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I salti del gambero dell’Italia in crisi

I salti del gambero dell’Italia in crisi

Marco Biscella, Rossella Cadeo e Fabio Grattagliano – Il Sole 24 Ore

Si cominciano a contare i mille giorni del governo Renzi, si osserva con apprensione l’evolversi della situazione geopolitica mondiale e si scruta l’orizzonte in cerca dei primi segnali di ripresa. Ma, nonostante tutta questa proiezione in avanti, l’orologio della congiuntura economica in molti casi sembra andare all’indietro, e anche veloce- mente: nel “monopoli” dello sviluppo, dal reddito ai consumi, dal mattone alla produzione, dal risparmio al lavoro, l’Italia non solo risulta inchiodata a performance preoccupanti – conseguenza della crisi che l’ha investita a partire dalla fine del 2008 – ma ha decisamente innescato la retromarcia, e di parecchi anni. Un «indietro tutta» che Il Sole 24 Ore del lunedì in queste due pagine documenta con statistiche ufficiali, dopo aver esplorato – per una decina di indicatori- qual è la situazione attuale e a quale anno occorre riandare per incontrare un valore analogo.

Il record dell’inflazione
Il caso più eclatante è quello relativo al tasso d’inflazione, ambito nel quale l’Italia ha fatto addirittura un balzo (indietro) di 55 anni: dopo anni di crescita moderata, nel luglio 2014 l’Istat ha infatti diffuso il primo segno negativo (-0,1%) così come nel 1959 (-(0,4%). Allora però il Paese – superata la prova del dopoguerra – si avviava, pieno di energia, sulla strada del “miracolo economico”, tra consumi in ripresa, aumento di produttività e occupazione, sviluppo di grandi imprese. Strada interrotta bruscamente dallo shock petrolifero del 1973, quando per una dozzina d’anni il carovita inanellò tassi di crescita a due cifre.

L’edilizia in panne

Non va meglio per l’edilizia, ferma alla fine degli anni 60, periodo di boom economico, sviluppo urbano e infrastrutturale: gli investimenti nel 2014 non arriveranno a 60 miliardi (stime Ance), come nel 1967. Che il mattone sia in sofferenza lo confermano anche i dati sulle compravendite immobiliari, che nel 2013 (stime Nomisma) sono scese quasi a quota 4oomila, meno del volume totale registrato a metà dei favolosi “anni 80”, quando pe- rò ancora non c’erano cellulari e per le notizie si aspettava il telegiornale.

Le auto e la produzione
E anche le auto guardano nello specchietto retrovisore: le immatricolazioni nel 2013 (1,3 milioni) si sono collocate ai livelli del 1979 (1,4 milioni), anno in cui anche importazioni ed esportazioni peraltro segnavano risultati molto più brillanti degli attuali. Più o meno della stessa lunghezza (quasi trent’anni) i salti indietro compiuti dal reddito disponibile pro capite e dalla produzione industriale: il primo indicatore è bloccato a 17.200 euro, più o meno quanto nel 1986 (l’allarme è stato lanciato pochi giorni fa da Confcommercio), mentre il secondo indicatore – secondo l’indice elaborato da Centro Studi Promotor su dati Istat – è pari a 81,2, non lontano dall’8o, indice anche questo attribuibile al 1986.

Redditi e consumi
“Soltanto” di una ventina d’anni, fino al 1997-’98, arretra invece l’orologio che segna lo stato della ricchezza degli italiani, dei consumi privati, dell’occupazione e del turismo. Infatti la ricchezza netta per famiglia è bloccata sui 350mila euro (elaborazioni Banca d`Italia), i consumi privati finali (sempre per nu- cleo) sono scesi sotto i 2.600 euro al mese rilevati qualche anno prima dell’ingresso dell’euro (importo ricavabile dalle statistiche Istat a prezzi concatenati). È vero, infatti, che il consumatore si è evoluto, cosi come si è ampliata ed è migliorata l’offerta, ma è anche vero che le minori entrate, la pressione fiscale e le incertezze sul futuro lo convincono a non riempire troppo il proprio carrello.

L’Italia jobless
Quanto al lavoro – fonte principale d’incertezza in questi anni di crisi – il tasso di disoccupazione veleggia ormai stabilmente da più di un anno oltre il 12% e nel luglio scorso ha toccato un allarmante 12,6%, con livelli mai raggiunti dal 1977, e appena sfiorati nel 1998. Agli italiani, coscienti della recessione in atto, ma fiduciosi (stando agli ultimi sondaggi) di poterne uscire, non resta che attuare tutte le strategie possibili per adeguare le uscite ai sempre più precari redditi: non per nulla anche sulle vacanze sono disposti a tagliare, per esempio riducendo il numero di giorni in albergo o la durata media dei pernottamenti, mai così bassi da inizio secolo.

