About

Posts by :

La concorrenza che serve

La concorrenza che serve

Alessandro De Nicola – La Repubblica

Chi avesse seguito un po’ distrattamente la storia degli ultimi anni, sarebbe sorpreso di sentire quanto l’Italia sia bisognosa di liberalizzare l’economia. Ma come? Le norme europee, le authority, la legge antitrust, le lenzuolate di Bersani, le liberalizzazioni di Monti, i vari decreti Salva e Sblocca Italia: non ce n’è abbastanza? No, per niente. Soprattutto in tempi recenti la politica degli annunci ha sopravanzato le riforme concrete e le forze della reazione sono in agguato: basta vedere gli sforzi in Parlamento e nei consigli regionali per limitare gli orari di apertura degli esercizi commerciali.

Ecco perché è bene analizzare la prossima legge annuale sulla concorrenza, che dovrebbe recepire gran parte delle raccomandazioni difuse in luglio dall’Autorità Antitrust: da lì si potrà capire se il Paese è intenzionato ad uscire dalla palude burocratica e corporativa che ne ostacola la crescita. Dalle indiscrezioni che circolano si può dedurre che il ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi, intende mantenersi fedele ai suggerimenti dell’Autorità, non rinunciando ad aggiungerci del suo.

Vediamo di capirci qualcosa cominciando dalle professioni liberali, alcune delle quali, in particolare notai ed avvocati, hanno finora respinto i tentativi di cambiamento. In effetti il Mise fa buone proposte quali l’abolizione del divieto di ingresso di soci di capitali nelle associazioni professionali (legittimando anche quelle multidisciplinari), la possibilità per gli avvocati di partecipare a più studi legali, la rimozione della proibizione del patto di quota-lite. Altre richieste, quali la soppressione dei parametri di riferimento per determinare il compenso in caso di disaccordo col cliente, hanno vantaggi ma anche svantaggi, in quanto i parametri, se non obbligatori e solo residuali, abbattono i costi di transazione ed evitano disparità di valutazione a seconda del giudice competente.

Per i notai si vuole dare la possibilità agli avvocati di sopperire ad alcune delle funzioni dei primi. Ottima idea: per liberalizzare bisogna creare anche dei conflitti di interesse, anzi, allargherei pure ai commercialisti e ai magistrati in pensione la possibilità, ad esempio, di certificare la firma. Inoltre è giusto incoraggiare la concorrenza tra notari attraverso l’uso di pubblicità e procacciatori d’affari. Chi invoca inorridito la dignitas della professione si dimentica che nulla è più dignitoso che ampliare l’offerta e abbassare i premi per i clienti.

Bene anche l’abolizione del limite di titolarità di massimo 4 farmacie per soggetto: chi riuscirà a gestirne 20 o 40 porterà un beneficio ai consumatori. La sostituzione di un numero massimo di farmacie per area territoriale con un numero minimo, invece, non è convincente. La burocrazia non è in grado di programmare alcunché, quindi meglio lasciare libertà di apertura senza contingentamento e sarà il mercato a decidere. L’alternativa proposta dal Mise, vale a dire la possibilità di vendita di tutti i farmaci di fascia C in qualsiasi esercizio presidiato da un farmacista sembra preferibile. A completamento, l’eliminazione di alcuni passaggi burocratici per la commercializzazione dei farmaci generici va altresì nella giusta direzione.

Ma se questi appena citati sono interventi dovuti anche per il loro carattere simbolico, ve ne sono altri che potrebbero avere un impatto economico notevole. Mi riferisco alla riforma del sistema di accreditamento delle strutture private all’interno del Servizio Sanitario Nazionale, eliminando il criterio di assegnazione del budget sulla base della spesa storica (che elimina ogni incentivo all’efficienza) e facilitando l’ingresso di nuovi operatori. Si introdurrebbe così una concorrenza virtuosa tra pubblico e privato lasciando a medici e pazienti la possibilità di scelta della struttura senza aggravi per loStato, grazie anche ad un sistema di trasparenza per la comparazione della performance dell’attività medica e della qualità del servizio erogato.

