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Ridare fiducia a imprese e famiglie

Ridare fiducia a imprese e famiglie

Vincenzo Chierchia – Il Sole 24 Ore

Si allunga l’ombra dello spettro della deflazione, ossia del calo generalizzato dei prezzi al consumo, scenario che suscita non pochi grattacapi, per l’effetto deprimente su consumi interni già ai minimi e per i contraccolpi negativi sulle attese degli operatori economici. Si rafforzano dunque le richieste al Governo di interventi a sostegno della domanda interna mentre le imprese chiedono sostegni agli investimenti. L’obiettivo è quello di spezzare quel circolo vizioso all’interno del quale ci stiamo lentamente avvitando: prezzi in calo, domanda debole, attese sempre più negative sulle opportunità offerte alle imprese e sulle prospettive di reddito delle famiglie.

Certo, non va dimenticato che il dato sull’inflazione di settembre è stato condizionato dalla flessione dei beni energetici e delle comunicazioni. Restano invece in tensione, sia pure con incrementi da prefisso telefonico, i prezzi rilevati dall’Istat per capitoli importanti come istruzione e ristorazione (compresi i servizi ricettivi). Gli alimentari scontano qualche tensione dovuta al maltempo che ha interessato soprattutto i prodotti freschi. Il punto è che ci avviciniamo sempre più all’inflazione zero, se guardiamo al dato di fondo (core), ossia alla dinamica dei prezzi al consumo depurata da componenti più volatili come l’energia. Un obiettivo agognato in Italia negli anni dei prezzi galoppanti, della sindrome sudamericana peraltro molto cavalcata all’epoca dalla politica. Oggi ci fa più paura la deflazione perché è sintomo di paralisi del sistema economico, sempre più immobilizzato nelle spire di una stagnazione che si sta rivelando quasi endemica.

Cosa fare allora? Dobbiamo spezzare le catene e dare una scossa al sistema, ma non basta. Dobbiamo ridare fiato alle aspettative, ma ci vogliono interventi su più fronti. Gli operatori commerciali lamentano appunto che i prezzi scendono ma i carrelli sono vuoti. Beni e servizi costano meno in media, è vero, ma il punto è che le famiglie non se ne accorgono o quasi. I depositi in banca aumentano ma certo non per far salire la quota di consumo. Ci può forse consolare il fatto che la stagnazione investe anche il resto d’Europa? Che i nostri cari amici tedeschi soffrano anche loro? Che i nostri cugini francesi abbiano più o meno le nostre stesse difficoltà? La Banca centrale europea sta cercando di intervenire in maniera massiccia per immettere benzina nel sistema economico continentale facendo tra l’altro leva sul fatto che l’obiettivo di inflazione è più lontano. Ma finora non c’è stata una reazione forte. Serve tempo si dirà. Se Francoforte da un lato e i Governi nazionali ci si mettono d’impegno dall’altro la ripresa non può tardare. A quel punto però conteranno le riforme strutturali dei vari sistemi nazionali. È questa la scossa da dare. Occorre far capire che si sta intervenendo nel profondo e che si aprono nuovi spazi a una maggior fiducia sulle prospettive del Paese e così dell’intera Ue.

La scatola nera dell’economia tedesca

La scatola nera dell’economia tedesca

Carlo Bastasin – Il Sole 24 Ore

Bisogna grattare la superficie dell’economia tedesca per capire come sia possibile che questa macchina potente, lanciata a piena velocità a inizio anno, si sia piantata nel corso del secondo e del terzo trimestre. Ufficialmente la responsabilità viene attribuita alla cattiva congiuntura nei Paesi partner: la crisi tra Russia e Ucraina ha avuto ripercussioni immediate sul commercio con la Germania; la Cina che conta per il 10% dell’export tedesco sta operando una trasformazione strutturale del proprio modello economico e punta più di prima sulla domanda interna; intanto l’area euro che ha sempre accolto almeno il 40% delle esportazioni tedesche è scesa al 35,5%. Per la prima volta da molti anni, il commercio estero sta dando un contributo netto negativo alla crescita tedesca.

Ma come è possibile che questo effetto si sia tradotto di colpo in una recessione tecnica negli ultimi due trimestri? L’incertezza che ha colpito le esportazioni del Mittelstand, il settore delle medie imprese con scarsa propensione all’apertura del capitale, si è ripercossa sul proprio primario canale di finanziamento, quello che passa dalle Sparkassen, le Casse di risparmio, fino alle Landesbanken. Si tratta degli stessi istituti di credito dai quali in passato era originato l’accumulo di attività tossiche nel sistema bancario tedesco, addirittura precedente alla crisi di Lehman. Per anni, per tutelare questi istituti poco trasparenti, Berlino ha frenato ogni accordo con i partner sui sistemi di supervisione e risoluzione comune delle banche europee. Da allora le Sparkassen sono rimaste una “scatola nera” legata non solo alle imprese, ma attraverso le Landesbanken anche al sistema dei partiti e dei governi regionali.

