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Le tasse, malattia italiana: curiamola e ci salveremo

Le tasse, malattia italiana: curiamola e ci salveremo

di Massimo Blasoni – Il Giornale

La flat tax ipotizzata da Trump per le imprese al 15% contro l’attuale 35%, analogamente alla proposta della May che vorrebbe ridurre la tassazione su quelle inglesi dal 20% al 15%, non rappresenta una misura a favore degli imprenditori ma di tutti i cittadini di quei Paesi. Questo per intuibili motivi: occupazione, crescita e, in fin dei conti, in prospettiva anche incremento delle entrate. Si tratta di provvedimenti certamente non facili da attuare, ma realizzabili. In Italia servirebbero misure analoghe, che non si adottano, più che per l’alto debito pubblico, sulla base di un preconcetto purtroppo diffuso. L’impresa non è vista come la fonte principale di sviluppo economico ma come una sorta di «mucca da mungere»,come recita l’aforisma di Churchill. Eppure anche alla sinistra più conservatrice dovrebbe apparire chiaro che un’imposizione fiscale così alta come quella italiana scoraggia gli investitori esteri e rende assai difficile per i nostri imprenditori competere nel mercato globale: le aziende americane hanno investito 62 miliardi in Spagna contro i 28 nel nostro Paese.

Tassare troppo, peraltro, va anche a svantaggio dell’erario. La legge di Laffer è chiara: se esageri deprimi l’economia e ottieni minor gettito. Il prelievo eccessivo non è un problema delle sole imprese, siamo tutti tartassati. Il tema è ineludibile e non si tratta di spostare l’imposizione dalle imposte dirette alle indirette o piuttosto dal lavoro ai consumi o al patrimonio. È necessario ridurle e basta. Secondo un recente report dell’Ocse negli anni ’60 le tasse che gli italiani pagavano rappresentavano il 24% del Pil, una soglia assolutamente accettabile in un Paese allora in grande crescita. Oggi ci siamo attestati attorno al 43%. Questo significa che le spese dello Stato sono enormemente cresciute in questo periodo. Peggio: nemmeno l’incremento del prelievo fiscale è bastato a farvi fronte visto che anche il debito pubblico è aumentato in modo consistente.

Non nascondiamoci dietro a un dito, l’incremento delle tasse non è una peculiarità solo italiana, ma se confrontiamo i dati Eurostat 2000-2015 rileviamo che mentre in Italia la pressione fiscale cresceva di 3,3 punti, in Germania scendeva e in Spagna e in Olanda è rimasta sostanzialmente inalterata. Di più, se approfondiamo il raffronto con gli anni ’60 scopriamo amaramente che la pressione fiscale negli Stati Uniti è passata dal 23,5% al 26,4% odierno e in Regno Unito dal 29,3% al 32,5%, mentre nel nostro Paese è quasi raddoppiata.

Torniamo alle imprese: l’insieme totale di tasse, imposte e contributi versati dalle aziende italiane è addirittura il 62% dei profitti, una percentuale enorme e un vero deterrente ad investire ed assumere. Per ridurre l’elevata disoccupazione, soprattutto giovanile, dovremmo invece scommettere sulle nostre aziende e promuoverle, nell’interesse di tutti. E non si dica che l’Ires è stata ridotta perché questo timido aggiustamento è di gran lunga surclassato dalla quantità enorme di imposizione che direttamente o indirettamente continua a crescere. Dalle tasse sul lusso, che hanno ridotto in ginocchio la nautica, alle accise, allo split payment, al ritardato pagamento dei debiti della pubblica amministrazione alle imprese. Lo Stato paga quando vuole e il grande ritardo determina per i fornitori costi impropri che rappresentano una vera e propria tassa. Attualmente gli importi dovuti alle imprese sono ancora pari a 61 miliardi e vengono pagati mediamente dopo oltre 130 giorni.