Ficcanti sono poi le proposte in tema di trasporto pubblico locale. Si favorisce l’ingresso di nuovi operatori persino in sovrapposizione alle linee già esistenti, liberandoli dal pagamento di oscure ‘compensazioni aggiuntive’ all’ente pubblico. Si vuole inoltre non solo abrogare la possibilità di affidamento diretto del servizio di trasporto locale. ma anche premiare le Regioni che procederanno a gare competitive. Infine, potenzialmente più esplosiva del Tfr, è la previsione della portabilità dei fondi pensione chiusi da parte del lavoratore, il quale sarebbe libero, nel caso in cui non fosse contento del rendimento, di spostare il patrimonio accumulato verso altri fondi più redditizi, chiusi o aperti. Questa riforma scardinerebbe rendite di posizione e farebbe fruttare meglio il denaro dei lavoratori.

Sono presenti altre proposte sulla separazione tra banche e fondazioni, sul governo societario delle banche popolari, sulla portabilità dei conti correnti, e sui contratti di assicurazione e di distribuzione del carburante. Una certa timidezza la si riserva alla liberalizzazione delle Poste e, benché sia spiegabile al fine di non ‘disturbare’ la privatizzazione, è secondo me un errore. Le eventuali conseguenze patrimoniali di una maggiore concorrenza verrebbero così scaricate sui risparmiatori e si ritarderebbero i benefici sistemici di un contesto più competitivo. Ciò detto, bisognerà seguire con attenzione l’evolversi della situazione: Lobby Continua è sempre occhiuta in questi casi e a volte il Ministero, con l’ansia di imporre la liberalizzazione, introduce solo nuova regolamentazone. Insomma, speriamo sulla determinazione del governo, ma contiamo sulla vigilanza dell’opinione pubblica.

Con i processi più veloci l’occupazione salirebbe

Con i processi più veloci l’occupazione salirebbe

Metronews

La lentezza dei contenziosi in materia di lavoro costa in media 4, 8 punti percentuali di disoccupazione per ogni anno di durata. Il dato risulta da una ricerca del Centro Studi “ImpresaLavoro” che approfondisce le interessanti indicazioni emerse in materia di disoccupazione e lunghezza dei processi sul lavoro dallo “Staff Report for the 2014 Article IV Consultation / Italy”, pubblicato a settembre dal Fondo Monetario Internazionale e nel quale si sostiene che un dimezzamento dei tempi dei processi per lavoro in Italia porterebbe a un aumento della probabilità di impiego dell’8%. Secondo l’Fmi, infatti, il nostro sistema giudiziario è ancora molto lento in confronto alla media europea, e necessiterebbe di misure più opportune rispetto al mero incremento dei costi del giudizio introdotto di recente quali la promozione e l’uso dei sistemi alternativi di risoluzione delle controversie, una razionalizzazione del tipo di cause che trovano accesso al terzo grado di giudizio, l’introduzione di indicatori di performance per tutti i tribunali nonché la condivisione di best practice regionali.

Rapporto Debito/Pil: sui nostri conti pesano i 60 miliardi di contributi dati all’Europa per la stabilità finanziaria degli altri Paesi

Rapporto Debito/Pil: sui nostri conti pesano i 60 miliardi di contributi dati all’Europa per la stabilità finanziaria degli altri Paesi