La scatola è rimasta nera anche con l’avvio dell’unione bancaria visto che il governo tedesco è riuscito a escludere quasi tutte le casse di risparmio dalla supervisione comune, assicurando a esse il proprio sostegno fiscale in caso di crisi. Ora che l’economia si è fermata, in ampi settori del credito tedesco si è posto il problema del l’incerta capitalizzazione di istituti che si affidano a un sistema oscuro di riserve silenziose. L’incertezza, partita dalle esportazioni, si è ripercossa così al cuore di tutto il sistema finanziario tedesco. La difficoltà è aggravata dall’impossibilità per le casse e per le compagnie di assicurazione di rimanere profittevoli investendo in titoli pubblici ora che i rendimenti dei bund sono vicini a zero. Non a caso le associazioni bancarie tedesche, spalleggiate dalla Bundesbank, attaccano la Bce per la politica dei tassi bassi definendola cosmesi finanziaria a favore dei paesi deboli. In realtà, secondo la Bundesbank, senza rendimenti più alti dei titoli pubblici un terzo delle compagnie di assicurazione tedesche potrebbe sparire nel giro di dieci anni. Le prestazioni pensionistiche che esse si sono già impegnate a versare nel futuro sono troppo alte per la loro capacità di fare profitti. Le famiglie tedesche vedono così le proprie pensioni in pericolo e questo frena la loro volontà di spesa, comprimendo anche la domanda interna oltre a quella estera.

Da qui lo stallo di tutta l’economia. Improvvisamente, le difficoltà delle banche regionali – da sempre la mucca da latte della politica locale tedesca – stanno trovando ascolto nei politici a capo dei Laender. Per la prima volta da anni nel Partito socialdemocratico si risente la voce di chi chiede alla Grande coalizione di rimettere come priorità il rilancio della crescita. Ma la stessa urgenza è stata condivisa vivacemente dal capo dei conservatori bavaresi e trova eco in un numero crescente di cristiano-democratici. Perfino la cancelliera Merkel pare irritata dallo sbarramento che la Bundesbank sta opponendo ai tentativi di soluzione proposti dalla Bce.

In mezzo a questo ingranaggio si è incastrato il ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble. Il ministro ha fatto del surplus del bilancio pubblico il proprio obiettivo politico per il 2014. Si tratta di un traguardo storico che in Germania manca dal 1969. In tal modo però si è precluso la possibilità di contrastare con spesa pubblica il rallentamento della macchina tedesca. Il governo si nasconde dietro alle previsioni ufficiali sulla crescita che rimangono molto vicine al tasso di crescita potenziale. Chi guarda dietro le cifre tuttavia nutre dei dubbi: la crescita del 2014 è sostenuta dall’arrivo di 50mila lavoratori immigrati, ma ogni anno la forza lavoro tedesca diminuisce di 200mila unità. L’introduzione del salario minimo dal 2017 non avrà effetto a Ovest ma si farà sentire sul costo del lavoro dei nuovi Laender. La politica energetica infine sta creando costi gravosi a carico delle imprese manifatturiere che spesso infatti preferiscono non investire in Germania, bensì oltre Oceano. Per la prima volta, l’intransigenza fiscale di Schaeuble appare come un puro obiettivo politico a scapito della convenienza economica. Le critiche raccolte dal ministro a Washington nell’ultima visita sono state vigorose e Merkel nutre il timore di passare alla storia come il cancelliere che ha affossato l’Europa. Forse per questo insieme di ragioni a Berlino si fa largo l’idea di non insistere troppo nel criticare la Francia per lo stimolo fiscale che vuole dare alla propria economia e indirettamente a quella tedesca.

Il vero peso delle misure in arrivo

Il vero peso delle misure in arrivo

Luca Ricolfi – La Stampa

Nel giro di pochi giorni la cosiddetta «manovra» per il 2015 è passata da 20 a 30 miliardi di euro. Secondo Renzi «si tratta della più grande operazione di taglio di tasse tentata in Italia e di una spending review mai vista». Ma in che cosa consiste la manovra? Se dovessi spiegarla ai miei studenti la metterei così. Cari ragazzi, quando un governo fa una manovra ci sono sempre un lato propagandistico e un lato effettivo. Sono importanti entrambi, ma vanno tenuti ben distinti. Il lato propagandistico è rilevante perché serve a comunicare le priorità del governo. Con la manovra annunciata ieri, Renzi ci dice tre cose tutte e tre sacrosante e condivisibili. Primo: che vuole ridurre drasticamente gli sprechi della Pubblica amministrazione, con una spending review di 13,3 miliardi. Secondo: che vuole ridurre drasticamente le tasse, con sgravi pari a 18 miliardi di euro (di cui 10 per il rinnovo del bonus da 80 euro). Terzo: che vuole azzerare i contributi per i nuovi assunti a tempo indeterminato.

Fin qui tutto bene, il messaggio è chiaro, anche se in conflitto con quanto annunciato in precedenti occasioni e documenti ufficiali (nell’ultima intervista sulla spending review, ad esempio, i miliardi risparmiati non erano 13,3 ma 20, dopo essere stati 17 fino al giorno prima). Adesso però guardiamo il lato effettivo, ossia la sostanza della manovra. Che cosa contiene effettivamente la manovra da 30 miliardi di cui si sta parlando in questi giorni? Per capirlo dobbiamo dimenticare completamente la parte propagandistica e rispondere a tre domande: di quanto diminuiscono le spese totali della Pubblica amministrazione? Di quanto diminuiscono le entrate? È realistica la promessa di azzerare i contributi sociali ai nuovi assunti a tempo determinato?

