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Siano i contribuenti a valutare e sanzionare i dirigenti pubblici

Siano i contribuenti a valutare e sanzionare i dirigenti pubblici

di Massimo Blasoni – Libero

In materia fiscale lo Stato ha peccato di presunzione. Dal 1993 ha presunto infatti di conoscere il reddito dei lavoratori autonomi grazie al confronto delle loro dichiarazioni fiscali con i famigerati studi di settore. Il risultato di questa politica è a tutti noto: chi non rientrava in quei parametri spesso astratti di coerenza e congruità andava trattato senza alcun riguardo come un truffatore, mentre agli evasori fiscali era sufficiente dichiarare redditi formalmente in regola con le stime decise a tavolino dallo Stato.

Nel decreto fiscale in corso di approvazione, gli studi di settore vengono ora sostituiti da indici sintetici di affidabilità di ciascun contribuente. Si chiameranno indicatori di compliance e saranno in buona sostanza una pagella stilata dallo Stato, beninteso sulla base di regole e relative punizioni decise dallo Stato. Al netto dell’ennesimo anglicismo, non sembra un gran cambiamento. E se per una volta cambiassimo paradigma? Pensate a cosa succederebbe se fossero invece i contribuenti a poter stilare una valutazione dell’indice di affidabilità delle singole pubbliche amministrazioni, insomma fossero possibili sanzioni per quei dirigenti e funzionari pubblici che lavorano male, con ritardi inaccettabili, di fatto ostacolando l’attività delle imprese e dei lavoratori autonomi.

Non credo di esagerare: in fin dei conti come ricordava Margaret Thatcher «non esistono i soldi pubblici, piuttosto soldi dei contribuenti». La Pubblica amministrazione impiega in media 131 giorni prima di pagare i suoi fornitori privati (ha ancora debiti per 61,1 miliardi) e impone mediamente 227 giorni di attesa per il rilascio di una concessione edilizia. Ci sono aziende sanitarie in Calabria che saldano i propri debiti abitualmente dopo un anno. La giustizia civile richiede mediamente 590 giorni per un esito in primo grado e certo non è finita li. Non sono rari i fallimenti causati da questi ritardi.

Ribadisco: così non può funzionare. Anche perché se un cittadino non paga una qualche tassa scattano (giustamente, sia chiaro) multe severissime, mentre lo Stato paga o giudica quando vuole senza che vi sia nessuna possibilità di sanzione per i suoi ritardi. Dunque per migliorare il rapporto di fiducia fra Stato e imprese perché non affiancare agli indicatori di affidabilità fiscale anche quelli di efficienza per la PA?

La fine del diritto pesante del lavoro nella quarta rivoluzione industriale

La fine del diritto pesante del lavoro nella quarta rivoluzione industriale

LA FINE DEL DIRITTO PESANTE DEL LAVORO NELLA QUARTA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE

Roma, 16 novembre 2016 – Sala Danilo Longhi di Unioncamere, Piazza Sallustio 21

Mercoledì 16 novembre 2016, si terrà all’Unioncamere a Roma un seminario organizzato dall’Associazione Amici di Marco Biagi intitolato “La fine del diritto pesante del lavoro nella quarta rivoluzione industriale“. Il seminario ha lo scopo di approfondire l’analisi dei cambiamenti indotti dalle tecnologie digitali nella economia e nella società e, in conseguenza, le ipotesi di riforma del quadro regolatorio inerente il lavoro pubblico e privato. La quarta rivoluzione industriale ha infatti in sé le potenzialità tanto per una polarizzazione dei redditi e delle competenze su pochi privilegiati quanto per un maggiore grado di inclusione delle persone nel mercato del lavoro. Nel corso del seminario saranno presi in esame i due disegni di legge firmati dai senatori Maurizio Sacconi, Serenella Fucksia, medico del lavoro, e Hans Berger, imprenditore altoatesino, dedicati a produrre un Testo Unico denominato Statuto dei Lavori e una disciplina semplice e sostanziale in materia di salute e sicurezza nel lavoro.

Programma

Ore 9: registrazione partecipanti.

Ore 9,30: relazioni introduttive di Simone Bressan (direttore Centro Studi ImpresaLavoro), Mariano Corso (professore ordinario “organizzazione e risorse umane”, Politecnico di Milano e direttore Osservatorio smartworking), Michele Tiraboschi (professore ordinario diritto del lavoro, Università di Modena, direttore scientifico Centro Studi Adapt), Roberto Pessi (professore ordinario diritto del lavoro, prorettore LUISS) e Francesco Violante (professore ordinario di medicina del lavoro, Università di Bologna, Presidente Società Italiana di Medicina del Lavoro e di Igiene Industriale). Giuseppe Bertagna (direttore Dipartimento Scienze Umane e Sociali, Università di Bergamo) invierà un contributo scritto.

Ore 11,00: interventi dei partecipanti. Interventi programmati di Luca De Compadri (Consigliere Nazionale Ordine dei Consulenti del Lavoro) e Stefano Franchi (Direttore Generale Federmeccanica).

Ore 12,30: conclusioni di Maurizio Sacconi.

Coordina i lavori Emmanuele Massagli (Presidente del Centro Studi Adapt).