NOTA

L’Italia è contributore netto degli strumenti di stabilità finanziaria europei per ben 60 miliardi di euro. Lo rivela un’elaborazione del Centro Studi “ImpresaLavoro” su dati Bankitalia. Negli ultimi 4 anni, infatti, il nostro Paese ha contribuito con 60 miliardi di euro alla creazione e all’avvio dell’EFSF (European Financial Stabilty Facilty) e dell’ESM (European Stability Mechanism): tutte iniziative di cui l’Italia non ha mai usufruito, pur essendo uno dei principali soggetti contributori.
In termini concreti questo ha un impatto rilevante sui nostri conti pubblici: al netto di quei contributi, infatti, il nostro Paese avrebbe oggi un debito di 60 miliardi più basso, con ovvie conseguenze per la finanza pubblica. Innanzitutto un miglior rapporto tra Debito e Pil, che passerebbe dal 131.6% al 127.9% e in secondo luogo un miglioramento del rapporto tra Deficit e Pil che si assesterebbe al 2.9% allontanandosi dalla soglia limite del 3%.
Non si tratta di un mero esercizio contabile perché gli investitori e gli osservatori internazionali guardano il dato numerico del nostro debito e dei suoi rapporti con il Prodotto Interno Lordo e non analizzano la “bontà” di quel debito e la natura che lo ha generato. Senza considerare che, volendo lasciare invariato l’equilibrio tra disavanzo e prodotto interno lordo, si libererebbero 2,16 miliardi di risorse disponibili derivanti da minore spesa per interessi da destinare ad altre finalità.
«Oggi l’Europa è chiamata a validare i nostri conti pubblici – osserva il presidente di “ImpresaLavoro” Massimo Blasoni – ma sarebbe altrettanto importante che, al rigore necessario, si applicasse una buona dose di buonsenso: non si può ignorare il fatto che l’Italia, con un debito pubblico consistente e una ripresa difficile da agganciare, stia contribuendo più che proporzionalmente rispetto alle sue possibilità a strumenti di solidarietà economica tra Paesi da cui non ricava nessun beneficio».

tabella 2-page-001

 

Rassegna Stampa:
Libero
Imprenditorialità, Italia ultima in Ue

Imprenditorialità, Italia ultima in Ue

Metronews

L’Italia non è un Paese per imprenditori. Lo conferma la ricerca che il Centro Studi “ImpresaLavoro” ha effettuato elaborando i dati raccolti nell’ultimo Global Entrepreneurship Monitor (GEM), il monitoraggio dell’imprenditoria nelle principali economie avanzate che a partire dal 1999 viene condotto ogni anno sotto la guida della London Business School and Babson College.

L’indice misura il dinamismo e la propensione a fare impresa di ogni singolo paese, premiando quei territori in cui gli imprenditori percepiscono migliori possibilità nell’intraprendere e ottengono migliori risultati. Ne esce purtroppo un quadro a tinte fosche: nel 2013 l’Italia è il fanalino di coda della classifica europea e perde il confronto con tutti i principali competitor: Irlanda (settima), Portogallo (decimo), Gran Bretagna (16esima), Germania (18esima), Spagna (19esima), Grecia (20esima) e Francia (21esima). Svettano economie in grande crescita come Lettonia, Lituania o Polonia.

Per quanto riguarda l’indicatore che misura la percentuale dei soggetti dai 18 ai 64 anni che sono nuovi imprenditori, nel 2013 il nostro Paese si è collocato al 23esimo della classifica europea col 2,4%, perdendo il confronto con tutti i principali competitor: Irlanda (decima), Portogallo (14esimo), Gran Bretagna (16esima), Grecia (17esima), Germania (19esima), Spagna (20esima) e Francia (22esima).

Evasione, la Ue dice addio al segreto bancario

Evasione, la Ue dice addio al segreto bancario

Andrea Bonanni – La Repubblica

Dopo decenni di battaglie, i governi hanno decretato ieri la fine del segreto bancario in Europa. I ventotto ministri delle Finanze dell’Unione, sotto la presidenza dell’italiano Pier Carlo Padoan, hanno finalmente trovato un accordo nella loro riunione a Lussemburgo per aderire ad un meccanismo di scambio automatico di informazioni tra le amministrazioni che prevede tra l’altro anche quelle relative ai dati bancari oltre che ai redditi da lavoro, alle pensioni, ai redditi patrimoniali e immobiliari. In pratica qualsiasi amministrazione fiscale potrà ottenere in modo automatico dalla controparte di un altro stato membro tutte le informazioni patrimoniali relative ad un proprio contribuente che abbia redditi, depositi o immobili in quel Paese.

L’accordo che, come ha spiegato Padoan, «costituisce una pietra miliare nella lotta contro l’evasione fiscale», è stato possibile grazie al fatto che Austria e Lussemburgo hanno rinunciato ad opporre il veto che avevano mantenuto per anni contro qualsiasi decisione in materia. La svolta è maturata dopo che in seno all’Ocse e al G-20 si era formato un consenso generale tra i governi interessati per generalizzare lo scambio di informazioni in modo da mettere un freno all’evasione fiscale.