Ed ecco le risposte, o meglio quel che si riesce a capire in attesa di un documento ufficiale. Le spese della Pubblica amministrazione non si riducono affatto di 13,3 miliardi ma solo di 4,1 miliardi, perché accanto ai 13,3 miliardi di tagli programmati ve ne sono 9,2 di nuove spese, come il finanziamento degli ammortizzatori sociali, gli obblighi contratti dal governo Letta, o le cosiddette spese inderogabili. Le tasse pagate dagli italiani non si riducono affatto di 18,3 miliardi, perché gli sgravi promessi sono bilanciati da 5,2 miliardi di nuove entrate, e quindi la riduzione effettiva della pressione fiscale scende a 13,1 miliardi di euro (che comunque non è poco). Va da sé che la differenza fra minori tasse (13 miliardi di sgravi) e minori spese (4 miliardi di riduzione della spesa pubblica) verrà coperta in deficit, ovvero messa in conto alle generazioni future. Quanto alle assunzioni a zero contributi bastano alcuni semplici calcoli per scoprire che potranno riguardare al massimo 1 caso su 10, ossia 100-150 mila persone su oltre 1 milione e mezzo di assunzioni a tempo indeterminato.

Fin qui i conti nudi e crudi. Ma, al di là delle cifre, che giudizio si può dare della manovra? Difficile fare valutazioni senza un testo ufficiale. Per quel che riesco a capire, l’idea del governo è che aumentando il deficit di circa 10 miliardi e ritoccando la struttura del bilancio pubblico si possa dare una spinta significativa alla domanda interna. E’ una linea di keynesismo debole (facciamo deficit, ma non troppo) che mi auguro possa funzionare, ma che si espone ad almeno un paio di obiezioni.

La prima è che aumentare il deficit di «soli» 10 miliardi, e ridurre la pressione fiscale di soli 13 miliardi, potrebbe non bastare a far ripartire i consumi ma potrebbe essere più che sufficiente a far ripartire lo spread, con conseguente ulteriore aggravio dei conti pubblici. Non so perché così pochi osservatori lo facciano notare, ma è da circa un mese che la tendenza dello spread dei titoli di Stato italiani è all’aumento, ossia al peggioramento. Ed è da sei mesi che i mercati hanno ricominciato a differenziare i rendimenti richiesti ai vari Paesi dell’euro, un comportamento che nel 2011 ha preceduto e annunciato la bufera finanziaria che portò alla caduta di Berlusconi e all’insediamento di Monti. In questo senso la mossa di Renzi di aumentare il deficit anziché ridurlo potrebbe rivelarsi un azzardo.

La seconda obiezione è che il meccanismo previsto per stimolare le assunzioni, ossia la cancellazione dei contributi sociali per gli assunti a tempo determinato, ha tre difetti abbastanza gravi: riguarda pochissimi lavoratori (perché con 1 miliardo non si può fare molto), non si finanzia da sé (perché non aumenta in modo apprezzabile il Pil), ha effetti occupazionali trascurabili (perché non è vincolato al requisito di aumentare gli occupati).

È proprio per evitare simili inconvenienti che, nei giorni scorsi, su questo giornale abbiamo provato ad aprire una discussione su una proposta alternativa, quella di un contratto a decontribuzione totale ma riservato alle imprese che incrementano l’occupazione (il job-Italia). Un contratto che, secondo le stime della fondazione David Hume, creerebbe almeno 300 mila nuovi posti di lavoro all’anno, e non costerebbe nulla allo Stato. Non so se la nostra proposta sia la più efficace possibile, ma resto convinto che creare nuovi posti di lavoro, tanti nuovi posti di lavoro, sia una priorità assoluta per il nostro Paese, perché è la mancanza di lavoro l’elemento che più differenzia noi (e la Grecia) da tutte le altre economie avanzate. E’ questo, a mio parere, il terreno più importante su cui la manovra andrebbe giudicata: perché è questo il terreno su cui si gioca il futuro dell’Italia.

Fisco senza segreti in Europa

Fisco senza segreti in Europa

Tancredi Cerne – Italia Oggi

Intesa raggiunta a livello Ue sullo scambio di informazioni fiscali. I ministri dell’Economia e delle finanze riuniti ieri a Lussemburgo in occasione dell’Ecofin hanno approvato l’Administrative Cooperation Directive – 2011/16/EU, ovvero la normativa che consente alla Ue di adeguarsi agli standard Ocse in materia di trasparenza fiscale. Un vero e proprio decalogo della lotta all’evasione, contenente dettagli di natura pratica sulle regole che dovranno seguire le amministrazioni per condividere i dati fiscali con una controparte europea. Ma solo a partire dal 2017 quando i 27 paesi firmatari dell’accordo inizieranno a scambiare in via automatica le informazioni fiscali su individui, fondi ed entità, dando vita alla «piena trasparenza fiscale in Ue». Unico grande escluso, l’Austria che ha ottenuto un posticipo di un anno (fino al 2018) per l’entrata in vigore della nuova direttiva.