Anticipare questi denari presso gli istituti di credito, per far fronte ai costi delle forniture, rappresenta un onere di 5 miliardi l’anno, una vera enormità che contribuisce a renderci meno competitivi rispetto alle altre imprese europee. Abbassare l’imposizione fiscale però è possibile solamente se si riducono il perimetro di attività dello Stato e gli enormi sprechi che si annidano ancora in parte della spesa pubblica. È possibile? Noi crediamo di sì. Un esempio: secondo uno studio di Confcommercio dello scorso anno se la spesa pubblica pro capite delle nostre regioni fosse pari a quella della Lombardia, risparmieremmo 74 miliardi di euro. Si dirà che la Lombardia è troppo grande e virtuosa. Forse, ma non è inarrivabile.

Il lavoro domenicale è sinonimo di progresso anche per i dipendenti

Il lavoro domenicale è sinonimo di progresso anche per i dipendenti

di Massimo Blasoni – Libero

Non dobbiamo avere paura del futuro, men che mai possiamo illuderci di poterlo bloccare per decreto legge. Guardiamoci intorno: il mondo produttivo si sta lasciando alle spalle la concezione novecentesca del lavoro, adattandosi alle mutate esigenze con lo smart working e il job on demand. Alcuni politici e sindacalisti – nonché una porzione significativa di utenti del web (ricordate gli insulti scagliati mesi or sono su Facebook contro una foto di Gianni Morandi che faceva la spesa di domenica?) – preferiscono invece protestare contro l’apertura dei negozi nei giorni festivi, così indicendo l’ennesimo “sciopero contro la pioggia”. Vagheggiano il ritorno a una società dei consumi che si fermi nei giorni “comandati”, costringendo tutti i lavoratori a un meritato riposo? Eppure anche a loro la domenica capita di salire su un treno o un aereo o un altro mezzo di trasporto pubblico, di visitare un museo o assistere a uno spettacolo, di mangiare al ristorante e andare al cinema, di entrare in farmacia e di ricevere cure in ospedale o in un Pronto soccorso, soprattutto di fare acquisti di beni e servizi tramite Internet. Pensano forse che i lavoratori impiegati in queste attività dovrebbero anch’essi trascorrere le feste a casa con le proprie famiglie?

Costoro invocano una concezione dello Stato che ci dica quando lavorare o fare la spesa, ignorando come il mercato si muova sempre in direzione della domanda. Per le famiglie poter fare compere nei giorni festivi è un’opportunità preziosa, non un diritto in meno (qualcuno rimpiange gli anni in cui tutte le saracinesche restavano abbassate a Ferragosto?). D’altra parte le liberalizzazioni hanno sempre prodotto e distribuito ricchezza. Quella dei giorni e degli orari di vendita, decisa in Italia nel 2012, ha comportato un aumento delle assunzioni di dipendenti, che non subiscono alcuno sfruttamento (la direttiva europea sull’orario di lavoro garantisce loro il diritto a un giorno settimanale di riposo) se non altro perché il lavoro domenicale e festivo è pagato in media il 30% in più rispetto al salario abituale. A coloro che infine temono la progressiva sparizione dei negozi sotto casa, ricordo i dati più recenti diffusi da Federdistributori (fonte Istat e AC Nielsen): dal 2012 al 2015 gli esercizi tradizionali hanno visto scendere la loro quota di mercato dal 29 al 27,4% a fronte di una crescita della quota della distribuzione moderna (ipermercati, supermercati e Outlet) dal 58,2 al al 59,9%. Variazioni poco consistenti, che non rendono credibile l’allarme antimodernista e statalista di chi sembra dispiacersi per una sia pur timida ripresa dei consumi.

