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La riforma necessaria

La riforma necessaria

Giuseppe Turani – La Nazione

Se il lavoro manca, e ne manca tantissimo, la colpa non è di Renzi e nemmeno di quelli che l’hanno preceduto negli anni scorsi (Monti e Letta). La mancanza di lavoro ha due padri precisi. Il primo è la Grande Crisi che dal 2008 ha colpito l’economia internazionale e che ha portato l’Italia a perdere, come reddito pro-capite, un terzo di quello che aveva nel 2007. Di fronte a una botta così grande, è evidente che i famosi 80 euro rappresentano soltanto un risarcimento parziale. D’altra parte per ridare agli italiani quel terzo di reddito che hanno perso nella crisi ci vuole altro che qualche decreto governativo. Ci vorranno almeno dieci anni di buona crescita, ammesso che si riesca a farli. Ma poi c’è un secondo padre dei tantissimi disoccupati. È un padre collettivo. Si tratta di tutti quelli che facevano parte della classe dirigente negli ultimi trent’anni: sono loro che hanno consentito lo scempio del bilancio pubblico e la trasformazione dello Stato in una sorta di opera pia di prebende, stipendi, pensioni, rendite, enti inutili e tutto il resto. Fino a portarci oltre i due mila miliardi di euro di debiti. Si dirà: ma allora il colpevole è certamente Berlusconi. Calma. Berlusconi ha le sue colpe, ma anche tutti gli altri non possono andare in giro a testa alta.

Io non ho mai visto la signora Camusso o il compagno D’Alema sfilare in piazza contro l’eccesso di spesa pubblica. Anzi, sono lì che ne chiedono altra anche adesso (con quanto buonsenso lascio immaginare). Ma è proprio questa montagna di debiti che ha impedito all’Italia di mettere in campo misure di sostegno e di rilancio dell’economia. Siamo qui, bloccati in mezzo al guado, assistiamo impotenti al crescere della disoccupazione, perché non abbiamo un soldo: siamo ricchi solo di debiti. Oggi abbiamo tanti disoccupati, per essere sbrigativi, perché la generazione precedente è stata un fallimento totale: ha scambiato, a destra come a sinistra, consenso politico con spesa pubblica, e lo ha fatto per vent’anni, o trenta, di fila. Avrebbero ammazzato un elefante, non solo un Paese gentile come l’Italia. Adesso siamo a una prima resa dei conti. Renzi vuole cambiare il diritto del lavoro e contro di lui è schierata tutta la generazione che ha fallito. Il nostro diritto del lavoro ha mezzo secolo e, attraverso stratificazioni successive, è diventato un tale caos che l’unica cosa da fare è quella di abolirlo totalmente e scrivere un testo nuovo.

La Cgil e i suoi amici dentro il Pd hanno deciso di fare barricate sull’articolo 18. Segno che non hanno molto da dire sulla riforma del lavoro. Si aggrappano all’articolo 18 perché pensano che sia un tema popolare e di sicuro effetto: impedire ai padroni di licenziare. Ma vari sondaggi hanno già spiegato che a due terzi degli italiani dell’articolo 18 non importa nulla. È una garanzia in più per quelli che comunque un lavoro (e a tempo indeterminato) lo hanno. Ma qui il problema è di chi un lavoro non lo ha mai visto. Ancora una volta, cioè, una certa sinistra difende il proprio orticello e lascia gli altri (i piu sfortunati) sotto la pioggia e la neve.

Ma perché l’articolo 18 non può restare? Intanto perché è appunto la barricata di quelli che sbagliano. Inoltre una cosa è chiara: il nuovo modello di mercato del lavoro deve avere alla sua base la massima flessibilità in entrata e in uscita dalle aziende, prevedendo le giuste ricompense e la giusta assistenza per chi perde il lavoro (e il reddito). Ma diciamo basta ad anni di aule giudiziarie per chi vuole liberarsi di un dipendente incapace o lavativo.

