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Renzi s’è proprio stancato delle manfrine sindacali

Renzi s’è proprio stancato delle manfrine sindacali

Sergio Soave – Italia Oggi

Il discorso che Matteo Renzi ha voluto pronunciare per illustrare il programma di legislatura del suo governo aveva lo scopo di rintuzzare le critiche di chi, non senza ragioni in Italia e in Europa, contrappone l’ampiezza degli impegni assunti alla miseria dei risultati raggiunti, ma, soprattutto, serviva a lanciare un messaggio chiaro ai settori riottosi della sua maggioranza e del suo partito. Rimettere in testa all’agenda la riforma elettorale, che era finita nelle sabbie mobili dopo l’approvazione ottenuta alla Camera, significa rendere possibile la via d’uscita di elezioni anticipate nel caso in cui la maggioranza si squagli sui temi più controversi. Ai suoi gruppi parlamentari Renzi deve far digerire la riforma del mercato del lavoro che sostituisce indennizzi all’obbligo di riassunzione previsto dall’articolo 18 e all’alla giustizialista un avvio di riorganizzazione del sistema giudiziario che parta dal settore apparentemente meno minato della giustizia civile. Agli alleati centristi, soprattutto a quelli che insistono sulla loro ispirazione cristiana, invece deve far digerire una qualche forma di riconoscimento delle unioni di fatto.

Su questi temi cruciali il premier è stato abbastanza chiaro, anche se non è entrato nei dettagli, il che consente ai suoi sostenitori di esibirsi in lodi per la concretezza del messaggio, ai dissenzienti (che non coincidono con gli oppositori al suo governo) di lamentare che si tratta sempre e solo di parole. Un punto però è stato affrontato con decisione: se ci saranno ostacoli all’applicazione della delega sulla riforma del mercato del lavoro, il governo agirà per decreto. È un modo per far intendere a sindacati e oppositori interni che non saranno tollerate più altre manovre dilatorie, che su questa questione, quella della flessibilità in uscita del mercato del lavoro, che viene peraltro messa al primo posto come priorità dalle indicazioni di tutte le autorità sovranazionali a cominciare dalla Bce di Mario Draghi, il governo vuole arrivare a una decisione, più o meno nelle direzioni indicate da Maurizio Sacconi e da Pietro Ichino, che pare siano diventate convergenti. Molti diranno che è poco, il che si può sempre dire, ma se Renzi riuscirà davvero ad archiviare i due elementi di subalternità storica della sinistra italiana, al sindacalismo radicale sul mercato del lavoro, al giustizialismo sulle garanzie, avrà cambiato e nella direzione giusta anche se forse impopolare tratti essenziali della tradizionale imballatura ideologica che rende da decenni sterile il ventre del riformismo italiano.

Basta tasse, l’Iva non può essere alzata

Basta tasse, l’Iva non può essere alzata

Achille Perego – La Nazione

Ce lo chiede l’Europa. Quando un governo deve mettere le mani nelle tasche degli italiani – dalla riforma delle pensioni alle imposte sulla casa – si difende con la scusa di Bruxelles. Vista la sfida lanciata da Matteo Renzi ai “tecnocrati” europei, c’è da credere che questa volta non verrà utilizzato il solito ritornello per inasprire ancora le aliquote Iva. Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, dopo le voci circolate con forza negli ultimi giorni e l’immediato allarme lanciato da consumatori e commercianti, ha smentito nuovi interventi sulle tasse. Speriamo. Perché alzare di nuovo l’Iva (l’imposta più evasa dagli italiani, con una percentuale quasi doppia rispetto all’Irpef) si trasformerebbe nell’ennesimo colpo sui consumi. E soprattutto sulle famiglie a minore reddito dove verrebbe quasi annullato l’effetto bonus da 80 euro, che ancora non si è visto sul fronte dei consumi.

È vero che la Ue, tutti gli anni, raccomanda un’armonizzazione dell’Iva, ma le aliquote dei Paesi dell’Eurozona restano una vera e propria giungla. E un’eventuale riforma complessiva, nel nome di un’unione non solo monetaria ma anche fiscale, dovrebbe spettare a Bruxelles. Non si capisce, invece, perché l’Italia, dopo aver già alzato dal 20 al 22% l’aliquota ordinaria (oramai tra le più alte d’Europa) dal 2012 al 2013 – con ridotti risultati per l’Erario che nel 2013 ha perso 3 miliardi di gettito Iva su un totale di 112 – dovrebbe ancora affossare i consumi che dal 2008 sono crollati di quasi l’8%. E hanno visto bruciare ben 78 miliardi di spesa. Una caduta che non si è ancora arrestata anche se il fondo sembra ormai vicino.

Del resto con i redditi degli italiani tornati a livelli di 30 anni fa e il potere d ‘acquisto scivolato a meta anni Novanta, con 2700 euro all’anno spariti dalle tasche delle famiglie, era difficile sperare in una ripartenza dei consumi. Che restano fondamentali per vendere beni e servizi e quindi per la buona salute delle imprese. E per la difesa e la crescita dei posti di lavoro in un Paese che ha un 12,6% di tasso di disoccupazione e ben oltre il 40% per i giovani. Mettere una nuova “tassa sul pane”, alzando dal 4 al 10 o addirittura al 15% l’aliquota Iva agevolata (applicata su molti altri beni di prima necessità come il latte o l’ortofrutta) e colpire anche prodotti e servizi che oggi scontano un’Iva al 10% (tra i quali tutta la filiera del turismo, uno delle poche industrie tricolori che ancora tirano), rischia di trasformarsi in un boomerang anche per le casse dello Stato. Soprattutto se l’inasprimento delle imposte indirette scatterà – come sempre, purtroppo – senza ridurre e tasse sul lavoro e sulla casa. Così siamo sempre in recessione, la luce in fondo al tunnel si allontana e restiamo, come ci ha avvertiti l’Ocse, l’unico Paese del club dei Sette grandi al palo. Forse perché ci siamo dimenticati che la cura delle tasse, Iva compresa, non fa mai rima con la parola crescita.