Le registrazioni possono essere comunicate a questo indirizzo e-mail: mauriziosacconi1@gmail.com

Spesa pubblica e risparmi

Spesa pubblica e risparmi

di Massimo Blasoni – Metro

C’è una sola via per la contrazione drastica e strutturale della spesa pubblica che nemmeno la manovra di quest’anno affronta: occorre che lo Stato riduca il suo campo di azione e, gravati da meno tasse, siano i cittadini e le imprese a occupare quegli spazi. Non è frutto di un ordine necessario che lo Stato gestisca, in via quasi esclusiva, pensioni, scuola, sanità.

I risultati in tema di riduzione della spesa pubblica sono stati in questi anni assai lontani dagli obiettivi che si erano ripromessi i vari commissari alla spending review. Diminuire la spesa è problematico perché significa toccare situazioni di cui molti beneficiano: ridurre privilegi ma anche servizi. Essendo difficile decidere chi scontentare, i tagli di norma sono lineari oppure si tratta di spese differite all’anno successivo. Poco o nulla di strutturale, quindi. Peggio, si tende a tagliare la spesa per investimenti, quella di cui ci sarebbe bisogno in un Paese carente di infrastrutture fisiche e soprattutto digitali, tanto da essere agli ultimi posti in Europa per capacità di innovazione.

La spesa corrente al netto di interessi è passata, in valori assoluti, da 671 a 702 miliardi tra il 2012 e il 2016. Quella per investimenti nell’ultimo quinquennio è scesa di 7,8 miliardi: l’opposto di quello che è successo in Inghilterra. Che ne è stato del taglio delle partecipate? Chi ha novità sulle liberalizzazioni e privatizzazioni per lo più naufragate? Anziché discettare di buona spesa pubblica e di tagli, senza metterli in pratica, occorrerebbe un cambio di prospettiva.

Non è detto che molte delle cose di cui si occupa la pubblica amministrazione non possano essere fatte, e meglio, dai cittadini. Chi spende per se stesso spende con attenzione, diversamente da quello che accade spesso nella PA. Un esempio: il denaro che versiamo per le nostre future pensioni non è ben amministrato dallo Stato. Perché non dovremmo ricorrere al mercato? L’Inps registra passivi pesantissimi anche a causa di evidenti inefficienze e ha uno sterminato patrimonio immobiliare acquistato spesso a prezzi esosi e poi locato per importi magari risibili. Fatta la tara a tutte le indubbie complessità e alle esigenze sociali, qualcuno ha dubbi sul fatto che ognuno di noi gestirebbe meglio quel denaro se potesse farlo, almeno in parte, direttamente?

La concorrenza ‘temperata’ fa bene al gioco del calcio

La concorrenza ‘temperata’ fa bene al gioco del calcio

Questo sito e il Centro studi di cui è parte integrante hanno il liberalismo nel proprio Dna. Vi ricordate quando negli Anni Ottanta e Novanta la sfrenata concorrenza per accaparrarsi i calciatori più famosi portarono le loro quotazioni a cifre stratosferiche? Allora il libro di Rocco Francesco Scandizzo “L’economia del calcio come sport spettacolo e il mercato internazionale delle star” (che ha vinto un paio di premi e avuto una buona circolazione nel settore), indicò chiaramente che di questo passo le aziende calcistiche si sarebbero rotte il collo.

Più o meno nello stesso periodo (prima parte degli Anni Novanta), uno studio di due Università britanniche – quella di Exeter e quella di Manchester – analizzò sotto il profilo e giuridico e economico-finanziario le normative e i codici di corporate governance emessi in 20 dei 25 Stati dell’Unione Europea. Questo lavoro documentava come nonostante le differenze di partenza in Paesi con tradizioni giuridiche molto differenti (da quelle romano-germaniche al common law britannico), si stesse convergendo verso un grado di corporate governance (e regole ad esso attinenti) di stampo anglosassone imperniato su verifiche contabili indipendenti. Un processo che era in atto nonostante le normative sulle funzioni, sul ruolo, sul carattere vincolante o meno dei pareri dei revisori dei conti variasse in linea con i contesti dei singoli Paesi.

Il dato veniva ribadito in un lavoro di Stefan Szymanski della Business School dell’Imperial College di Londra, apparso “Journal of Economic Literature”, che passava in rassegna oltre 250 studi recenti sull’allestimento economico delle gare sportive. Partiva dall’assunto che «l’economia delle gare sportive ha molto in comune con la teoria economica delle aste» e differenziava marcatamente tra sport “individualistici” (in cui la tifoseria è collegata al campione) e sport “di squadra” (in cui il tifo ha invece un rapporto forte con la squadra del cuore). Per il calcio sviscerava le differenze di regolazione (e di prassi) tra gli Usa ed i maggiori Paesi europei, analizzava gli eccessi conseguenti la sentenza Bosman e i rimedi tentati (quali i tetti agli ingaggi e l’ottimizzazione del numero delle squadre nei vari campionati) e non entrava nei “fattacci” contabili e penali. Lo studio chiudeva con una nota ottimistica: «La relazione tra gli sport di squadra e la teoria dei contesti è ben sviluppata, nonostante ci sia ancora molto da fare per una comprensione economica degli aspetti istituzionali; il lavoro di analisi economica è, però, ben avviato per riformare il gioco del calcio a livello dei 25 Stati».