La direttiva, che era stata proposta più di un anno fa dalla Commissione europea, entrerà in vigore al primo gennaio dell’anno prossimo. Ma il meccanismo di scambio automatico, che richiede l’adozione di uno speciale software da parte delle amministrazioni fiscali degli stati membri, diventerà operativo solo entro il 2017. L’Austria, che ieri ha dato il proprio accordo politico all’intesa, ha chiesto e ottenuto una proroga dì un anno per adeguarsi alle nuove norme, e dunque entrerà a far parte del sistema solo a partire dal 2018. Il Lussemburgo, invece, ha fatto sapere che si adeguerà al sistema di scambio automatico entro i tempi previsti.

L’accordo, naturalmente, aumenta enormemente la pressione sugli altri paradisi bancari del Continente. La Commissione europea ha ricevuto mandato dal Consiglio di chiudere i negoziati per cooptare nel meccanismo di informazioni la Svizzera, San Marino, il Liechtenstein, il principato di Monaco e Andorra. I governi di questi cinque Paesi hanno già, in linea di principio, accettato di adeguarsi alla nuova normativa europea e all’accordo delineato in sede Ocse, anche se c’è da aspettarsi che alcuni cercheranno di guadagnar tempo. Forse un po’ ottimisticamente, la Commissione ha comunicato che conta di chiudere il negoziato con questi Paesi entro la fine dell’anno. Ieri tra l’altro, il Consiglio sotto presidenza italiana ha anche concluso con la Svizzera un accordo che pone fine al contenzioso tra la Ue e la Confederazione sulla tassazione delle imprese, e che riguardava un regime fiscale particolarmente favorevole che la Svizzera applicava alle società che trasferivano la propria sede sul suo territorio. Un regime che molti governi europei consideravano come una forma di «concorrenza fiscale» sleale.

Tre assunti al prezzo di due, grazie ai contributi azzerati

Tre assunti al prezzo di due, grazie ai contributi azzerati

Marco Sodano – La Stampa

Risparmiare quasi novemila euro su una busta paga che al lordo ne costa 22mila: ecco cosa vuol dire, tradotto in cifre, l’annunciato azzeramento dei contributi per i neoassunti. Un impresa che abbia programmato – poniamo – due assunzioni ne potrà fare, con gli stessi soldi, tre. Almeno, sempre stando all’annuncio dato dal premier Matteo Renzi, nei primi tre anni di lavoro dei nuovi arrivati. Il taglio complessivo del costo del lavoro arriverebbe al 35%. Cifre che lasciano prevedere un grande successo per il contratto a tutele crescenti che il governo si prepara a far diventare legge con il Jobs Act.

Certo, al momento degli annunci seguirà per forza di cose la fase della calibratura: probabile che l’azzeramento vero e proprio, fatti i conti, sia possibile solo per alcune fasce di reddito. Altre potrebbero avere sconti meno consistenti, ma la base è quella di un intervento davvero incisivo. Resta da capire se i numeri reggeranno alla prova della calibratura. Scettica Susanna Camusso: «La domanda è come verrà compensato l’azzeramento. Dire che non si pagano dei contributi significa dover governare una copertura previdenziale per questi lavoratori». Il ministro del Lavoro Poletti garantisce: «I contributi saranno pagati comunque, dallo Stato». Tuttavia, il segretario della Cigl sostiene che la cifra messa sul piatto, un miliardo e mezzo, sarebbe più efficace «se utilizzata in un piano di assunzioni e lavori da fare».

La Fondazione Hume ha provato a fare due conti (sia pure con gli elementi, non precisissimi, a disposizione), rifacendosi ai dati disponibili (anno 2013). I numeri del Ministero del Lavoro parlano di quasi 1,6 milioni di assunzioni, quelli dell’Istat che lo stipendio netto medio era di mille euro. A queste condizioni, applicare la decontribuzione a una platea così ampia costerebbe nove miliardi l’anno. Più che troppo. È però anche vero che qualcuno potrebbe aver trovato più di un lavoro: i dati parlano di assunzioni, non di persone. Considerando allora solo gli assunti a tempo indeterminato nel 2013 che nel 2014 non avevano cambiato o perso il lavoro il costo complessivo di una decontribuzione totale assomma a 3,7 miliardi l’anno.