Il nazionalismo economico con gli occhiali del business

Il nazionalismo economico con gli occhiali del business

Il dibattito, o meglio il conflitto tra sovranisti e internazionalisti, colora in questo momento la politica europea. Ne colora anche gli affari? Nel business si dovrebbe guardare essenzialmente ai rendimenti e non al colore (nazionale o meno) di coloro coi quali si tratta. Si sono posti l’interrogativo, dandosi una prima risposta, tre economisti dell’Università di Dublino – Ronan Powell, Sarah Predergast e Ruchira Sharma – che hanno firmato un paper non ancora online ma che si può ottenere scrivendo a ronan.powell@ucd.ie. Il suo titolo è The Impact of Economic Nationalism in Europe on the Returns to Rival of Crossborde M&A Bids (L’impatto del nazionalismo economico in Europa sui rendimenti di offerte per fusioni ed acquisizioni attraverso frontiere).

Lo studio analizza l’effetto di ricchezza atteso del nazionalismo utilizzando un campione innovativo di offerte bloccate per operazioni di acquisizioni nei confronti di aziende dell’Unione Europea (UE) da parte di aziende non nell’UE nel periodo dal 1990 al 2013. L’accento è sui rendimenti anormali cumulatici (Cumulative Abnormal Returns, o CARs), sia al momento dell’annuncio dell’acquisizione sia al momento di eventuali interventi pubblici sia al momento della conclusione o meno dell’acquisizione. L’analisi conclude che esiste un effetto significativo al momento dell’annuncio dell’offerta di acquisizione, soprattutto quando si tratta di imprese rivali: in media 31 milioni di euro dopo avere controllato per altre determinanti. L’intervento pubblico comporta invece CARs negativi, ossia lo Stato farebbe bene a stare alla larga e non interferire per motivi nazionalistici o meno. Tali effetti negativi risultano più pronunciati quando l’impresa rivale è straniera. I CARs diventano ancora più negativi alla data della risoluzione dell’affare: una perdita in media di 23 milioni di euro. In breve, il nazionalismo economico ha un costo significativo.

Famiglia: l’Italia spende solo l’1,5% del Pil, pari a 414 euro pro capite

Famiglia: l’Italia spende solo l’1,5% del Pil, pari a 414 euro pro capite

Per il sostegno alla famiglia e alla natalità l’Italia spende risorse pari a solo l’1,5% del Pil: una cifra inferiore all’1,7% del Pil che i paesi dell’Unione a 28 e dell’area Euro spendono in media a favore dei nuclei con figli a carico. È quanto emerge da un’indagine del Centro studi ImpresaLavoro su elaborazione degli ultimi dati Eurostat (2015).

In pratica si tratta di quella parte di spesa pubblica destinata a: protezione sociale a favore di famiglie con figli a carico; indennità o sovvenzioni per maternità, nascita di figli o congedi per motivi di famiglia; assegni familiari; sovvenzioni per famiglie con un solo genitore o figli disabili; sistemazione e vitto fornito a bambini e famiglie su base permanente (orfanotrofi, famiglie adottive, ecc.); beni e servizi forniti a domicilio a bambini o a coloro che se ne prendono cura; servizi e beni di vario genere forniti a famiglie, giovani o bambini (centri ricreativi e di villeggiatura).

Ordinando il totale della spesa di ogni singolo Paese in percentuale al Pil, l’Italia si piazza – con il suo 1,5% – in 17° posizione (sulle trenta nazioni prese in considerazione da Eurostat). Tra i grandi Paesi europei, peggio di noi fanno Portogallo e Olanda (1,1%), Grecia e Spagna (0,6%) mentre questa spesa è analoga nel Regno Unito (1,5%) e superiore in Belgio (2,4%), Austria (2,3%), Irlanda (2,0%), Germania (1,6%) e Francia (2,5%).