Renzi batte il record delle tasse

Renzi batte il record delle tasse

Laura Della Pasqua – Il Tempo

Renzi ha battuto tutti i record. Innanzitutto quello della velocità. Tanto rapido ad annunciare l’abbattimento delle tasse a cominciare da quelle sulle famiglie numerose, e tanto veloce a fare marcia indietro. Non solo. Il record di tutti i tempi messo a segno dal premier è quello del numero di nuove imposte in un arco di tempo estremamente ridotto. Una sorta di gara a fare meglio dei suoi predecessori, anche di quel campione del rigorismo che è stato Monti. Il Prof al confronto con Renzi sembra un pivellino per l’uso della leva fiscale che comunque Monti giustificava sempre indicando come mandante Bruxelles. Renzi invece non si dà nemmeno la cura di scusarsi con gli italiani e mentre getta fumo negli occhi, con le slide e i twitt, promettendo di sforbiciare privilegi e sacche di inefficienza, usa senza remore la clava delle imposte. Le randellate interessano tutti indistintamente, famiglie e imprese. La fantasia però non è il suo forte se nel mirino è entrata subito la casa, tradizionale fonte di gettito sicuro. Dopo soli sette giorni a Palazzo Chigi, nel primo Consiglio dei ministri, Renzi traduce in un decreto legge l’accordo fra governo Letta e Comuni sulla Tasi. Vediamo le tasse del premier.

Tasi
La tassa sui servizi indivisibili (come l’illuminazione pubblica) s i rivela subito una batosta, peggio della vecchia Imu. Si dà libertà ai sindaci di alzare l’aliquota di un altro 0,8 per mille sulla prima casa, passando dal 2,5 al 3,3 per mille, oppure sulle seconde case, salendo dal 10,6 all’11,4 per mille. I soldi secondo il piano del governo dovrebbero servire a finanziare le detrazioni fissate dai sindaci. In realtà non c’è nessun obbligo a introdurre le detrazioni mentre per l’Imu erano stabilite in 200 euro sulla prima casa e 50 euro a figlio. Risultato: secondo la Uil, l’aliquota media deliberata dai municipi capoluogo di provincia è del 2,6%. La Cgia di Mestre sostiene che in un grande Comune su due la Tasi sarà più cara dell’Imu.

Rendite finanziarie
Dopo circa un mese ecco che Renzi decide di colpire gli investimenti in Borsa e il risparmio. Il prelievo sale dal 20 al 26% e riguarda anche i conti correnti. Salvi, al momento, i titoli di Stato e i buoni fruttiferi postali. Anche i fondi pensione non sono stati risparmiati, con la trattenuta che versano allo Stato sui rendimenti maturati che passa dall’11 all’11,5%.

Quote Bankitalia
Anche le banche sono chiamate a stringere la cinghia. Raddoppia l’imposta sostitutiva sulla rivalutazione delle quote Bankitalia.

Detrazioni Irpef
Tutti i lavoratori che avranno accumulato detrazioni fino a 4.000 euro nel 2013, dovranno aspettare il 2015 per vederseli riconosciuti. Inoltre l’accreditamento delle detrazioni non avverrà più direttamente ma si dovrà aspettare un bonifico dalla Agenzia delle Entrate. Vengono tagliate le detrazioni Irpef sopra i 55mila euro.

Passaporto
Aumenta il costo per il rilascio del passaporto che passa dai 40,29 euro ai 73,50 euro, a cui bisogna aggiungere il costo del libretto.

Sigarette
Dal 1° ottobre il pacchetto di sigarette aumenta di 1 euro.

Smartphone
Smartphone e tablet più cari. Le tasse sull’acquisto di dispositivi dotati di memoria digitale aumentano di circa il 500%. Quando si acquista uno smartphone o un tablet si pagano dai 3 (dispositivi fino a 8 Gb) ai 4,80 euro (32 Gb) per il diritto d’autore contro gli appena 0,9 previsti finora per i telefonini.

Benzina
Il decreto Irpef all’esame di palazzo Madama prevede clausole di salvaguardia che consentono al Tesoro di aumentare le accise su benzina, alcol e tabacchi qualora avesse bisogno di soldi.

Energie
Tassate le rinnovabili.

Successioni
In arrivo, secondo indiscrezioni, con la prossima legge di Stabilità un aumento dell’imposta sulle successioni. Il governo Berlusconi l’aveva abrogata nel 2011, il governo Prodi l’aveva reintrodotta nel 2006, ma prevedendo una franchigia di un milione di euro. Al di sopra di questa cifra, l’eredità viene tassata al 4%.