Bisognerà infine valutare anche altre variabili: anzitutto, lo sconto sarà applicabile solo ai nuovi contratti a tutele crescenti, e quindi non prima che il Job Acts sia diventato legge, nei primi mesi dell’anno prossimo (e questo potrebbe voler dire che nel 2015 basteranno 700 milioni). In secondo luogo, che le cifre prese in considerazione dalla Fondazione Hume riguardano le assunzioni effettive del 2013. La decontribuzione è studiata per aumentare il numero dei neassunti. Più funziona più costa.

Riforme alla prova

Riforme alla prova

Giuseppe Turani – La Nazione

Giorgio Squinzi, che è un uomo prudente e presidente di Confindustria, di fronte alla manovra (annunciata) di Renzi arriva a esclamare: realizzato il nostro sogno. Esattamente l’opposto di come reagisce la Cgil di Susanna Camusso: manifestazione il 25 e poi, probabilmente, sciopero generale. La manovra, per come è stata spiegata, sembrerebbe perfetta (o quasi). Renzi pare avere convinto anche quelli dell’agenzia di rating Moody’s. Si tratta di 30 miliardi in uscita e in entrata, una manovrona quindi. Ma, soprattutto, non si vedono tasse o altri aumenti di balzelli

I 30 miliardi in entrata vengono recuperati sostanzialmente in due modi: un po’ di debiti in più (11,5 miliardi), nel senso che si alza il disavanzo, e dai tagli di spesa (13,3 miliardi, a carico di regioni, comuni, province e ministeri). In più ci sono altre piccole voci (lotta all’evasione, slotmachine, detrazioni, eccetera). I vari enti locali stanno già urlando, ma poiché sono dei noti spendaccioni qualche taglio va bene. In sostanza, tutto a posto. A patto che queste cifre diventino poi realtà vera. Tagliare 13,3 miliardi di spesa pubblica non è facile come dirlo. Soprattutto se va tutto a carico di ministeri ed enti locali. Il sospetto è che poi, in corso d’opera (come si suole dire) i 13,3 miliardi diventino magari solo cinque è forte. E un po’ spiace che i tagli avvengono ‘ritagliando’ i finanziamenti alla struttura pubblica esistente senza intaccarla: tutti sappiamo che c’è molto da sfoltire, ma qui si riducono solo un po’ i finanziamenti. Comunque, meglio di niente. O di una manovrina da 14 miliardi.

Interessante anche il modo in cui verranno spesi questi soldi. Le due voci più importanti sono: 10 miliardi per i famosi 80 euro e 6,5 miliardi per un’ulteriore riduzione dell’Irap. Poi c’è anche il no-contributi per i primi tre anni, quando un’impresa fa un’assunzione a tempo indeterminato. A sentire gli annunci di Renzi, quindi, non ci sono nuove tasse (anzi c’è una robusta riduzione) e invece ci sono sgravi e aiuti per il lavoro (e infatti lui ha gridato agli industriali: adesso non avete più scuse, assumete). Più che comprensibile, quindi, l’entusiasmo di Squinzi e degli imprenditori: per la prima volta non si parla di nuove tasse e, anzi, gliene vengono tolte un po’. Sull’altro fronte la Cgil della Camusso si dichiara invece totalmente insoddisfatta più che altro perché Renzi non rinuncia a cancellare il famoso articolo 18 e perché, a detta della Cgil, si andrebbe verso un’ulteriore precarizzazione del lavoro.

È questa la scossa di cui aveva bisogno l’economia italiana per rilanciarsi? No. Serviva molto di più. Soprattutto serviva mandare un segnale che la struttura della pubblica amministrazione cambia, che si chiudono un po’ di società locali e che si va a scavare a fondo nella spesa sanitaria delle Regioni, un noto luogo di sprechi e imbrogli. E magari, anche l’annuncio che la complicatissima struttura amministrativa dello Stato italiano veniva un po’ semplificata. Però, se quello che è stato annunciato verrà fatto davvero, siamo già sulla buona strada.