La posizione dell’Italia in questa classifica cambia leggermente se, invece che come percentuale del Pil, la spesa è calcolata pro-capite. In questo caso il nostro Paese sale dal 17° al 15° posto (sempre su 30). Molto concretamente questo significa che ogni anno in Italia vengono stanziati e spesi per la famiglia 413,99 euro a cittadino. Una cifra in valore assoluto superiore a quella di Spagna, Grecia e Portogallo (dove però la vita costa sensibilmente di meno) ma nettamente inferiore a quella di tutti gli altri grandi paesi continentali. Tralasciando i paesi nordici e il Lussemburgo, che rappresentano eccezioni oggettive, non si può fare a meno di notare come in Francia la spesa pubblica a favore della famiglia sia il doppio della nostra: 813,17 euro a cittadino (399,18 in più dell’Italia). Meglio di noi fanno anche la Germania (595,12 euro pro capite) e il Regno Unito (590,18 euro pro capite). Il nostro dato è sensibilmente inferiore sia rispetto a quello dell’Unione Europea a 28 (dove la media è di 501,67 euro pro capite) sia rispetto a quello dell’area Euro (530,93 euro pro capite).

Lasciateci liberi di scegliere un Inps “privato”

Lasciateci liberi di scegliere un Inps “privato”

di Massimo Blasoni – Panorama

Il deficit di gestione ormai strutturale dell’Inps è l’emblema dell’insostenibilità del nostro impianto previdenziale. Nel 2016 il patrimonio netto dell’Istituto è andato per la prima volta in negativo: sei anni fa misurava oltre 40 miliardi. Lo scorso esercizio ci sono state perdite per 7,65 miliardi, in linea con quelle che si registrano ormai da anni. Il disavanzo, regolarmente ripianato dallo Stato, è frutto del disallineamento tra contributi versati – con il criterio della ripartizione, dai lavoratori di oggi – e pensioni pagate. A questo si aggiunge la notevole massa dei crediti che l’Inps non riesce ad incassare e che è costretto ciclicamente a svalutare: un po’ come avviene per i crediti deteriorati delle banche. Si tratta di cifre ingentissime che rappresentano un’ulteriore pesante ipoteca sul bilancio della previdenza nazionale.

È noto che il sistema retributivo applicato in passato fu troppo generoso ma la situazione attuale è anche frutto di una gestione non certo assennata del patrimonio immobiliare. Per dare un’idea, l’Inps possiede 25mila immobili valutati più di tre miliardi da cui però non trae alcun provento, anzi un rilevante deficit annuale. E purtroppo non è finita qui. La sostenibilità del sistema previdenziale richiede sia una crescita del Pil di almeno un punto e mezzo percentuale annuo, sia un indice di occupazione – cioè di partecipazione al mercato del lavoro – nettamente più alto di quello attuale. Risultati per il momento non conseguiti né sul piano della crescita, che in Italia resta modesta, né relativamente all’incremento dell’occupazione: solo il 57% degli italiani lavora, contro una media europea dieci punti più alta. Tra l’altro nel nostro Paese non ha grande spazio la previdenza complementare: fra coloro che versano contributi il tasso di adesione non supera il 25% del totale degli occupati. D’altro canto con netti in busta paga fortemente gravati dall’altissimo cuneo fiscale e previdenziale non è semplice per le famiglie ritagliare risorse per assegni aggiuntivi.

Le incertezze per il futuro gravano fondamentalmente sui giovani. Lavori discontinui, vuoti contributivi e una previdenza in genere penalizzante rispetto al passato rischiano di condurre ad assegni pensionistici miseri e a un lavoro che si dovrà protrarre sino ad un’età assai avanzata. Il fatto è che ancora oggi alcuni vanno in pensione a poco più di 50 anni mentre l’aspettativa per chi inizia a lavorare va ben oltre i 70 anni. Una soglia che potrebbe spostarsi ancora più in là, posto che ogni tre anni i coefficienti di trasformazione adeguano l’età di pensionamento alla costante crescita della vita media. Una considerazione conclusiva: non è frutto di un ordine necessario che debba essere lo Stato a gestire i nostri contributi obbligatori. Sarebbe forse preferibile che ci fosse data la possibilità di decidere liberamente dove investirli, optando tra soggetti pubblici e privati in concorrenza. Un passaggio complesso ma a ben vedere non impossibile.

