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Ormai impazza la burocrazia dei divieti insensati e delle leggine

Ormai impazza la burocrazia dei divieti insensati e delle leggine

Sergio Luciano – Italia Oggi

Autostrada Serenissima, esterno notte. A una stazione di servizio di un gruppo petrolifero italiano, l’erogatore di Gpl, pur segnalato come attivo, risulta in realtà chiuso. Il gestore, anzi la gestrice – per usare uno di questi terrificanti nomi al femminile che fanno contenta la presidenta Boldrini – si sfoga con il cliente «a secco»: «Non me ne parli, siamo infuriati, il fatto è che il serbatoio, per legge, deve stare ad almeno 42 metri dal più vicino manufatto abitativo e due anni fa il gestore del bar ha ristrutturato lo stabile, è stato autorizzato ad allargarlo e si è preso due metri di spazio in più, proprio verso il serbatoio, per cui la distanza, che era di 42 metri, si è ridotta a 40 e non ci hanno mai più ridato l’agibilità dell’impianto. Noi ce la siamo presa col barista, che ha girato la palla sul concessionario, che l’ha rimpallata a lui, e così sono passati due anni, siamo fermi alle lettere degli avvocati e abbiamo perso un sacco di soldi».

Ecco: chiunque viva nel mondo reale sa che questa burocrazia dei piccoli «no», più o meno insensati, sta ormai ammazzando l’Italia. E le pur (per certi versi) lodevoli iniziative riformiste del governo Renzi sembrano non rendersene conto.

È una burocrazia folle. Che il ventennio berlusconiano non è riuscito a risanare, anzi. È l’Italia dei burocrati piccoli piccoli, che non tentano nemmeno di entrare nel merito delle questioni ma moltiplicano paletti e leggine, e quando va male li usano per escutere tante microtangenti, ma comunque sempre per non fare e non «far fare». La vera riforma della pubblica amministrazione da fare sarebbe questa: demolire questa burocrazia. Nel caso dell’impianto Gpl, è del tutto evidente che una regola sulla distanza minima è necessaria, ma è anche chiaro che – fatta la frittata di aver ridotto quella distanza – dovrebbe esserci una qualche autorità in grado o di derogare alla regola così marginalmente violata, o di imporre a chi ha causato il danno di pagare di tasca sua un risarcimento al danneggiato. Macché.

Al contrario, lo Stato arretra dove sarebbe per molti versi meglio che restasse. Si pensi all’ormai scontata decisione di ridurre il controllo in Eni ed Enel, senza clausole antiscalata, col rischio di privare l’Italia della proprietà di due colossi energetici ben gestiti che mezzo mondo ci invidia; e invece esonda, protunde, invade e schiaccia dove dovrebbe e potrebbe farsi i fatti suoi. È l’eterno tradimento del motto liberista secondo cui «è permesso tutto ciò che non sia esplicitamente vietato». In Italia, si sa, «è vietato tutto ciò che non sia esplicitamente permesso».

Italia e Ue: un incrocio favorevole

Italia e Ue: un incrocio favorevole

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi – Corriere della Sera

Grazie ad un incrocio fortunato di eventi i Paesi dell’euro hanno oggi la possibilità di attuare quella svolta che è necessaria per uscire dal lungo periodo di stagnazione economica in cui viviamo da quasi sette anni. Il governo italiano potrebbe avere un ruolo fondamentale nel renderlo possibile.

Venerdì scorso Mario Draghi ha detto chiaramente che per ricominciare a crescere sono necessarie riforme strutturali dal lato dell’offerta, accompagnate però da una ripresa della domanda, in particolare dei consumi delle famiglie e degli investimenti delle imprese. E che questo la Bce non può farlo, almeno non da sola. La prima mossa spetta ai governi che, oltre a fare le riforme, soprattutto del mercato del lavoro, devono abbassare le tasse riducendo al tempo stesso la spesa pubblica. E se le due cose non possono procedere alla medesima velocità, perché le tasse si abbassano in un giorno mentre per tagliare le spese serve un po’ più tempo, non bisogna strapparsi le vesti se il deficit temporaneamente cresce. Forse anche la Germania se ne sta convincendo. Infatti (anche se questa non è una buona notizia) i dati recenti lasciano intravvedere un rallentamento dell’economia tedesca che potrebbe rendere Angela Merkel meno ostile a provvedimenti concordati volti ad aumentare la domanda interna nell’eurozona.

Domenica a Parigi il presidente Hollande ha chiesto al suo primo ministro, Manuel Valls, di sostituire i membri del governo che si opponevano alle riforme e ai tagli di spesa. Il cambiamento più significativo è avvenuto al ministero dell’Economia e dell’Industria dove Emmanuel Macron (36 anni), il più liberista dei consiglieri di Hollande, ha sostituito Arnaud Montebourg (56 anni), un socialista del secolo scorso, alfiere dell’intervento dello Stato nell’economia, strenuo oppositore della globalizzazione e apertamente ostile alla Bce. Una svolta che ricorda il marzo del 1983 quando Mitterrand, dopo due anni di illusioni, cambiò radicalmente politica, si affidò a Jacques Delors e salvò la sua presidenza. Anche a Parigi si comincia ad accettare che «il liberismo è di sinistra».

