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Il manuale per tagliare gli sprechi dello Stato

Il manuale per tagliare gli sprechi dello Stato

cop_pennisi_def2Gianfranco Fabi – Il Sussidiario

Si sente sempre più spesso ripetere, anche da parte di illustri esperti di economia, che l’attuale crisi economica è il frutto di un liberalismo senza limiti e di quello che viene chiamato il fallimento del capitalismo. Una tesi certamente affascinante anche basata su di una visione strettamente ideologica più che fattuale. Infatti, prima di accettare supinamente questa analisi, ci potremmo chiedere in primo luogo se l’Italia sia un Paese a economia di mercato e in secondo luogo se i capitali possono fare veramente il bello e il cattivo tempo. E allora si potrebbe osservare che la metà più uno (il 51%) del Pil italiano è puramente e semplicemente intermediato dallo Stato e che la moneta sia nella sua quantità, sia nel suo prezzo (il tasso di interesse) è totalmente controllata da una entità extra-nazionale come la Banca centrale europea.

Se quindi è certamente vero che una finanza fuori controllo ha innescato negli Stati Uniti quella progressiva sfiducia che ha bloccato le decisioni economiche, è altrettanto vero che in Italia il sistema finanziario ha tenuto testa alla crisi e ha trovato e trova la sue maggiori difficoltà non nella corsa ai derivati e ai titoli speculativi, ma nel rallentamento dell’economia reale. Sono state infatti le difficoltà e talvolta purtroppo i fallimenti delle imprese a far aumentare oltre il livello di guardia le sofferenze bancarie. In questa realtà allora il ruolo dello Stato appare fondamentale. In primo luogo, come regolatore, perché se i mercati non funzionano spesso è più colpa delle regole che non frenano gli abusi e non colpiscono gli speculatori. In secondo luogo, perché attraverso la spesa pubblica, come insegnava il grande Keynes, si può tentare di accelerare nei momenti di difficoltà attraverso la leva degli investimenti.

Se sulle regole bisogna tener conto che molto ormai dipende dalle esigenze di armonizzazione dell’Unione europea, sul fronte della spesa pubblica la responsabilità è quasi completamente nazionale. E qui l’Italia ha molte colpe da farsi perdonare. Sia per il livello della spesa, sempre più destinata alla copertura degli impegni correnti e sempre meno al finanziamento degli investimenti, sia per la qualità degli interventi, spesso decisi al di fuori da una razionale procedura di valutazione sulla loro valenza economica e sull’efficienza dal profilo del miglioramento della dotazione di infrastrutture del Paese.

La dimostrazione sta tutta nel libro “La buona spesa, guida operativa dalle opere pubbliche alla spending review” di Giuseppe Pennisi e Stefano Maiolo (Ed. Centro studi ImpresaLavoro, pagg. 194). Pennisi, economista con una lunga esperienza all’estero e collaboratore, tra l’altro, de “Il Sussidiario” e Maiolo, anch’esso economista, docente a Tor Vergata, compiono un viaggio attraverso norme, procedure e regolamenti per mettere a fuoco una realtà disarmante: “Nel nostro Paese  – come si afferma nell’introduzione – imprese, lavoratori, cittadini sono penalizzati a ragione del pessimo stato delle infrastrutture e dalla mancanza d finanziamenti per realizzarle, nonché dalla carenza di strumenti operativi per valutarne effetti e redditività finanziaria e sociale”.

Riforma pensioni: cosa c’è in cantiere

Riforma pensioni: cosa c’è in cantiere

di Giuseppe Pennisi*

Come preconizzato sin dall’aprile scorso dal Centro Studi Impresa Lavoro in una tavola rotonda organizzata presso il CNEL, il Governo ha riaperto il cantiere sulle pensioni. L’Esecutivo sta pensando ad un mix di interventi da includere in settembre nel prossimo disegno di legge di stabilità per rendere più flessibile l’accesso alla pensione. Al centro resta l’ipotesi di una pensione a partire dai 62/63 anni con una penalità tra il 2 % ed il 3% per ogni anno di anticipo dell’uscita rispetto all’età della pensione di vecchiaia, cioè 66 anni e 7 mesi. Resta da comprendere il destino dei lavoratori precoci cioè coloro che vantano una lunga carriera contributiva: questi lavoratori chiedono un tetto a 41 anni di contributi per la pensione anticipata senza alcuna penalità sull’assegno.