Occupazione, il governo non aspetti

Occupazione, il governo non aspetti

Luca Ricolfi – La Stampa

Dopo tutto anche Renzi è un politico. Per questo non mi ha sorpreso che il suo discorso di ieri in Parlamento fosse alquanto retorico, e piuttosto avaro di impegni precisi. Due passaggi, tuttavia, mi sono sembrati informativi, sia pure in senso negativo. In entrambi, infatti, pur non dicendo che cosa farà, il premier ha detto chiaramente che cosa non farà. È già qualcosa.

Il primo passaggio è quello in cui Renzi respinge la critica di aver sbagliato i tempi, dando la precedenza alle riforme delle regole (legge elettorale e Costituzione) con conseguente ritardo delle riforme economico-sociali. A questa critica Renzi in sostanza risponde che le riforme vanno fatte tutte insieme (come se la politica non decidesse ogni giorno che cosa rinviare e che cosa no), e che l’importante è aver compiuto i primi passi, disegnando la cornice del suo «vasto programma», per dirla con De Gaulle. E’ la conferma, purtroppo, che tuttora il governo non pensa che la creazione di nuovi posti di lavoro sia un problema di gran lunga prioritario rispetto a tutti gli altri. Ce ne eravamo accorti a maggio (altrimenti i 10 miliardi del bonus Irpef non sarebbero finiti a chi un lavoro già ce l’ha, e il Jobs Act non sarebbe stato incanalato su un binario parlamentare lento), ma è comunque una notizia che il premier continui a pensarla come la pensava 7 mesi fa, quando aveva rinunciato a varare subito il Jobs Act. Speriamo che abbia ragione lui, e che l’Italia, nonostante sia tornata in recessione, possa ancora permettersi di aspettare tutto il tempo che i politici vorranno prendersi prima di rendere operative nuove regole del mercato del lavoro.

C’è però anche un secondo passaggio del discorso di Renzi che ci fa capire qualcosa, ed è quello in cui Renzi sbeffeggia chi propone come modello la Spagna: «Mi scappa da ridere quando sento dire che il nostro modello debba essere la Spagna, ho grande stima della Spagna, ma quando sento dire che il nostro modello dovrebbe essere un Paese che ha il doppio della disoccupazione dell’Italia mi preoccupo». Neanch’io penso che un Paese come l’Italia possa uscire dai suoi guai semplicemente imitandone un altro. E tuttavia fa una certa impressione il semplicismo con cui Renzi liquida il modello spagnolo, e gli contrappone il comportamento dell’Italia in questi anni, una difesa che a me ricorda molto quella di Tremonti e Berlusconi nel 2008-2011, quando dicevano che, a differenza di altri Paesi, l’Italia tutto sommato aveva tenuto, restava un Paese solido, eccetera eccetera.

E allora guardiamolo un po’ più da vicino questo orribile modello spagnolo. Fra il 2007 e il 2013 il Pil italiano ha perso l’8,5%, quello spagnolo il 5,9%. Nel 2014 il Pil italiano calerà ancora (dello 0,4% secondo l’Oecd), mentre quello spagnolo crescerà, come quello di quasi tutti i Paesi europei. Ma lì la disoccupazione è il doppio che da noi, obietta Renzi. Ed è qui, quando fa questo confronto, che capisco perché il nostro governo non riesce a capire il dramma dell’Italia.

Eppure Renzi dovrebbe sapere (o Padoan dovrebbe spiegargli), che il tasso di disoccupazione è un pessimo indicatore della situazione occupazionale di un Paese, e diventa del tutto fuorviante se si confrontano due Paesi con regole del mercato del lavoro profondamente diverse come l’Italia e la Spagna. Il confronto vero va fatto sul numero di occupati, non sui tassi di disoccupazione. Ebbene, nel 2013 il tasso di occupazione spagnolo, a dispetto di anni di austerity, era più alto di quello italiano, e questo nonostante in quello italiano siano inclusi tutti i lavoratori in cassa integrazione. Se poi si tiene conto del numero medio di ore lavorate e del numero di soggetti che hanno due lavori, il vantaggio occupazionale della Spagna sull’Italia si allarga ancora di più. La realtà è che, a dispetto dei rispettivi tassi di disoccupazione, c’è più lavoro in Spagna che in Italia, non solo, ma in Spagna l’occupazione sta riprendendo a salire, mentre in Italia continua a scendere, in barba alle belle parole della nostra Costituzione, secondo le quali «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro».

Questo vuol dire che dovremmo conformarci al modello spagnolo? Certo che no, ma almeno potremmo smetterla di raccontarci fiabe autoconsolatorie, basate su confronti statistici improbabili, e cominciare a chiederci se i Paesi che hanno usato questi anni per correggere alcuni dei loro squilibri non hanno nulla da insegnarci. Temo che, se avessimo l’umiltà di guardarci allo specchio, l’insegnamento principale sarebbe questo: la differenza fra noi e gli altri quattro Pigs (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna) è che loro hanno attraversato una crisi profonda, cui hanno reagito e da cui stanno uscendo, mentre noi non abbiamo nemmeno provato a interrompere il nostro declino, un declino di cui l’inesorabile calo delle ore lavorate per abitante è la spia più drammatica e chiara.

È questo, forse, il nesso logico segreto fra i due punti che abbiamo voluto sottolineare del discorso di Renzi in Parlamento. La ragione per cui pensa che non esistano riforme prioritarie è la medesima per cui gli «scappa da ridere» quando qualcuno evoca il modello spagnolo. Quella ragione è, semplicemente, che anche lui, come molti suoi predecessori, pensa che la politica abbia molto tempo davanti a sé, e possa scegliere liberamente di che cosa occuparsi oggi, di che cosa domani, che cosa rinviare, che cosa far passare con un decreto, che cosa con una legge delega, che cosa ignorare. Non ha tutti i torti, perché una società in declino, specie se ancora ricca, ha margini di tolleranza per gli errori dei suoi governanti molto maggiori di una società in crisi. Per questo penso che lo sbaglio di non aver stabilito delle priorità, dando alla creazione di lavoro la precedenza assoluta che meritava, è un errore di cui la società italiana si accorgerà solo un po’ più in là. Diciamo fra 1000 giorni, forse.