Euro più debole e inflazione: le mosse per tornare a crescere

Euro più debole e inflazione: le mosse per tornare a crescere

Renato Brunetta – Il Giornale

La scorsa settimana si è caratterizzata non tanto per il viaggio del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, negli Stati Uniti; non tanto per il dibattito, sempre più duro, sulla riforma del mercato del lavoro e, in particolare, sul superamento dell’articolo 18, ma soprattutto, sul fronte economico-finanziario-Europa-mercati, per la svalutazione dell’euro sul dollaro. Del tutto in secondo piano è passato il tema della Nota di aggiornamento al Def, che il governo avrebbe già dovuto presentare al Parlamento (il termine previsto dal semestre europeo è il 20 settembre di ogni anno), ma che probabilmente solo oggi vedrà la luce. Probabilmente. Nella settimana che si è appena chiusa, dicevamo, il rapporto di cambio euro/dollaro ha raggiunto il suo livello minimo da 14 mesi: sotto quota 1,28. Il dato non può e non deve passare inosservato, per l’importanza dei motivi che lo hanno determinato e per gli effetti che esso ha, e avrà, sulle maggiori economie mondiali.

Il valore della moneta unica europea è in diminuzione in quanto, da un lato, è in aumento la domanda di attività finanziarie denominate in dollari, che promettono rendimenti superiori, a seguito dell’annuncio della banca centrale americana, la Federal Reserve, di una imminente stretta monetaria: la fine del Quantitative easing (Taper off) dal prossimo mese di ottobre e l’aumento dei tassi di interesse tra marzo e giugno 2015. Dall’altro lato, al contrario, la Banca centrale europea manterrà bassi ancora a lungo i tassi d’interesse dell’area euro, e si appresta a varare nuove e straordinarie misure espansive di politica monetaria nei prossimi mesi. Ne deriva un ampliamento del differenziale atteso dei tassi d’interesse tra Europa e Usa a favore degli Stati Uniti. Inoltre, gli ultimi dati disponibili rilevano un peggioramento della bilancia commerciale dell’area euro, determinato in generale dalla cattiva performance economica, in termini di crescita, dei paesi europei, e, più in particolare, dal calo dell’export della Germania nei confronti dei paesi extra-Ue. Questo crea un ulteriore aumento della domanda di dollari (per acquistare beni e servizi americani) e una diminuzione di quella di euro. Il combinato disposto di questi due fattori ha determinato la rivalutazione del dollaro e la conseguente svalutazione dell’euro cui abbiamo assistito nell’ultima settimana. Mercati in movimento, quindi. Incerti, ma vigili. Fare attenzione. Ottobre è arrivato.

Come abbiamo anticipato, la presidente della Federal Reserve americana, Janet Yellen, la scorsa settimana ha confermato che con il prossimo acquisto, in ottobre, di asset per 15 miliardi di dollari finirà la politica di Quantitative easing che fino ad oggi ha assicurato bassi tassi di interesse a sostegno dell’economia. In realtà, il cosiddetto “Tapering”, cioè la riduzione progressiva, di 10 miliardi al mese, della terza tranche di QE, iniziata a settembre 2012 con acquisti mensili di asset per 85 miliardi di dollari, era attesa da oltre un anno.

L’interazione tra le politiche monetarie della Bce e della Fed, che continueranno a essere di segno contrario, seppur in posizioni invertite, consentirà un riequilibrio in termini di crescita tra Europa e Stati Uniti? Ciò dipenderà dai tempi con i quali il mutamento della politica della Fed si trasmetterà sull’aumento dei tassi d’interesse nell’area dollaro, soprattutto sui tassi a lungo termine, da come la Federal Reserve riuscirà a orientare e/o controllare la progressività dell’aumento e soprattutto da come la Fed reagirà a possibili scostamenti dei tassi di crescita dell’economia e di disoccupazione americani da quelli previsti e sui quali essa ha basato le proprie decisioni di normalizzazione monetaria. Ma ciò dipenderà ovviamente anche da quel che accadrà in Europa.