Per i disoccupati il governo starebbe poi vagliando la possibilità di ritoccare la riforma degli ammortizzatori sociali, varata nel 2015 con l’obiettivo di prolungare di uno o due anni la copertura garantita oggi dalla Naspi, che dura al massimo 2 anni, per “accompagnare”, con una contribuzione figurativa, questi lavoratori alla pensione. Ciò consentirebbe di dare una risposta al superamento, dal 1° gennaio 2017, dell’indennità di mobilità e al gran numero di lavoratori disoccupati senior cioè con età superiori a 60 anni senza occupazione e senza più alcun sostegno al reddito.

Accanto a queste misure ci sarebbe un terzo canale di anticipo del pensionamento per i lavoratori coinvolti in processi di ristrutturazioni aziendali o per svecchiare la forza lavoro i cui oneri sarebbero, questa volta, posti a carico prevalentemente delle imprese con il coinvolgimento eventuale delle banche. Molte però le altre opzioni sul tavolo, compresa una revisione della normativa per i lavori usuranti, modifiche fiscali alla previdenza  complementare per rendere più appetibile il ricorso all’assegno integrativo e, in particolare, sull’utilizzo del TFR che potrebbe essere destinato ad arricchire l’importo dell’assegno erogati proprio dai fondi complementari.

In questo contesto, due lavori analitici recenti possono essere utili alle riflessioni di Governo e Parlamento. Il primo è un duro attacco ai sistemi previdenziali su base retributiva ed a perimetri troppo ampi della spesa pubblica. Ne è autore Daniel Smyth del Johnson Center della Troj University ed è intitolato Breaking Bad: Public Pensions and the Loss of that Old-Time Fiscal Religion. La prima parte del lavoro non riguarda direttamente la previdenza ma l’economia keynesiana e la “tendenza ad accumulare debito pubblico ed a promuove sistemi previdenziali non sostenibili”.  La seconda riguarda la poca trasparenza e le fuorvianti ipotesi attuariali dei sistemi previdenziali a benefici definiti “che hanno stimolato i legislatori a porre i costi delle pensioni sui contribuenti del futuro”. “Far transitare (come ha fatto l’Italia) le pensioni pubbliche da sistemi retributivi a sistemi contributivi può essere un passo verso la riduzione della sfera pubblica”.

Il secondo è un lavoro di tre docenti dell’Università di Padova: Marco Bertoni, Giorgio Brunello e Gianluca Mazzarella. Lo ha pubblicato il principale istituto Tedesco di economia del lavoro, l’IZA come Discussion Paper No. 9834. Il documento rafforza la tesi presentata il 5 aprile in questa rubrica sulla base di uno studio comparato della London School of Economics: ritardare, entro certi limiti, l’età della pensione, fa bene alla salute. Il lavoro analizza i cambiamenti dell’età minima per andare in pensione introdotti in Italia nel decennio 1990 -2000 e dimostra che gli italiani di genere maschile tra i 40 ed i 39 anni hanno risposto aumentando le attività fisiche, riducendo il fumo ed il consumo di alcolici ed adottando diete più salubri.

*Presidente del board scientifico del Centro Studi ImpresaLavoro

Sacconi (Ncd): “Dopo la fase degli incentivi ridurre strutturalmente il costo indiretto del lavoro”

Sacconi (Ncd): “Dopo la fase degli incentivi ridurre strutturalmente il costo indiretto del lavoro”

Maurizio Sacconi*

La rilevazione dell’Ocse conferma l’abnorme dimensione del cuneo fiscale e contributivo sui redditi da lavoro in Italia. Superata la fase di straordinaria incentivazione del contratto a tempo indeterminato, si tratta ora di prevedere la riduzione strutturale del costo indiretto di tutti i rapporti di lavoro agendo tanto sui contributi quanto sulle tasse. In particolare, occorre rimuovere la penalizzazione della parte aggiuntiva di salario che il lavoratore realizza attraverso lo “straordinario” o i premi aziendali in conseguenza delle applicazione delle aliquote marginali. La stessa detassazione del salario secondo l’aliquota definitiva del 10 per cento dovrebbe diventare strutturale in modo da offrire certezze tanto ai lavoratori quando alle imprese incoraggiando gli incrementi di produttività e i comportamenti che li consentono.