Spariti i 40 milioni per le partite Iva

Spariti i 40 milioni per le partite Iva

Claudio Antonelli – Libero

Ad agosto, poco meno di un mese e mezzo fa, il governo dopo interpellanza scritta fa una promessa: troveremo i 35-40 milioni di copertura necessari per la piccola mobilità e per evitare che le partite Iva, che nel 2012 hanno fatto assunzioni agevolate fidandosi degli incentivi promessi da Monti, debbano restituire il denaro all’Inps. La data di scadenza della promessa era ieri e i soldi sono spariti. Anzi il ministero a voce dice di averli trovati. Chiede all’Inps di aspettare a mandare gli avvisi di riscossione ad artigiani, commercianti e liberi professionisti. L’Inps senza garanzia scritta di copertura deve fare rispettare le leggi. Anche se in contraddizione con leggi precedenti. E ora il rischio concreto è che per meno di 40 milioni molte partite Iva si trovino in grossa difficoltà. In un cul de sac, degna conclusione di una vicenda paradossale.

Nel 2012 il governo Monti aveva annunciato sgravi biennali per la piccola mobilità. Le mini aziende, che avessero assunto dipendenti rimasti a spasso per giustificato motivo nell’ambito di attività artigianali, avrebbero usufruito di interessanti sgravi contributivi. Un costo del 10% contro il 30 normalmente previsto. A ottobre del 2013 viene emessa una circolare che in sostanza chiarisce come non sia più possibile riconoscere le agevolazioni per le assunzioni, effettuate nel 2013, di lavoratori licenziati nel 2013. «In via cautelare», si evince dalla direttiva, «deve ritenersi anticipata al 31 dicembre 2012 la scadenza dei benefici connessi». In sostanza sparisce la copertura per una norma che per legge della Repubblica avrebbe dovuto essere garantita per almeno due anni e scatta la retroattività. Non solo stop per i circa 300 euro mensili di agevolazioni. Ma ora il rischio della batosta: la restituzione di una somma che può arrivare anche a 5mila euro.

In Parlamento si era mosso il M55. La deputata veneta Gessica Rostellato ha presentato un’interpellanza in Aula sollecitando il govemo a dare risposte. «Avevamo chiesto», commenta Rostellato, «di preservare migliaia di aziende da un esborso incomprensibile, data la piena violazione del principio di irretroattività di una serie di provvedimenti talmente chiari da non lasciare dubbi. Abbiamo poi depositato una risoluzione perché il governo non obblighi molte aziende a trovarsi nella condizione di non poter ottemperare a una richiesta assurda. E poi trovarsi fuori legge – basti pensare al Durc – e rischiare addirittura il ko». Ma non finisce qui. «Adesso regna la totale incertezza. Potrebbe anche accadere che le lettere firmate dall’Inps partano ugualmente», prosegue Rostellato, «e poi se dovessero saltare fuori le coperture, gli importi non verrebbero riscossi. Creando un clima di terrore e confusione». Gli artigiani sono furibondi. «Esistono licenziati di seria A e di serie B», commenta Mario Pozza delegato alla semplíficazione di Confartigianato, «e ancora una volta vediamo che il governo tratta i piccoli come dipendenti di serie B. Basta sciacquarsi la bocca con le Pmi. Ce ne ricorderemo quando si tratterà di votare». Ora Renzi ha al massimo due giorni per risolvere l’indegno pasticcio.

L’Europa per ora soffre di “annuncite”

L’Europa per ora soffre di “annuncite”

Alessandro Leipold – Il Sole 24 Ore

Il governo Renzi è tacciato di soffrire di “annuncite”. La critica non è senza fondamento, ma viene da chiedersi: «Da che pulpito?». Se vi è un protagonista che del male soffre è l’Europa. Ne è un esempio la conclamata “svolta di Milano”. Intendiamoci, dei progressi alla riunione informale vi sono stati, grazie anche all’abile lavorìo ai fianchi operato dal ministro Pier Carlo Padoan.

Tra questi vi è il riconoscimento (seppur tardivo) che l’Europa soffre di carenza di domanda. Ne segue che le riforme strutturali da sole non bastano e che ci vuole un rilancio degli investimenti. Qui la novità maggiore è stata l’ammissione da parte tedesca del ruolo che tocca alla Germania. «Abbiamo bisogno di più investimenti in Europa», ha riconosciuto il ministro Wolfgang Schäuble, aggiungendo: «Anche in Germania».

Altra novità è l’attenzione posta al coordinamento delle riforme strutturali, con la riduzione del carico fiscale sul lavoro individuata come «chiara priorità». È il punto di partenza giusto. Buono anche il metodo: per la prima volta sono state usate in modo concreto le raccomandazioni indirizzate dal Consiglio europeo a ciascuno dei Paesi membri. Da una loro lettura è emerso che la riduzione del cuneo fiscale è consigliata a 11 Paesi della zona euro (compresi tutti i maggiori). Logico indicarla come una priorità collettiva.

Fin qui tutto bene. Sorge poi l’abituale abisso tra il dire e il fare. Non si decide di avviare, come sarebbe d’uopo, un’azione di riduzione fiscale congiunta, con un impatto d’assieme assai superiore a iniziative nazionali sparse. Invece di mettersi d’accordo su un “fare” concreto e tempestivo, ci si limita a elencare una serie di “princìpi”. Princìpi che sulla questione critica del finanziamento della riforma ricorrono alla litania dello «scarso spazio fiscale», insistendo che i costi «dovranno essere adeguatamente compensati» da tagli alla spesa o spostamenti ad altre tasse, «in modo da rispettare gli obiettivi di finanza pubblica del patto di stabilità».

Altro che «sfruttare al meglio la flessibilità insita nelle norme esistenti del patto», come annunciato dal Consiglio di giugno. Le «norme esistenti» permetterebbero deviazioni dagli obiettivi prestabiliti per coprire i costi di riforme strutturali che «innalzano il potenziale di crescita». Gli stessi ministri dell’Eurogruppo hanno sostenuto che ridurre il carico fiscale sul lavoro «ha la potenzialità di sostenere i consumi, stimolare l’offerta di lavoro e l’occupazione, migliorare la competitività e la profittabilità delle imprese… contribuendo al buon funzionamento dell’unione monetaria». Eppure neanche in un caso così esemplare si è ritenuto di poter applicare la clausola di flessibilità. Insistere sulla copertura significa evirare lo stimolo della misura. Per l’Italia, poi, significa tarparne del tutto le ali, riducendola a cosa ben modesta. C’è da chiedersi: se non ora, e per una tale «priorità politica», quando mai sarà applicata la flessibilità prevista dal patto per le riforme strutturali?