A Roma Matteo Renzi si è impegnato a varare oggi, il giorno prima del vertice europeo di domani, la riforma della giustizia e il decreto cosiddetto sblocca Italia. Ma la riforma più importante riguarda il mercato del lavoro. Renzi ha promesso che si adopererà affinché entro il mese di settembre il Parlamento vari il disegno di legge delega proposto dal suo governo, che riprende le idee del senatore Pietro Ichino riscrivendo da zero lo Statuto dei lavoratori. E quindi modificando anche il famoso articolo 18.

Come non sprecare questo incrocio fortunato? L’Italia ha una responsabilità particolare, e non solo perché il vertice europeo di domani sarà presieduto da Matteo Renzi. Siamo (con l’eccezione della Grecia) il Paese dell’euro con il debito più elevato e quindi quello che più di ogni altro deve convincere che la qualità delle riforme attuate giustifica un allentamento temporaneo dei vincoli sul deficit, condizione necessaria per poter abbassare subito le tasse sul lavoro. Le parole «qualità» e «attuate» qui sono cruciali. Le riforme non devono essere annunci ma leggi approvate. E a queste leggi devono seguire in tempi rapidi i decreti che le rendono operative, la qualità appunto. Ad esempio a 5 mesi dalla legge che ha abolito le Province (Legge 56 del 7 aprile) i decreti che ne ripartiscono le funzioni fra Stato, Comuni e Regioni non sono ancora stati varati, cosicchè quella riforma per ora rimane una norma senza effetti. Anche se va riconosciuto al premier di aver abolito il livello elettivo dei Consigli provinciali.

Uscire dalla riunione Ue di domani senza un accordo sulla necessità di sostenere la domanda interna significherebbe rimandare almeno di un altro anno la ripresa dell’eurozona. Raggiungere quell’obiettivo dipende anche dalle decisioni che prenderà oggi il Consiglio dei ministri, dalla determinazione con cui Renzi ripeterà l’impegno a varare il Jobs Act entro settembre e dall’esempio che egli saprà offrire al nuovo governo di Parigi, che si trova ad affrontare problemi analoghi.

Essere convincenti sulle riforme e sul percorso che vogliamo seguire per uscire dalla recessione deve essere l’obiettivo di Renzi nel vertice europeo. Se egli invece lascerà che la riunione si perda in una trattativa defatigante sui nuovi commissari e sul ruolo che avrà Federica Mogherini a Bruxelles, avrà perso un’occasione che potrebbe non ripresentarsi più. È improbabile che domani vengano già varati provvedimenti a livello europeo per far crescere la domanda. Ma sarebbe importante che una prima discussione cominciasse.

Non disturbare il manovratore

Non disturbare il manovratore

Domenico Cacopardo – Italia Oggi

Con una certa solennità, il capo II della riforma della pubblica amministrazione, nel testo convertito, è dedicato alle misure in materia di organizzazione. Si inizia con le società a partecipazione pubblica: «(…) salva la facoltà di nominare un amministratore unico, i consigli di amministrazione delle società controllate (…) che abbiano conseguito nel 2011 un fatturato da prestazione di servizi a favore di amministrazioni pubbliche superiore al 90% dell’intero fatturato devono essere composti da non più di tre membri, ferme restando le disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità (…) il costo per compensi agli amministratori deve essere contenuto nell’80% di quanto speso nel 2013 (…) per le altre società a totale partecipazione pubblica il numero dei consiglieri non può superare i 3 o i 5 membri (…)».

Queste norme, criptiche e farraginose, meritano qualche spiegazione. Nella prima parte dell’articolo (il 16), si parla, in sostanza, della massa di aziende, nate sotto l’egida della riforma degli enti locali condotta da Franco Bassanini. Si tratta dell’in-house, di società a prevalente partecipazione comunale (provinciale, regionale) che hanno, come scopo sociale, compiti propri dell’ente di cui sono emanazione. Un esempio: per la realizzazione di infrastrutture di loro competenza, molti comuni hanno costituito un’apposita società che gestisce l’intero procedimento. C’è, in questa modalità organizzativa, un non detto: se il comune dovesse appaltare la costruzione di un ponte sul fiume che lo attraversa, dovrebbe applicare le norme europee e indire una gara abbastanza libera che potrebbe essere vinta da un’impresa sgradita al sindaco e ai suoi assessori. Rivolgendosi alla propria società, formalmente, privata, gli amministratori locali pensano che l’operazione sia manovrabile e che, comunque, trattandosi di un soggetto privatistico, come dire, è più difficile che la magistratura intervenga. Una bubbola infondata, vista la severa giurisprudenza penale. Tuttavia, le possibilità di farla franca sono oggettivamente maggiori.

Va notato il 90% del fatturato destinato a servizi della pubblica amministrazione di cui la società è figlia: questa qualificazione mostra come il governo sappia bene la natura distorsiva di questi strumenti organizzativi e di malaffare, ma che ne voglia limitare i costi. Chiamare una norma del genere «riforma» è una inqualificabile mistificazione.

È vero che da qualche giorno si parla di obbligare gli enti locali a liquidare gran parte delle 7/10 mila società e, proprio oggi, il consiglio dei ministri dovrebbe decidere qualcosa. Leggeremo i testi con la solita attenzione, anche se è lecito immaginare che la «vis» riformatrice si limiterà a un piccolo aggiustamento, senza incidere seriamente sul deleterio sistema. La massa di quadri politici che vivono da parassiti e malversatori nel mondo delle aziende pubbliche (che drena una impressionante quantità di denaro dei cittadini e che procura ai partiti risorse non dichiarate) non può essere colpita senza compromettere il patto tra vertici dei partiti e cosiddetta base e, per li rami, il consenso elettorale. Meglio prendersela con i pensionati il cui peso nelle urne non è paragonabile a quello dei quadri di cui sopra.