Ecco il ddl Sacconi sul lavoro breve, colma il vuoto sui voucher

Ecco il ddl Sacconi sul lavoro breve, colma il vuoto sui voucher

Disposizioni in materia di lavoro breve, di lavoro intermittente e di responsabilità solidale tra committente e appaltatore
d’iniziativa dei Sen. Maurizio SACCONI, Giancarlo SERAFINI,
Hans BERGER, Roberto FORMIGONI, Franco PANIZZA

Il totale accoglimento, con un provvedimento di necessità ed urgenza finalizzato ad evitare la consultazione referendaria, delle abrogazioni proposte dai quesiti in materia di buoni per lavori occasionali e di responsabilità solidale negli appalti impone al legislatore una più meditata regolazione. In particolare, la abrogazione di tutte le disposizioni relative ai buoni prepagati ha lasciato un vuoto che deve essere tempestivamente riempito con una strumentazione analogamente semplice e conveniente ai fini della regolarizzazione degli spezzoni lavorativi altrimenti condannati alla sommersione. Si propongono due vie complementari per la agevole regolarizzazione delle prestazioni occasionali, il Lavoro Breve e il Lavoro Intermittente “liberalizzato”, prevalendo la convenienza del secondo nel caso di lavori saltuari ma ricorrenti con gli stessi prestatori, soprattutto se in misura maggiore a quella consentita per il lavoro breve.

Il presente disegno di legge definisce il lavoro breve ai fini di:
– una disciplina speciale che ne dispone la semplice iscrizione e comunicazione telematica, almeno 60 minuti prima, su idonea piattaforma INPS,
– l’assenza di qualificazione specifica della prestazione,
– il contestuale accreditamento in misura ridotta dei contributi previdenziali e assicurativi,
– il pagamento diretto e tracciabile del compenso da parte del committente,
– la neutralità fiscale del compenso.

Per “lavoro breve” si intendono tutte le prestazioni che con un singolo committente danno luogo a compensi non superiori a 900 euro in un anno. Se il prestatore è beneficiario di sussidi pubblici non può superare con più committenti la soglia di 2000 euro. Una misura maggiore giustificherebbe infatti un rapporto di lavoro strutturato con gli oneri conseguenti per le parti.

Il carattere virtuale della gestione del rapporto di lavoro e la modalità di pagamento diretto del compenso da parte del committente consentono la piena tracciabilità di ogni prestazione e lo svolgimento del controllo ispettivo. L’accredito dei contributi previdenziali e assicurativi deve essere effettuato contestualmente alla comunicazione preventiva dei dati del lavoratore, del luogo, del giorno e dell’orario della prestazione. Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali aggiorna il valore orario della prestazione che è fissato in 10 euro mentre le contribuzioni a INPS e INAIL sono rispettivamente nelle misure del 13 e del 7 per cento. Solo nel caso di prestazioni rese per un nucleo familiare la contribuzione INAIL è determinata nella misura del 4 per cento e il compenso non rileva rispetto ad ogni prelievo fiscale o indicatore di reddito con eccezione dei presupposti per il rilascio o rinnovo del permesso di soggiorno. Il lavoro breve non può, inoltre, essere consentito negli appalti di opere o servizi ed in particolare nei cantieri edili, fatte salve le diverse disposizioni del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali sentite le parti sociali.

Questo stesso ddl dispone inoltre la semplificazione dei contratti di lavoro intermittente che vengono sottratti alla preventiva definizione dei casi di impiego da parte della contrattazione collettiva e liberati dai vincoli delle fasce di età dei prestatori e dei settori indicati dal Regio Decreto del 1923.
Ulteriore scopo del presente provvedimento è poi quello di correggere l’attuale incoerenza del regime di responsabilità solidale negli appalti con l’assetto ed i principi di matrice civilistica e ordinamentale vigenti in Italia. Il presente disegno di legge si pone come obiettivo quello di introdurre una previsione normativa che identifichi con certezza l’adeguata vigilanza ad opera del committente mettendolo in condizione di esercitarla. In conseguenza, la responsabilità solidale del committente si configurerebbe solo laddove l’organo ispettivo accerti l’omessa vigilanza dello stesso o la sua tolleranza di condotte inadempienti. Tale norma vuole assicurare una maggiore certezza dei rapporti giuridici e la sicurezza per le imprese che dagli appalti non possano derivare sanzioni o oneri per condotte ad esse completamente estranee e fuori dal loro controllo. La responsabilità non può mai essere oggettiva!