Una frustata chiamata Irap

Una frustata chiamata Irap

Il Foglio

Matteo Renzi ha annunciato un progetto strutturale di grande importanza, ossia l’abolizione dell’Irap sui costi del lavoro, che consentirebbe di togliere di mezzo una tassazione dei costi di produzione che va pagata anche dalle imprese che sono in perdita. L’onere di questa abrogazione sarebbe complessivamente di 6,5 miliardi, secondo i calcoli del Sole 24 Ore. Ma ciò comporterebbe di immaginare che venga abrogato lo sgravio dello scorso anno, che dovrebbe valere circa 2,5 miliardi. E probabilmente ciò ancora non basterebbe, dato che attualmente il gettito sul lavoro dell’Irap è attorno ai 12-13 miliardi.

C’è. dunque. nell’immediato, un problema di copertura. Ma la linea che viene adottata è quella giusta e potrebbe essere completata in un biennio, anziché in un anno, con effetti equivalenti, purché il provvedimento sia reso certo e non sia coperto con imposte sul contribuente italiano, ma con una riduzione delle spese o con privatizzazioni e condoni che sterilizzano l’effetto negativo sul pil, generando un rientro di entrate permanenti (come nel caso degli accordi sul rientro di capitali tenuti in Svizzera). Una volta abrogata la tassazione dei costi del lavo- ro con l’Irap ci sarà il problema di dare alle regioni un contributo equivalente, da destinare alla spesa sanitaria, senza però aumentare l’ammontare dei contributi sociali. Cio puo avvenire togliendo da quelli nazionali, le aliquote che non hanno una base nel diritto a pensioni o indennità di malattia oppure invalidità. L’Irap rimanente è un tributo sul reddito, detraibile per gli accordi internazionali sulla doppia imposizione.

Questa riforma, così, può avere un importante effetto sugli investimenti in Italia da parte delle imprese multinazionali il cui carico fiscale risulterà così ridotto sia sul lavoro sia sul profitto. E, allo stesso modo, favorirà il mantenimento in Italia delle produzioni di servizi di lavoro qualificato, come ad esempio quelli dei centri manageriali e di ricerca, delle attività finanziarie e delle aziende che producono beni di qualità che maggiormente contribuiscono alle esportazioni, come molte dell’elettronica e della meccanica. Certo, rimangono ancora interrogativi a cui rispondere a partire da quello sull’onere da coprire e sul modo di finanziario. Ma la spinta strutturale alla crescita con occupazione può essere molto rilevante grazie alla mossa di Renzi.

In cerca di coperture

In cerca di coperture

Dino Pesole – Il Sole 24 Ore

Una manovra “espansiva” per sostenere la domanda interna attraverso la doppia operazione Irpef-Irap è tale solo se si basa su coperture certe. È il compito con il quale si stanno misurando in queste ore i tecnici dell’Economia. Con alcune incognite che andranno chiarite nelle prossime ore. Poiché la legge di stabilità oggi all’esame del Consiglio dei ministri per 11,5 miliardi è finanziata in deficit, vi è da supporre che il governo abbia su questo punto ottenuto una via libera (ancorchè informale e non ancora ufficiale) da Bruxelles. La conferma che staremo comunque sotto il 3% anche nel 2015 è da questo punto di vista una garanzia, fermo restando che è tuttora sub iudice il giudizio che la Commissione esprimerà a novembre, relativamente alla deviazione decisa dall’Italia, rispetto al target del deficit strutturale. Il negoziato – a tratti “muscolare” ma che corre per le vie ordinarie nella sostanza – è in corso, ed è probabile che il compromesso venga alla fine raggiunto (ma non subito) sullo 0,25% di impegno aggiuntivo chiesto già in via informale nei giorni scorsi. Stando alle ultime indiscrezioni, il governo avrebbe già individuato una sorta di «dote di riserva» in manovra per farvi fronte. Sul tutto aleggia la vera questione: appunto le coperture, fondamentali per la sostenibilità dell’intera manovra. Il focus è allora tutto sull’imponente riduzione della spesa corrente annunciata due giorni fa dal presidente del Consiglio, Matteo Renzi: 16 miliardi.