L’art. 17 della riforma induce all’ilarità: si occupa di «sic!» di ricognizione degli enti pubblici e unificazione delle banche dati delle società partecipate. La solita domanda viene spontanea: è necessaria una legge per una semplice, normale attività amministrativa gestibile con semplici direttive dalla presidenza del consiglio dei ministri? Si pensi che il comma 2 ter, dispone che entro il 15 febbraio 2015 «sono pubblicati sul sito internet istituzionale del Dipartimento della funzione pubblica della presidenza del consiglio dei ministri l’elenco delle amministrazioni adempienti e di quelle non adempienti all’obbligo di inserimento di cui al comma 2 e i dati inviati a norma del medesimo comma. A parte la zoppicante costruzione della frase, immaginate come trema, per esempio, il sindaco di Napoli di fronte alla prospettiva di essere inserito nell’elenco dei «cattivi» che non hanno contribuito all’unificazione delle banche dati nazionali? Purtroppo, questo è il metodo. Questi sono i contenuti.

I tanti annunci gelano la fiducia

I tanti annunci gelano la fiducia

Federico Fubini – La Repubblica

Viviamo in tempi di deflazione del denaro e inflazione di parole. Impossibile tenere il conto di quante volte al giorno ormai la classe politica parli di “riforme” o di “fiducia”. L’unica certezza è che l’inflazione è quel fenomeno per il quale l’abbondanza crescente di una certa materia prima ne deprime il valore. L’impero spagnolo distrusse il prezzo dell’argento nel sedicesimo secolo per gli eccessi con cui lo importava dal Perù. Il governo di Matteo Renzi rischia di trovare la sua sindrome dell’argento peruviano nella serie di annunci ai quali non sempre, non in modo univoco, seguono poi i fatti. Il bilancio di questo mese d’agosto permette di far sorgere qualche sospetto che il pericolo esista realmente.

Proviamo a riassumere. Al Consiglio dei ministri dei primi del mese sarebbe dovuta passare la riforma dei Beni culturali di Franceschini. Poi è slittata. Ora tutto sarebbe pronto, ma a quanto pare non sarà varata neppure dal vertice di domani a causa dell’ ingorgo di altri procedimenti. Eppure neanche misure più in alto nell’agenda del Consiglio dei ministri odierno stanno avendo vita facile. Per dirne una, solo sei giorni fa il premier aveva annunciato che oggi sarebbe toccato alla scuola: «Il 29 agosto presenteremo una riforma complessiva », scadenza poi confermata in un tweet di giovedì. Del resto il governo non smentiva, anzi avvalorava, il progetto di stabilizzare circa 100 mila precari dell’istruzione con le misure in arrivo.

Poi però anche qui contrordine: slitta tutto, sempre per colpa dell’ ingorgo . A crearlo sono altri due provvedimenti. C’è il decreto Sblocca-Italia, del quale ancora ieri sera a nessuno era chiaro il profilo date le vaste divergenze fra Padoan (Economia) e Lupi (Trasporti) sui fondi da spendere. E c’è la riforma della giustizia, dove però molto verrà affidato a una delega al governo, cioè anche qui a scelte da compiere poi più in là nel tempo.

La lista di questo agosto di inflazione verbale potrebbe continuare. Alternativamente gli italiani hanno scoperto che sarebbero state tagliate le pensioni più alte, poi che non sarebbero state toccate. Che sarebbero stati congelati gli stipendi del pubblico impiego, poi che ciò era fuori questione. Che andava abolito l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (quello offre le tutele maggiori d’Europa contro il licenziamento di chi ha un contratto permanente), poi che l’articolo 18 non andava toccato, infine che non serve parlarne, perché presto cambieranno tutte le norme sul lavoro.

Questo resta un governo di coalizione, espresso da uno dei parlamenti più frammentati della storia repubblicana. Nemmeno per un leader determinato come Matteo Renzi è facile controllare le spinte centrifughe dei suoi ministri e dei partiti di maggioranza. Ancora meno lo è adesso, con l’economia mai davvero uscita da un’unica grande depressione iniziata alla fine del 2008. Più è impellente l’urgenza di fare qualcosa di risolutivo, più diventa chiaro che non esistono né scorciatoie né bacchette magiche. Si può solo lavorare in Italia e con il resto d’Europa per individuare le priorità e affrontarle passo dopo passo.

Anche per questo però la corsa all’argento peruviano che si è scatenata – la ridda di annunci, le continue invocazioni della “fiducia” – non fanno che produrre conseguenze opposte. Nessuno assume, investe nella propria azienda o compra un elettrodomestico a rate se non sa cosa lo aspetta e se i messaggi che riceve sono caotici e contraddittori. Non può essere solo sfortuna se in agosto la fiducia delle imprese in Italia è scesa più che in qualunque altro Paese dell’area euro.

Forse è il caso di ispirarsi alla Spagna di oggi, quella che ha affrontato molte riforme senza parole a vuoto e ora cresce al ritmo del 2% annuo. Non a quella di cinque secoli fa.

