi (poi cancellate da Renzi). Nella sua legge di stabilità ha messo nuove entrate da 8,5 miliardi di euro (in parte sulle banche), e previsto cali di tasse per quasi 3 miliardi di euro al netto delle clausole di salvaguardia. In tutto 5,6 miliardi in più. Ma ha tolto tasse sulla prima casa e anche su alcuni immobili produttivi per quasi 4,5 miliardi di euro. Ha aumentato la tassazione sui giochi e concesso sgravi contributivi più o meno per la stessa cifra. Ha costretto le imprese ad anticipi di imposta anche consistenti per 655 milioni di euro. Si è trovato di fronte a una clausola di salvaguardia messa da Mario Monti sull’Iva. È riuscito a rimandarla di tre mesi con uno sgravio di 1,05 miliardi di euro. Non è riuscito a farlo per gli ultimi tre mesi dall’anno, con un aggravio identico. Sul 2013 il risultato netto è stato nullo.

LA SCHEDA

Sgravi e aggravi
A fronte di sgravi Irap concessi alle imprese pari a 4,1 miliardi di euro la legge di Stabilità ha cancellato di fatto tutti i benefici sulla medesima Imposta introdotti dal governo Letta: 1,9 miliardi.

Clausola capestro
Qualora in corso d’anno (2015) le previsioni contenute nella finanziaria non fossero rispettate scatterebbe la clausola di salvaguardia che farebbe scattare nuove tasse, sotto forma di Iva e accise. Ben 18 miliardi nel 2016, 24 nel 2017 e addirittura 28 l’anno successivo.

Tagli lineari
Sia sui ministeri sia sulle amministrazioni centrali viene operato un taglio che complessivamente vale 6,1 miliardi. Il meccanismo è quello del taglio lineare applicato dall’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti e tanto criticato.

Regioni spremute
Altri 4 miliardi di risparmi dovrebbero arrivare da «efficientamenti» della spesa nelle Regioni. In questo caso, addirittura, l’esecutivo non fissa neppure le linee guida degli interventi. La scelta spetterebbe ai governatori. Palazzo Chigi non ha tenuto conto nemmeno del lavoro svolto al riguardo dall’ex commissario alla spending review Cottarelli.

Le patrimoniali nascoste nella manovra

Le patrimoniali nascoste nella manovra

Oscar Giannino – Panorama

Il problema del fisco in Italia è che continua a dar ragione a Mark Twain. Lui diceva che c’è una sola differenza tra l’impagliatore e l’esattore pubblico: l’impagliatore si accontenta della vostra pelle. Purtroppo, continua a essere vero anche nella bozza di legge di stabilità varata dall’attuale governo, che pure ha il vanto di abbattere di 18 miliardi le entrate, di azzerare la componente lavoro dell’Irap, di aggiungere 1,9 miliardi di incentivi agli assumi a tempo determinato, mezzo miliardo di bonus bebè, confermare gli eco-incentivi e quelli alla ristrutturazione, e via continuando. Che cosa fa storcere il naso a un irriducibile liberale, allora? Parecchie cose. Una certa qual disinvoltura su numeri e saldi, per cominciare. E poi tre scelte di fondo.

Sui numeri è presto detto: se si dice che ci sotto meno entrate per 18 miliardi, quanto meno insieme bisognerebbe dire che ce ne sono di aggiuntive per 3 miliardi e mezzo, che diventano 4 e mezzo a dire il vero se ci aggiungiamo il prelievo straordinario annunciato sui giochi legali (al momento nessuno ci fa caso o quasi, ma per i conti delle aziende concessionarie è una botta clamorosa, visto che lo Stato da loro ha ricavato 8,4 miliardi in tasse nel 2013). Direte voi: non sottilizziamo. Mica vero. In altri tempi, assumere 3,8 miliardi di euro di incassi dalla lotta all’evasione come copertura ex ante di nuova spesa pubblica avrebbe fatto urlare allo scandalo assoluto. Si tratta di questioni di sostanza, di sana e prudente gestione della contabilità pubblica, non di sfumature. Ma le cose più dure da mandar giù sono altre: le tre scelte di fondo che ispirano la filosofia delle entrate della legge di stabilità.

La prima è la stangata sul risparmio previdenziale, venduta come «allineamento alle medie europee». Si passa dall’11,5 per cento di tassazione dei fondi di previdenza integrativa, al 20. Per le casse previdenziali professionali, l’aliquota sale dal 20 al 26 per cento. L’allineamento all’Europa, già utilizzato per elevare al 26 l’aliquota sui conti correnti mentre i titoli di Stato restano tassati al 12,5, non c’entra assolutamente nulla. L’idea vera è quella di scoraggiare gli italiani al risparmio, perché occorre incentivare i consumi. È la tenaglia fiscale che risponde alla stessa filosofia del bonus di 80 euro sul versatile della spesa, confermato per il 2015.