Anche sul fronte dell’altra “svolta”, quella sugli investimenti, sorgono dubbi. La disponibilità del ministro Schäuble ad aumentare gli investimenti in Germania è sconfessata dai fatti: alcuni giorni prima, ha annunciato al Bundestag il raggiungimento anticipato degli obiettivi di finanza pubblica, e l’intenzione di tenere ferma la barra, ponendo l’avanzo di bilancio come obiettivo perpetuo. Eppure la banca statale KfW ha stimato che la Germania potrebbe investire 150 miliardi in più senza violare le proprie regole. Ma, si dirà, vi è l’iniziativa europea, il pacchetto Juncker di 300 miliardi di euro. Dopo tanti vertici sul rilancio degli investimenti e dopo una serie ininterrotta di iniziative (Europa 2020 in poi), i ministri hanno però ritenuto necessario un ennesimo studio, dando mandato alla Commissione e alla Bei «di presentare un rapporto sulle misure concrete e su progetti di investimento profittevoli». Il presidente della Bei ha subito ammonito che sarebbe bene non nutrire «attese esuberanti» su quanto potrà fare la Banca. Quest’ultima ha regolarmente schivato simili chiamate nel timore di intaccare il rating triple-A. I ministri torneranno a parlare della questione in ottobre, intanto l’Europa langue. Speriamo che almeno qui applichino un’altra norma di flessibilità del patto di stabilità, quella sugli investimenti, permettendo l’esclusione dei co-finanziamenti nazionali ai progetti europei.

Nello stesso modo in cui l’Europa chiede al governo Renzi di mostrare concretezza nelle riforme, così l’Europa è tenuta a trasformare i propri annunci in azione concreta. Altrimenti entrambi potrebbero risultare afflitti da un male comune. Senza però mezzo gaudio alcuno.

Articolo 18, banco di prova di una nuova fase

Articolo 18, banco di prova di una nuova fase

Fabrizio Forquet – Il Sole 24 Ore

È stato un Matteo Renzi più misurato del solito. Non il guascone che alcuni annunciavano. Ma un presidente del Consiglio consapevole del momento, che ha rinunciato – forse ben consigliato – ai toni spavaldi verso l’Europa e ha illustrato con inedito ordine il suo piano di riforme per trasformare – come è necessario – l’Italia. Sarà stata la presa d’atto del drammatico stallo dell’economia, con una crescita che il Centro studi Confindustria ieri ha confermato ben sotto lo zero; sarà stato il pressing dell’Europa, che considera scaduto il tempo delle promesse: fatto sta che Renzi ha dimostrato nel suo discorso alle Camere di avere una nuova cognizione del cambio di fase necessario e dell’obbligo di affrontare con maggior sistematicità i nodi cruciali di un rilancio economico che continua drammaticamente a slittare.

Ci si poteva aspettare di più sui tempi delle singole riforme e sul merito dei nodi politici che vanno sciolti per trasformare il riformismo d’impeto in riformismo dei fatti. Troppe poche parole, poi, sono state dedicate alla legge di stabilità. Ma la vera novità della giornata si chiama articolo 18, ovvero superamento della reintegra obbligatoria del lavoratore. Renzi ieri ha rotto gli indugi sull’ultimo dei tabù della sinistra e del mondo del lavoro. Il premier sa che su questo, su una maggiore flessibilità in uscita per i contratti a tempo indeterminato, si gioca una partita decisiva per la credibilità in Europa del suo governo e, sul fronte interno, per archiviare definitivamente ogni conservatorismo nel suo Pd.

Una partita difficile. Tutta ancora da giocare. Ma con i tempi stretti che l’emergenza lavoro, oltre che le attese dell’Europa, impone. Perciò ieri Renzi ha scelto di portare il suo affondo proprio sul Jobs Act, evocando anche la possibilità di un decreto. Sulla questione cruciale dell’articolo 18, però, in Parlamento si è tenuto ancora al di qua delle colonne d’Ercole. Ha incalzato sulla necessità di superare il dualismo nel mondo del lavoro, ma non ha parlato, ancora, di superamento della reintegra obbligatoria. Il dado però era lanciato. Così in serata alla direzione del partito il superamento dell’articolo 18 è stato evocato direttamente. Renzi illustrerà il suo piano a una direzione appositamente convocata per fine mese. Ma ieri sera raccontava così il progetto: «Lo Statuto del lavoro va riscritto e il dualismo tra “garantiti e non” va superato anche con una maggiore flessibilità nei contratti a tempo indeterminato, cioè con il superamento della reintegra obbligatoria prevista dall’articolo 18». Ovviamente questo deve avvenire, nel piano di Renzi, con un contestuale rafforzamento delle tutele economiche per chi perde il posto di lavoro. E qui il premier inserisce l’altra parte del discorso: «Con la legge di stabilità metteremo le risorse necessarie a rafforzare gli ammortizzatori, in questo modo anche i più scettici potranno convincersi sull’abolizione della reintegra obbligatoria».

È evidente che a questo punto un passaggio decisivo sarà proprio quello delle coperture da trovare nella legge di stabilità. Una “finanziaria” che diventa sempre più complessa, per la quantità di risorse che dovrà mobilitare. Eppure Renzi ieri alle Camere ha sorprendentemente eluso il tema della manovra di bilancio e dei tagli da 20 miliardi che serviranno in gran parte (16 miliardi) a coprire misure esistenti. Tra queste il sempre più contestato bonus da 80 euro, che da solo vale 10 miliardi. Il premier ha ribadito che non tornerà indietro. Comprensibile. Per il governo, come ha ammesso lo stesso ministro Padoan, è «una priorità politica» prima che una scelta economica. Ma con questa zavorra si riuscirà a liberare le risorse necessarie a ridurre le imposte sulle imprese e sul lavoro, vera priorità riconosciuta anche dall’Eurogruppo a Milano la settimana scorsa? E ora anche a trovare i fondi per la riforma degli ammortizzatori sociali?