Banche di sviluppo per uscire dalla recessione

Banche di sviluppo per uscire dalla recessione

Giuseppe Pennisi – Avvenire

In che misura può l’investimento pubblico (e privato) in programmi a lungo termine aiutare l’Europa – e in particolare l’eurozona – a uscire da una recessione che dura quattro anni? Cosa possano fare le Banche di sviluppo per facilitare questo compito? Tutti gli Stati dell’area dell’euro hanno drasticamente tagliato i loro bilanci in conto capitale ossia gli investimenti pubblici. In media, l’investimento pubblico è passato dall’8% della spesa complessiva delle pubbliche amministrazione a meno del 4%. In effetti, è più facile ritardare programmi ben definiti che comportano investimento in capitale fisico che operare su spese correnti come gli stipendi per il pubblico impiego oppure i trasferimenti alle famiglie. Lo ha fatto anche la Germania. Nel breve periodo gli investimenti pubblici attivano capacità produttiva non utilizzata – in un’eurozona con un tasso di disoccupazione dell’11,5% della forza di lavoro ce ne è moltissima – senza innescare inflazione. Nel medio periodo migliorano la produttività dei fattori produttivi. È in quest’ottica che il neopresidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, ha proposto un programma speciale di 300 miliardi di euro (aggiuntivo ai fondi europei già in essere) su tre anni per rilanciare programmi di lungo periodo. Un anno fa è stato completato l’aumento di capitale della Banca europea per gli investimenti (Bei). Non ci sono, quindi, difficoltà a finanziare il programma, anche tramite obbligazioni targate Bei.
In Europa non manca liquidità, specialmente presso le famiglie, e il desiderio di impiegarla in collocamenti che non diano necessariamente rendimenti mirabolanti (numerose dita si sono scottate con le varie «bolle»), ma consentano di staccare cedole sicure, dormendo tra due guanciali. Ciò non vuole dire che la Bei debba diventare l’unico finanziatore di investimenti a lungo termine – compito immane che le sue strutture farebbero fatica a reggere.
Tuttavia, al mondo sono state censite circa 300 banche di sviluppo, in gran parte istituite negli ultimi cinquant’anni sulla scia del successo delle istituzioni di Bretton Woods (in particolare della Banca mondiale). I «puristi» ritengono cheVnesheconombank, creata in Russia nel 1917, sia la prima istituzione a potersi fregiare del titolo di «banca di sviluppo» .In Europa, oltre a banche di sviluppo regionali come la Bei e la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers), esistono numerose banche di sviluppo nazionali di qualità. Le principali – ad esempio la Caisse des Dépôts et Consignation, la Cassa Depositi e Prestiti italiana, la German Kreditanstalt für Wiederaufbau tedesca, per citare le più note – hanno costituito nel 2009 un «club» di investitori a lungo termine non solo per forgiare strategie in comune, ma sopratutto per operare su alcuni fondi d’investimento a lungo termine ben definiti.
Da poco più di un mese il club è presieduto dalla Cassa Depositi e Prestiti, e quindi dal suo presidente Franco Bassanini. Gli strumenti non mancano. Occorre chiedersi se in questi anni difficili non sia stata ridotto, oltre al finanziamento all’investimento di lungo periodo, anche la progettazione. In molti Paesi – tra i quali l’Italia – sono stati costituiti fondi specifici per la progettazione (elaborazione di schemi progettuali, di progetti definitivi con computi metrici, documenti di gara). Sono stati utilizzati al meglio?
Il mattone cola a picco

Il mattone cola a picco

Simone Boiocchi – La Padania

C’era una volta il mattone. Bene rifugio per eccellenza dove i piccoli e medi risparmiatori del Paese deponevano non solo le loro speranze, ma anche il loro futuro. Costruire una casa per la propria famiglia era il sogno di tutti e l’obiettivo della vita per ogni genitore. C’era poi il mattone industriale. Quello che serviva ai capitani d’impresa per costruire aziende che davano lavoro al Paese. C’era una volta. Sì, perché la crisi economica ha avuto sul settore dell’edilizia un impatto che non ha eguali in altri settori economici: lo dimostra il fatto che i permessi rilasciati nel Paese nel 2012 per la costruzione di nuovi edifici residenziali sono stati praticamente la metà di quelli del 2007, ultimo anno pre-crisi.

Dal punto di vista geografico (come rivela uno studio di “ImpresaLavoro”, elaborato sulla base di dati Istat) il danno più contenuto l’ha fatto registrare il Trentino Alto Adige con un calo di “appena” il 18,3%. Molto negativi, al contrario, sono i dati registrati in Lombardia (-52,6%), nel Lazio (-53,9%), in Toscana (-60,2%) e soprattutto in Emilia-Romagna, dove i permessi rilasciati nel 2012 sono meno di un terzo di quelli utilizzati nei livelli pre-crisi (-67,2%). Si tratta di un arretramento che non ha che fare soltanto con la difficoltà del settore immobiliare residenziale ma che è generato anche dalle complessive difficoltà economiche del sistema-Paese. A subire una contrazione decisa rispetto i livelli pre-crisi sono, infatti, anche i permessi di costruzione rilasciati per immobili non residenziali. Questi sono complessivamente diminuiti del -33,8%.