Insomma,i salti del gambero sono tanti, troppi. E la crisi in cui si dibatte l’Italia rischia di essere peggiore anche della Grande depressione degli anni 30, quando il Pil pro capite risalì la china in otto anni. Oggi, invece, come ha rilevato Nomisma,«nell’ottavo anno (il 2015) il Prodotto interno lordo pro capite reale sarà un buon 10% sotto il valore pre-crisi».

Una strategia da ripensare per non disperdere le risorse

Una strategia da ripensare per non disperdere le risorse

Alessandro Rota Porta – Il Sole 24 Ore

Bisogna voltare pagina rispetto all’attuale sistema dei bonus per le assunzioni. Il gap tra fondi utilizzati rispetto a quelli stanziati dalle diverse norme in materia dimostrano lo scarso appeal delle misure adottate dal legislatore negli ultimi anni. Il rischio è quello di disperdere risorse preziose che potrebbero essere destinate a un taglio trasversale del costo del lavoro, a maggior ragione nella fase economica attuale, con l’instaurazione di nuovi rapporti di lavoro praticamente al palo.

Il declino dell’impianto che regola le agevolazioni sulle assunzioni è peraltro da ricercare in altri fattori, oltre alla negativa congiuntura occupazionale. Intanto, le misure sono state via via introdotte badando solo alle esigenze contingenti, volte a favorire questa o quella particolare categoria di lavoratori o di settore produttivo, senza seguire una logica organica. Inoltre, l’applicazione effettiva delle misure si è rivelata spesso farraginosa, per via del ritardo con cui sono arrivati i provvedimenti attuativi rispetto alle norme istitutive dei bonus. Allo stesso modo, anche le istruzioni di prassi – indispensabili per garantire la piena operatività degli incentivi – hanno creato criticità agli operatori per la loro complessità o per le procedure di assegnazione, talvolta legate alla “lotteria” dei click-day. Non è bastato, ad esempio, come aveva previsto la riforma Fornero del 2012, sostituire un incentivo cambiandogli semplicemente pelle: la staffetta tra il contratto di inserimento e i bonus destinati alla ricollocazione degli over 50 e delle donne «svantaggiate» non ha sortito infatti risultati attesi (come dimostrano i dati pubblicati in questa pagina).

L’altro “flop” – più recente – è stato quello del «bonus Letta» per l’assunzione dei giovani, destinato nei piani del Governo di allora a creare centinaia di migliaia di posti di lavoro: i risultati si sono rivelati modesti, anche per la complicatezza delle regole da rispettare. La stessa agevolazione ha addirittura rischiato di mettersi in concorrenza con altri contratti incentivati, come l’apprendistato, dal momento che si rivolgeva alla stessa platea di soggetti. Proprio i dati recenti sulle assunzioni in apprendistato, che danno questo istituto in sensibile crescita nel secondo trimestre dell’anno, dimostrano che la chiarezza delle regole è un presupposto fondamentale per dare appeal alle misure adottate agli occhi dei datori di lavoro. Gli ultimi interventi legislativi sull’apprendistato (il decreto «Giovannini» dell’anno scorso e soprattutto il decreto «Poletti») hanno portato una ventata di semplificazione, ricreando fiducia nei confronti di questa tipologia di rapporto.

Alla luce di queste esperienze – per non ripetere gli errori commessi – varrebbe forse la pena di abbandonare il puzzle dei bonus per dare vita a un concreto abbattimento del costo del lavoro, svincolato dalla sussistenza di doti specifiche da ricercare nei lavoratori. Se è vero che alcune categorie di soggetti sono più penalizzate di altre nell’entrare nel mercato del lavoro o nel ricercare nuova occupazione, è altrettanto vero che una sforbiciata al cuneo fiscale potrebbe portare a una maggiore competitività e quindi al rilancio dell’occupazione in genere.  

Ora servono misure di soccorso efficaci

Ora servono misure di soccorso efficaci

Fabrizio Galimberti – Il Sole 24 Ore

«L’insània negli individui è qualcosa di raro – ma nei gruppi, nelle nazioni e nelle epoche, è la regola». Questa massima di Friedrich Nietzsche è sempre di attualità, come si vede nella tragedia di Gaza, e – in modo meno sanguinolento – nelle politiche di austerità in Europa. Basta guardare alle cifre. In queste pagine abbiamo documentato, per molte variabili del nostro benessere (o malessere) economico, la distanza (tanta, troppa) fra la situazione attuale e quella del passato. Il “come eravamo” si declina in un salto del gambero, non in un nostalgico “Amarcord”. Stiamo tornando indietro e, quel che è più grave, questo regresso non è la fase discendente dello yo-yo, ma una discesa che rende più difficile la risalita.