* Presidente della Commissione Lavoro al Senato

Damiano (PD): “Diminuzione del cuneo fiscale diventi permanente”

Damiano (PD): “Diminuzione del cuneo fiscale diventi permanente”

Cesare Damiano*

“L’audizione, sul Def, alla commissione bilancio della Camera del vice direttore di Bankitalia Federico Signorini, offre spunti interessanti di riflessione sul Jobs Act. Il riconoscimento del fatto che i rapporti di lavoro stabili abbiano effetti benefici sull’accumulazione del capitale umano e sulla produttività dell’impresa, pone fine alla mistica della flessibilità/precarietà del rapporto di lavoro come elemento decisivo per il successo delle aziende. Piano piano si esce dalla logica tutta liberista della competitività basata esclusivamente sul costo della manodopera che ha creato gravi disastri sociali e occupazionali e contribuito alla distruzione di una parte del tessuto produttivo del nostro Paese”. Lo dichiara Cesare Damiano (Pd), presidente della commissione lavoro alla Camera.

“Scommettere sul contratto a tutele crescenti – spiega – che rappresenta il perno del Jobs Act, per le assunzioni aggiuntive e per le trasformazioni dei rapporti di lavoro flessibili in contratti a tempo indeterminato, significa consegnare ai lavoratori una dote sociale di enorme valore. Questa dote sociale fa la differenza e conferisce qualità al lavoro perché significa disporre di una rete di tutele sconosciuta al lavoro precario: tutele per malattia, maternità e infortunio; retribuzione, inquadramento professionale, percorsi di carriera, scatti di anzianità e ferie, disciplinati da un contratto nazionale di lavoro; tredicesima mensilità, trattamento di fine rapporto e, nel caso di imprese che abbiano un accordo sindacale aziendale, un premio di risultato”.

“Il secondo aspetto interessante evidenziato dal vicedirettore di Bankitakia, che condividiamo – conclude Damiano – è la necessità che la diminuzione del cuneo fiscale diventi permanente. Questo requisito, accanto alla limitazione della super precarietà rappresentata dai voucher, diventa un elemento chiave per il successo del Jobs Act”.

* Presidente della Commissione Lavoro alla Camera dei Deputati

Cuneo fiscale: durante la crisi in Italia cresce di più che in tutte le altre economie avanzate

Cuneo fiscale: durante la crisi in Italia cresce di più che in tutte le altre economie avanzate

Continua a crescere l’impatto del fisco sui salari italiani: è questo il risultato di un’analisi del Centro Studi ImpresaLavoro che, rielaborando dati Ocse, segnala come il cuneo fiscale (la somma delle imposte: dirette, indirette o sotto forma di contributi previdenziali) per un lavoratore dipendente  (“single e senza figli”) è cresciuto negli ultimi anni del 2,57%, arrivando nel 2015 al 48,96% del costo del lavoro. Un dato in controtendenza rispetto alla media dei paesi dell’Ocse: nelle altre 34 economie internazionali monitorate, infatti, il cuneo fiscale- contributivo scende dello 0,11% rispetto al 2007 e dello 0,72% rispetto al 2000.

Il sensibile balzo in avanti dell’Italia è un’eccezione tra le grandi economie avanzate:  negli Stati Uniti (+0,74%), in Australia (+0,65%), in Spagna (+0,57%) e in Canada (+0,36%) la crescita del cuneo fiscale – pur superiore alla media Ocse – è contenuta in variazioni inferiori al punto percentuale. Mentre in Francia (-1,29%), Germania (-2,36%) e Regno Unito (-3,29%) il carico fiscale è diminuito.

01_CUNEO-FISCALE

La situazione non cambia se si prendono in considerazione nuclei familiari più complessi. Tra le coppie sposate con due figli in cui lavora solo uno dei due genitori, per esempio, il cuneo fiscale in Italia è cresciuto del 4,14% rispetto al 2007. Tra le economie avanzate, quella italiana è nettamente la performance peggiore. Giappone (+2,99%), Australia (+2,88%), Stati Uniti (+1,47%) e Spagna (+0,92%) hanno comunque visto un incremento del cuneo al di sopra della media Ocse (+0,49%). Mentre in Canada (-0,90%), Germania (-1,49%), Francia (-2,00%) e Regno Unito (-2,04%) il carico fiscale è diminuito rispetto alla situazione pre-crisi.