Analizzando i singoli settori di attività, desumibili attraverso la destinazione d’uso degli immobili per cui è stato richiesto il permesso di costruire, si osserva una sostanziale tenuta solo nel settore dell’agricoltura, nel quale i permessi di costruzione nel 2012 sono calati “soltanto” del -12,9% rispetto ai livelli pre-crisi, con le regioni del Nord che hanno fatto segnare un confortante segno positivo, trainate in particolare da Piemonte ed Emilia Romagna. Particolarmente negativo risulta invece il dato relativo alle richieste di permesso per la costruzione di immobili destinati all’industria e all’artigianato. Qui il calo rispetto al 2007 è stato addirittura più consistente del comparto residenziale: -63,7%, con un’omogeneità territoriale che non risparmia le tradizionali locomotive produttive del Paese.

«Oltre alla crisi – spiega il presidente di “ImpresaLavoro” Massimo Blasoni – sul dato pesano anche fattori negativi esterni: su tutti una politica fiscale che in questi anni ha fortemente penalizzato gli investimenti immobiliari, storicamente considerati dagli italiani una forma d’investimento sicuro. Come ha rilevato Confartigianato, tra il 2011 e il 2013 la tassazione è aumentata del 102% e l’introduzione della Tasi potrebbe rappresentare un ulteriore aggravio stimato tra il 12 e il 60%. È chiaro che politiche fiscali di questo tipo finiscono per scoraggiare qualsiasi tipo di investimento nel mattone». Ma il danno rischia di essere ancora più grande. Il blocco del sistema delle costruzioni non rappresenta solo la situazione di stallo del Paese, ma va a ripercuotersi inevitabilmente sui dipendenti e sui lavoratori dell’indotto. Meno permessi per costruire vuol dire meno lavoro. Meno lavoro, meno entrate, più disoccupazione. Una situazione tutt’altro che rassicurante che Renzi e i suoi fanno finta di non vedere. Almeno fino a quando la crisi del settore diventerà l’ennesima crisi del Paese. A quel punto si darà la colpa alla difficile congiuntura economica. Ma intanto non ci sarà più nulla da fare. Come al solito.

Tutto il resto è fuffa

Tutto il resto è fuffa

Giorgio Mulé – Panorama

Mettetevi nei panni di Joe, un americano in vacanza a Roma. Negli States essere ricco non è un reato; possedere due case non fa di un cittadino il perfetto obiettivo del fisco; avere messo soldi da pane non lo fa somigliare a un evasore fiscale. Joe è un marziano ai nostri occhi. Atterra a Fiumicino e scopre che l’Italia deve rinviare le sue previsioni di bilancio per ricalcolare il Prodotto interno lordo. Accipicchia, o meglio woooow!, pensa: gli italiani si sono rimessi in moto e stanno superando la crisi. Ecco, dear friend, le cose stanno un po’ diversamente: ce l’ha presente Johnny Stecchino nel bellissimo movie di Robeno Benigni? Beh sì, insomma noi ricalcoleremo il nostro Pil alla luce delle previsioni di Cosa nostra su tre settori: andamento del mercato della droga, della prostituzione e del contrabbando.

Tutto perfettamente illegale. Joe, it’s not a joke, non si scherza affatto: aumenteremo il nostro Pil, avremo pure big benefici nei conti pubblici. Manco fa in tempo a smettere di ciondolare la testa di qua e di là, farfugliando qualcosa che somiglia a un intraducibile «what the fuck…››, che gli capita di leggere la proposta di un signore che conosce bene perché ha conquistato gli States con i megastore Eataly. Mister Oscar Farinetti, renziano della prima ora, è quel che si dice un ambasciatore dell’Italia nel mondo. Già in predicato di fare il ministro, dà la sua ricetta per mettere a posto la spesa previdenziale: «Ci vuole una bastonata: tetto massimo di 3.000 euro netti, bastano e avanzano per vivere» sentenzia. E quelli che prendono di più, cioè i 600mila italiani che hanno versato contributi per 40 anni? La risposta è facile, caro Joe, basterebbe ricordarsi come si traduce in americano «cazzi loro» però va bene anche «what the fuck. ..».

Passata la pagina di economia dove il suo connazionale Bob Wilt, presidente del colosso Alcoa, annuncia la chiusura definitiva dello stabilimento di Portovesme in Sardegna con 455 lavoratori a spasso perché, dear italians, «le ragioni di fondo che rendevano non competitivo l’impianto non sono purtroppo cambiate», il nostro Joe decide che è tempo di lasciarsi alle spalle tanta mestizia e rigenerare lo spirito con una visita alla Casa di Augusto in occasione del bimillenario della morte dell’imperatore. È obbligatorio prenotare, al centralino parlano anche in inglese. Wonderful. Peccato che dopo 10 minuti d’attesa, Joe viene invitato a richiamare «tra qualche giorno» perché la Soprintendenza deve fissare ancora le regole per le visite. D’altronde hanno avuto sono duemila anni per farlo. Ci risiamo col bisbiglio: «What the fuck…» lasciamo Joe al suo disgusto e concentriamoci un momento su di noi.