Nessuno può credere seriamente che si potranno risparmiare 20 miliardi senza incidere sui grandi capitoli del bilancio pubblico, che sono le pensioni (254 miliardi, il 35% della spesa al netto degli interessi), la sanità (110 miliardi, il 14%), il pubblico impiego (164 miliardi, il 22,9%). Ma di tutto questo nel discorso di Renzi non c’è traccia. È vero che il tema dell’intervento alle Camere era il cosiddetto “piano dei mille giorni”. Ma è possibile parlare di un piano dei mille giorni senza entrare nella carne viva delle risorse necessarie a sostenere quelle riforme? È credibile un progetto di rilancio dell’economia senza delineare l’infrastruttura finanziaria necessaria a sostenerlo? Tanto più che si avvicinano le scadenze che contano. Quella della legge di stabilità, appunto, prevista tra il 10 e il 15 ottobre, ma anche quella del Consiglio europeo di fine ottobre. Per quella data l’Italia, se vorrà davvero accedere a una maggiore flessibilità sui conti pubblici, dovrà aver dimostrato di aver fatto passi avanti molto concreti sulle riforme. E su una in particolare, proprio quella del lavoro.

Perciò è davvero venuto il momento per Renzi di rompere l’ultimo dei tabù. Un’ennesima riforma del mercato del lavoro annacquata dalle tante resistenze conservatrici non serve a nessuno. Non serve certamente per dare il segnale di credibilità necessario in Europa, ma soprattutto non serve a dare all’Italia un mercato del lavoro più efficiente e più giusto. La svolta del riformismo dei fatti deve passare anche da qui.

Tre strade per cambiare

Tre strade per cambiare

Tito Boeri – La Repubblica

Ieri alla Camera Renzi ha detto che il suo governo intende varare la riforma del lavoro prima della fine dell’anno se necessario ricorrendo ad un decreto. Bene in effetti decidere in fretta prima che ci tolgano quel poco di sovranità limitata che ci è restata. Fondamentale dare segnali forti, che possano essere percepiti dai giovani che stanno decidendo se e dove emigrare e da chi guarda al nostro Paese da molto lontano e ha soldi da investire.

Questa settimana dovrebbe concludersi l’esame in Commissione al Senato della legge delega sulla riforma del lavoro. Una legge delega dovrebbe fissare principi generali e affidare al governo il compito di tradurli in norme specifiche. Invece l’impressione è che sin qui si sia discusso di tanti dettagli (mansioni, controlli a distanza, scambi di ferie, etc.) perdendo la visione d’insieme e con questa il senso delle sfide che stanno di fronte alle politiche del lavoro in Italia.

Il problema centrale è quello della bassa produttività. Come ricordava ieri Federico Fubini su queste colonne, il divario nel prodotto per addetto fra il nostro Paese e la Germania continua ad aumentare. Non va molto meglio se ci compariamo al Regno Unito e alla stessa Spagna. Questi andamenti sono tutt’altro che accidentali, per certi aspetti sono ricercati. Da ormai vent’anni abbiamo deciso di puntare tutto sui lavori e i lavoratori temporanei, a bassa produttività e bassi salari. Nelle parole di Maurizio Sacconi, che più a lungo di tutti ha gestito le politiche del lavoro in Italia, il futuro è nei “lavori umili” e i giovani devono “rivalutare il lavoro manuale”. E’ stato accontentato: nella disoccupazione giovanile al 43 per cento spicca il fatto che i laureati tra i 25 e i 29 anni faticano più dei diplomati a trovare lavoro. Non ci sono posti per loro. Eppure accettano di tutto, non sono “choosy”, schizzinosi, come lamentava Elsa Fornero: un terzo dei giovani che lavorano, lo fanno per meno di 5 euro all’ora, in più del 50 per cento dei casi si tratta di lavori non solo temporanei, ma anche con orari più corti di quelli che si vorrebbe (l’80% dei giovani che lavorano part-time vorrebbe un impiego a tempo pieno). I lavoratori potenzialmente più produttivi, sono in genere coloro che hanno livelli di istruzione più elevati, se ne vanno all’estero dove i tassi di disoccupazione giovanile arrivano a malapena alle due cifre. Se ne vanno perché la segregazione cui ha accennato ieri Renzi alla Camera diventa sempre più forte, purtroppo grazie anche alle politiche varate sin qui dal suo governo. Da quando è entrato in vigore il decreto Poletti, è infatti ulteriormente aumentata la quota di assunzioni e licenziamenti su contratti temporanei (è diminuita quella su contratti a tempo indeterminato), mentre sono diminuite le trasformazioni dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato. Il turnover avviene ormai tutto in questo segmento nettamente separato dal resto del mercato del lavoro. Non dà un futuro, non dà speranze.

Se la riforma del lavoro vuole davvero lasciare il segno, dovrebbe investire nella creazione di posti di lavoro che non siano nati con una data di scadenza e che offrano vere opportunità di miglioramento di salari e produttività nel corso della carriera. Sono posti in cui conta la qualità dell’incontro fra domanda e offerta e l’investimento in formazione sul posto di lavoro. Il contratto a tutele crescenti permette di sperimentare se un rapporto di lavoro a tempo indeterminato funziona o no dando modo al datore di lavoro, nel caso in cui la risposta fosse negativa, di interromperlo almeno in una fase iniziale con costi certi e relativamente contenuti. Imporre a chi dà lavoro di pagare per il licenziamento di un neoassunto quanto paga per il licenziamento di un lavoratore con vent’anni o più di anzianità aziendale è una negazione della sperimentazione. Impedisce di creare posti a tempo indeterminato su mansioni in cui la qualità dell’offerente non può essere valutata con un semplice colloquio di lavoro, ma richiede mesi di compresenze in azienda. Offrire un compenso monetario al lavoratore in caso di licenziamento, che sia crescente con la durata dell’impiego, incentiva il lavoratore a investire nella durata del rapporto di lavoro, dunque nella formazione. Permettere i licenziamenti individuali e non solo quelli collettivi, lasciando al datore di lavoro facoltà di scegliere chi licenziare e chi no, stimola fortemente gli investimenti in produttività, di entrambe le parti, lavoratori e imprese.