In termini economici, una disoccupazione a questi livelli porta a un deterioramento del capitale umano: si manifesta come disoccupati scoraggiati che escono dalla forza lavoro e/o come un arrugginirsi delle abilità. Le misure attive di sostegno al lavoro (formazione e altro) in Italia sono meno diffuse e meno efficienti rispetto ad altri Paesi. E quel che abbiamo appena definito come “arrugginirsi delle abilità” non riguarda solo i singoli, ma interi settori in cui il know how si va sfilacciando fino a scomparire. Ma ancora più importante, in questo regresso dell’economia, è l’aspetto psicologico. L’intera vicenda del dopoguerra, con la miracolosa impennata dell’attività economica, aveva avuto come causa ed effetto la “rivoluzione delle aspettative crescenti”: ogni generazione, ogni figlio e ogni figlia, avevano la speranza e l’attesa di migliorare il tenore di vita rispetto a quello dei genitori. Questa convinzione diventava molla e motore del progresso: lo sforzo aveva una ricompensa. Ma se la rivoluzione delle aspettative crescenti inverte la marcia, perché sforzarsi? Ottimismo e attivismo cedono il passo a rassegnazione e apatia. Viene gettata la maschera di uno sviluppo senza fine e i ruggiti si trasformano in guaiti e lamenti.

L’Italia aveva i suoi problemi anche prima della Grande recessione. Ma quando questa allargò le sue ali uncinate sull’economia, quando all’urto del tifone recessivo succedette la coda velenosa della crisi da debiti sovrani, l’unica risposta che l’Europa seppe dare – e il problema non era e non è solo italiano – fu quella di un’austerità a senso unico. Ancora oggi viene chiesto all’Italia di versare altro sale sulle ferite dell’economia: proprio quando l’economia continua nella sua marcia del gambero, proprio quando – si veda il dato ultimo sulla produzione industriale – la nostre fabbriche sfornano un quarto e passa in meno rispetto ai massimi precedenti, si chiede all’Italia di stringere di più la politica di bilancio. Torna alla mente l’insània dei mandarini del Tesoro americano nei primi anni Trenta quando, di fronte all’evidenza di fallimenti e disoccupazione, sostenevano che lo Stato doveva dare il buon esempio e far quadrare i suoi conti, aumentando le imposte e diminuendo le spese.

È vero, l’ossessione di oggi, presso i sostenitori dell’austerità, è un po’ più sofisticata di quella di allora. Il ragionamento è questo: se non insistiamo sull’austerità, i Paesi in deficit non fanno le riforme che li aiuterebbero a crescere. Allora, pur se la nostra insistenza sembra crudele (“tough love”, direbbero gli anglosassoni), siamo in fondo dei burberi benefici. Il difetto di questo ragionamento è nel manico, sta in un serio problema di miopia. Le riforme, quand’anche si facessero oggi, prendono tempo a esplicare i propri effetti, mentre l’economia ha bisogno di un soccorso hic et nunc. Se questo soccorso non viene – anzi, se le viti del bilancio vengono strette ancora – l’emorragia continua e diventa più difficile introdurre riforme. La gente vede le regole europee come una camicia di forza e non come un obiettivo virtuoso. Così il cerchio si chiude, in uno stallo disperante di azioni e reazioni.

Come uscire da questo circolo vizioso? Una via è quella di annunciare unilateralmente un rinvio degli obiettivi di pareggio, come ha fatto la Francia. Ma la via maestra è un’altra: non quella delle punzecchiature, ma quella della politica alta. Eliminare la discrasia dei tempi – riforme a tempi lunghi, soccorso a tempi brevi – con un atto di fiducia. Accettare, da parte di una Commissione bruxellese eterodiretta dalla governante teutonica, un allentamento delle regole e dare fiducia ai Paesi nell’adozione delle riforme. Riforme che in ogni caso, come ha detto più volte Matteo Renzi, dobbiamo fare per il nostro bene, non perché ce lo impone l’Europa. Ma la fiducia è una merce scarsa nella politica europea. Purtroppo, Nietzsche aveva ragione.

Un piano per salvare i rassegnati

Un piano per salvare i rassegnati

Walter Passerini – La Stampa

Negli ultimi dati Istat relativi al secondo trimestre dell’anno, un’attenta analisi può condurre a focalizzare meglio i target di una nuova strategia. Esaminando con una lente di ingrandimento alcuni particolari, si scopre, per esempio, che sullo stock dei 3,2 milioni di disoccupati, l’aumento dei disoccupati è alimentato soltanto dalle persone in cerca di lavoro da almeno 12 mesi, che nel secondo trimestre 2014 arrivano a 1 milione 952mila unità (+13,9% pari a 238.000 unità).