Ma questa idea è profondamente sbagliata. Per almeno due ragioni. La prima è che viviamo in un Paese dove la previdenza pubblica, malgrado il drastico innalzamento dell’età pensionabile disposto dalla legge Fornero, pesa per il 16 per cento del Pil cioè 3 punti più della media europea e oltre 4 rispetto alla media Ocse. E questo bel peso si regge solo grazie a oltre 50 miliardi di euro l’anno che vengono dalla fiscalità generale, rispetto ai contributi raccolti, che sono l’unica fonte per pagare i trattamenti visto che il sistema resta a ripartizione. In un sistema tanto squilibrato, dopo anni trascorsi a tentare di convincere gli italiani a metter da parte quote crescenti del proprio salario per una pensione integrativa che si aggiunga a quella molto più magra di un tempo che maturerà col sistema non più agganciato alle ultime retribuzioni, diamo oggi agli italiani un messaggio totalmente opposto. Spendete cari italiani, perché sulla pensione integrativa lo Stato allunga le mani. Come le allunga sul Tfr sia che decidiate di ritirarlo in busta, visto che vi alzerà il prelievo Irpef complessivo, sia che lo facciate restare accantonato, visto che l’aliquota sale anche in quel caso di 6 punti rispetto a oggi.

Dicono che sia un’impostazione keynesiana. Non è vero per nulla. Dimenticano che per il buon economista invocato dai fautori di Stato e deficit la leva essenziale per uscire dalla crisi sono gli investimenti: e colpire il risparmio previdenziale significa proprio disboscare le masse finanziarie che, accantonate con versamenti rateali, intanto vengono impiegate sui mercati acquistando titoli privati e pubblici, e a sostegno delle imprese.

Ma la cosiddetta stretta sulle rendite finanziarie non è solo sbagliata economicamente, è anche una vera e propria trappola verbale cara alla sinistra. Oggi tornata platealmente di moda, citando a raffica Thomas Piketty e il suo tomo che invoca tasse patrimoniali à gogo. L’aliquota del 26 per cento sul conto corrente, che con il concomitante bollo titoli patrimoniale può arrivare per interesse composto anche a una tassa superiore al 40 per cento del rendimento maturato, colpisce il ceto medio e basso, non certo magnati e industriali. La stessa cosa avviene con lo stellare aumento della tassazione sugli immobili, ascesa in 4 anni da poco più di 9 miliardi annui a, ci scommetto, oltre 28 miliardi in questo 2014 (e occhio alla local tax semplificata annunciata dal governo, perché nelle bozze fino a due settimane fa si parlava di un plafond «contenuto»›, si fa per dire, in 30 miliardi annui di entrata, cioè un ulteriore aumento nel 2015).

E oggi si aggiunge un terzo pilastro: la sberla al risparmio previdenziale. Paragonare risparmi, pensioni e case alla manomorta dei latifondisti da colpire nel Settecento illuminista è un trucco che solo a dei malati di mente può risultare accettabile. Eppure così va il mondo, in un’Italia in cui parole e fatti coincidono in sempre minor misura.

Infine. Ancora una volta nella legge di stabilità lo Stato gioca da baro con la retroattività degli aumenti fiscali. Lo sgravio Irap annunciato per 5 miliardi nel 2015 in realtà vale poco più della metà, perché contestualmente si rialza al 3,9 per cento l’aliquota e lo si fa retroattivamente, cioè a partire dal primo gennaio 2014 quando alle imprese si era detto che quest’anno pagavano un 10 per cento in meno, sgravio che ovviamente scompare. Idem dicasi per gli aggravi di aliquota sul risparmio previdenziale. Anche quelli retroattivi dal 2014. Con tanti saluti alla delega fiscale innovativa, allo Statuto del contribuente, all’impegno di retrocedere al contribuente onesto almeno parte dei proventi della lotta all’evasione invece usati per coprire nuova spesa.

Peccato. Peccato continuare a prevedere clausole di garanzie con ulteriori aumenti fiscali nel triennio a venire: se i governi toppano sui conti dovrebbe bloccarsi automaticamente la spesa come negli Usa, non aumentare automaticamente le entrate. Peccato che le imprese ancora non saldate dallo Stato non siano ammesse a compensazione fiscale immediata. Peccato non far pagare all’Agenzia delle entrate un 15 per cento del petitum al contribuente come ristoro del danno e tempo perso, se è questi a vincere. Niente di tutto questo. Speriamo di essere ancora in grado di pagare qualcosa, quando il fisco italiano deciderà di cambiare strada e di non essere un impagliatore di cadaveri.