Il problema della produttività è particolarmente acuto da noi perché il regime di contrattazione non permette di legare salari e produttività. Per le imprese che devono creare lavoro quel che conta è il rapporto fra quanto il lavoro produce e quanto costa, fra produttività del lavoro e salari. Stranamente in Commissione a Palazzo Madama si è parlato di tutto tranne che di salari, come se non avessero nulla a che vedere con il mercato del lavoro. Può ovviare a questa grave dimenticanza un accordo tra le parti che sancisca che, come in Spagna e in Germania, nelle aziende dove si svolge la contrattazione aziendale, le decisioni prese in questi accordi devono poter prevalere su quanto stabilito dai contratti nazionali, fatte salve ovviamente le leggi dello Stato. Sarebbe un modo per stimolare la contrattazione decentrata, azienda per azienda, prendendo atto del fatto che gli incentivi fiscali introdotti in questi anni, con la detassazione dei premi di produttività, non sono serviti a nulla: da quando ci sono, è diminuita la quota di aziende in cui si fa la cosiddetta contrattazione di secondo livello. Potremmo cancellare gli incentivi fiscali, risparmiando quasi un miliardo, da destinare ad allargare la platea dei beneficiari del bonus di 80 euro.

Per investire nei nuovi lavori bisogna affinare il passaggio dalla scuola al lavoro. Qui possiamo trasformare un fallimento in una grande opportunità, una cocente delusione in una riforma pilota anche per l’Europa. Il fallimento è quello, peraltro annunciato, della cosiddetta Garanzia giovani. A fronte dei quasi 200.000 giovani che si sono iscritti, i centri dell’impiego hanno identificato 103 opportunità d’impiego. Nove giovani su dieci iscritti su www.garanziagiovani.gov.it non hanno neanche ricevuto il primo colloquio di orientamento. E’ l’ennesima delusione, dopo il rapimento dei 200.000 posti di lavoro promessi dal pacchetto sul lavoro del Governo Letta. Chi li ha visti? Mentre chiediamo maggiori investimenti all’Europa non possiamo permetterci di far affondare l’unico investimento che ha fatto in questi anni nel nostro mercato del lavoro. Perché allora non permettere ai giovani di spendere la dote loro concessa dall’Europa in corsi avanzati di formazione-lavoro organizzati da università sul territorio in contatto con le aziende? Perché lasciare che questi soldi vengano buttati via presso qualche centro dell’impiego o finiscano per arricchire unicamente gli intermediari privati, anziché favorire i giovani? L’apparato normativo c’è già. Le università possono già oggi istituire corsi brevi di formazione a contatto con le aziende, in cui i frequentanti passano metà del tempo nelle aule universitarie e l’altra metà in azienda. La partecipazione e il lavoro dei giovani potrebbe essere in gran parte remunerata con la dote. Questi corsi non offrono garanzie di trovare lavoro, ma trasferiscono capitale umano, competenze che sono davvero utili alle aziende, che ci mettono del proprio nel formare il potenziale dipendente e che hanno tutto l’interesse ad assicurarsi che l’università faccia bene il suo mestiere.

Una riforma del lavoro che riesca a incidere su questi tre aspetti, regimi contrattuali, contrattazione salariale e formazione tecnica avanzata, darebbe un segnale forte ai giovani, all’Europa e a chi guarda anche da lontano al nostro Paese. Saremmo i primi a introdurre un contratto di lavoro che serve a unificare il mercato del lavoro, riducendo la segregazione dei lavoratori temporanei. Saremmo i primi a utilizzare i miliardi della garanzia giovani per introdurre un sistema di formazione duale come in Germania, Austria e Svizzera, i Paesi dove la disoccupazione giovanile è più bassa. E non spingeremmo più chi ha soldi da spendere e vuole creare posti da lavoro ad andare altrove perché ritiene che da noi comunque non conterebbe nulla. Bisogna offrire a questi investitori la possibilità di negoziare su tutto, orari, organizzazione del lavoro e salari. Lo farà con le organizzazioni dei lavoratori nell’azienda in cui vuole investire senza vederselo imposto dall’alto.

Emozioni scolastiche

Emozioni scolastiche

Davide Giacalone – Libero

La scuola sia luogo di studio e formazione, non solo di socialità e svago. Lo dico agli studenti, ma anche ai governanti. L’anno scolastico inizia anche senza la sfilata inutile e le parole terribilmente ripetitive. Vale per tutti i governi. Per tutti i ministri che vanno a dare il cinque, per tutti quelli che fanno gli spiritosi, per quelli affetti da complesso materno o paterno. La serietà, forse, potrebbe essere un esempio apprezzato.
Oltre al rito stanco e sempre uguale, quest’anno s’è vissuta qualche emozione. La spesa pubblica per la scuola se ne va quasi tutta, per non dire tutta, nel pagamento di chi nella scuola lavora e delle spese fisse relative a organizzazione e immobili. Brutta roba. Non contenti di ciò, come si sa, il governo ha avviato l’assunzione di 190 mila insegnanti: 150 mila dalle graduatorie a esaurimento e 40 mila con un concorso, che non c’è e, magari, manco ci sarà. Ieri Matteo Renzi ha detto: assumere quei precari è un obbligo. Cerchiamo di essere più precisi: è una capitolazione. E’ la dimostrazione che, negli anni, lo Stato ha barato, mantenendo in condizioni d’incertezza quanti aveva poi in animo di assumere e stabilizzare. Ha barato sui corsi abilitativi, sulle graduatorie, sul presunto obbligo costituzionale di assumere solo per concorso. Ma è anche la dimostrazione che tutte quelle sul merito e sulla valutazione sono chiacchiere, perché si assume chi c’è di già, facendo fuori i giovani che volessero dedicarsi all’insegnamento. Capitolazione, è la definizione adatta.