Scarica il testo del Disegno di Legge

Brexit, Londra e un paio di confronti fra Italia e Gran Bretagna

Brexit, Londra e un paio di confronti fra Italia e Gran Bretagna

di Massimo Blasoni – Formiche

Non è possibile sapere con esattezza in quale stato verserà l’economia britannica una volta che la Brexit avrà dispiegato nel tempo tutti i suoi effetti. A nove mesi dal referendum popolare che ha sancito la vittoria del Leave e mentre ormai il Governo May sta ultimando gli ultimi passaggi propedeutici all’uscita dall’Unione europea, si può però affermare che non si sono avverate le catastrofiche previsioni formulate dalla Bank of England e da numerosi analisti. I loro allarmismi, che già a suo tempo non avevano convinto gli elettori britannici, non sembrano nemmeno aver suscitato quei sentimenti di paura e incertezza che, come sappiamo, molto spesso condizionano in maniera rilevante i trend economici.

In questo contesto sembra utile attuare un confronto tra le performance più recenti del Regno Unito e quelle dell’Italia, se non altro per renderci conto di quanto la nostra situazione sia decisamente più critica. Nel quarto trimestre del 2016 il Pil del Regno Unito è cresciuto del 2%, il nostro appena dell’1,1%. La nostra crescita annua è stata dell’1% mentre in Gran Bretagna ha registrato un +2% (la più consistente tra tutti i Paesi del G7). Oltremanica la disoccupazione rimane inferiore al 4,8% mentre da noi è all’11,9% (con quella giovanile addirittura al 37,9%).

E se in questo match Italia–Inghilterra recuperiamo quanto a vendite al dettaglio – posto che negli ultimi tre mesi abbiamo registrato incrementi superiori a quelli britannici – rischiamo una penosa debacle quanto a tassazione sull’impresa. Va riconosciuto ai governi inglesi di aver perseguito una rilevante politica di sostegno alle loro imprese. La tassazione nel Regno Unito è stata progressivamente ridotta sino a giungere al 20%. Un peso decisamente inferiore a quello italiano. Se il confronto avviene poi sul total tax rate, cioè tenendo conto anche del peso dei contributi previdenziali, la forbice si allarga: 30,9% nel regno di Sua Maestà contro il nostro 62%.

Resta infine un dato oltremodo significativo: a leggere i giornali sembrerebbe che banche di investimento e multinazionali siano sul punto di traslocare dalla City, eppure dall’inizio dell’anno la Borsa di Londra ha registrato un +3,01%, quella di Milano invece un ben più modesto +1,57%. È la prova che nonostante l’imminente Brexit i mercati continuano a ritenere affidabile l’impegno del governo May per la tenuta di un ambiente favorevole agli investimenti e alla localizzazione delle multinazionali. Possiamo dire lo stesso del governo Gentiloni?

L’asticella del debito e il sovranismo

L’asticella del debito e il sovranismo

Il debito pubblico è uno dei temi di fondo delle elezioni presidenziali in Francia, il cui primo turno è il 23 aprile. Lo sarà anche di quelle tedesche e italiane. Su questo tema si è scritto proprio tutto? La settimana scorsa è uscito un paper con interessanti novità negli Economics Research Papers di Bath (N. 61/17). Ne sono autori due economisti spagnoli Marta Gomez-Puig e Simon Sosvilla Rivero. Si intitola Heterogeity in the Debt-Growth Nexus. Evidencce from EMU Countries (Eterogeneità nel nesso tra debito pubblica e crescita) e ci riguarda da vicino. Sulla base di dati e analisi più recenti mette in discussione circa venti anni di scritti secondo cui, sulla base del lavoro pioneristico di Carmen M. Reinhart e Kenneth S. Rogoff, il debito pubblico frena la crescita se supera il 90% del Pil.