Queste analisi e gli interventi anche della magistratura hanno portato alla convenzione UEFA del 2009 in cui si regolamentavano gli ingaggi ponendo un tetto ai compensi. A un lustro dalle convenzione un gruppo di economisti, prevalentemente della Università Bocconi (Ariela Caglio, Angelo D’Andrea, Donato Masciandaro e Gianmarco Ottaviano) ne compiono una valutazione ex post nel lavoro “Does Fair Play Matter? UEFA regulation and Financial Sustainability in the European Football industry” nei BAFFI CAREFIN Centre Research Paper No. 2016-38. La conclusione è che i Financial Fair Play Regulations (FFPR) dell’UEFA sono stati criticati principalmente sotto il profilo teorico di limite alla concorrenza. Lo studio analizza l’evidenza empirica sulla base di dati che coprono 156 club calcistici nelle serie A di Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e Spagna nei campionati 2006-2015 e analizza il comportamento dei club prima e dopo il 2009. I dati mostrano che prima della convenzione c’era una forte tendenza all’indebitamento ad alto rischio, mentre successivamente tale tendenza è fortemente diminuita e la governance migliorata. L’indicazione che ci arriva da questa analisi è chiara: mentre la mano “impicciona e pasticciona” (definizione di Giuliano Amato) è nociva, l’autoregolamentazione può fare bene.

Presidenziali USA: una situazione irripetibile o il segno di una crisi profonda?

Presidenziali USA: una situazione irripetibile o il segno di una crisi profonda?

di Pietro Masci

Lo scorso 1 novembre due giornalisti, Aaron Williams e Tim Meko, hanno pubblicato un articolo sul Washington Post nel quale spiegano che gli americani preferiscono quasi ogni cosa ai due candidati Presidenziali Hillary Clinton e Donald Trump. Putin, la Corea del Nord e l’Iran sono tra i pochi a situarsi saldamente dietro Clinton e Trump. Il giorno dopo il Club Economico di Washington ha organizzato un dibattito sulle elezioni durante il quale il moderatore ha chiesto: «Se Hillary Clinton sarà eletta presidente, qual è l’evento che l’ha maggiorente favorita?» La risposta è stata unanime: «La scelta dei Repubblicani di candidare Donald Trump». Il moderatore ha fatto la stessa domanda riferita a Donald Trump. Anche in questo caso la risposta è stata unanime: «La scelta del Democratici di candidare Hillary Clinton». Questa situazione di due candidati alla Presidenza americana che raccolgono la disapprovazione del pubblico non è emersa ora. Un paio di mesi fa, una mia cara amica italiana che ha vissuto negli Stati Uniti mi ha inviato una foto che sollecita gli americani a cambiare la residenza in Canada, dato il livello dei due candidati presidenziali. E’ l’equivalente di uno sfottò tra vicini, ma dimostra uno stato d’insoddisfazione.

L’insoddisfacente livello della campagna presidenziale

Come avevo sottolineato alcuni mesi fa su questo sito, il malcontento nei confronti di Clinton e Trump è parte di una più generale frustrazione per i principali candidati alla Presidenza. Quelli repubblicani (Jeb Bush, Carson, Christie, Cruz, Kasich, Rubio) non erano al’altezza e non avevano una proposta convincente. Il Presidente della Camera Paul Ryan – che considero un politico di livello – non ha avuto il coraggio di candidarsi e non è stato in grado di comprendere l’avanzata di un candidato come Trump, per molti versi antitetico ai valori del Partito repubblicano. Trump ha condotto una campagna elettorale fatta di battute (anche pesanti), minacce, offese, mancanza di contenuti e di serie proposte. La rete televisiva NBC ha dimostrato che dall’annuncio della sua candidatura (16 giugno 2015) a oggi ha cambiato 138 posizioni su 23 temi di estrema rilevanza. Quando Trump parla dei cambi che intende introdurre – tra questi una profonda revisione dei trattati commerciali e del concetto stesso di globalizzazione – trasmette l’impressione che si materializzeranno come miracoli in grado di migliorare immediatamente la vita degli americani. Il Partito repubblicano non è stato in grado di comprendere e gestire una situazione nella quale pressoché qualsiasi candidato avrebbe vinto contro una Clinton mal vista da una gran parte degli americani e ha confidato nella circostanza che Trump sarebbe stato sconfitto alle primarie.

Un’analisi analoga vale per il Partito democratico, che non poteva non conoscere gli aspetti negativi della Clinton, che tuttavia ha l’appoggio del Presidente Obama. Elizabeth Warren, senatrice per il Massachusetts e nota per le posizioni contro gli interessi precostituiti, si è defilata. Bernie Sanders, un candidato indipendente non iscritto al partito democratico, è andato allo sbaraglio (e peraltro ha dimostrato con una piattaforma di “sinistra” le difficoltà della Clinton).