Un brivido ce lo ha regalato anche il ministro dell’istruzione, la professoressa onorevole Stefania Giannini. La quale non è specializzata in materie giuridiche e pensa che la politica sia farsi fotografare. Ella, difatti, è riuscita a dire che non solo intende cambiare gli esami di maturità (una mania di tutti quelli che s’appoggiano una stagione a viale Trastevere), ma è fermo proposito del governo inserire tale riforma in un decreto legge, già programmato per il mese di gennaio, talché possa valere per l’anno scolastico 2015-2016. Vale a dire il prossimo, non quello iniziato. Ultimamente capita di sovente, direi puntualmente e sempre, quindi anche questa volta aspetto che palazzo Chigi la smentisca. A tutto c’è un limite.
Perché mai si dovrebbe usare un decreto legge, vale a dire uno strumento legislativo d’urgenza, che entra immediatamente in vigore, per scrivere una riforma che riguarda l’anno scolastico che comincerà nel settembre 2015 e finirà nel giugno del 2016? Potrebbe replicare, la professoressa onorevole, che già ci sono esempi di cose simili, ad esempio nel settore giustizia. Vero. Ma se consentono di reiterare l’obbrobrio vuol dire che al Quirinale hanno chiuso l’ufficio legislativo. Il che potrebbe anche andare bene, se solo se ne vedesse il riscontro nel taglio delle spese.

Nel merito, il ministro vorrebbe esami di maturità con tesina e commissione interna, tranne un membro esterno a far da garante. Chi glielo dice che sono cose già viste? Chi glielo dice che la tesina la portai già io, nel secolo scorso? Ma, soprattutto, chi le ricorda a che servono gli esami di maturità? Sono funzionali al valore legale del titolo di studio. Se lo ha dimenticato, o mai saputo, fatele la fatale rivelazione. Perché basterebbe mettere mano a quel totem muffuto e insulso per risolversi un sacco di problemi. Con il che, naturalmente, non verrebbero meno i test finali, in grado di dare il senso della qualità raggiunta, nel corso degli studi, è che si potrebbero fare in modo più serio, più pulito, più efficiente, infinitamente meno costoso, e senza commissione, che serve per il citato totem. Si potrebbe farli come si fanno in tanti sistemi istruttivi europei: on line. Con valutazioni comparabili. Dove il garante è l’onestà del sistema, non il commissario esterno, che si spera sia onesto. Ma di speranza non si campa.

Qualcuno di buona volontà, provi a farlo sapere a quelli del ministero. Approfitti del fatto che, da ieri, è aperta la mitica consultazione pubblica. Che durerà due mesi. A proposito, questa è l’ultima perla della giornata: ha detto il ministro che una consultazione pubblica come questa, aperta a tutti quelli che vogliono scrivere, non si è fatta in nessun Paese europeo. Si esalti: non l’anno fatta da nessuna parte in questo mondo. Provi a chiedersene il perché.

Renzi l’affamatore: aumenta anche il pane

Renzi l’affamatore: aumenta anche il pane

Laura Della Pasqua – Il Tempo

Sprechi e privilegi non si toccano ma per far cassa, Renzi sarebbe pronto a colpire pane, pasta, farina, burro e olio. Insomma i beni di prima necessità che, dall’oggi al domani, alla faccia del crollo dei consumi, sarebbero rincarati. Ciò che nemmeno Monti, nella cura da lacrime e sangue, ebbe il coraggio di fare, potrebbe essere servito da Renzi. E per farci ingoiare questo ennesimo sacrificio la giustificazione è già pronta: lo vuole Bruxelles. In un documento con una sfilza di consigli, la Commissione europea scrive che «c’è il margine per spostare ulteriormente il carico fiscale verso i consumi».

Ignorando quindi i dati che continuano a registrare il crollo dei consumi, la Commissione sostiene che «è determinante una revisione delle aliquote Iva ridotte e delle agevolazioni fiscali dirette». L’aliquota minima, quella del 4%, riguarda beni di prima necessità quali pane, pasta, riso, farina, latte, burro, formaggi, olio d’oliva, frutta, verdura e patate. Verrebbe colpita anche l’editoria ce già versa in una crisi comatosa. L’Iva al 4% è infatti anche su giornali, libri e riviste. Ma è anche su occhiali, lenti a contatti, materiali terapeutici, mense aziendali e scolastiche. A rischio anche la fascia di beni con aliquota al 10%. Si tratta di acque minerali, uova, zucchero, latte conservato, pesce, carni e salumi, cioccolato, tè, marmellate, yogurt, birra. Subirebbero rincari cinema e teatri, alberghi e pensioni, tutti i trasporti (ferroviari, marittimi, aerei e autobus), l’energia elettrica, il gasolio e il gas, la raccolta dei rifiuti. Sarà più caro un pasto al ristorante e la consumazione al bar.

Al momento è solo un’ipotesi al vaglio dei tecnici del ministero dell’Economia ma il fatto che lo sponsor sia proprio Bruxelles le dà maggio forza. Perchè se Renzi davanti alle televisioni ostenta il pugno duro contro i diktat europei, in realtà è molto attento alle raccomandazioni della Commissione europea. Anzi potrebbe sfruttarle per giustificare decisioni ad alto tasso di impopolarità. Un po’ quello che è stato con la riforma Fornero delle pensioni. Ogni punto di Iva vale 4 miliardi di gettito. Una cifra da non sottovalutare per un governo con l’acqua alla gola. Tanto più che in un momento di bassa inflazione sarebbe facile da applicare. Che poi questo possa comprimere ancora di più i consumi è un problema che il governo potrebbe giustificare estendendo per un altro anno il bonus da 80 euro.

Contro l’ipotesi di un rincaro dell’Iva si è già scatenata la polemica generale. In prima fila le categorie del commercio che temono dai rincari un ulteriore crollo delle vendite. «Sarebbe davvero una follia, specie in una situazione nella quale l’Italia è già con un piede nella deflazione: anche se si trattasse di uno spostamento selettivo di beni dalle aliquote più basse, quelle del 4% e del 10%, un’ulteriore caduta dei consumi sarebbe infatti inevitabile» commenta la Confesercenti.

Le conseguenze sarebbero drammatiche: «Si sottrarrebbero una serie di beni alle possibilità di acquisto di vasti ceti popolari, con un ritorno inferiore alle attese in termini di gettito. Senza contare il raddoppio delle chiusure di imprese nel commercio e nel turismo, già oltre quota 50mila nei primi 8 mesi del 2014».