Alla spending review è affidato il compito di stabilizzare il bonus Irpef da 80 euro per i redditi fino a 26mila euro, e finanziare la più importante novità emersa finora dal work in progress della manovra: l’eliminazione della componente del costo del lavoro dal calcolo della base imponibile Irap, per un totale di 6,5 miliardi. E poi l’annuncio, anch’esso importante, della totale decontribuzione per tre anni per i nuovi assunti. Misure fondamentali, a lungo rivendicate dalle imprese, passaggio importante per cominciare a ridurre una pressione fiscale complessiva che, se si guarda al cosiddetto total tax rate calcolato dalla Banca mondiale in percentuale sui profitti, supera l’impressionante percentuale del 65 per cento. Una scommessa da giocare con coraggio e decisione. L’assoluta certezza delle coperture è precondizione essenziale per rendere credibile ed efficace l’intera manovra. Meno spesa corrente per finanziare il taglio delle tasse: assioma fondamentale, più volte indicato dalla Banca d’Italia, ma anche dalle principali istituzioni internazionali, dal Fmi all’Ocse. Ad adiuvandum, a consuntivo, la dote complessiva delle risorse a disposizione potrà giovarsi dei proventi recuperati dalla lotta all’evasione. Sarà una vera «spending review», che azioni il bisturi del taglio selettivo, in un’ottica di razionalizzazione e redistribuzione delle risorse? La logica dei tagli lineari, la più adottata finora, comporta al contrario diversi rischi: poiché si colpiscono anche le spese “buone”, l’effetto può essere anch’esso recessivo.

L’attesa sulla composizione dei tagli è dunque pienamente giustificata. Una volta approvata la manovra, la partita a ben vedere sarà ancora al fischio d’inizio, poiché una così imponente sul fronte della spesa, per passare indenne dalla probabile raffica di emendamenti che la investiranno nel corso dell’esame parlamentare, necessita di una maggioranza assolutamente coesa. È lecito prevedere fin d’ora che soprattutto al Senato non sarà propriamente una passeggiata. Il lasso di tempo che il governo si accinge a ritagliare tra il varo della legge di stabilità e la trattativa vera e propria con Bruxelles dovrebbe servire appunto (anche per effetto della spending review) a superare le residue obiezioni sulla decisione del governo di rinviare il pareggio di bilancio al 2017, con annessa la scelta di confermare (al momento) allo 0,1% del Pil la correzione del deficit strutturale per il prossimo anno. Si invocano, e a ragione, le circostanze eccezionali previste dall’attuale disciplina di bilancio europea. Se il punto di caduta sarà sui 2-2,4 miliardi chiesti alla fine da Bruxelles, la soluzione di compromesso è a portata di mano. E così a novembre la nuova Commissione europea potrà difendere, almeno formalmente, il suo ruolo di guardiano dei conti, rinviando di fatto alla prossima primavera il giudizio più completo e articolato sia sulla legge di stabilità che sulla persistenza degli «squilibri macroeconomici eccessivi», denunciati lo scorso marzo. E il governo potrà comunque salvaguardare nella sostanza l’integrità della sua manovra “espansiva”.

Lo scambio utile con Pechino

Lo scambio utile con Pechino

Giuliano Noci – Il Sole 24 Ore

Li Keqiang compie molto più di una visita di cortesia nel l’Italia del vertice Asem. Il suo arrivo rafforza un’operazione di shopping portata avanti dalle imprese (di Stato) dell’ex Impero di mezzo. Ma non solo. Le recenti acquisizioni di quote minoritarie (2%), ma in valore assoluto importanti, di Telecom, Enel, Eni devono essere interpretate in una logica di diversificazione del portafoglio di investimento dei cinesi e in ambiti ritenuti a basso rischio.