Lo storico annuncio è arrivato ieri per bocca del ministro dell’economia e delle finanze italiano, Pier Carlo Padoan, presidente di turno dell’Ecofin. «Abbiamo un accordo a 27 paesi tranne uno che si è impegnato ad assicurare la sua partecipazione quando avrà risolto questioni tecniche», ha dichiarato il ministro definendo l’intesa «un traguardo politico molto importante. L’accordo è una riforma strutturale a livello internazionale che cambierà i comportamenti e farà uscire imprese e singoli dalla tentazione di evadere il fisco». Alle parole di Padoan hanno fatto eco quelle del Commissario agli Affari fiscali dell’Ue, Algirdas Semeta che ha decretato «la morte del segreto bancario in Europa». L’intesa politica raggiunta ieri sarà perfezionata per quanto riguarda la stesura in termini legali delle norme nella riunione Ecofin di novembre o dicembre.

Statali, un esercito in ritirata

Statali, un esercito in ritirata

Giusy Franzese – Il Messaggero

Colletti bianchi e tute blu in picchiata. Le politiche di austerity con il blocco del turnover nel settore pubblico e la crisi nera nel settore privato stanno decimando i principali due battaglioni dell’esercito dei lavoratori italiani: travet e operai. Ma copiose sono anche le emorragie in altri comparti: dagli apprendisti alle colf, fino ai lavoratori autonomi. A fotografare disagi e difficoltà di un’Italia stremata dalla lunga crisi è il bilancio sociale Inps 2013 illustrato ieri a Roma. Una presentazione interrotta (e poi ripresa) dalle proteste di alcuni precari che hanno fatto irruzione sul palco contestando il ministro del Welfare Giuliano Poletti e il Jobs act.

Emorragia di statali
Nel 2013 i dipendenti pubblici sono calati di altre 64.000 unità, proseguendo un trend iniziato già da anni. Basti pensare che nel 2008 erano 3 milioni e 436.000 e adesso sono 3 milioni e 39.536. La flessione comunque inizia a rallentare: nel 2012 il calo era stato doppio (130.000). In realtà il 2013 è stato l’annus horribilis soprattutto per gli operai: i dipendenti privati sono diminuiti di 313.000 unità, di questi ben 230.000 sono tute blu (-3,5%). Le aziende non assumono più nemmeno gli apprendisti (-4%) e crollano anche i lavoratori auto- nomi (-15,7% gli iscritti alla gestione separata dell’Inps). Con l’aumento dei disoccupati sono lievitate le spese per gli ammortizzatori sociali, arrivate a 23,5 miliardi di euro (+4,1%). Tra cassa integrazione, disoccupazione e mobilità l’Inps ha assistito ben 4,5 milioni di persone (mezzo milione in più rispetto al 2012).

Italiane con la ramazza
Per tamponare le minori entrate familiari e le paure di un futuro opaco, le famiglie hanno iniziato a risparmiare nella spesa per aiuti domestici, le colf per molti sono diventate un lusso che non ci si può più permettere: sono 43.000 in meno rispetto al 2012 (-5,4%). Ma nel saldo si nota anche un altro fenomeno che sembra riportare il calendario a oltre 40 anni fa: aumentano le italiane che per sbarcare il lunario accettano lavori di collaborazione domestica (+2,8% rispetto al 2012). Le colf italiane restano comunque una minoranza: solo il 21% (su un totale di 749.840).

Troppo poveri
Resta sempre troppo affollata la platea di pensionati che vive con meno di mille euro al mese: 6,8 milioni di persone, il 43,5% del totale (erano 7,2 milioni nel 2012) e di questi ben 2,1 milioni non arriva a 500 euro. I pensionati ricchi, con assegni superiori ai 3.000 euro al mese, sono 676.000 (il 4,3%) e assorbono ben 38 miliardi di euro (contro i 52,4 spesi per i 6,8 milioni di pensionati poveri). Intanto iniziano a vedersi i primi frutti della riforma Monti-Fornero: le pensioni liquidate nel 2013 sono costate il 12,7% in meno rispetto al 2012, un risultato ottenuto dal combinato disposto tra il calo del numero dei nuovi pensionati (-5,3%) e la riduzione dell’importo medio mensile (-7,9%). I conti dell’istituto comunque restano in rosso (8,7 miliardi di euro) ma registrano un miglioramento di circa un miliardo rispetto al 2012 quando il disavanzo fu di 9,7 miliardi.

L’ultima beffa agli alluvionati: “Tasse rinviate di un giorno”

L’ultima beffa agli alluvionati: “Tasse rinviate di un giorno”

Stefano Filippi – Il Giornale

Medaglia d’oro e menzione d’onore al prefetto di Genova, che con alta sensibilità e vicinanza alla popolazione colpita dall’alluvione ha concesso ai cittadini, vessati dalle tasse almeno quanto dal maltempo, un rinvio per pagare le cartelle esattoriali di Equitalia. Una dilazione significativa, congrua, adeguata al dramma che la città vive da giorni: 24 ore. Insediatasi il 1° ottobre scorso (ha lasciato Imperia per volontà del ministro Alfano), il prefetto Fiamma Spena non ha voluto mancare l’occasione per manifestare tutta la sua solidarietà ai genovesi. Non poteva trovare modo migliore per presentarsi a loro.