Occorreva dare una risposta efficace alla gran parte degli americani insoddisfatti con la situazione economica, l’immigrazione, il terrorismo. In effetti, Trump dà voce alla profonda rabbia di tanti milioni di elettori che vogliono un miglioramento concreto nelle loro vite. Trump interpreta la convinzione di molti americani che il sistema è “truccato”; che i politici non si preoccupano dei cittadini, ma dei loro guadagni. Trump sta ridefinendo il Partito repubblicano, facendo appello agli elettori repubblicani e democratici pronti per una seconda rivoluzione americana. Guarda caso molti degli stessi elettori ai quali si rivolgeva l’indipendente Bernie Sanders, il candidato democratico che parlava di “rivoluzione” ed è battuto da Clinton nelle primarie. In tale contesto, il divario tra l’élite politica e i cittadini è in crescita. La gente si domanda quale motivo spinga entrare in politica invece che in studio legale o in altra attività imprenditoriale. Forse perché la politica permette di guadagnare bene, considerato che i politici decidono le sorti dei ricchi con i quali i politici sono continuamente in contatto e dai quali ricevono contributi finanziari. L’ultimo decennio ha visto l’1 per cento più ricco crescere, il divario tra ricchi e poveri allargarsi, la classe media impoverirsi. In tal senso, la battaglia tra Donald Trump e Hillary Clinton offre un contrasto paradossale. L’outsider Trump si è arricchito nel settore privato e – come lui stesso ammette – “acquistando” favori dai politici ai quali ha offerto vari contributi finanziari. Il politico Hillary Clinton ha ricevuto ingenti contributi finanziari e sembra dimostrare che il percorso attraverso il settore pubblico può ugualmente produrre milioni di dollari. Trump declama che l’America è attraversata da disastri e problemi (spesso non evidenti o non definibili come disastrosi e non corroborati dai dati macro-economici su occupazione, inflazione e livelli salariali). Clinton pensa invece che le cose vadano sostanzialmente bene e che per ridurre le disuguaglianze ci sia solo bisogno di alcuni aggiustamenti.

Molte persone ritengono che le leggi non siano applicate in modo uniforme. L’esempio è che nessuno ha sostanzialmente pagato per le crisi finanziaria degli ultimi anni originata negli Stati Uniti; nessuno è responsabile per le guerre degli ultimi 10-15 anni e per la gestione della politica estera. Trump ha beneficiato di procedure che gli hanno permesso di non pagare le imposte e offende e maltratta chi non è d’accordo; Clinton nei suoi anni nel Congresso e come segretario di Stato ha commesso errori enormi (per i quali si è puntualmente scusata) che hanno favorito l’emergere di seri problemi in Iraq, Libia, Siria, Ucraina nonché il continuo confronto con la Russia. ISIS è cresciuto dopo l’invasione dell’Iraq e il ritiro delle truppe americane (deciso dall’amministrazione Obama) che ha lasciato un vuoto di potere. Inoltre, la Clinton non viene mai incriminata, particolarmente per la gestione secreta della posta elettronica con un server nello scantinato di casa egli anni in cui era Segretario di Stato.

Le negatività di Trump e Clinton

La negatività che i due candidati raccolgono è senza precedenti, come dimostra un articolo di Mike Czuchnicki. Alcuni accusano Clinton di essere una bugiarda congenita e di aver dimostrato di non avere quella capacità di giudizio fondamentale per un Presidente degli Stati Uniti. La difesa di Hillary Clinton è che il suo avversario è peggio. Nel frattempo, Trump sembra essere in lotta contro tutti, compreso sé stesso. L’elenco di coloro che offende è lungo e comprende molti della struttura del Partito repubblicano, alcuni dei quali – ad esempio il senatore e già candidato presidenziale McCain – evitano pubblicamente di sostenerlo. Un recentissimo sondaggio conferma che gli americani sono disgustati dall’attuale funzionamento del sistema attuale e ritengono che il vincitore non sarà in grado di unificare il Paese. E’ probabile che il prossimo Presidente avrà una fortissima opposizione e ostruzionismo da parte del partito avverso, senza considerare la possibilità che il perdente non accetti il risultato delle elezioni. A questo proposito è sufficiente ricordare come, per molto meno, tanto Gary Hart (favorito alle elezioni nel 1984 e scoperto a mentire su una sua relazione extra-coniugale) quanto l’attuale Vice Presidente Joe Biden (candidato democratico alle primarie del 1988 e accusato di aver plagiato un discorso di Neil Kinnock del Partito Laburista inglese) furono costretti ad abbandonare la corsa alla Presidenza.

I media – soprattutto la televisione – hanno responsabilità per come la campagna presidenziale è presentata. Dopo aver facilitato la vittoria di Trump alle primarie perché gli veniva dedicato un eccesso di tempo in video, le televisioni si sono interessate in modo sproporzionato degli scandali di Trump e non si sono preoccupati di dedicare un’attenzione analoga alle rilevanti mancanze di Hillary Clinton. Una ricerca indipendente dell’Harvard Kennedy School’s Shorenstein Center on Media, Politics and Public Policy sottolinea che soprattutto le televisioni hanno dato rilievo agli scandali di Trump e particolarmente al video della conversazione offensiva contro le donne, ma hanno trascurato i problemi di Hillary Clinton come ad esempio quello della gestione della posta elettronica. L’ultima “perla” è costituita dalla circostanza che Donna Brazile – già Presidente ad interim del Comitato nazionale del Partito Democratico e collaboratore della rete CNN – ha passato alla Clinton le domande che sarebbero state fatte ai candidati durante i dibattiti televisivi delle primarie.