Flessibilità e coperture

Flessibilità e coperture

Dino Pesole – Il Sole 24 Ore

Se la scommessa della manovra “espansiva” da 36 miliardi varata dal governo è provare a invertire il ciclo negativo, non ha molto senso limitare la partita con Bruxelles a una «promozione» o a una «bocciatura». Certo va salvaguardato il rispetto formale delle regole, preoccupazione che sembra nutrire soprattutto la Commissione uscente, ma l’impressione è che ancora non si sia colto il vero problema: con gli attuali tassi di crescita, con la miscela esplosiva di stagnazione e deflazione, occorre imboccare in fretta una strada fatta di investimenti, regole di bilancio più flessibili, sostegno deciso alla domanda interna.

Per quel che riguarda l’Italia, la strategia che il governo sta imbastendo nei contatti di queste ore con Bruxelles non è evidentemente priva di rischi e incognite. Il ricorso alle «circostanze eccezionali» motiva la scelta di rallentare il percorso di consolidamento fiscale, con l’obiettivo di evitare manovre restrittive che avrebbero effetti ulteriormente depressivi del ciclo economico. Poi la scommessa delle riforme. Infine il confronto certamente tecnico ma con risvolti evidenti di policy, sulle stime utilizzate da Bruxelles in particolare per quel che riguarda il calcolo del pil potenziale. Tutti temi al centro della trattativa che si aprirà tra breve con la nuova Commissione Juncker. Nell’immediato – e dunque da qui al 29 ottobre, data in cui la Commissione uscente dirà la sua – si tratta di trovare la sintesi su una posizione di compromesso, anche per non trasformare (è il timore del presidente permanente anch’egli uscente Herman Van Rompuy) il vertice europeo di domani e venerdì in un pericoloso braccio di ferro tra la Commissione e i paesi cui sono dirette le missive, in primis l’Italia, e poi Francia, Slovenia, Malta.

Per salvare la forma, può bastare allora una lettera di richiesta di chiarimenti di Bruxelles, cui seguirà una probabile lettera di risposta in cui vengano riassunti gli intendimenti programmatici del governo e la ratio della legge di stabilità, se necessario mettendo in campo la “dote” di 3,4 miliardi di euro appostata ad hoc nella legge di stabilità? Questione che diverrebbe secondaria, qualora venisse accordata al nostro paese non una cambiale in bianco, ma un’apertura di credito sul versante delle riforme e su una manovra “espansiva” che prova a scommettere sulla crescita. L’alternativa non è nei fatti perseguibile, se ispirata a logiche esclusivamente rigoriste. Per avere una qualche chance di successo, la manovra che ieri sera è approdata al Quirinale finalmente corredata della “bollinatura” della Ragioneria, deve poter contare su coperture certe, soprattutto per quel che riguarda l’effettiva realizzabilità dei tagli alla spesa. In caso contrario, sarebbe arduo difenderla in sede europea. La vera partita con Bruxelles potrebbe così essere direttamente rinviata alla prossima primavera, quando la legge di stabilità comincerà a dispiegare i suoi effetti e si potrà fare il punto sulle riforme approvate.

Lo sciopero è davvero utile e legittimo?

Lo sciopero è davvero utile e legittimo?