L’incidenza della disoccupazione di lunga durata (12 mesi o più) sale così al 62,1%, dal 55,7% del secondo trimestre 2013. Chi resta senza lavoro rischia di rimanere in un girone infernale da cui non riesce a uscire. Se poi si mettono sotto la lente gli inattivi, si scopre un esercito di rassegnati e sfiduciati. Coloro che cercano lavoro anche se non attivamente sono quasi 1,8 milioni; coloro che non cercano lavoro ma sono disponibili a lavorare sono 1,5 milioni. Si tratta di 3,3 milioni di individui, un numero superiore ai disoccupati ufficiali (3,2). Se ancora si vanno a vedere i motivi della mancata ricerca del lavoro, si trovano 2 milioni di individui che non cercano più il lavoro perché ritengono di non riuscire a trovarlo. È questo uno zoccolo duro di rassegnati che, sommati a disoccupati, contrattisti a termine, cassintegrati e in mobilità, finti collaboratori, part timer involontari, fotografa l’esercito della sfiducia che va riportato al lavoro.

Puntuale arriva l’autunno caldo

Puntuale arriva l’autunno caldo

Giancarlo Mazzuca – Il Giorno

Che bilancio si può trarre all’inizio dell’autunno? Sul fronte europeo si può dire che lo sforzo di Mario Draghi, inferiore a quanto atto dalla Fed americana e dalla Bank of Japan, difficilmente aiuterà le banche a ripulire i loro bilanci dai crediti più scadenti; quindi molte non saranno in condizioni di riattivare il credito alle imprese. Sul fronte italiano si può dire che con le sue sbruffonate (ricordate l’invito ad andare tranquillamente in vacanza?) Renzi ha tenuto a lungo nascosta la vera situazione drammatica del paese e che non ha cambiato verso come voleva in tema di flessibilità: ora deve fare le riforme che l’Europa ritiene indispensabili e le deve fare sotto il monitoraggio della stessa Europa.

Un bel risultato. Significa che i compiti a casa fatti sinora non sono sufficienti, che la ripresa non ci sarà subito (ma quante volte governi e politici ci hanno detto che si vedeva la luce infondo al tunnel?), che dopo tante promesse Renzi dovrà scontentare molti (anche i berlusconiani che per lui mostrano notevole entusiasmo), che non ci sarà nuova occupazione, che avremo un autunno piuttosto caldo con i sindacati sul piede di guerra. Già è iniziato il gioco dello scaricabarile con il leader della Cisl che dà dei “palloni gonfiati” agli ultimi cinque governi. E lo stesso Renzi dovrà chiarirsi le idee sul costo del lavoro essendo caduto in sole 48 ore in due contraddizioni: ha detto che bisogna seguire il modello costituito dalla riforma tedesca che prevede l’esenzione dei mini-job ma ha anche auspicato una diminuzione attraverso il taglio del cuneo fiscale. In un caso significa stipendi più bassi, nell’altro una riduzione della tassazione.

Siamo ora in attesa dei tagli. Che non saranno quelli della spending review ma tagli lineari. Almeno in gran parte, come al solito. Sforbiciate agli sprechi, quindi un impiego migliore de denaro pubblico? Uno spreco è sempre voluto, non nasce per caso, e ad ogni spreco corrisponde, sostiene Ugo Arrigo, docente di finanza pubblica alla Bicocca di Milano, un vantaggio concesso a qualcuno: un’agevolazione, una indennità, una fornitura. Chiaro dove si interverrà? Con l’esenzione naturalmente della casta politica. In merito alle tasse poi, non aumenteranno quelle dirette, si troverà qualche altro modo subdolo per aumentare quelle indirette. Come nel caso della Tasi che nella maggior parte dei Comuni sarà più cara dell’Imu.

Così facciamo morire le nostre imprese

Così facciamo morire le nostre imprese

Nicola Porro – Il Giornale

L’ultimo caso è certamente quello più clamoroso. Perché riguarda l’Eni, una delle poche multinazionali italiane. Per di più coinvolge il suo attuale numero uno e il predecessore. Insomma il top delle aziende italiane, con il top dei suoi vertici. La vicenda è nota. La Procura di Milano indaga su presunte tangenti che sarebbero state pagate al governo nigeriano per l’esplorazione di un nuovo pozzo. Un caso simile ha riguardato nei mesi scorsi un altro big della manifattura, parapubblica: Finmeccanica. In quel caso fu addirittura arrestato il vertice operativo dell’azienda e aperta una pericolosa, per Finmecca, procedura che avrebbe potuto portare anche al suo commissariamento. L’ipotesi di reato anche in questo caso era la corruzione internazionale. La terza reginetta delle nostre imprese ex monopoliste, e cioè l’Enel, ha una lunga serie di problemi giudiziari legati all’inquinamento che sta coinvolgendo anche i vertici. I suoi ex amministratori sono stati condannati in primo grado a tre anni di carcere.