L’obiettivo principale che deve porsi oggi la Banca centrale europea è duplice: ottenere una consistente riduzione del tasso di cambio dell’euro e alzare il tasso d’inflazione, per evitare l’emergenza di una spirale deflazionistica già iniziata in vari paesi europei. I due obiettivi sono strettamente connessi, perché la svalutazione dell’euro sembra ormai a molti commentatori l’ultimo strumento per ottenere nel breve periodo, al tempo stesso, un aumento dell’inflazione importata e un aumento della domanda, sia estera sia domestica, di prodotti europei. Questo appare, dunque, l’unico modo per riavviare la crescita, in attesa che l’Europa riacquisti un dinamismo competitivo endogeno. Il deprezzamento dell’euro sul dollaro dell’ultima settimana sembra dare una risposta al possibile effetto congiunto dell’espansione monetaria inseguita dal presidente della Bce, Mario Draghi e l’annuncio della fine della stessa politica negli Stati Uniti.

Qui si pone, tuttavia, una questione di non poco conto per i paesi europei più indebitati come l’Italia. L’afflusso di capitali in Europa ha avuto un effetto benefico sulla sostenibilità dei debiti, determinando un costo del debito ai minimi, e sui valori azionari che sono saliti nonostante la stagnazione/recessione, ma ha avuto come prezzo un ostacolo alla crescita determinato dal valore alto dell’euro. Il desiderato deprezzamento dell’euro, e, soprattutto, l’attesa di deprezzamento, implica una possibile inversione di tendenza anche dal lato della remunerazione richiesta per il finanziamento dei debiti che, quindi, aumenterebbe, con conseguenti guai per molti paesi europei e per l’Europa nel suo complesso. Per questo crediamo che la Bce debba prepararsi a un necessario intervento non convenzionale che possa estendersi all’acquisto di debito pubblico (leggi: Quantitative easing europeo).

Rimane anche un dubbio complessivo legato al passaggio, annunciato dalla Fed, dall’approccio “Forward guidance”, fino ad oggi adottato, all’approccio del “Data-driven stance”. Il primo approccio è quello seguito dal predecessore di Janet Yellen alla guida della Federal Reserve, Ben Bernanke, negli ultimi anni, in base al quale la banca centrale comunica con largo anticipo agli operatori le decisioni di politica monetaria che intende prendere. Altro approccio è quello di stare a vedere cosa accade all’economia, fare piccole correzioni nei tassi di interesse, o altre azioni di intervento, e annunciare che ulteriori decisioni verranno prese se gli stimoli non si dimostrano sufficienti a far ripartire la spesa in consumi e investimenti (Data-driven stance). Questo approccio sembra guidare sostanzialmente anche gli ultimi interventi della Bce e i suoi annunci di ulteriore e crescente ricorso a strumenti di politica monetaria non convenzionali. Gli stimoli monetari messi in campo fino ad oggi dalla Bce non hanno avuto gli effetti sperati. Ha dunque ragione Draghi quando afferma che la politica monetaria da sola è inefficace se non aiutata dalla politica economica, quindi dalle riforme strutturali, degli Stati, e anche che entrambe le politiche possono poco se non si sbloccano i mercati e le istituzioni.

La conclusione è che, con la svolta della politica monetaria americana, per l’Italia la strada rischia di complicarsi ulteriormente, e diviene sempre più cruciale la necessità di grandi capacità di governance e di decisioni non solo rapide, ma anche forti e condivise. Se fino ad oggi i tassi di interesse sul nostro debito pubblico sono rimasti bassi, per esempio rispetto ai picchi del 2012, grazie alle “magie” della politica monetaria, non solo e non tanto della Bce, ma soprattutto della Federal Reserve, adesso lo scenario sta cambiando e il ruolo dei governi torna centrale. Se si vuole evitare una nuova tempesta finanziaria, le banche centrali non bastano più: la palla è in mano ai governi. Solo ai governi. Purché facciano le cose giuste.

Il premier e l’articolo 18, una battaglia già vinta

Il premier e l’articolo 18, una battaglia già vinta

Maurizio Ferrera – Corriere della Sera

Sul Jobs act è giunto il tempo della decisione. Oggi si riunisce la segreteria del Pd e questa sera sarebbe auspicabile avere un segnale chiaro di approvazione. C’è una minoranza che non è d’accordo. Per alcuni l’intangibilità dell’articolo 18 è una questione di principio. Per altri (più numerosi) sembra invece essere una questione di contenuti. I margini per non rompere ci sono: Renzi ha già ceduto sui licenziamenti discriminatori, per i quali rimarrà il reintegro. L’altro punto su cui cercare convergenze riguarda le nuove tutele.