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Lo scenario è leggermente migliore, per l’Italia, prendendo in considerazione le coppie sposate con due figli in cui lavorano entrambi i genitori.  Anche in questo caso, il cuneo fiscale italiano è cresciuto rispetto al 2007, ma con un incremento dell’1,55% la performance del nostro Paese è migliore di quella di Giappone (+3,16%) e Australia (+2,79%). Meglio di noi, invece, fanno Stati Uniti (+1,03%), Spagna (+0,59%), Francia (-1,85%), Germania (-2,24%) e Regno Unito (-3,76%).

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Rispetto agli anni pre-crisi, insomma, nelle tre tipologie di nuclei familiari prese in considerazione, l’Italia vede sempre aumentare l’incidenza del cuneo fiscale con tassi di crescita sensibilmente più elevati di tutte le grandi economie europee. Questo incremento si è sommato ad un quadro di partenza già di per sé preoccupante. E così in Italia nel 2015 si rileva un cuneo fiscale tra i più alti al mondo.  Nel caso del nucleo familiare “single senza figli” il nostro Paese (48,96%) è in quinta posizione (su 34) dietro soltanto, tra le economie avanzate, alla Germania (49,44%) che però, come abbiamo visto, negli ultimi anni sembra avere decisamente invertito la tendenza. Meglio di noi, invece, fanno Francia (48,46%), Spagna (39,56%), Giappone (32,22%), Stati Uniti (31,66%), Canada (31,63%), Regno Unito (30,83%) e Australia (28,35%).

Tra le coppie sposate con due figli in cui lavora solo uno dei due genitori, l’Italia è addirittura terza (su 34) con il 39,87%, dietro a Francia (40,49%) e Belgio (40,41%). Molto distanti Germania (33,97%), Spagna (33,78%), Giappone (26,81%), Regno Unito (26,31%), Stati Uniti (20,71%), Canada (18,84%) e Australia (17,82%).

Il nostro Paese, infine, è in terza posizione (sempre su 34) anche per quanto riguarda le coppie sposate con due figli in cui lavorano entrambi i genitori.  Peggio di noi, con un cuneo fiscale del 42,70%, anche in questo caso soltanto Belgio (48,13%) e Francia (43,08%). Tra le economie avanzate, invece, meglio di noi Germania (42,33%), Spagna (36,37%), Giappone (29,16%), Canada (26,89%), Stati Uniti (26,61%), Australia (26,25%) e Regno Unito (26,18%).

Il tema della riduzione delle tasse sul lavoro è stato recentemente affrontato anche dal Cnel che nelle sue “Osservazioni e proposte” al Def (e relative audizioni) ha posto l’accento sull’esigenza di una adeguata e coerente politica per le famiglie a fini di crescita ed equità. Politica che, necessariamente, richiede una seria e profonda revisione del cuneo tributario-contributivo.

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Il triste record tricolore: se ne va in tasse quasi mezzo stipendio

Il triste record tricolore: se ne va in tasse quasi mezzo stipendio

Antonio Signorini – Il Giornale

Costo del lavoro sempre più alto e sempre meno soldi in tasca ai lavoratori. Soprattutto per quelli con famiglia. L’anomalia italiana di un cuneo fiscale molto alto non è un ricordo del passato. Nonostante continui proclami dei governi di turno e i tanti richiami da parte degli osservatori internazionali, la differenza tra quanto i datori spendono e l’effettivo stipendio dei dipendenti continua ad aumentare. In totale controtendenza rispetto agli altri paesi occidentali.

Il Centro Studi ImpresaLavoro, presieduto dall’imprenditore Massimo Blasoni, rielaborando dati Ocse, ha calcolato che la somma delle imposte e dei contributi per un lavoratore dipendente single tra il 2007 e il 2015 è cresciuto negli ultimi anni del 2,57%. Il cuneo, cioè la differenza tra il lordo e il netto dello stipendio è arrivato al 48,96% del costo del lavoro.

Gli altri Paesi Ocse hanno imboccato da tempo un’altra strada. La media dei membri dell’organizzazione di Parigi è infatti in calo dello 0,11% rispetto al 2007 e dello 0,72% rispetto al 2000. I Paesi che hanno scelto di rendere il lavoro più conveniente sono economie vicine a quella italiana: la Germania (-2,36%), la Francia (-1,29%) e il Regno Unito (-3,29%). Il cuneo è aumentato anche in altri paesi, ma sempre in misura minore rispetto all’Italia. Negli Stati Uniti (+0,74%), in Australia (+0,65%), in Spagna (+0,57%) e in Canada (+0,36%). Tutti sotto il punto percentuale, osserva il centro Studi ImpresaLavoro.