Le cose non è che vadano molto meglio nel campo privato, anche se, tranne casi clamorosi, si crea minore clamore. Basti pensare all’Ilva, una delle più grandi aziende siderurgiche d’Europa e una delle poche in Italia a reggere la concorrenza, fatta fuori per via giudiziaria. Senza uno straccio di sentenza definitiva. Alla Fiat, dove con l’arrivo di Marchionne hanno deciso di farsi solo gli affari loro, stanno scappando dall’Italia. Solo la Cgil-Fiom l’ha portata davanti al Tribunale del lavoro per un centinaio di cause, i cui esiti sono differenti l’uno dall’altro. Telecom è, grazie al cielo, fuori da questo tourbillon giudiziario (l’incredibile caso con Scaglia si è chiuso solo pochi mesi fa). Ma in compenso il governo e la politica non hanno alcuna intenzione di perdere la presa. Basti pensare alla separazione della rete: un fiume carsico che all’occorrenza esce dal sottosuolo.

Cosa vogliamo dimostrare con questa superficiale e incompleta lista dei guai giudiziari e degli interessi politici sulla nostra corporate Italia? Una cosa semplice. Se nel passato la cultura anti industriale e anti impresa emergeva alla luce del sole, era ideologica, legittima, manifesta e organizzata, oggi tutto ciò esiste ancora, ma è più subdolo. Non c’è più nessuno che apertamente ce l’abbia con l’Eni, ma sono in molti che a casa nostra godono delle sue disgrazie. Oggi Renzi difende i vertici del Cane a sei zampe, ma ieri pretendeva che si inserisse una norma nel suo statuto che decapitava i vertici al solo iniziare di un’indagine. Per fortuna che l’assemblea non l’ha votata contro il parere del governo.

Si dice sempre che in Italia non sarebbe mai potuta nascere la Apple perché la Asl avrebbe fatto chiudere il garage dove fu inventata. La verità è che oggi in Italia non potrebbe nascere neanche l’Eni di Mattei. All’epoca c’era un impasto fatto di politica, media, sindacati e istituzioni che si sentiva classe dirigente e che aveva un progetto per il Paese. E lo difendeva ad ogni costo. Oggi siamo vittime dell’ultimo interesse legittimo e schiavi di ogni ordine costituito. Non c’è un potere, ma piccoli poteri intoccabili. A parole diciamo tutti che vogliamo la ripresa, più Pil e più occupazione. Ma poi soccombiamo a quella sottocultura anti industriale per cui ripresa, Pil e occupazione si possono fare solo per decreto e grazie all’intervento dei funzionari pubblici.

Esageriamo? Ma per carità. Il virus della norma e dell’intervento pubblico e sanzionatorio è ormai diffuso a tutti i livelli. A parte la coraggiosa direttrice generale, Marcella Panucci, la Confindustria, che dovrebbe rappresentare le imprese, soprattutto quelle più grandi, ha paura anche della sua ombra. Nessuno (a parte la solita Panucci) ha fiatato sull’allucinante e pervasivo potere di commissariamento che ha in mano il pm Cantone con la sua Authority anticorruzione. Roba da socialismo reale. E chi ha il coraggio di dire che l’inasprimento del reato di falso in bilancio, che si sta studiando in queste ore, è una follia; che l’autoriciclaggio è invenzione rischiosa per i privati. Chi ha il buon senso di dire che aver reso penalmente rilevante la sola ipotesi di evasione (o elusione, o abuso di diritto) di imposta superiore a 50mila euro in un Paese con la nostra giustizia, vuol dire consegnarsi mani e piedi alla burocrazia fiscale?

Sì sì cari vertici industriali: continuate a parlare di legalità nei vostri convegni. Fate delle belle agenzie di stampa con la vostra indignazione per l’evasione fiscale. Scappate come dei conigli davanti a Finmeccanica o Eni indagate e prima di loro davanti alla Fastweb di Scaglia. Alimentate la vostra invidia verso quel brusco (e sicuramente spregiudicato, pace all’anima sua) Capitano di impresa che era Emilio Riva. E non capite che siamo tutti sulla stessa barca. Fa acqua da tutte le parti. E voi state lì a dettare il regolamento, le norme e le eventuali sanzioni su come evacuarla in caso di falla. Che è già grande come una voragine.

New Deal da mille miliardi, vendiamo l’oro dell’Europa

New Deal da mille miliardi, vendiamo l’oro dell’Europa

Renato Brunetta – Il Giornale

È vero. Il problema della bassa crescita economica non è solo italiano, ma di tutta l’area dell’euro. Si crescerà, in media, nei prossimi dieci anni, non più dell’1% (se va bene). La metà, o meno della metà, di quanto cresceranno, invece, gli Stati Uniti. E questa bassa crescita deriva da due fattori fondamentali: il basso livello di investimenti in Europa (si pensi solo alla bassa dotazione infrastrutturale storica dell’intera area) e l’ulteriore caduta degli ultimi 7 anni, quelli della crisi: -20% (di un livello, abbiamo detto, già troppo basso in partenza).