Il decreto porta la data del 12 ottobre, domenica. Tiene conto dell’«emergenza in atto connessa agli eventi alluvionali» e del fatto che «la situazione di Allerta 2 si protrarrà fino alle ore 23.59 di lunedì 13 ottobre»: i tecnici dell’Arpal (Azienda regionale per la protezione dell’ambiente ligure) non saranno abilissimi nel preavvertire la popolazione dei disastri incombenti, ma sono dei fenomeni nelle previsioni. Calcolano al minuto quando le nubi si schiuderanno sul cielo di Genova. Dalla mezzanotte sarà davvero un altro giorno.

E così i contribuenti che il giorno 13 avrebbero dovuto saldare le cartelle esattoriali, esaurita la perturbazione, la mattina del 14 (cioè ieri) non avevano più scuse per non versare il dovuto a Equitalia. La quale, tramite il direttore centrale sicurezza, aveva rivolto al prefetto Spena una «richiesta in tal senso per le vie brevi», cioè senza troppi protocolli. Una telefonata, forse una mail. Ma che bontà d’animo, che attenzione per gli sfollati. Ventiquattr’ore di slittamento. Una beffa per gli alluvionati, come se nel volgere di una giornata tutto possa tornare alla normalità e la gente abbia già voltato pagina, pronta a pagare le tasse. Ventiquattr’ore di proroga, la classica soluzione burocratica che consente di proclamare: «Non è vero che non abbiamo fatto niente per alleggerire i disagi». Genova è ancora sommersa dal fango, la gente impugna ancora i badili per liberare case, strade e negozi, la pazienza sta raggiungendo il limite. Ma la pazienza dei genovesi è sfidata da quest’ultimo schiaffo della burocrazia. Lo Stato è incapace di difendere la popolazione, non ha i soldi per il risanamento idrogeologico, quando riesce a finanziare le opere non riesce a completarle perché i ricorsi, i tribunali, la burocrazia impediscono di dare risposte reali ai cittadini. Il sindaco premia i funzionari comunali che dovevano intervenire e l’hanno fatto nel modo che si è visto. Il premier non si fa vedere tra i carrugi e, al solito, promette. Grillo fa retromarcia e pure lui evita di sporcarsi le mani, a differenza degli «angeli del fango».

Una dilazione di un mese sarebbe stata un segnale di svolta. Uno stato finalmente preoccupato delle condizioni del popolo. E avrebbe anche obbedito al buon senso. Che cosa sarebbe successo se l’Allerta non fosse rientrata? Vista la tempestività con cui (non) vengono diramati gli avvisi, non era un’eventualità così improbabile. Il prefetto avrebbe diramato una seconda ordinanza alle 23:59 e 10 secondi di lunedì notte? Come avrebbe potuto avvertire la cittadinanza? Non era il caso di fissare subito un termine più ampio, in modo che i contribuenti attesi alle forche caudine di Equitalia avessero tutto il tempo di provvedere una volta terminata l’emergenza? No, il rappresentante del governo ha stabilito che il rinvio di un giorno fosse adeguato. E i genovesi, che finora hanno sperimentato l’incapacità dello stato di mettere il territorio in sicurezza, ora sanno che andrà ancora avanti così.

La burocrazia conquista anche il bagno di casa

La burocrazia conquista anche il bagno di casa

Enza Cusmai – Il Giornale

Sarebbe una buona notizia se non ci fosse il rovescio della medaglia che lascia l’amaro in bocca. Da oggi proprietari e inquilini dovranno dotarsi di un libriccino nuovo di zecca dedicato a caldaie, condizionatori e impianti solari in cui dovrà essere redatto il «Rapporto di efficienza energetica». Bene – si può pensare – se serve a evitare incidenti domestici, inquinamento a palla o legionella, male se si scopre che quest’ulteriore certificazione diventa una vera e propria tassa che graverà sulle spalle dei soliti utenti. E se per controllare una caldaia oggi si spende dalle 70 alle 120 euro all’anno, tra poco la cifra raddoppierà. Una vera botta inattesa che fagociterà almeno due o tre mesi della paghetta aggiuntiva di 80 euro versati da Renzi in busta paga per “incentivare i consumi”. Ma questa ennesima certificazione va fatta in nome della sicurezza, della salubrità e dell’igiene (evitare la legionella provocata da un condizionatore sporco). E chi sgarra rischia multe da 500 fino a 3mila euro. Cifra che lievita fino ai 6 mila euro per l’installatore sprovveduto o poco serio. Insomma, sono dolori per tutti e grandi seccature. Ma in nome della sicurezza e della lotta all’inquinamento si fa questo e altro. Ecco i suggerimenti di Domotecnica.