A quanto ammonterà l’indennizzo in caso di motivazioni economiche? E verranno davvero rafforzati gli ammortizzatori sociali? Il governo è in grave ritardo su questo fronte. Renzi deve chiarire quante risorse saranno disponibili nella legge di stabilità. La soluzione è usare già dal 2015 i fondi della Cassa integrazione in deroga per finanziare una indennità semiuniversale che colmi i buchi di copertura esistenti, soprattutto per interinali e contratti a termine. Non è una partita di giro, ma passaggio da un sistema aleatorio e discrezionale a una tutela finalmente «europea», basata su diritti soggettivi.

Il presidente del Consiglio deve insistere su questi aspetti. Il nuovo «contratto a tutele crescenti» è oggi uno strumento per offrire stabilità d’impiego ai giovani che non ce l’hanno; la maggiore flessibilità in uscita si accompagnerà a protezioni più robuste ed efficaci. Qualcuno dei dissidenti farà ancora finta di non capire: pazienza. Con gli altri, Renzi non cerchi «rese dei conti», ma dia rassicurazioni, spieghi bene come e perché ci si può fidare del cambiamento. Il Jobs act non può e non deve essere vissuto e additato come boccone amaro imposto dalla Ue, ma come una opportunità per rendere il nostro mercato del lavoro più equo e inclusivo.

Riformare la burocrazia si può, e non solo con la tecnologia

Riformare la burocrazia si può, e non solo con la tecnologia

Edoardo Segantini – Corriere Economia

Di riforme si parla, si sparla e si straparla. Ma non è detto che per cambiare le cose, in un Paese già tanto complicato, la sola strada sia la modifica legislativa, cui magari non seguono decreti attuativi e che spesso aggiunge solo carta ai carta. Il caso della Pubblica amministrazione è l’esempio più eclatante: dimostra, fra l’altro, che invocare «più tecnologia» senza una vera riorganizzazione è una colossale stupidaggine, che finora ha favorito soltanto i venditori di hardware e software.

L’esempio virtuoso più spesso citato è il programma americano di Bill Clinton e Al Gore passato alla storia sotto il nome di «Reinventing Government» che, tra il 1993 e il 1998 ottenne risultati strepitosi: 137 miliardi di dollari di riduzioni di costi; 350 mila pubblici dipendenti ricollocati in funzioni più utili dentro e fuori i pubblici uffici (con trattative sindacali e individuali); 640 mila pagine di regolamenti interni e 16 mila pagine di norme federali abolite. Questi semplici dati dicono con chiarezza che riformare bene vuole dire semplificare le norme, non crearne di nuove.

È l’idea che da sempre muove il lavoro, teorico e pratico, di Federico Butera, che come consulente ha avuto una parte non secondaria nella modernizzazione dell’Inps, dell’Agenzia delle Entrate e che propone di estendere la «reinvenzione» all’insieme della pubblica amministrazione italiana. Nella giustizia, uno dei campi notoriamente più difficili, il sociologo ha lavorato a un programma (Best Practices) che ha coinvolto 190 uffici del Tribunale e della Procura di Monza e ha ricevuto quattro premi internazionali. Dimostrando che, anche nella burocrazia più rocciosa, cambiare si può. Il «Reinventing Government» made in Usa insomma non è stato enunciato e scimmiottato, ma interpretato e adeguato alla realtà italiana. Il processo di cambiamento è stato gestito coinvolgendo gli interessati e dando loro obiettivi misurabili di miglior servizio al pubblico, con il risultato che i tempi e i costi sono stati ridotti, 1’accessibilità e la trasparenza sono stati aumentati e, soprattutto, si è contribuito a far emergere una squadra di magistrati e amministrativi «innovatori» che hanno fatto propri i concetti e le pratiche del miglioramento organizzativo e gestionale.

Esperienze come questa potrebbero essere estese e replicate, coerentemente con gli obiettivi della Spending Review. Tenendo conto di un aspetto che è stato essenziale nell’esperienza americana, realtà non certo sospettabile di «pansindacalismo»: l’obiettivo del cambiamento sono le persone, non le cose, dunque la riorganizzazione va sempre negoziata, pur senza cedimenti alla «concertazione». E il modo migliore per negoziare senza concertare è spostare l’attenzione dalle regole agli obiettivi, ripensando i meccanismi retributivi e di incentivazione.