Non è un caso se la Commissione europea e il Fondo Monetario Internazionale continuano a richiamare la Germania con riferimento al suo eccessivo surplus delle partite correnti, auspicando, per rientrare nei parametri europei, un aumento degli investimenti pubblici in infrastrutture e servizi. I benefici si allargherebbero a tutto il sistema economico europeo. Ma se ancora oggi la Germania non spende in casa propria, nonostante un rapporto deficit/Pil praticamente pari a zero, come potevamo pretendere che la politica economica europea degli anni della crisi, germanocentrica, fosse orientata agli investimenti? I risultati del dogma del rigore fine a se stesso e dell’austerità a tutti i costi, che si è tradotto in sangue, sudore e lacrime per gli Stati dell’eurozona, si sono visti. E il cambiamento di rotta è oggi più che mai necessario.

Il combinato disposto del basso livello infrastrutturale storico e l’ulteriore caduta degli anni della crisi ha ridotto la competitività dell’area euro. Per questo l’Europa deve uscire in maniera strutturale dalla crisi non solo con la politica monetaria, non solo con le riforme ma anche e soprattutto lanciando il suo New deal.

Obiezione scontata: dove si trovano le risorse per tutti gli investimenti necessari per colmare il gap infrastrutturale europeo? Risposta: attraverso l’emissione di Project bond garantiti dalla Banca Europea degli Investimenti (Bei). Oppure facendo ricorso, con tutte le cautele del caso, a quella quota delle riserve auree delle banche centrali nazionali eccedente rispetto agli obblighi di copertura dell’euro. Oppure ancora, attraverso una riconversione del Fondo salva-Stati, quell’orribile mastodonte che oggi, contrariamente alle ragioni per cui è stato creato, utilizza le risorse versate dai paesi dell’area euro (con conseguente aumento dei relativi debiti pubblici) per acquistare titoli del debito sovrano di Stati con rating AAA, come i Bund tedeschi, che hanno rendimento pari a zero.

Per non trovarsi isolato in Europa e per non fallire nel suo semestre di presidenza dell’Unione, Renzi rilanci. Vada oltre la proposta Juncker di 300 miliardi, e presenti un piano europeo di misure concrete che triplichi gli importi del presidente della Commissione europea, fino a 1.000 miliardi. Un piano finalizzato a una maggiore integrazione del mercato interno, in particolare nel settore dei servizi; a migliorare la regolazione e la normativa comunitaria; a costruire nuove infrastrutture; a migliorare I piani di approvvigionamento energetico; a dare impulso agli investimenti in ricerca e sviluppo, innovazione, capitale umano.

Come fare? Innanzitutto si dovrebbe sfruttare meglio la Banca Europea per gli Investimenti (Bei) e la sua capacità di assunzione di rischio, mediante lo Strumento di Finanziamento Strutturato (Sfs), che eroga prestiti, e/o altri strumenti come la cartolarizzazione. Si potrebbe pensare anche a un moltiplicatore della capacità di intervento della Bei, prendendo come riferimento il modello previsto per le operazioni di finanziamento della stessa Banca Europea per gli Investimenti nei paesi extra-Ue: in concreto si tratta di un fondo di garanzia capitalizzato per una certa quota del totale degli impegni (circa il 9%) che genera un moltiplicatore di 11 a 1 sulle operazioni in questione.

La quota capitale da inserire nel fondo di garanzia varierebbe in relazione al rischio legato al settore d’intervento. In caso di operazioni a rischio limitato (es. infrastrutture ad alto potenziale di redditività), l’effetto moltiplicatore sarebbe ancora maggiore: con il 3% di capitalizzazione si può garantire il 100% dei finanziamenti. Capitalizzazione da attuare con una semplice redistribuzione interna nel bilancio dell’Unione o con fondi devoluti dagli Stati membri (da stabilirsi sulla base degli stessi parametri di contribuzione al bilancio Ue), che non rientrerebbero nel computo del 3% del rapporto deficit/Pil.