La regola
La norma è prevista nel decreto 10 febbraio 1014 del Ministero dello Sviluppo e ha stabilito che gli impianti termici devono essere dotati del nuovo libretto di impianto nonché degli appositi moduli per il controllo dell’efficienza energetica. La scadenza, fissata a giugno scorso, è stata prorogata al 15 ottobre.

Niente corsa al libretto
Ma da oggi non si scappa. Scattano le nuove regole e bisogna dotarsi del libretto o chiedendolo a chi svolge la manutenzione annuale o acquistandolo in una cartolibreria che vende modulistica. Ma non è ancora chiaro quando debbano essere fatti i controlli. Saranno le regioni a fissarne la periodicità. Dunque non c’è fretta. Bisogna però sapere che nel libretto verranno registrati tutti gli impianti presenti in ogni abitazione: non più solo caldaie e sistemi di riscaldamento, ma anche sistemi di climatizzazione, impianti solari e così via. Inoltre accanto all’efficienza degli impianti, questa nuova disposizione prevede una diagnosi completa che ne andrà a verificare sicurezza, salubrità e igiene.

A chi rivolgersi
Agli installatori abilitati ad operare su impianti di riscaldamento e di climatizzazione. Insomma, basta chiamare il tecnico che vi ha venduto caldaia e condizionatore.

Un controllo costoso
L’esperto deve verificare il rendimento e la salubrità, controllando non solo caldaie e generatori di caldo o freddo, ma ogni componente dell’impianto. Così se la spesa prima variava in media tra i 100 e i 120 euro, con l’aggiunta dei controlli e della sanificazione, prevista dal nuovo libretto, una famiglia con una caldaia collegata a 4/5 caloriferi ed un impianto di climatizzazione con 2 o 3 split verrà a spendere almeno 200 euro.

Periodicità dei controlli
La manutenzione per l’efficienza, e quindi la sua periodicità, rimarrà a discrezione delle singole Regioni e potrebbe variare dai due ai quattro anni (salvo indicazioni diverse). Mentre per tutto ciò che riguarda la manutenzione e la verifica della sicurezza e salubrità spetta al tecnico indicare la frequenza di questi controlli, che sarà prevedibilmente annuale.

Scoperto il tesoro italiano

Scoperto il tesoro italiano

Salvatore Tramontano – Il Giornale

A leggerla così viene quasi da ridere: gli italiani sono i terzi al mondo per ricchezza mediana. Almeno così assicura uno studio di Credit Suisse. Le statistiche, si sa dai tempi di Trilussa, non bisogna proprio prenderle alla lettera. È vero, però, che qualcosa raccontano, soprattutto se si incrociano con altri dati. Questa lunga crisi, per esempio, ha colpito consumi e investimenti. È una lunga litania di segni meno marchiati di rosso. Eppure un’analisi di Unimprese, con numeri di Bankitalia, certifica che questa curva in discesa non vale per i depositi bancari. I soldi nei conti correnti sono aumentati. Sembra un paradosso, ma non lo è.

La recessione e una brutta bestia. Non solo perché ti scarnifica il portafoglio, fa chiudere aziende e manda a casa i lavoratori. La recessione genera paura. Fa paura perché toglie la speranza. Tanti non spendono perché non hanno i soldi, perché il secondo lunedì del mese sono in bolletta, ma altri (e non sono pochi) ci pensano quattro volte prima di acquistare qualcosa perché non si sa mai. E allora i soldi li mettono in banca. Risparmiano. Non rischiano. È normale. È la parte più profonda e a lungo termine di ogni crisi economica, soprattutto di quelle disperate come quella che stiamo vivendo.

Gli italiani sono un popolo di risparmiatori, ma nella loro storia sanno anche costruire ricchezza. Sono riusciti a risollevarsi da momenti bui, scommettendoci, credendoci. Quello che registra Credit Suisse è che questo Paese ha grossi problemi di debito pubblico, ma gli italiani non sono ancora a terra, sconfitti, incapaci di rialzarsi. È un popolo che sa resistere, faticando ogni giorno. Non siamo i pezzenti dell’Europa. L’Italia non è la nazione stracciona che deve andare dai burocrati di Bruxelles a chiedere l’elemosina. Non dobbiamo vergognarci davanti all’arroganza tedesca. Non ci sono lezioni da prendere e sentirci ogni volta ripetere che non abbiamo fatto i compiti a casa. Forse la classe dirigente ha qualcosa da farsi perdonare, ma gli italiani sono ancora ricchi di idee e di risparmi per finanziare quelle idee. Quello che ci sta macerando l’anima è la paura. Questa maledetta paura che l’Europa, ossessiva e apocalittica, continua a scaricarci addosso. L’Europa che boccia tutto e si incazza se il governo prova ad abbassare le tasse.

Legge di stabilità, una manovra da Nobel se abbasserà le tasse

Legge di stabilità, una manovra da Nobel se abbasserà le tasse

Quelle uniche 24 ore alla macchina utensile sono costate al generoso imprenditore 400 euro (sì, quattrocento euro), tra apertura e chiusura della posizione, contributi, dichiarazioni e bolli vari. L’episodio rivela quanto ormai sia urgente abbassare le tasse sull’occupazione e sulle aziende che la creano e quanto ogni passo falso del premier Renzi su una materia così verrà considerato una colossale presa in giro.