La corsa finale

I colpi di scena si susseguono. Ho l’impressione di assistere alla nota trasmissione radiofonica “Tutto il Calcio Minuto per Minuto” con continue interruzioni dai campi con notizie che ribaltano i risultati. L’ultima riguarda la notizia sulle indagini del FBI nei confronti della Clinton e della sua Fondazione. Lo scorso 5 luglio il suo direttore James Comey annuncia che Hillary Clinton non sarebbe stata incriminata per la gestione della posta elettronica. Dieci giorni prima del voto, in una lettera a senatori e membri del Congresso, comunica la riapertura del caso a seguito dell’individuazione di nuove mail rilevanti per l’inchiesta. Infine, a meno di 48 ore dal voto, ha riconfermato la decisione di non incriminare Clinton.  Inoltre, il FBI sta indagando se i donatori alla Fondazione Clinton (che nel giro di pochi anni ha accumulato miliardi di dollari) abbiano ricevuto considerazioni particolari dal Dipartimento di Stato quando era in carica Hillary Clinton. Non solo. Il FBI ha pubblicato gli atti della grazia che il Presidente Bill Clinton (a fine mandato il Presidente degli Stati Uniti può graziare cittadini che sono stati condannati o accusati di crimini) ha concesso nel 2001 a favore di Marc Rich, un gestore di fondi d’investimento e altre attività finanziarie – fuggito in Svizzera e morto nel 2013 – accusato di evasione fiscale, frode, collusione con il crimine organizzato. A questo si aggiunga che un numero significativo di persone che ha già votato vuole cambiare il proprio voto (in alcuni Stati e in determinate circostanze coloro che hanno votato in anticipo possono infatti chiedere di rivotare). Un’ulteriore sorpresa è poi scoprire che, dopo una campagna di slogan, Donald Trump si sta in questi ultimi giorni presentando al pubblico con uno stile completamente diverso, con più sostanza, presidenziale e con la moglie Melania che anticipa come il suo ruolo di first lady sarà quello di combattere il bullismo, soprattutto quello online.

In questo contesto non poteva mancare il ruolo del mercato. Da quando è venuta fuori la notizia della riapertura dell’inchiesta su Hillary Clinton e sono quindi aumentate le probabilità di un’elezione di Trump, l’indicatore di borsa Dow Jones è sceso di oltre l’1,6 per cento. A proposito, uno studio di Justin Wolfers e Eric Zitzewitz (University of Michigan and NBER Dartmouth College and NBER) sembra sostenere che il mercato abbia più timore che Trump diventi Presidente che non che la Federal Reserve alzi i tassi d’interesse. Normalmente Wall Street è a favore dei repubblicani, ma non questa volta. La circostanza che Clinton ha sempre sostenuto Wall Street non appare insignificante.

Insomma, gli americani devono scegliere (come si dice con un’espressione caratteristica) tra il diavolo che conoscono e l’altro sconosciuto. Oltretutto l’8 novembre l’elettorato americano voterà anche per l’elezione di 469 suoi rappresentanti (34 per il Senato e 435 per la Camera) e l’esito di questa consultazione avrà un impatto fondamentale sulle prospettive di governo nazionale almeno per i prossimi due anni.

Del resto gli altri due candidati per la Presidenza degli Stati Uniti non appaiono essere in grado di costituire un’alternativa a Trump e Clinton. Il candidato del Partito Libertario Gary Johnson presumibilmente sottrarrà consensi ai repubblicani ma non sembra avere la statura e la sostanza necessaria. Stesso discorso vale per il candidato del Partito Verde Jill Stein, che presumibilmente penalizzerà i democratici. In aggiunta, il sistema americano non permette a questi due candidati – anche per la loro bassa rappresentatività – di avere accesso alla televisione e portare il loro messaggio al vasto pubblico. Sono entrambi condannati all’insuccesso.

L’esito finale

L’esito della contesa presidenziale è molto incerto, anche se i sondaggi a livello nazionale attribuiscono ancora un piccolo margine di vantaggio a Clinton (46,6% contro il 44,8% di Trump) per quanto riguarda il voto popolare. Tuttavia l’elezione dipende dai risultati ottenuti nei singoli Stati che conferiscono i c.d. voti elettorali. Per diventare Presidente occorre infatti raggiungerne 270 e Clinton resta ancora il candidato favorito (216 contro i 164 di Trump) anche se il suo margine va riducendosi negli Stati in bilico (che ne attribuiscono altri 158). Per vincere, il candidato repubblicano dovrebbe infatti aggiudicarseli tutti e strappare alla Clinton almeno uno Stato tradizionalmente a maggioranza democratica. I sondaggi non riescono comunque a identificare facilmente ex ante tre categorie di elettori che risulteranno comunque decisive: coloro che voteranno Trump senza dirlo, coloro che voteranno controvoglia Clinton perché temono il salto nel vuoto determinato da una vittoria di Trump, coloro infine che si asterranno dal voto perché non intendono essere complici di un sistema che mostra crepe evidenti.

Conclusione

Come mai in una grande democrazia come quella degli Stati Uniti, dove un certo numero di controlli ed equilibri esistono per promuovere i migliori ed evitare risultati non democratici e dove le persone hanno l’ultima parola, due personaggi così negativi riescono a diventare i candidati alla Presidenza degli Stati Uniti? Ci sono due possibili risposte: o questo è un evento casuale che non potrà ripetersi oppure è un segnale che qualcosa è sbagliato nel sistema statunitense e deve essere riparato. Sono orientato verso la seconda risposta. Ma, allora, chi potrà riparare il sistema? Forse la generazione dei c.d. Millenials oppure quella ancora successiva troverà una soluzione.