L’Unione potrebbe ricorrere essa stessa all’emissione di un debito mirato. Il servizio di questo debito, poi, verrebbe finanziato da appositi capitoli di spesa del bilancio Ue, e il suo status in qualche modo negoziato con le agenzie di rating, in modo da mantenere un solido rating AAA per le emissioni. Non è una cosa del tutto nuova: il cosiddetto “Sportello Ortoli”, della fine degli anni Settanta, prevedeva proprio la raccolta di fondi da parte dell’Unione, per destinarli a iniziative specifiche. In alternativa, il fondo di garanzia potrebbe anche essere capitalizzato facendo ricorso, con tutte le cautele del caso, a quella quota delle riserve auree delle banche centrali nazionali eccedente rispetto agli obblighi di copertura dell’euro. Le quote dovrebbero essere considerate trasferimenti a fondo perduto, con la possibilità per la Bce (che sarebbe la custode delle quote trasferite) di vendere il metallo per finanziare le eventuali perdite sulle garanzie (le riserve auree sono infruttifere, mentre il sistema di garanzie del fondo può dover fare fronte a perdite). Last but not least: impiegare, per finanziare investimenti in infrastrutture, la liquidità di fatto ora bloccata nel Fondo salva-Stati. Quanto, infine, ai capitali privati, essi possono dare un impulso considerevole al potenziale di crescita dell’Europa. Ma la realizzazione di partenariati tra soggetti pubblici e privati (o di altre forme di cooperazione tra pubblico e privato) richiede un impegno finanziario certo da parte degli investitori istituzionali.

Il combinato disposto di tutti questi strumenti potrebbe consentire, in un quinquennio/decennio, 1.000 miliardi di investimenti freschi. Risorse nuove. Più di 3 volte l’ammontare del piano su cui sta lavorando il presidente Juncker, e che potrebbe rivelarsi l’ennesima delusione di istituzioni comunitarie poco coraggiose, in quanto mera ridestinazione di fondi già esistenti nel bilancio europeo. Mille miliardi che avrebbero un grande impatto non solo sul Pil dell’Unione, ma sulla competitività strutturale dell’Europa. Non si tratterebbe, infatti, di un moltiplicatore keynesiano di breve periodo, ma di un acceleratore di impatto sul medio-lungo termine. Ne deriva una miscela ottimale, se al New deal europeo da 1.000 miliardi di euro si unisce la politica espansiva della Banca centrale europea e un piano sorvegliato e coordinato di riforme strutturali in tutti i paesi dell’eurozona. Una grande strategia di lungo periodo (5-10 anni), finalizzata alla modernizzazione dell’Unione. Modernizzazione da fare attraverso le reti, materiali e immateriali: infrastrutture, telecomunicazioni, energia, sicurezza, ricerca scientifica, capitale umano.

È questa la proposta che l’Italia deve fare all’Europa. È questo che, probabilmente, l’Europa, delusa dai primi 200 giorni di governo, si aspetta da Matteo Renzi. Per il presidente del Consiglio italiano, una prova di sopravvivenza. Ma, se vorrà seguire i nostri consigli, una prova facile. L’Italia si è storicamente modernizzata grazie al vincolo esterno, come lo chiamava Guido Carli. Rispetto al dibattito attuale: altro che commissariamento. Meglio Juncker che Landini…

Lavoro in Italia ultimo per efficienza

Lavoro in Italia ultimo per efficienza

Metro

Il mercato del lavoro italiano è ultimo  per efficienza in Europa e 136mo su 144 censiti nel mondo. In termini  di efficienza ed efficacia si situa infatti a un livello leggermente  superiore a quelli di Zimbabwe e Yemen ed inferiore a quelli di Sri  Lanka e Uruguay. Lo rivela un’elaborazione del Centro Studi  ImpresaLavoro sulla base dei dati pubblicati dal World Economic Forum. Rispetto al 2011 retrocediamo di 13 posizioni a livello mondiale in  termine di efficienza generale del nostro mercato del lavoro e  soprattutto perdiamo 19 posizioni con riferimento alla collaborazione  tra impresa e lavoratore così come altre 15 per la complessità delle  regole che ostacolano licenziamenti e assunzioni. L’unico settore in cui non si registra un arretramento dell’Italia è  quello relativo alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro: conserviamo infatti la comunque assai deludente 93ma posizione che  avevamo raggiunto nel 2011.

«Questa performance negativa è frutto certamente dei difetti strutturali del nostro sistema ma i provvedimenti legislativi degli ultimi anni non hanno certo aiutato a migliorare la situazione» spiega Massimo Blasoni, presidente di “ImpresaLavoro”. «L’elaborazione del Centro Studi chiarisce come i problemi del nostro mercato del Lavoro siano sempre gli stessi e abbiano subito un peggioramento piuttosto marcato dal 2011 a oggi, complice con ogni probabilità l’irrigidimento delle regole stabilito dalla cosiddetta legge Fornero».

Collaborazione
Scarsa collaborazione in Italia nelle relazioni tra datori e lavoratori. Tra i Paesi dell’Europa a 27, infatti, il Belpaese si posizione ultimo in classifica proprio per quanto riguarda i rapporti tra dipendenti e imprenditori. AI primi tre posti ci sono Danimarca, Austria  e Olanda.