L’insostenibile (quanto sproporzionata) pesantezza del Fisco

L’insostenibile (quanto sproporzionata) pesantezza del Fisco

Stefano Natoli – Il Sole 24 Ore blog

L’Italia ha uno dei sistemi fiscali più pesanti e inefficienti d’Europa: la pressione fiscale è elevata, soprattutto su lavoro e impresa. Durante la crisi la situazione è ulteriormente peggiorata per via dell’aumento della pressione fiscale reso necessario dall’impossibilità politica di tagliare la spesa pubblica. Lo evidenzia una ricerca del Centro Studi “ImpresaLavoro” che analizza la struttura delle entrate fiscali nel nostro Paese, la loro evoluzione nel tempo e le loro caratteristiche rispetto ai maggiori paesi europei: Germania, Francia, Gran Bretagna e Spagna. Considerando la pressione fiscale dal 1990 al 2012, si osserva come negli ultimi anni l’Italia – assieme alla Francia – abbia visto un forte aumento delle entrate fiscali (quattro punti di Pil) nonostante la gravissima crisi economica.
Da uno studio diffuso sempre oggi dalla Uil emerge, inoltre, che 7,2 milioni di contribuenti si sono ritrovati nel 2014 buste paga più leggere – in media di 58 euro – per “colpa” delle addizionali regionali. Nell’anno in corso sei Regioni (Piemonte, Liguria, Umbria, Lazio, Molise e Basilicata) hanno aumentato o rimodulato in alto le aliquote a fronte di due che le hanno diminuite (Provincia Autonoma di Bolzano e Abruzzo), mentre le restanti le hanno confermate. Il federalismo fiscale è anche questo.
Bruxelles, intanto, invita l’Italia ad accelerare decisamente nell’attuazione della legge delega di riforma fiscale entro marzo 2015, approvando i decreti che riformano il Catasto. Fra gli altri obiettivi: sviluppare ulteriormente il rispetto degli obblighi tributari, semplificare le procedure, migliorare il recupero dei debiti fiscali, modernizzare l’amministrazione fiscale. Fra le questioni calde resta la madre di tutte le battaglie, ovvero la lotta all’evasione fiscale. Se le tasse le pagassero tutti, avremmo infatti conti pubblici e privati più a posto e un welfare decisamente diverso.

Scontrini elettronici e unica banca dati, così cambierà la lotta all’evasione

Scontrini elettronici e unica banca dati, così cambierà la lotta all’evasione

Luca Cifoni – Il Messaggero

La lotta all’evasione punta tutto sulla tecnologia. Utilizzo massiccio delle banche dati, ricorso alla fatturazione elettronica in tutte le transazioni, oltre ad un’ulteriore spinta alla smaterializzazione (e dunque alla tracciabilità) del mezzi di pagamento sono i cardini della nuova strategia di un fisco che vorrebbe essere allo stesso tempo più semplice ed efficiente ma anche più rispettoso delle esigenze del contribuente. La missione si presenta chiaramente non facile, anche perché mentre si progettano strumenti e procedure non viene certo meno l’urgenza del riequilibrio dei conti; e visto che il governo esclude nuove tasse, il contributo al miglioramento del bilancio pubblico ed al finanziamento delle misure per la crescita dovrà arrivare oltre che dalla revisione della spesa proprio dalla tendenziale chiusura del tax gap tra le basi imponibili e i gettiti effettivi.

Il nuovo approccio dovrebbe essere accompagnato da un’opera di radicale semplificazione, di cui sono state poste quanto meno le premesse con la legge delega (nelle prossime settimane dovrebbe essere pronto il decreto attuativo su questo specifico tema). E qualche ulteriore novità potrebbe essere inserita anche nella legge di Stabilità, a metà ottobre. In molti casi si tratta di estendere, potenziare, e mettere a fattor comune risorse tecnologiche che già esistono ma non sono sfruttate come potrebbero. È il caso ad esempio delle banche dati dell’Anagrafe tributaria, che a loro volta dialogano con quelle di altri colossi pubblici come l’Inps. Uno dei progetti più interessanti si chiama “Vista unica del contribuente”; ne ha accennato anche Rossella Orlandi, direttore dell’Agenzia delle Entrate, nell’audizione di mercoledì davanti alla commissione parlamentare di vigilanza sull’Anagrafe tributaria.