La realtà dell’Italia è esattamente quella che avete letto, se non peggio. E allora, visto che s’ode di nuovo la rumba degli annunci, sarà il caso di mettere in fila le priorità. Sono due: lavoro e giustizia. Si lasci perdere la fuffa, si eviti l’effetto grigliata mista mettendo sul fuoco provvedimenti dall’indiscusso valore mediatico ma dalla scarsissima possibilità di vedere la luce. L’Italia riparte se si mette mano in profondità in quei due settori con il concorso di tutti perché, come per le riforme istituzionali, rappresentano un terreno comune dove le forze politiche responsabili possono e devono incontrarsi. Lavoro e giustizia hanno priorità assoluta: da lì passano sviluppo, competitività e credibilità, soprattutto nei confronti degli investitori esteri. ll resto, come direbbe Obama, è horseshit.

Privatizzazioni, via al piano Enel-Eni

Privatizzazioni, via al piano Enel-Eni

Celestina Dominelli – Il Sole 24 Ore

Il governo accende ufficialmente i motori per la cessione di ulteriori quote di Enel ed Eni con l’obiettivo di far ripartire il piano di privatizzazioni e centrare così i 10 miliardi di euro di proventi per quest’anno messi nero su bianco nel Documento di economia e finanza. Ieri il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha presieduto una riunione, a cui ha preso parte anche il capo della segreteria tecnica del Mef, Fabrizio Pagani, in modo da accelerare il percorso su cui sono puntati i fari di Bruxelles. Il piatto forte, come detto, è il ridimensionamento della presenza dello Stato nei due “gioielli” di famiglia, Enel ed Eni, di cui saranno ceduti, rispettivamente, il 5% e il 4.34% ancora in mano al Tesoro (il restante 25,76% fa capo a Cdp).

Secondo la tabella di marcia messa a punto ieri dal vertice all’Economia, le quote dovrebbero arrivare sul mercato tra la fine di ottobre e gli inizi di dicembre. Ovviamente non appaiate anche perché entrambe le operazioni andranno adeguatamente supportate per assicurare il massimo ritorno possibile. Ai piani alti di Via XX Settembre si respira un cauto ottimismo: Piazza Affari e tornata a virare in positivo negli ultimi giorni e questo lascia ben presagire per il futuro anche se un occhio resta puntato sugli sviluppi internazionali che potrebbero far girare i mercati. Dalle due cessioni il governo conta di ricavare non meno di 5 miliardi di euro. Agli attuali corsi di Borsa un 5% dell’Enel – che ha ripreso a salire sul Ftse Mib grazie all’accelerazione al piano di dismissioni voluta dal nuovo numero uno, Francesco Starace – vale 2-2,5 miliardi di euro, mentre la vendita del 4,34% della quota detenuta in Eni potrebbe portare nelle casse dello Stato circa 3 miliardi. Un gruzzoletto che, unito ai 3 miliardi di euro assicurati dal rimborso anticipato dei Monti bond sottoscritti dal Tesoro a favore del Monte dei Paschi di Siena, consentirebbero al governo di avvicinarsi fortemente al traguardo individuato nel Def.

Nella riunione di ieri, poi, si è anche deciso di affiancare a queste cessioni, entro la fine dell’anno, il trasferimento della quota detenuta in STMicroelectronics (13,8°/0) che sarebbe girata al Fondo strategico italiano, il braccio operativo della Cdp, per un incasso valutato sui 7oo-8oo milioni di euro. Mentre sarebbero ormai destinate a slittare al 2015 le Ipo diPoste, Sace ed Enave non sarebbe per ora alle viste nemmeno una ulteriore discesa dello Stato nel capitale di Finmeccanica (il Tesoro è al 30,2%), dove il neo amministratore delegato Mauro Moretti sta portando avanti un piano di ristrutturazione che servirà a rimettere definitivamente in sesto il gruppo di Piazza Monte Grappa.

Tornando invece al tassello clou, l’Economia non ha ancora proceduto formalmente ad affidare i mandati alle banche d’affari, ma la scelta dovrebbe cadere sugli istituti che lavorano da tempo al fianco del ministero. Quanto alla modalità con cui verranno cedute, secondo quanto emerso dal confronto di ieri, l’opzione numero uno e quella di un accelerated bookbuilding, una delle strade scelte anche dall’Eni ai tempi dello scorporo di Snam e dalla stessa Cassa nella vendita dei titoli eccedenti il 30% del Cane a sei zampe, messa in campo proprio per recuperare le risorse necessarie a rilevare il 30% della spa dei gasdotti dall’Eni. Un collocamento che sara destinato agli investitori istituzionali: non solo gli italiani, ma anche gli americani – che Padoan ha avuto modo di incontrare nella sua ultima missione a Washington – e i soliti fondi sovrani che non hanno mai nascosto l’interesse a salire nel capitale di alcune “big” italiane. Senza dimenticare i cinesi che hanno acceso da tempo i riflettori sull’equity della penisola: dalla People’s Bank of China, già presente in Eni ed Enel, a State Grid Corporation of China, che ha appena rilevato il 35% di Cdp Reti e vuole fare altro shopping in Europa.