Confesercenti ha calcolato che portando l’aliquota dal 4% al 10% «l’aggravio per le famiglie sarebbe pari a 5 miliardi l’anno». Per la Confcommercio «sarebbe il colpo di grazia per imprese e famiglie. Verrebbero colpiti soprattutto i redditi medio bassi che hanno beneficiato del bonus di 80 euro, neutralizzandone l’effetto». Contro l’aumento delle aliquote minime anche tutti i partiti. «Sarebbe il de profundis per la nostra economia» afferma il presidente della Commissione di Vigilanza sull’Anagrafe Tributaria Giacomo Portas, eletto alla Camera nel Pd. Per Squeri di Forza Italia «è un’ipotesi suicida. Come si può parlare di crescita se si continuano ad alzare le tasse? Se la risposta del governo al Pil che affonda, al potere d’acquisto delle famiglie ridotto al lumicino e ai consumi fermi, con conseguente crisi delle attività commerciali, è il via libera all’aumento delle aliquote iva ridotte, significa che davvero si è perso il senso della realtà». Per il vicecapogruppo Ncd alla Camera, Dorina Bianchi sarebbe «un grave passo falso del governo. Ci saremmo aspettati una smentita da parte del Tesoro. Invece di cambiare davvero verso, si continuerebbe così sulla scia di politiche di austerità che tanti danni hanno procurato al nostro tessuto produttivo». «Sull’aumento dell’Iva saremo irremovibili, respingeremo pressing Ue e avvisi di ogni sorta e invitiamo Renzi a fare altrettanto», tuona Barbara Saltamartini, portavoce del Nuovo Centrodestra. E sottolinea che «con una pressione fiscale a quota 44%, anche solo immaginare un aumento dell’Iva sarebbe una scelta improvvida, che avrebbe effetti deleteri su consumi per famiglie e imprese».

Basta aumenti Iva

Basta aumenti Iva

Francesco Forte – Il Giornale

Circolano due notizie inquietanti. L’Unione europea avrebbe chiesto all’Italia di aumentare al 10% l’Iva, attualmente al 4% per i generi alimentari e altri beni di prima necessità. E il Pil italiano quest’anno anziché crescere dello zero, come si è visto dai dati sino a luglio, decrescerebbe secondo l’Ocse dello 0,4 (con un peggioramento nel secondo semestre) e ciò danneggerebbe l’equilibrio di bilancio e il rapporto debito/Pil. Di qui una manovra correttiva, che verrebbe attuata sul lato delle imposte, anziché sul lato delle spese e delle privatizzazioni.

Se si seguisse la prima tesi, insieme alla seconda, ciò diventerebbe un vero suicidio. E i famosi 80 euro in busta paga apparirebbero una presa in giro, insensata. Che il Pil debba decrescere dello 0,4 in Italia nel 2014 mentre quello medio dell’Eurozona avrà comunque secondo l’Ocse un modesto andamento positivo, è qualcosa che dipende da ciò che Renzi si deciderà a fare, tanto per il decreto Sblocca Italia, che ancora non è operativo, quanto per l’urgentissima liberalizzazione del mercato del lavoro, di continuo rimandata e ridimensionata.

Comunque, in questo frangente, il governo non si può permettere un aumento generale al 10% dell’aliquota Iva del 4%, che in parte ricadrebbe, come maggior onere, sui consumatori e in parte rimarrebbe a carico delle imprese, accrescendo la crisi che serpeggia in molti esercizi commerciali e in molte imprese dei beni di largo consumo. E non si potrebbe neppure addurre l’argomento adottato per aumentare le imposte sugli immobili e reintrodurre quella sulla prima casa, ossia che esse riguardano i proprietari (come se non ci fossero persone a basso reddito che lo integranti con qualche modesto possesso immobiliare). L’aliquota Iva del 4% riguarda frutta, pasta, pane, verdura, latte, latticini, formaggi, cereali, pesce, crostacei, fertilizzanti, giornali, articoli per disabili, medicinali, vendita di prima casa e analoghi beni considerati di prima necessità.

Guardando con attenzione la lista, si trova che qualche aliquota del 4% è un privilegio, ma non sembra che lo si possa dire per l’elenco di massima appena esposto. Se è vero che esiste una richiesta dell’Unione europea di aumento dell’aliquota dal 4% al 10%, ciò non può riguardare i beni di consumo nella fase finale, perché questa tassazione è competenza dei singoli Paesi. Al massimo la richiesta europea per il consumo finale è di adottare l’aliquota ridotta comunitaria del 5% e non del 4%, ma l’Italia non è l’unico Paese che ha ottenuto questa piccola deroga.

Ciò che l’Unione europea ci può chiedere è di portare al 10% l’aliquota prelevata sui beni importati, per armonizzare il traffico internazionale comunitario. Questo può convenire anche a noi, perché ci consente di penalizzare le aziende produttive e gli esercizi commerciali che non fatturano l’Iva alla propria clientela. Essi perderebbero il diritto al rimborso del 10% sulla merce importata corrispondente e la loro concorrenza sleale rispetto agli esercizi che effettuano le fatturazioni diminuirebbe. L’Iva al confine per il traffico extracomunitario si controlla facilmente per i beni di massa di natura agroalimentare dato il loro volume e dato che, quando si tratta di prodotti freschi, si debbono adottare veicoli speciali a ciò attrezzati, Per il traffico comunitario non c’è la tassazione al confine, ma per i veicoli che trasportano i prodotti freschi è agevole fare i controlli presso i luoghi di destinazione all’ingrosso. Questo gettito comporta un recupero di imposte evase e non un onere per il consumatore, posto che alla fase finale il tributo rimanga al 4%.

Per il pane, la pasta, il latte, la frutta e la verdura ecc. che si vende nei negozi, la decisione dell’aumento appartiene al governo italiano. E sarebbe una ingiuria al buon senso l’effettuare questo aumento proprio ora, che la gente tira già la cinghia e che c’è scoraggiamento. Se il Pil diminuisce, anziché crescere di zero, il governo deve tagliare le pubbliche spese di natura variabile, non aumentare le entrate. In una famiglia, se il reddito cala, si tagliano tutte le spese variabili, non solo quelle dei biondi e non dei bruni e dei calvi o viceversa.