Questo è il paese dove viviamo: troppe tasse, troppa spesa improduttiva, troppe carte, poca certezza del diritto, poca fiducia. Serve una scossa più che una scommessa. E se il governo riuscirà nell’impresa titanica di far rialzare la testa a un’Italia impaurita e perduta grazie ad una legge di stabilità di 30 miliardi di euro che dà e non toglie, non ci sarà che esserne felici. L’impresa, a dire il vero e leggendo dati economici e prescrizioni contabili europee, sembra quasi disperata, ma una cosa il presidente del consiglio sembra averla capita bene: ogni euro di risorsa trovata nelle pieghe di bilancio, frutto della spending review, della riduzione dell’avanzo primario che farà aumentare il deficit di 11 miliardi o di qualche spremitura del settore dei giochi, deve andare a sostenere il lavoro che c’è ancora e a promuovere quello che manca. Per questo, almeno sulla carta, in attesa di vedere l’andamento delle legge finanziaria in Parlamento e di ascoltare le immancabili raccomandazioni della commissione europea (che non è detto debba per forza bocciare questa manovra italiana, vista la tempistica del passaggio di consegne tra Barroso e Juncker), sembra obbligata la strada intrapresa dall’esecutivo: l’azzeramento dei contributi per tre anni per le assunzioni a tempo indeterminato, il taglio da 6,5 miliardi di euro dell’imponibile Irap legato al costo del lavoro, la conferma del bonus da 80 euro e la possibilità di utilizzare il Tfr in busta paga, vanno tutte nello stesso verso di rilanciare il fatturato e il bilancio di famiglie e imprese. E c’è da chiedersi che effetti si sarebbero potuti ottenere già dal 2012 con una politica economica del genere, invece di sospendere per un anno l’Imu, tornata più alta e complicata di prima nel 2014. Probabilmente, ci sarebbero più soldi in cascina e nei salvadanai, perché quella misura del governo Letta si è rivelata un terribile boomerang.

La formula meno tasse, più lavoro, più consumi, più crescita, sulla carta può quindi funzionare; nella pratica, date le condizioni oggettive dell’economia e della finanza pubblica e la vigenza delle norme del fiscal compact (che si fa finta siano state sospese, ma così non è), appare per ora un numero da novelli Houdini delle regole di bilancio più che da Keynes del XXI secolo. Può andare a buon fine ma anche avere effetti mortali se il Pil non riprenderà a marciare. Anzi, Renzi potrebbe meritarsi addirittura il Nobel quanto meno del coraggio, con questa manovra da 30 miliardi quasi tutta finanziata con nuova spesa e per l’altra metà coperta da una mostruosa operazione di revisione della stessa. Un premio che Bruxelles e Berlino non hanno però alcuna intenzione di conferire a scatola chiusa all’ex sindaco, perché sanno bene che il nostro paese è attanagliato da decenni di immobilismo, strangolato da un debito monstre, soverchiato da uno stato pachiderma, offeso da 120 miliardi di evasione annua. Troppo per sperare di farcela da soli, così, nel giro di due settimane. Ma sperare è lecito, provarci doveroso. Come auspicabile è augurarsi che la riduzione della spesa, dopo l’addio di Cottarelli, non si riduca in tagli lineari che altro non faranno che contrarre i servizi e magari gli stanziamenti agli agonizzanti enti locali. Per una volta, forse l’ultima, possiamo dimostrare ad altri paesi che stanno peggio ma vincono i veri premi di Stoccolma, che un’altra Italia è possibile e che quei 400 euro possono essere restituiti all’imprenditore, abbassando le tasse e migliorando i servizi.

Tfr e Irap: i conti della liquidazione in busta paga, deducibile il costo del lavoro

Tfr e Irap: i conti della liquidazione in busta paga, deducibile il costo del lavoro

Lorenzo Salvia – Corriere della Sera

Dopo un lungo tira e molla, il capitolo Tfr entra nel disegno di legge di Stabilità che oggi sarà approvato in Consiglio dei ministri. L’anticipo in busta paga del trattamento di fine rapporto sarà su base volontaria, possibile fino al 100% della somma maturata nell’anno, e riguarderà anche i lavoratori che hanno scelto di spostare il Tfr verso i fondi pensione. Per gli ultimi dettagli è in corso un confronto con l’Abi, l’Associazione delle banche. A ieri sera dal meccanismo erano esclusi solo i dipendenti pubblici. Ma potrebbero restare fuori anche altre due categorie: agricoltura più colf e badanti.

Per le colf si sta valutando se l’anticipo sarebbe un vantaggio per le famiglie, che già oggi possono liquidarlo anno per anno, oppure una spesa che finerebbe per mangiarsi buona parte delle misure a loro sostegno, compreso il bonus da 80 euro. A proposito di bonus, la misura viene confermata e allargata ma solo per le famiglie numerose con un solo stipendio. Come previsto, rispetto ai 26 mila euro lordi l’anno fissati a giugno, il tetto massimo di reddito sale a 31 mila euro con due figli a carico, a 40 mila con tre, a 50 mila con quattro. In parallelo dovrebbe arrivare un ritocco agli assegni familiari.