L’idea è sulla carta piuttosto semplice: concentrare tutte le informazioni sul contribuente in un formato facilmente consultabile e renderle accessibili con pochi clic. E soprattutto – questo è l’aspetto potenzialmente più dirompente – metterle a disposizione dello stesso interessato, che potrà consultarle con le stesse modalità semplificate. In altre parole i contribuenti avranno la possibilità di prendere visione di tutto quello che il fisco sa di loro. Proprio tutto: non solo i redditi (già sommati se provenienti da fonti diverse), ma anche i passaggi di proprietà ricavati dal registro, le varie utenze, i mutui, i rapporti bancari ed addirittura le spese sostenute, aggregate per tipologia di bene. Tutte informazioni che già affluiscono in varie banche dati le quali però non possono essere consultate in modo univoco perché i diversi archivi per lo più non comunicano tra loro. È evidente l’intento di stimolare quella che si definisce compliance, o adesione spontanea. Verificando i dati messi in fila dall’amministrazione fiscale, il contribuente potrà farsi un’idea anche delle possibili verifiche a cui rischia di andare incontro ed eventualmente regolarsi di conseguenza. Un approccio in qualche modo morbido, che però non esclude l’effettivo avvio dei controlli proprio sulla base di quei dati.

L’altro grande fronte è quello della fatturazione elettronica. Attualmente è in vigore l’obbligo nei rapporti tra imprese e pubblica amministrazione. Ma con la stessa infrastruttura tecnologica potrebbe essere usata per tutti i rapporti tra impresa e impresa: la completa tracciabilità renderebbe non più necessari una serie di gravosi controlli del fisco. E si punta ad un approccio del genere anche nei confronti del commercio, con l’estensione delle procedure di trasmissione telematica dei corrispettivi che oggi tocca solo il mondo della grande distribuzione: gli attuali registratori di cassa dovranno essere sostituiti da strumenti in grado non solo di registrare le transazioni ma di inviarle in tempo reale o quasi al fisco: anche gli scontrini diventeranno quindi elettronici.

La sinergia che manca tra imprese e ricerca

La sinergia che manca tra imprese e ricerca

Romano Prodi – Il Messaggero

Nella sua visita in California il Presidente del Consiglio ha incontrato un nutrito gruppo di giovani imprenditori italianiche, a migliaia di chilometri di distanza, sono andati a costruire delle “start up”, cioè delle nuove imprese che nascono a grappoli dove esiste un ambiente favorevole. Dove sono disponibili risorse finanziarie e, soprattutto, energie umane giovani e coraggiose. In fondo anche noi abbiamo avuto il periodo delle nostre start-up quando, dagli anni cinquanta fino agli anni ottanta, fiorivano i nostri distretti industriali, con sempre nuove aziende che fra di loro si integravano e nello stesso tempo si facevano feroce concorrenza. Questo era allora possibile perché le imprese si fondavano su tecnologie semplici e su accessibili fenomeni imitativi, mentre la tumultuosa crescita del mercato permetteva un rapido ritorno degli investimenti. Il tutto era molto adatto all’Italia di allora: pur con tutti i nostri problemi si è perciò potuto parlare di miracolo italiano e vedere le nostre piccole e medie imprese indicate come esempio di efficienza e di innovazione nei manuali di tutte le Business School del mondo.

Oggi viviamo in un pianeta diverso: le imprese fondate sull’imitazione non reggono più di fronte ai nuovi concorrenti mentre le nuove iniziative si fondano su tecnologie raffinate, hanno bisogno di nascere e vivere vicino a università e laboratori di ricerca d’avanguardia e, anche nei casi in cui richiedono capitali modesti, il ritorno del capitale di rischio è a lungo termine. Questo in conseguenza della complessità delle conoscenze da mettere insieme, delle laboriose prove sperimentali e delle autorizzazioni pubbliche necessarie. Il tutto senza tenere conto della difficoltà di reperire credito bancario, data la maggiore facilità nel giudicare il rischio di un prestito concesso a una fabbrica di piastrelle o di abbigliamento che non a un laboratorio che propone nuove molecole o raffinati processi di software. D’altra parte queste sono le aziende del futuro e la loro esistenza condiziona anche la vita e lo sviluppo delle aziende tradizionali.