Tassazione
In tema di retribuzioni siamo il peggior Paese europeo per capacità di legare lo stipendio alla produttività.  Dati che vanno letti assieme a quelli sugli effetti dell’alta tassazione: nessun Paese Ue fa peggio di noi quanto a effetto della pressione fiscale sull’incentivo al lavoro.

Meritocrazia
Italia arretrata in Ue  nella qualità del personale impiegato.  Siamo penultimi (davanti solo alla Romania) per la capacità di affidare posizioni manageriali in base al merito (e non per amicizia, parentela, raccomandazioni) e finiamo in coda anche per l’incapacità di attrarre talenti.

Sud sempre più in affanno
Secondo il rapporto annuale dell’Eurispes, la  situazione dell’economia meridionale risulta essere “particolarmente  critica; quasi tutti gli indicatori sono decisamente inferiori  rispetto a quelli delle altre aree del paese e alle medie nazionali”.

Modifiche all’articolo 18 domani in Commissione
Riparte questa settimana la discussione in merito alla  modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, nell’ambito del Jobs Act. Domani la commissione Lavoro del Senato esaminerà le proposte di modifica dell’articolo 4, che riguarda lo Statuto e che delega al Governo il riordino delle forme contrattuali. I partiti centristi della maggioranza vorrebbero inserire le modifiche sui licenziamenti , mentre la sinistra Pd chiede di non modificare il perimetro della delega. Obiettivo del Jobs Act, in Aula al Senato dal  23 settembre, è modernizzare il mercato del lavoro.

Il sospetto ricorrente

Il sospetto ricorrente

Sergio Romano – Corriere della Sera

Fra i dati sull’Italia, elaborati periodicamente dall’Istat e da Eurostat, manca quello sulla fiducia. Se esistesse, scopriremmo che i nostri partner, indipendentemente dalle pubbliche dichiarazioni dei loro governi e dai comunicati ufficiali alla fine di un incontro bilaterale, non credono nel nostro Paese. Alcune ragioni sono storiche: le guerre fatte a metà, i cambiamenti di campo, il continuo divario fra il Nord e il Sud, gli impegni non rispettati, il familismo amorale, la giungla burocratica, la democrazia clientelare, il peso della criminalità organizzata sulla vita politica e sociale. Altre sono più recenti e più importanti. Come tutti i membri dell’Unione europea, l’Italia è passata attraverso le crisi della modernità, da quella sociale e generazionale del ’68 a quella delle nuove tecnologie, dal ritorno ai mercati dopo il declino dello Stato assistenziale negli anni Ottanta alla crisi del credito nel primo decennio del nuovo secolo.

Gli italiani, a tutta prima, sembrano consapevoli della necessità di cambiare, ma il loro sistema politico, a differenza di quelli dei partner maggiori, ritarda i mutamenti o finisce per annegarli in un diluvio di norme insufficienti e contraddittorie. Le Commissioni bicamerali per una nuova Costituzione muoiono senza avere prodotto alcun risultato. Berlusconi fa promesse che non verranno mantenute. Ogni riforma, da quella del lavoro a quella della giustizia, trova sulla sua strada un partito della contro-riforma, composto da corporazioni che difendono i loro privilegi chiamandoli ampollosamente «diritti acquisiti». Le leggi, quando vengono approvate, sono redatte in modo da produrre risultati parziali e mediocri. Da Tangentopoli a oggi sono passati ventidue anni: una generazione perduta.

Vi sono momenti in cui i nostri partner sarebbero felici di credere nell’Italia. Mario Monti è stato accolto entusiasticamente. Enrico Letta, agli inizi del suo governo, godeva di molte simpatie e di grande comprensione. Ma la rapidità con cui entrambi sono stati espulsi dal sistema politico trasforma il credito iniziale in nuovo pessimismo e in più radicale sfiducia. Matteo Renzi ha acceso qualche nuova speranza, ma il modo in cui saltella da un annuncio all’altro e sembra essere continuamente alla ricerca di un nuovo obiettivo, a maggiore portata di mano, comincia a creare diffidenza e scetticismo anche negli ambienti che lo avevano salutato come il Tony Blair italiano.

Niente è irreparabile. In un libro recente, apparso in Italia presso il Mulino e in Inghilterra presso la Oxford University Press, un economista, Gianni Toniolo, dimostra che l’Italia è quasi costantemente cresciuta dagli anni Novanta dell?Ottocento agli anni Novanta del Novecento. Ma non si cresce, nel mondo d’oggi, senza la fiducia dei mercati internazionali e i capitali degli investitori stranieri. E non si crea fiducia se il governo non riesce a sconfiggere con qualche cambiamento reale e immediatamente visibile, quei partiti della contro-riforma che sono da troppo tempo i veri padroni dell’Italia.