Il governo intende però anche lanciare un segnale forte, già nello sblocca Italia che arriverà domani al Cdm, sul fronte delle partecipate degli enti locali mappate dal commissario della spending review, Carlo Cottarelli. Con molta probabilità, infatti, nel decreto dovrebbe entrare una norma che consente ai Comuni di usare i proventi da dismissioni fuori dal Patto di stabilità. Una mossa che porrebbe sbloccare, già entro l’anno, alcune partite da tempo ferme al palo come l’annunciata privatizzazione, a Torino, della Gtt, la società di trasporto pubblico. «Quello delle partecipate degli enti locali – spiega al Sole24Ore Andrea Mazziotti, capogruppo di Scelta Civica alla Camera – è un tema molto difficile, ma Renzi deve scardinarlo scontentando la parte del Pd che sostiene questo fronte». E proprio Sc si è fatta portatrice di una proposta di legge che punta a ottenere significativi risparmi di spesa dalla razionalizzazione delle ex municipalizzate e che è già stata inviata al premier e al ministro Padoan. L’obiettivo? Fare in modo che alcune delle misure suggerite, a cominciare dall’obbligo di dismettere le partecipazioni in società non quotate inferiori al 10% trovino spazio già nello sblocca Italia.

San Matteo non ha fatto il miracolo

San Matteo non ha fatto il miracolo

Mario Deaglio – La Stampa

Il coraggio – sospira Don Abbondio nel XXV capitolo dei «Promessi Sposi» – uno non se lo può dare. E nemmeno la fiducia, siamo tentati di aggiungere, guardando ai dati, appena resi pubblici dal’Istat, sul clima di fiducia degli italiani che segnalano una netta caduta per il terzo mese consecutivo. Il giudizio degli intervistati è peggiorato su quasi tutto: molto sulla situazione economica dell’Italia, poco o nulla sulla situazione economica attuale della loro famiglia, per la quale, però, è aumentato il numero di quanti si aspettano un peggioramento imminente. Rispondendo alle varie domande del questionario, gli intervistati, quando non vedono nero, vedono tutto con lenti con varie gradazioni di grigio. Questo clima nazionale di sconforto è tanto più deludente in quanto la caduta dell’indice di fiducia segue una sua impennata decisa di inizio anno (spesso attribuita a un «effetto Renzi») che l’aveva quasi riportato ai valori del 2008, ossia all’inizio della crisi.

Per fortuna il clima di fiducia non si traduce necessariamente in comportamenti, così come la salita primaverile non ha portato a una corsa agli acquisti, c’è da sperare – mentre invece le associazioni dei consumatori ne traggono previsioni infauste – che non andiamo incontro a uno «sciopero dei consumatori», peraltro già molto «svogliati» negli ultimi mesi. Dopo l’aggiornamento di questo indice è però più difficile pensare a un aumento, anche piccolo, dei consumi privati. Il «bonus» mensile di ottanta euro che dieci milioni di lavoratori stanno incassando non solo non ha inciso, come già si sapeva, sulle abitudini di spesa, ma non ha neppure aumentato il «buon umore economico» degli italiani. I motivi per i quali il «bonus» – una misura generica di rilancio, meno efficace di misure «mirate» a determinati settori economici o segmenti sociali – non si sta traducendo in un aumento di consumi, ma, al massimo, in una loro stabilizzazione sono nascosti nelle pieghe dei bilanci famigliari. E’ verosimile che, per non ridurre troppo il loro tenore di vita, negli ultimi 2-3 anni, molte famiglie abbiano contratto dei debiti e che usino quest’entrata mensile addizionale per ripagarli; è altrettanto verosimile che, prima dei normali beni di consumo, si pensi a spese sanitarie rinviate scarsamente coperte dal servizio sanitario nazionale (per esempio le cure dentarie).

Invece di attingere ai loro risparmi e convertirli in acquisti necessari, gli italiani continuano a investirli in titoli del debito pubblico che rendono pochissimo: ai tassi dell’asta dei Bot semestrali di ieri (nella quale la domanda si è rivelata molto abbondante, superando di oltre una volta e mezza la quantità offerta) il rendimento di 1000 euro basta appena a prendere un caffè ed e quasi dimezzato rispetto all’asta precedente. Certo, i titoli sono stati tutti acquistati da operatori finanziari, in parte esteri, ma una quota rilevante finirà, prima poi, grazie alla loro intermediazione, nei portafogli delle famiglie italiane che, per paura della crisi, esitano a utilizzare quelle risorse per spese necessarie.

Insomma, San Matteo Renzi ha dato una notevole scossa a molti aspetti del-la vita economica italiana e altre promette di darne con il prossimo Consiglio dei Ministri. Non è riuscito, però (ancora?) a compiere il miracolo di far sorridere gli italiani. D’altra parte, le notizie che giungono dal resto d’Europa mostrano che questo «male italiano» si sta lentamente diffondendo e che praticamente tutte le economie dell’Unione Europea sono in frenata. Per la prima volta ieri su organi di stampa tedeschi si è evocato lo spettro di una recessione,  attribuendone indirettamente la causa al conflitto ucraino che ha seriamente danneggiato le esportazioni della Germania (e dell’Italia) verso la Russia. Gli occhi degli europei, e non solo degli italiani, sono tutti puntati su San Mario Draghi, il quale, dall’alto dei 148 metri dell’Eurotower di Francoforte, dove ha sede la Banca Centrale Europea, sta preparando le sospirate misure «non convenzionali» che dovrebbero immettere denaro nell’economia, raggiungendo direttamente (ossia usando le banche principalmente come tramite) imprese desiderose di investire e famiglie desiderose di sottoscrivere prestiti per acquistare un’abitazione.