Se consideriamo che fino a un paio di anni fa l’Italia era fuori dal radar degli investimenti della Cina, l’iniezione di capitali da un Paese in possesso di enorme liquidità è benvenuta. L’Italia deve trasformare l’interesse che proviene dalla seconda economia più importante del pianeta e dal suo immenso mercato in un’opportunità per le nostre imprese. Lo può e lo deve fare giocando al meglio e in modo sistematico la partita di questa relazione con le sue carte migliori: i tesori di famiglia, le complementarità che sussistono tra i due Paesi, un portato di valori e di qualità della vita che interessa oggi più che mai alla Cina, la capacità di innovazione. Carte che consentono un gioco ben più ambizioso di quello che ci colloca, ora ,al 21° posto tra i partner commerciali in ingresso e al 25° tra quelli in uscita del Dragone. Per quanto il nostro sistema agroalimentare e il sistema moda/alto di gamma rappresentino l’eccellenza italiana, quasi il 40% dei circa 19 miliardi di nostre esportazioni in Cina sono dovute a: meccanica di precisione, macchinari per l’industria, veicoli industriali e sistemi dell’automazione. Prodotti e tecnologie di grande interesse per il tessuto industriale cinese con il quale sviluppare innovazione.

La seconda carta è la complementarietà nel modo di fare business. La Cina è un Paese a forte vocazione dirigista, e con una capacità unica al mondo di sviluppare specializzazione verticale, sfruttare opportunità puntuali di mercato e sviluppare campioni nazionali e colossi internazionali. Ha tuttavia, per fattori dimensionali e culturali, meno efficacia nella diversificazione e nell’innovazione creativa. Mentre noi siamo la patria delle Pmi di eccellenza, di un’imprenditoria abituata a fare di necessità virtù e a conseguire risultati straordinari con risorse limitate; un’imprenditoria che ha però conosciuto fenomeni di scarsa managerializzazione che ne hanno limitato la crescita e condannato alcuni comparti a un nanismo limitante di fronte a mercati sconfinati come quelli asiatici. Cina e Italia hanno l’opportunità di compendiare i rispettivi punti di forza e superare i reciproci punti di debolezza.

C’è poi un asso: la nostra eccellenza in ambiti di primario interesse per lo sviluppo cinese. Proprio sul Sole 24 Ore, il premier Li ha delineato ambiti di collaborazione nell’agricoltura, nell’aerospaziale, nello urban planning, nelle tecnologie ambientali e nella sanità. Non solo settori dell’eccellenza italiana, ma segmenti costitutivi di uno stile di vita italiano affermatosi in Cina e nel mondo. Infine la percezione della qualità delle nostre marche: dai beni di largo consumo fino al tessile (oltre 4 miliardi di export in Cina nel 2013). Un’immagine positiva fondamentale per le imprese cinesi che vogliono affermarsi in un mercato interno che non associa ai produttori cinesi, in comparti delicati come i prodotti per l’infanzia e l’agroalimentare, standard di qualità di cui potersi pienamente fidare e che può abilitare la diffusione di tecnologie innovative made in China nel mondo. E in questo periodo storico, lo sviluppo di innovazione di successo è il vero mantra per l’economia cinese.

Abbiamo una chance straordinaria davanti a noi: rendere sistematico un dialogo strategico con l’ex Impero di mezzo di cui entrambe le parti potrebbero giovarsi. Mettendo in campo una discontinuità nel metodo e nei contenuti. Nel metodo, con la definizione di un progetto-Paese rispetto alla Cina, una strategia propositiva che, grazie al coinvolgimento di università e del mondo delle imprese, con la regia del Governo, dia continuità al processo di internazionalizzazione avviato. Nel merito, è importante tener conto dell’orizzonte plurale dei prodotti industriali italiani: non solo il made in Italy, che pure fa brillare la stella della nostra immagine nel mondo ma anche le eccellenze tecnologiche che contraddistinguono larga parte del nostro manifatturiero, eccellenze importanti per i cinesi e che dobbiamo saper proporre affermando la logica dello scambio del nostro know-how con l’accesso al loro mercato. Se questa sarà la direzione, i bilaterali di questi giorni e il Forum per l’Innovazione, che Milano e il suo Politecnico ospitano, possono far splendere il sole di questa relazione. La Cina porterebbe alla qualità italiana i numeri del mercato e del buon investimento che caratterizzano la sua grandezza. La forza di un fare mercato insieme potrebbe contribuire a dinamiche più profonde. Per quanto la storia non si ripeta e la Cina sia – come è giusto che sia – quel che decide di essere, il mercato potrebbe far nascere una nuova Cina della società civile.