Carlo Lottieri

In Italia, a seguito dell’iniziativa politica del premier Matteo Renzi sull’articolo 18 i temi del mercato del lavoro e della libertà contrattuale sono tornati al centro del confronto pubblico. C’è però una questione un po’ spinosa che resta sempre fuori discussione: come fosse un tabù o un tema che non va neppure sfiorato. Si tratta dello sciopero.
Eppure altrove non è così. Qualche anno fa la società italo-svizzera incaricata di gestire i collegamenti ferroviari tra la Lombardia e il Canton Ticino fu alle prese con un contratto travagliato, dato che i sindacati italiani erano infuriati per il fatto che i colleghi svizzeri avevano sottoscritto un’intesa che prevedeva la rinuncia a interrompere il lavoro per l’intera durata del contratto. Liberamente, insomma, ci si vincolava a non scioperare.
Da noi questa libertà contrattale non è pensabile, dato che lo sciopero – già nella carta costituzionale – è considerato un diritto fondamentale. E come non si può cedere la propria vita o la propria libertà, allo stesso modo è inconcepibile che vi sia chi rinuncia alla facoltà di scioperare.
In realtà, i responsabili sindacali elvetici in quella circostanza accettarono proposte che a loro parvero vantaggiose e la controparte fu lieta di ottenere la garanzia che non vi sarebbero stati scioperi: tutelando in tal modo le attese e gli interessi degli utenti, che hanno bisogno di andare al lavoro ogni giorno. Ma nell’immaginario del sindacalismo italiano toccare lo sciopero è peggio che bestemmiare in chiesa.
Diversamente la pensava un grande liberale del Novecento, Bruno Leoni, per il quale quello dello sciopero non era un diritto. Ai suoi occhi, sciopero e serrata erano sullo stesso piano, rappresentando evidenti violazioni contrattuali. Come emerge in alcuni suoi scritti ripubblicati qualche anno fa in un volume intitolato La libertà del lavoro(edito da Rubbettino), egli non riteneva certo che si potesse obbligare la gente a lavorare contro la propria volontà, ma gli pareva giusto che – come avviene di fronte alle violazioni contrattuali – s’intervenisse con penali a carico di chi non rispetta gli impegni assunti.
In realtà, ormai lo sciopero è soprattutto un’arma nelle mani delle burocrazie sindacali. Potendo ricattare imprenditori e utenti, gli apparati sindacali dispongono di grande visibilità. Non è caso che molti politici italiani (da Marini a Bertinotti, da Cofferati a Del Turco e via dicendo) siano usciti proprio dalle file del sindacalismo: il potere crea potere, e il sindacato è una delle vie maestre per accedere alle più alte cariche.
I moderni sindacati (ben diversi da quelli che sorsero nella seconda metà dell’Ottocento) vivono per giunta grazie all’esproprio del diritto del lavoratore a negoziare il contratto. Se gli accordi siglati dalle organizzazioni sindacali fossero vantaggiosi, non vi sarebbe bisogno d’imporli ai non iscritti: ben pochi vi rinuncerebbero e, in generale, i lavoratori si rivolgerebbero ai sindacati per consegnare loro la delega a rappresentarli. Se non è così, è perché solo la libertà contrattuale tutela i lavoratori, mentre il “monopolio” della negoziazione imposto dai sindacati maggiori difende unicamente gli interessi del ceto sindacale.
Così, decidendo anche a nome di chi non nutre fiducia nei loro riguardi, i sindacalisti sono ormai un grave ostacolo all’emancipazione dei lavoratori.
Da Milano al confine elvetico c’è meno di un’ora di viaggio. Ma quanto a civiltà giuridica la distanza è abissale e non c’è da stupirsi se stipendi, condizioni contrattuali e qualità della vita sono assai diversi. A tutto vantaggio di quanti hanno la fortuna di starsene a Nord di Ponte Chiasso.
La Filosofia dell’auto (d’epoca) distrutta dalle tasse