E’ ragionevole attendersi un miglioramento che permetta all’economia europea di non scivolare in deflazione, ma non aspettiamoci che le economie ripartano a razzo: in economia è difficile trovare dei grandi santi che risolvano i problemi. Milioni di italiani e di altri europei sembrano invece continuare a credere che la ripresa deve scendere dall’alto, derivare da fatti esterni senza accorgersi che in buona parte la si crea giorno dopo giorno, avendo il coraggio di compiere piccole scelte, comprese quelle di acquistare i beni che servono con spese che rientrino nelle normali disponibilità delle famiglie e di varare piani di crescita che restino nell’ambito della normale attività delle imprese. Decine di milioni di famiglie europee, con la somma delle loro decisioni, determinano in buona parte il «clima economico». Questi milioni di piccoli miracoli individuali sono la condizione necessaria, anche se non sufficiente, perché ci scuotiamo di dosso quest’infernale recessione.

Se lo stato perde i colossi Eni e Enel

Se lo stato perde i colossi Eni e Enel

Federico Fubini – La Repubblica

Non c’è più tempo e il ministero dell’Economia si sta preparando a muovere in autunno. Fra la seconda metà di settembre e fine novembre, nel momento più adatto in base alle condizioni di mercato, le privatizzazioni entreranno nel vivo. Questa almeno è la tabella di marcia sulla quale stanno lavorando i tecnici del Tesoro. Si punta a partire con ciò che resta dei gioielli della corona, Eni e Enel, senza reti di sicurezza intrecciate grazie all’arte dell’ingegneria finanziaria pur di mantenere il controllo legale delle due società.

Nel Paese dell’Iri, dell’Efim e delle oltre diecimila partecipate di questi anni, per la prima volta un governo italiano è pronto a scendere sotto le soglie dello “Stato padrone” delle società più strategiche. Di entrambe oggi il governo detiene in modo diretto o indiretto appena più del 30%, la quota che permette in linea di diritto di controllare l’assemblea degli azionisti. Entro i prossimi tre mesi, però, dovrebbe andare in vendita il 5% sia di Eni che di Enel, per ricavi da circa 5 miliardi da reclutare a contenimento del debito pubblico.

Non sarà un passo a cuor leggero per le strutture di Via XX Settembre, eredi di una tradizione quasi secolare di controllo pubblico delle imprese. Se ci si sta arrivando, è perché la mano di carte in mano al ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan non dà molta scelta. È passato più di un anno da quando il suo predecessore, Fabrizio Saccomanni, iniziò a mettere in cantiere un nuovo programma di privatizzazioni per contrastare il continuo aumento del debito. E sono passati sei mesi da quando Padoan stesso ha stilato una tabella di marcia anche più ambiziosa, che prevede vendite di attività per dieci miliardi l’anno da adesso fino al 2017. Di questi progetti sono stati riempiti molti documenti del governo, inclusi quelli mandati a Bruxelles. Ma dai primi annunci di oltre un anno fa, il Tesoro è riuscito a incassare appena 350 milioni da Cassa depositi e prestiti per la cessione parziale di Fincantieri: il piano originario sulla società di costruzioni navali aveva previsto entrate per 600 milioni.

Per adesso è mancata soprattutto la qualità degli attivi da mettere sul mercato. Il piatto forte quest’anno avrebbe dovuto essere Poste Italiane, di cui il Tesoro intendeva iniziare a cedere il 40%. Ma Francesco Caio, il nuovo amministratore delegato, questa primavera ha scoperto di aver rilevato dal predecessore Massimo Sarmi un’azienda tutt’altro che in condizioni di essere quotata in Borsa. Le attività postali tradizionali viaggiano in una perdita fin qui in qualche modo resa meno visibile dai buoni risultati del Banco Posta. Nei settori più promettenti, soprattutto la spedizione di pacchi, le Poste in Italia hanno una quota di mercato molto inferiore alle omologhe ex monopoliste degli altri Paesi europei. E con i tassi d’interesse ai minimi, anche il Banco Posta fatica a garantire la redditività degli anni passati. Quotare in Borsa l’azienda adesso avrebbe comportato il rischio di un flop.

Caio ha chiesto tempo al governo per ristrutturare l’azienda e ora al Tesoro si conta sul fatto che nel 2015 si possa procedere alla cessione del primo 40% delle azioni. Gli introiti sperati dovrebbero arrivare a quattro o cinque miliardi. In seguito, se tutto andrà per il meglio, lo Stato dovrebbe gradualmente continuare a scendere nel capitale del gruppo di Caio e portare nuovi fondi a contenimento del debito pubblico.

Simile il processo previsto per Enav. L’Ente di navigazione aerea non è in condizioni di attrarre investitori privati oggi, ma si conta che lo sia tra un anno per ricavi da circa un miliardo. Per Sace invece i calendari del ministero dell’Economia sembrano prevedere tempi ancora più lunghi.

Di qui la decisione di accelerare su Eni e Enel, per schierare ricavi a contrasto dell’aumento del debito già da quest’anno. Della società elettrica, che capitalizza circa 31 miliardi di euro, il ministero dell’Economia ha il 31,2% e scenderebbe al 26%. Del gruppo dell’energia, che vale circa 66 miliardi, ha il 3,9% e la Cassa depositi e prestiti (del Tesoro all’80%) controlla un altro 26,3%. La sfida da ora in poi per lo Stato sarà continuare a esercitare il controllo di fatto anche senza il vincolo legale nell’assemblea degli azionisti: un passo in Italia impensabile per gran parte degli ultimi 80 anni, da circa metà dell’era fascista.