Il ddl di Stabilità prevede interventi per 30 miliardi di euro, di cui 11,5 finanziati in deficit, il resto in arrivo soprattutto da tagli di spesa. Per le imprese diventa più leggera l’Irap, l’Imposta sulle attività produttive, dalla quale sarà interamente deducibile il costo del lavoro per un valore di 6,5 miliardi di euro. Ma ad avvantaggiarsene saranno soprattutto le grandi aziende mentre resteranno fuori quelle senza dipendenti, il 70% del totale come ricorda Rete imprese Italia. Sempre dal lato delle imprese sul piatto c’è anche un miliardo di euro per azzerare i contributi sulle nuove assunzioni, quelle che saranno fatte con il contratto a tutele crescenti previsto dal Jobs act , che però deve ancora passare l’esame della Camera.

Salvo sorprese dell’ultima ora, viene rinviato ancora una volta il riordino delle agevolazioni fiscali. La legge di Stabilità si limiterà a costituire un gruppo di lavoro per sfoltire quella lista composta oggi da 700 voci. Ma il criterio base è già stato fissato: non si procederà con sgravi modulati a seconda delle fasce di reddito, come pure si era pensato di fare in un primo momento, ma alcune agevolazioni saranno eliminate per tutti. Non dovrebbero essere toccate quelle ad alto impatto sociale, come le detrazioni sulle spese mediche o sugli interessi per i mutui sulla prima casa. L’ipotesi iniziale era di ricavare da questo riordino almeno 1 miliardo di euro. Per far quadrare i conti potrebbe essere ulteriormente rafforzato l’aumento della tassazione sulle slot machine, anche se gli operatori dicono che, limitando le vincite, lo Stato finirebbe per incassare meno. Rinvio, sempre salvo sorprese, anche per la tassa unica sulla casa, che fonderà Tasi, Imu e Tari, con il ripristino delle vecchie detrazioni Imu: 200 euro per l’abitazione principale, più 50 euro per ogni figlio a carico.

Tfr, scelta volontaria
L’anticipo in busta paga del Tfr, il trattamento di fine rapporto, sarà possibile su base volontaria. Il lavoratore potrà chiedere di ricevere mese per mese fino al 100% della somma maturata nel corso dell’anno. Il Tfr maturato negli anni precedenti non può essere oggetto di anticipo. Sono esclusi i dipendenti pubblici, si ragiona su agricoltura e colf. Potranno fare domanda anche i lavoratori che hanno scelto di spostare il Tfr verso i fondi pensione. Proprio sui fondi il prelievo a carico dell’iscritto salirebbe dall’11,5 al 12%. Mentre verrebbe ridotta dal 20 al 12% la tassazione sugli investimenti.

Bonus di 80 euro
Confermato il bonus da 80 euro per i lavoratori dipendenti. Come previsto l’intervento viene allargato ma solo per le famiglie numerose che hanno un solo reddito: per loro il limite massimo di reddito sale rispetto ai 26 mila euro lordi l’anno fissati con il decreto che ha introdotto il bonus. E arriva fino a 31 mila euro con due figli a carico, a 40 mila con tre figli, 50 mila con quattro. In tutto la misura dovrebbe costare 500 milioni di euro. In parallelo è in arrivo anche un ritocco degli assegni familiari. Possibile il ritorno delle detrazioni fisse per i figli (50 euro) per la nuova tassa unica sulla casa, che metterà insieme Tasi, Imu e Tari. Nessun intervento sulle pensioni.

Pressione fiscale
Diventa più leggera l’Irap, l’Imposta regionale sulle attività produttive. Dall’anno prossimo sarà interamente deducibile il costo del lavoro, per un taglio del carico fiscale pari a di 6,5 miliardi di euro. La misura è stata accolta con grande entusiasmo da Confindustria. Ma riguarderà soprattutto le grandi aziende, mentre resteranno fuori 3 milioni di aziende senza dipendenti, il 70% del totale. Nel disegno di legge di Stabilità c’è anche un miliardo di euro per azzerare i contributi sulle nuove assunzioni, quelle che saranno fatte con il nuovo contratto a tutele crescenti introdotto dal Jobs act .

Più tasse sui giochi
Non c’è solo l’aumento della tassazione sulle slot machine. Nel disegno di legge di Stabilità ci sono anche altre tasse, che però potrebbero scattare solo come clausola di salvaguardia, cioè come piano B per garantire la tenuta dei conti se qualcosa dovesse andare storto. Possibile un ritocco delle accise sulla benzina, ma anche un aumento dell’Iva e delle imposte indirette che porterebbe in dote 12,4 miliardi nel 2016, 17,8 nel 2017 e 21,4 nel 2018. Salvo sorprese, viene rinviata ancora una volta la revisione delle agevolazioni fiscali, quella lista di 700 sconti che vengono recuperati nelle buste paga di luglio. Se ne dovrebbe occupare un comitato ad hoc.