La Filosofia dell’auto (d’epoca) distrutta dalle tasse

L’industria automobilistica italiana ha espresso una vera e propria visione del mondo in perfetta sintonia col patrimonio artistico nazionale. L’automobile italiana articolava una filosofia estetica quando l’Alfa Romeo studiava soluzioni tecniche che tenevano le auto incollate alla strada e linee accattivanti come quelle di Giulietta, Alfetta e poi Alfa 75. Ma pensiamo anche alle Lancia Thema che venivano utilizzate dai politici degli anni ’80 ’90 ed erano ammirate in tutto il mondo. C’era persino una Lancia Thema col motore della Ferrari. Oggi con la politica attuale di casa Fiat, questa filosofia è morta. Non sto a discutere sull’ovvietà che questo sia un male da tutti i punti di vista (il trend delle vendite che sono crollate lo dimostra, oltre al fatto che le nostre aziende chiudono e si lavora in America, per importare “cassoniamericani”); se è un male l’aver fatto morire la “filosofia dell’auto italiana”,  ancora peggio è se un governo cerca di distruggerne anche la memoria.
Tale sembra esser l’intendimento di questo governo, che pensa di recuperare altri soldi per le Regioni, tassando le auto d’epoca. Tassare le auto sopra i vent’anni come se fossero nuove significa non solo arrivare a impedire di circolare a persone che uniscono la passione alla necessità del risparmio, perché non ce la fanno più con le spese, ma anche causare l’eliminazione di un intero parco auto storiche, cancellando una memoria automobilistica che era l’orgoglio italiano.
Ma la cosa più stupida è che si andrà a demolire un intero comparto di business: infatti, chi possiede due o tre automobili di vent’anni, ma ben funzionanti, trovandosi a pagare centinaia di euro per i bolli e migliaia per l’assicurazione, sarà costretto a disfarsi dei mezzi, con una perdita di capitali privati: ma neppure lo Stato, che oggi percepisce bolli ridotti, guadagnerà qualcosa se tutti si disfarranno dei propri mezzi. I raduni storici saranno relegati solo a chi si può permettere auto oltre i trent’anni (molto più costose da comprare e da mantenere), in più, verrà cancellata una categoria di auto (da 20 a 30 anni) che oggi dà lavoro a riparatori, artigiani, ricambisti.
Un’altra mazzata sul mondo degli artigiani e dei piccoli ivestitori che hanno investito comperando auto che sarebbero state di sicura rivalutazione.  La federazione Auto Storiche Italiane ha già fatto il conto che per incassare ipoteticamente 56 milioni di euro si andrebbe a perdere un mercato di 650 milioni di euro. Quindi il solito gettito fiscale più alto nei primi mesi cui segue il crollo dovuto alla distruzione di un indotto. Altri 12 milioni di euro si perderebbero sul fronte turistico a causa della morte dei classici raduni.
Cito il documento redatto dall’Asi in merito al provvedimento legislativo contenuto nella Legge di stabilità 2015, all’art. 44 comma 28, con cui si abrogano i commi 2 e 3 dell’art. 63 Legge 342/2000: “A questa perdita si aggiungerebbe quella turistica pari a circa € 12.500.000 annui che nasce da una media di 2.500 raduni per un costo unitario medio di € 5.000. Ed è chiaro che a queste perdite si aggiungono quelle della perdita di posti di lavoro nella Segreteria Asi e nei Club federati che sono 270 …In molti altri casi il nostro Governo ha assunto decisioni populistiche contro auto sportive, di lusso, di grande cilindrata o altri beni, quali barche o aeromobili, con il solo risultato di ridurre l’attività economica del privato, senza incrementare le entrate per l’erario. Sembra ancora una volta che gli errori del passato, in Italia, non insegnino nulla per il presente o per il futuro. Mai come oggi, ogni giorno sentiamo parlare di calo dell’economia, dell’occupazione e della necessità di introdurre provvedimenti per ovviare a tali negatività, in concreto poi i provvedimenti adottati vanno contro corrente e determinano ulteriori danni. Non si può poi dimenticare che il veicolo storico è stato beneficiato dal legislatore perché il pregio culturale superava la perdita per l’erario, e tale particolare e giusta considerazione ha favorito la sua crescita numerica e patrimoniale, che ora di punto in bianco viene annullata senza contropartita. Con un’ulteriore perdita non facilmente valutabile, ma certo non lontana da oltre 1,5 miliardi di Euro.”
Cito la pagina Facebook creata da Mauro Simonini Presidente del Club Alfissima: “Non importa se sia una Panda o una Ferrari, a loro modo tutte le auto rappresentano la storia del nostro paese, dei nostri ricordi. Tutto quello che volete, ma tutti devono avere la possibilità di vivere la propria passione automobilistica. Auto di venti anni e oltre, hanno pagato nella loro vita più del valore d’acquisto da nuove, e raggiunti i venti anni meritano di essere esentate per essere salvate e restaurate per il futuro senza il rischi dell’estinzione di una fetta di storia automobilistica. Specialmente ora, in tempi di crisi rischierebbero di essere comprate da appassionati stranieri, o peggio, finire sotto la pressa privando il nostro paese di un futuro patrimonio storico. L’abrogazione di storicità darebbe inoltre un altro colpo di scure all’economia, perché solo noi appassionati sappiamo quanto hanno bisogno di cure, quindi riparazioni e ricambi, questa scellerata scelta porterebbe a far dimezzare il lavoro di molti. E’ vero, molti si sono approfittati di queste facilitazioni, anche colpa dei tempi di crisi, questo non significa voler fare i furbetti ma cercare di sopravvivere alle vessazioni di questo stato ingordo, con accise sui carburanti direi da rapina, passaggi di proprietà che spesso hanno un costo superiore al valore stesso dell’auto costi assicurativi da pagare a rate, e alla fine tutti i nostri soldi succhiati dall’automobilista per avere strade , se così si possono chiamare, tanto che dai crateri che hanno sembrano la superficie lunare. I furbetti con la Fiat Uno o Panda non esistono, mentre esistono furbi che viaggiano in auto blu, e noi li andremo a trovare con le nostre vecchiette a Roma”. Speriamo solo che ci ripensino in tempo prima di causare nuove perdite di posti di lavoro.
Contributo inviato a ImpresaLavoro da Francesco Corsi