Nell’anno in cui i Cubs di Chicago hanno vinto per la prima volta, dopo 108 anni, le World Series di Baseball, è pressoché certo che per la prima volta sarà Presidente degli Stati Uniti o una donna oppure uno sconosciuto totale. Però è solo la vittoria dei Chicago Cubs che appare degna di essere celebrata. Chi diventerà Presidente degli Stati Uniti non sembra essere in grado di ricompattare il Paese e far fronte ai problemi giganteschi dell’America e dell’intero pianeta.

Dopo le elezioni sarà così cruciale verificare se, e in che misura, le tre categorie di elettori sopra menzionati – insoddisfatti e critici dell’attuale situazione, quelli che voteranno uno o l’altro dei candidati senza una grande convinzione o gli astenuti – costituiranno una forza compatta in grado di riportare il sistema americano ai valori, ai principi e alle regole originarie che il lento accumularsi nel tempo di posizioni di rendita e privilegi sta rendendo vuoti e retorici.

Paese in ginocchio, falliscono 57 aziende ogni giorno

Paese in ginocchio, falliscono 57 aziende ogni giorno

di Claudio Antonelli – La Verità

Nell’arco delle 24 ore in cui questa edizione sarà valida, in Italia avranno chiuso per insolvenza 57 aziende. È la media aritmetica dei fallimenti registrati. Un numero spaventoso che se viene spalmato dal 2009 a oggi arriva a contare 6 cifre. Se continua cosi chiuderemo, infatti, l’anno con 100.000 imprese finite a gambe all’aria.

I conti li ha fatti il centro studi ImpresaLavoro, presieduto da Massimo Blasoni, e definiscono un Paese in profonda crisi. Rielaborando i numeri forniti da Ocse e Cribis, società di servizi per la gestione del credito, appare chiaro come rispetto a sei anni fa i fallimenti in Italia siano cresciuti del 55%, passando dai 9.384 del 2009 ai 14.585 del 2015. Un dato che non ha paragoni con le altre grandi economie monitorate dall’Ocse: oltre all’Italia, infatti, solo la Francia (+13,81%) presenta oggi un numero di crac superiore rispetto al 2009 e con proporzioni del fenomeno decisamente più limitate rispetto alle nostre. Tutti le altre nazioni segnalano, invece, un numero di aziende fallite inferiore a quello di sei anni fa. Le imprese costrette a chiudere per insolvenza sono infatti in calo in Spagna (-4,45%), Germania (-22,90%) e Olanda (-30,25%). Idem per la Finlandia, il Belgio e la Svezia.

Lo stupore di fronte a tale mortalità dovrebbe però lasciare spazio alla consapevolezza che la nazione che ci ospita è fondamentalmente avversa all’imprenditoria privata. Statalisti nel Dna, i politici che guidano il Paese sono molto restii a ridurre il perimetro della burocrazia e dello Stato. Qui sta il male originario di tutti i problemi e i gravami che cadono sulla testa di chi investe i propri capitali. Lo straripamento della spesa pubblica non genera solo una pressione scale abnorme, che obbliga un’azienda a versare allo Stato non meno di 55 centesimi per ogni euro incassato (arrivano a essere 68 se si aggiungono altri oneri o imposte), ma produce una lunga serie aggiuntiva dí tasse occulte. Sono scartoffie, corsi obbligatori per il personale, certificazioni vissute non come una tutela ma una vera e propria vessazione.

Un artigiano che lavora l’intera settimana senza pause può essere costretto a sborsare 160 euro + Iva per un certificato contro lo stress da lavoro correlato. Chi si occupa di autotrasporto sa che le norme nazionali o regionali sono un labirinto che finisce immancabilmente con un prelievo dal portafogli. Un’azienda che si occupa di impianti termoidraulici e magari ha 5 dipendenti nell’arco di cinque anni avrà finito con lo spendere 4.000 euro per la formazione professionale e oltre 250 ore sottratte alla produttività. In molti si chiedono a che servano i corsi di primo soccorso, se poi nessuno si azzarda a intervenire per timore che arrivi una denuncia penale e si finisca con l’essere processati. Così si chiama sempre il 118. Eppure se il titolare non si mette in regola (serve almeno un dipendente formato) scattano le sanzioni e persino le multe.

Da tenere nel cassetto ci sono anche le certificazioni sul rumore (300 euro + Iva) e il documento per la valutazione dei rischi che ovviamente passa per le mani di un professionista e non costa meno di 380 euro, sempre Iva esclusa. E questa è solo una veloce carrellata che rende l’idea di come la burocrazia appesantisca un’impresa quasi più della pressione fiscale. Certo, un giovane che si mette a fare l’imprenditore capisce subito che dovrebbe trasferirsi altrove. Per avviare un’impresa servono almeno nove procedure e si può arrivare ad attendere 36 mesi per avere tutte le carte in regola. E ci sarà un motivo se le persone pagano più per timore delle multe che per reale convinzione: perché spesso gli adempimenti servono a giustificare l’esistenza di chi li ha inventati.