Non è quindi sorprendente dovere constatare le difficoltà della nostra industria, presa nella tenaglia fra i Paesi a basso costo del lavoro e quelli che fanno tanta ricerca, soprattutto ricerca applicata. Tuttavia, come capita in tutti i casi della vita, se si vuole cambiare qualcosa bisogna prima di tutto partire dalle risorse che abbiamo e cercare di utilizzarle al meglio, sperando di potere in seguito preparare il complesso ecosistema che caratterizza i distretti dove nascono le nuove imprese. Partiamo dal fatto che le nostre risorse spese in ricerca applicata sono scarse, anzi infime, rispetto agli altri Paesi moderni. Abbiamo tuttavia centri di dimensioni non trascurabili, almeno attorno aI politecnici di Torino e Milano, alle università di Bologna e Pisa e al complesso delle università romane e napoletane. Senza nominare la non trascurabile presenza del CNR e dell’Enea. Ho inoltre in mente l’IIT (Istituto Italiano di Tecnologia) che è stato opportunamente creato proprio per promuovere la ricerca applicata dedicata a fare avanzare il nostro sistema produttivo e che sta facendo bene il suo mestiere.

Ebbene quando mi sono messo ad analizzare se questi centri di ricerca promuovono nuove imprese sono rimasto profondamente deluso. Le imprese generate sono pochissime e quasi sempre abbandonate a se stesse. E quindi non si sviluppano. I contatti fra le università e le imprese sono scarse, le “start up” non sono capite e non nascono le strutture dedicate a farle vivere. Strutture che, non a caso, nel linguaggio internazionale, sono chiamate “angeli“. Certo gli impedimenti burocratici e le regole allucinanti a cui sono sottoposte le nostre università e le nostre imprese costituiscono la prima difficoltà, ma ho dovuto constatare come siano difficili e complessi i rapporti perfino fra i laboratori d’avanguardia come quelli dell’IIT e la città di Genova che ne ospita le strutture portanti. Ancora ostacoli burocratici ma anche un quasi totale disinteresse del mondo produttivo per capire che cosa si può ricavare da quei ricercatori e da quei laboratori d’eccellenza. Almeno in questi casi la colpa non è certo tutta del governo. Sappiamo che i nuovi business sono difficilmente individuabili, altamente rischiosi e diversi fra di loro. Tra le nuove imprese solo una su cinque (o forse una su dieci) avrà successo ma sappiamo anche che, come accade in tutti gli altri Paesi, il guadagno che deriva dall’impresa di successo costituisce una remunerazione del capitale impiegato molto più elevata della media, anche tenuto conto del costo dei fallimenti.

Mi chiedo perciò come mai, intorno a questi ed altri centri di ricerca, non nascano gli “angeli” in grado di adempiere il complesso compito di legare le imprese all’ecosistema della ricerca, della finanza e delle altre imprese. E mi chiedo perché le autorità pubbliche non ne aiutino in modo prioritario la nascita, impegnandosi anche a contribuire in modo proporzionale agli impegni degli operatori privati. Parlo naturalmente di una presenza minoritaria, perché questo non è un mestiere adatto al pubblico. Ma quanti e dove sono gli operatori privati disposti a rischiare? Ben pochi! Eppure in Italia vi sono sufficienti persone che hanno preparazione, esperienza e conoscenza di uomini per aiutare i giovani ricercatori che si vogliono fare imprenditori, per consigliare a loro gli specialisti di cui hanno bisogno nelle nuove imprese e per dotare le imprese stesse delle necessarie risorse finanziarie. In Italia i potenziali “angeli” non mancano. E non mancano di certo le risorse finanziarie.

Nelle città indicate, ma non solo in queste, basterebbe una infima (ma proprio infima) percentuale delle risorse immobiliari o mobiliari parcheggiate all’estero per dare un contributo concreto all’occupazione giovanile, per rallentare la fuga dei cervelli e per fare si che almeno i colleghi migliori degli imprenditori che Renzi ha incontrato in California possano operare con successo in Italia. Diamo pure alla burocrazia le colpe che si merita ma non dimentichiamo che il coraggio ed il senso del futuro hanno importanza determinante per costruire il nuovo. Ricordiamo Inoltre che i nostri padri, al loro tempo, lo hanno avuto. E, soprattutto, ricordiamo che senza “angeli”non si può arrivare in paradiso.