Sulla base di un’analisi relativa ai Paesi dell’unione monetaria europea dal 1961 al 2015, Marta Gomez-Puig e Simon Sosvilla Rivero pongono l’asticella molto più in basso utilizzando tecniche di analisi più raffinate di quelle di Carmen M. Reinhart e Kenneth S. Rogoff. In tutti i Paesi dell’unione monetaria, il debito pubblico comincia ad avere effetti negativi sulla crescita quando raggiunge il 40% del Pil nei Paesi dell’Europa centrale ed il 50% in quelli dell’Europa meridionale. L’obiettivo, fissato nel trattato di Maastricht, che il debito non superi il 60% del Pil dovrebbe essere, quindi rivisto al ribasso. Secondo i due economisti spagnoli, le politiche di austerità devono continuare ad essere applicate nell’unione monetaria ma, dato che non sembra abbiano inciso sul debito, vanno accompagnate da politiche strutturali tali da aumentare i rispettivi Pil potenziali. Tuttavia, l’asticella varia da Paese a Paese, una media generalizzata sarebbe poco utile. L’analisi conclude che l’aggiustamento dovrebbe essere più lento in Grecia e Spagna e più veloce in Italia.

Dal 2007 ogni italiano perde 3mila euro l’anno

Dal 2007 ogni italiano perde 3mila euro l’anno

Dal 2007 al 2015 (anno di cui sono disponibili i dati più recenti), il Pil pro capite degli italiani è sceso del 10,8%, passando da 28.699 a 25.586 euro (-3.113 euro). Un calo che non si è comunque distribuito in modo uniforme su tutto il territorio nazionale. Altrettanto disomogeneo appare il calo degli occupati nel nostro Paese, che restano ancora inferiori ai dati registrati nel 2007, alla vigilia della lunga crisi economica ancora in atto. Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro, realizzata rielaborando i dati raccolti da Istat.

Nessuna Regione italiana – dice lo studio – è poi riuscita a tornare ai livelli precedenti la crisi economica, ma in alcuni casi il calo del Pil pro capite medio dei suoi cittadini è stato più sensibile. In fondo alla graduatoria, ordinata per variazione percentuale negativa, troviamo Molise (-19,3%), Umbria (-18,3%), Lazio (-17,7%) e Campania (-16%). E non tutto il Nord è virtuoso. Per esempio il Friuli Venezia Giulia (-11,4%), la Liguria (-11,6%), il Piemonte (-12,3%) e persino la Valle d’Aosta (-12,6%) restano sotto la media nazionale. A soffrire meno questi dieci anni di crisi (sempre secondo il parametro del Pil pro capite) solo Trentino Altro Adige (-3,2%), Basilicata (-4,5%), Abruzzo (-6,2%) e Lombardia (-7,9%) che fanno registrare performance sensibilmente migliori della media nazionale.

Nel 2016 nel nostro Paese risultano poi occupate 22.757.840 persone, un dato ancora inferiore di 136.107 unità a quello del 2007, quando gli occupati erano 22.893.947. Anche in questo caso i dati regionali si muovono in modo molto disomogeneo. Rispetto al 2007 già oggi risultano occupate più persone nel Lazio (+9,42%), in Trentino Alto Adige (+7.04%), in Toscana (+2,34%), in Emilia Romagna (+2,22%) e in Lombardia (+2,15%). Ancora lontane dai livelli occupazionali di allora la Liguria (-3,73%), il Friuli Venezia Giulia (-3,93%) e la Valle d’Aosta (-4,21%). Nello stesso periodo di tempo si registra una contrazione più marcata degli occupati in tutte le regioni del Sud: Campania (-4,33%), Molise (-4,97%), Puglia (-6,31%), Sardegna (-7,23%), Sicilia (-8,74%) e Calabria, fanalino di coda con un meno 11,67%.