Ovviamente queste «rogne» riguardano solo le attività che sono in salute. Le altre devono affrontare la rigidità dei finanziamenti, la crisi del credito e alla fine la voragine della giustizia civile. Il primo motivo per cui gli stranieri sono restii a investire in Italia. Nel complesso, l’ambiente è ostile alle aziende. Non è odio. È solo aridità. Come vivere nel deserto se si è una pianta di mele: molto difficile. Non a caso tutte le statistiche internazionali ci dipingono come una nazione del Terzo mondo. Ultimo in ordine di tempo è il Global Competitiveness Index. L’Italia si è piazzata al 44° posto (43° nel 2015) preceduta, tra gli altri, da Islanda 29°, Malesia, Azerbaigian, Federazione Russa e Spagna (33°). L’efficienza del mercato del lavoro è al numero 119 su 138 in classifica. L’efficienza delle istituzioni è al numero 103 e la trasparenza del mercato finanziario al 122° posto. Per innovazione tecnologica ritorniamo nella parte alta della classifica. Come ci riusciamo, con tutte le zavorre, non si sa. Deve essere lo stesso mistero che permette all’Italia di svegliarsi ogni mattina. E ripartire dai fallimenti.

La strage delle imprese: ne chiudono 57 al giorno

La strage delle imprese: ne chiudono 57 al giorno

di Antonio Signorini – Il Giornale

Sempre più difficile fare impresa in Italia. I segnali di ripresa, se ci sono, si traducono in un lieve rallentamento della strage di imprese iniziata già da anni e mai interrotta. Con buona pace di chi ancora vede segnali positivi e incoraggianti. Il Centro Studi ImpresaLavoro ha messo in fila i dati sui fallimenti degli ultimi sei anni. Dal 2009 a oggi sono fallite 95mila imprese e alla fine del 2016 si prevede avranno chiuso i battenti 100mila. Il ritmo è impressionante: in Italia chiudono per insolvenza 57 imprese ogni giorno lavorativo. Fallimenti veri, non un dato fisiologico, rileva il centro studi diretto dall’imprenditore Massimo Blasoni.

ImpresaLavoro, basandosi su dati provenienti dall’Ocse, evidenzia come i fallimenti in Italia siano cresciuti del 55,42% rispetto a sei anni fa, cioè da quando è iniziata la crisi mondiale. Sono passati dai 9.384 del 2009 ai 14.585 del 2015. Un dato, questo, che non ha paragoni con le altre grandi economie monitorate dall’Ocse: oltre all’Italia, infatti, solo la Francia (+13,81%) presenta oggi un numero di fallimenti superiore rispetto al 2009 e con proporzioni del fenomeno decisamente più limitate rispetto all’Italia.

In altre parole il problema dell’Italia non è la crisi della finanza mondiale. Semmai i mercati in tempesta dal 2009 ad oggi, hanno fatto emergere la debolezza del Paese. E l’incapacità della politica a dare risposte ai problemi delle imprese. In tutti gli altri Paesi, c’è infatti stato un numero di aziende fallite inferiore a quello di sei anni fa. Le aziende costrette a chiudere per insolvenza economica sono calate in Spagna (-4,45%), Germania (-22,90%) e Olanda (-30,25%). L’unico sollievo per l’Italia è un lieve rallentamento dei fallimenti nei primi due trimestri di quest’anno rispetto all’anno precedente. Secondo le stime elaborate dal Centro Studi ImpresaLavoro, alla fine del 2016 saranno fallite in Italia 14.348 imprese su base annua, 237 in meno del 2015 e quasi 1.000 in meno rispetto al picco registrato nel 2014.

Un po’ di ottimismo è d’obbligo, ma il problema è che l’Italia resta lontanissima dai livelli pre-crisi (nel 2009 i fallimenti furono 9.384) ed è sempre più distante dagli altri Paesi europei. La soluzione secondo Blasoni, imprenditore del Nord Est, sono le riforme. «La ripresa del ciclo economico dipende dalla salute delle imprese. Occorrono politiche volte a ridurre il macigno della burocrazia e il peso delle tasse». Altrimenti il rischio è quello di «un ulteriore incremento del numero dei fallimenti».

Dal 2009 sono fallite 100mila imprese italiane

Dal 2009 sono fallite 100mila imprese italiane

Alla fine di quest’anno la crisi avrà fatto fallire nel nostro Paese più di 100mila imprese. A rilevarlo è una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro che, rielaborando i numeri forniti dall’Ocse, evidenzia come rispetto a sei anni fa i fallimenti in Italia siano cresciuti del 55,42%, passando dai 9.384 del 2009 ai 14.585 del 2015.

Un dato, questo, che non ha paragoni con le altre grandi economie monitorate dall’Ocse: oltre all’Italia, infatti, solo la Francia (+13,81%) presenta un numero di fallimenti superiore rispetto al 2009 e con proporzioni del fenomeno decisamente più limitate rispetto all’Italia. Tutti gli altri Paesi segnalano, invece, un numero di aziende fallite inferiore a quello di sei anni fa. Le aziende costrette a chiudere per insolvenza economica sono infatti in calo in Spagna (-4,45%), Germania (-22,90%) e Olanda (-30,25%).

Per quanto riguarda l’Italia, i dati relativi ai primi due trimestri di quest’anno lasciano intravedere un piccolo rallentamento nel numero dei fallimenti rispetto all’anno precedente. Secondo le stime elaborate dal Centro Studi ImpresaLavoro alla fine del 2016 saranno fallite in Italia 14.348 imprese su base annua, 237 in meno del 2015 e quasi 1.000 in meno rispetto al picco registrato nel 2014.

Dati che non possono essere comunque accolti con ottimismo, visto che siamo ancora lontanissimi dai livelli pre-crisi e dalle 9.384 aziende che fallivano nel 2009. Dall’inizio della crisi a oggi sono fallite nel nostro Paese più di 95mila imprese e il 2016 verrà ricordato come l’anno in cui si taglierà il traguardo delle 100mila imprese chiuse dal 2009 ad oggi. Il ritmo dei fallimenti è impressionante: nel nostro Paese chiudono per insolvenza 57 imprese ogni giorno lavorativo.

Fallimenti ancora record: tra 2009 e 2016 fallite 100mila imprese

Fallimenti ancora record: tra 2009 e 2016 fallite 100mila imprese

Alla fine di quest’anno la crisi iniziata nel 2008 avrà fatto fallire nel nostro Paese più di 100mila imprese. A rilevarlo è una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro che, rielaborando i numeri forniti da OCSE e CRIBIS, evidenzia come rispetto a sei anni fa i fallimenti in Italia siano cresciuti del 55,42%, passando dai 9.384 del 2009 ai 14.585 del 2015. Un dato questo che non ha paragoni con le altre grandi economie monitorate dall’OCSE: oltre all’Italia, infatti, solo la Francia (+13,81%) presenta oggi un numero di fallimenti superiore rispetto al 2009 e con proporzioni del fenomeno decisamente più limitate rispetto al nostro paese. Tutti gli altri paesi segnalano, invece, un numero di aziende fallite inferiore a quello di sei anni fa. Le aziende costrette a chiudere per insolvenza economica sono infatti in calo in Spagna (-4,45%), Germania (-22,90%) e Olanda (-30,25%).

Per quanto riguarda l’Italia, i dati relativi ai primi due trimestri di quest’anno lasciano intravedere un piccolo rallentamento nel numero dei fallimenti rispetto all’anno precedente. Secondo le stime elaborate dal Centro Studi ImpresaLavoro alla fine del 2016 saranno fallite in Italia 14.348 imprese su base annua, 237 in meno del 2015 e quasi 1000 in meno rispetto al picco registrato nel 2014. Dati che non possono essere comunque accolti con ottimismo, visto che siamo ancora lontanissimi dai livelli pre-crisi e dalle 9.384 aziende che fallivano nel 2009. Dall’inizio della crisi del 2008 ad oggi sono fallite nel nostro paese più di 95mila imprese e il 2016 verrà ricordato come l’anno in cui si taglierà il traguardo delle 100mila imprese chiuse dal 2009 ad oggi. Il ritmo dei fallimenti è impressionante: nel nostro paese chiudono per insolvenza 57 imprese ogni giorno lavorativo.

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Le conseguenze della deflazione sulla finanza pubblica

Le conseguenze della deflazione sulla finanza pubblica

Pochi intimi prestano attenzione alla letteratura economica portoghese mentre l’IESEG, centro di ricerca ed analisi economica dell’Università di Lisbona, produce lavori di tutto rispetto e di grande spessore. L’ultimo è un paper di Antonio Afonso e Joāo Trovar Jalles sulle “Conseguenze Fiscali della deflazione: evidenza dall’età d’oro della globalizzazione” (The Fiscal Consequences of Deflation: Evidence from the Golden Age of Globalization – ISEG Economics Department Working Paper No. WP 23/2016/DE/UECE).

L’analisi riguarda un gruppo di 17 economie nella prima ondata di globalizzazione tra il 1870 e il 1914 e mostra come in un contesto di marcata integrazione economica internazionale (l’attuale è ancora più forte) una caduta nell’1% nel livello dei prezzi comporti un aumento del rapporto tra stock di debito e Pil di circa 0,23-0,32 punti percentuali. L’apertura agli scambi, la politica monetaria e l’andamento dei cambi aumenta il valore assoluto della deflazione. In aggiunta, il rapporto debito/Pil cresce se e quando la deflazione è associata con recessioni economiche significative e ripetute. Per quanto riguarda in particolare il gettito fiscale, la deflazione ne comporta una contrazione dopo un lasso di tempo, mentre non ha effetti apprezzabili sulla spesa pubblica, soprattutto quella di parte corrente. Sono analisi di cui si dovrebbe tenere conto nell’esame parlamentare di una legge di bilancio che aumenta la spesa in un contesto in cui non si è ancora usciti dalla deflazione e – per le entrate – fa leva su una seria di operazioni una tantum di condono tributario.

La deflazione ha anche effetti sulla ricchezza relativa delle Nazioni. Il tema è esplorato in un lavoro di due economisti del Fondo Monetario Internazionale (Rabah Arezki e Frederik Giancarlo Toscani) e uno dell’Università di Oxford (Ricj van der Ploeg): “Lo spostamento delle frontiere nella ricchezza delle risorse mondiali: il ruolo delle politiche e delle istituzioni (Shifting Frontiers in Global Resource Wealth: The Role of Policies and Institutions – CEPR Discussion Paper No. DP11553). Il parametro di base sono scoperte di idrocarburi e minerali. In breve, se l’America Latina e l’Africa a Sud del Sahara avessero la qualità delle istituzioni degli Stati Uniti, le scoperte aumenterebbero nel mondo intero del 25%.