«Mentre gli altri Paesi europei sono da tempo ritornati ai livelli di crescita pre crisi – commenta Massimo Blasoni, presidente di ImpresaLavoro – l’Italia continua a registrare valori di reddito pro capite e occupazione inferiori a quelli del 2007. «Purtroppo non si è voluto approfittare della crisi per cambiare le regole del mercato del lavoro e per alleggerire le nostre imprese dal peso di una tassazione eccessiva».

I dati Istat delle famiglie non tengono conto del nero

I dati Istat delle famiglie non tengono conto del nero

di Massimo Blasoni – La Verità

La crisi economica, che dopo un decennio può dirsi ormai sistemica, ha sicuramente accentuato il divario tra le classi più abbienti e quanti invece hanno visto sensibilmente ridursi il proprio patrimonio. Occorre però distinguere bene le situazioni. Nelle scorse settimane ha ad esempio fatto molto rumore, guadagnandosi le prime pagine dei giornali, la notizia che nel nostro Paese un milione e 85mila famiglie risultano prive di reddito e che oltre la metà di queste (587mila) vivono nel Mezzogiorno. Molti osservatori ne hanno tratto la conclusione che la situazione in Italia  sia a tal punto peggiorata da ridurre alla povertà una quota rilevante di nostri connazionali. In realtà i dati diffusi da Istat registrano un milione di famiglie senza lavoro, il che non significa che non abbiano comunque un reddito: una famiglia infatti può essere composta da pensionati, disporre di rendite proprie oppure di redditi da lavoro in nero.

Quest’ultima categoria non è per nulla residuale, anzi. Basti considerare che nella sua ultima rilevazione (ottobre 2016) lo stesso Istituto nazionale di Statistica attesta che nel 2014 il valore aggiunto generato in Italia dalla sola economia sommersa ammontava a 194,4 miliardi di euro mentre quello connesso alle attività illegali (incluso l’indotto) a circa 17 miliardi di euro. Il valore aggiunto generato da questa “economia non osservata” nel 2014 derivava per il 46,9% (47,9% nel 2013) dalla componente relativa alla sottodichiarazione da parte degli operatori economici. La restante parte era invece attribuibile per il 36,5% all’impiego di lavoro irregolare (34,7% nel 2013), per l’8,6% alle altre componenti (fitti in nero, mance, ecc.) e per l’8% alle attività illegali. Detta in soldoni, il mondo degli evasori e dei lavoratori in nero due anni fa ha prodotto un giro d’affari pari al 12,0% del Pil), tra sotto-dichiarazioni (99 miliardi) e lavoro irregolare (77 miliardi).

A questo si aggiunga un altro dato significativo: è stato sufficiente cambiare il sistema per la quantificazione dell’Isee – passando dall’autodichiarazione alla verifica oggettiva (con incrocio dei dati all’anagafe tributaria) – per assistere nel 2015 a un vero “miracolo” economico: gli italiani che per ottenere sconti fiscali dichiaravano di essere nullatenenti sono infatti diminuiti dal 70% al 14% (nel Mezzogiorno da quasi il 90% al 20%).

Tutto questo per ricordare che se la crisi economica è grave e perdura da molti anni, altrettanto grave e longeva è la propensione di molti a comportamenti non trasparenti. Un motivo in più per diffidare della politica dei bonus governativi elargiti a pioggia (magari a persone che non ne hanno reale bisogno) e che comunque non ha finora assicurato un’ effettiva ripresa dei consumi. Occorre piuttosto rilanciare gli investimenti pubblici in infrastrutture e stimolare, detassandoli, quelli privati. La convinzione è che l’unica strada percorribile per combattere le povertà (reali) sia quella di creare nuova occupazione.