Il dato peggiora se si prende un lavoratore con famiglia. Nelle coppie sposate con due figli in cui lavora solo uno dei due genitori, per esempio, il cuneo fiscale in Italia è cresciuto del 4,14% rispetto al 2007. Ancora una volta la performance peggiore. Dopo di noi, sempre tra i paesi dell’Ocse, seguono a distanza Giappone (+2,99%), Australia (+2,88%), Stati Uniti (+1,47%) e Spagna (+0/92%). Ancora una volta i partner europei più forti, dimostrano di puntare più di noi sulla competitività e sull’equità. La Germania registra un calo del cuneo per i lavoratori con famiglia del 1,49%, la Francia del 2,00% e il Regno Unito del 2,04%. Va un po’ meglio per le famiglie italiane sposate con due figli nelle quali lavorano entrambi i genitori, con un aumento del cuneo complessivo tra il 2007 e il 2015 che si ferma al 1,55%.

Dati che pongono al governo una sfida complessa. Da un lato quella, antica, che vorrebbe fare recuperare competitività al paese proprio agendo sul cuneo. Quindi tagli al peso del fisco sull’impresa. In realtà il governo ha intenzione di rinviare ulteriormente il taglio dell’Ires, imposta che grava sulle aziende, di un altro anno, per concentrarsi su misure immediatamente percepibili per le famiglie.

Non si torna a crescere senza una vera politica per la famiglia

Non si torna a crescere senza una vera politica per la famiglia

Giuseppe Pennisi* – Avvenire

Una politica per la famiglia è la leva essenziale perché l’Italia torni a crescere. È stato questo il punto centrale dell’audizione in Parlamento del Cnel sul Def, ma il concetto è stato sottolineato anche da Istat e Corte dei Conti. Altrimenti, ci si avviterebbe in un progressivo invecchiamento e riduzione di energie (sia imprenditoriali sia lavorative) per investire, produrre, consumare ed innovare.

La politica della famiglia non deve essere confusa con la lotta alla povertà delle famiglie indigenti. Ma deve includere in primo luogo una politica tributaria attiva per i nuclei e la loro prole, nonché misure che facilitino la conciliazione tra obblighi familiari e lavoro. Sul primo punto l’Italia non sta andando bene. Un’analisi del Centro Studi Impresa Lavoro su dati Ocse mostra che se prendiamo come indicatore il cosiddetto “cuneo fiscale” il fardello è cresciuto negli ultimi anni del 2,57%, arrivando nel 2015 al 48,96% del costo del lavoro. Un dato in controtendenza rispetto alla media dei Paesi dell’Ocse: nelle altre 34 economie internazionali, infatti, il cuneo fiscale-contributivo scende dello 0,11% rispetto al 2007 e dello 0,72% rispetto al 2000. Il sensibile balzo in avanti dell’Italia è un’eccezione: negli Stati Uniti (+0,74%), in Australia (+0,65%), in Spagna (+0,57%) e in Canada (+0,36%) la crescita del cuneo fiscale – pur superiore alla media Ocse – è contenuta in variazioni inferiori al punto percentuale. Mentre in Francia (-1,29%), Germania (-2,36%) e Regno Unito (-3,29%) si è registrata una decrescita..

Il carico è ancora più pesante per i nuclei. Tra le coppie sposate con due figli in cui lavora solo uno dei due genitori il cuneo in Italia è cresciuto del 4,14% dal 2007 al 2015, rispetto alla media Ocse dello 49%. Mentre in Canada (-0,90%), Germania (-1,49%), Francia (-2,00%) e Regno Unito (-2,04%) il carico fiscale è diminuito rispetto alla situazione pre-crisi. Così, per le coppie sposate con due figli in cui lavora solo uno dei due genitori, l’Italia ha un cuneo addirittura del 39,87%. Il nostro Paese, infine, è in terza posizione (sempre su 34) anche per quanto riguarda le coppie sposate con due figli in cui lavorano entrambi i genitori, peggio di noi, con un cuneo fiscale del 42,70% soltanto Belgio (48,13%) e Francia (43,08%).

Un osservatore straniero concluderebbe da questi dati che l’Italia ha risposto alla crisi iniziata nel 2007 in gran misura aumentando il cuneo fiscale sulle famiglie, danneggiandosi così tanto nel breve periodo (consumi) quanto nel medio e lungo (profilo demografico, produttività, innovazione). Tanto più che l’incremento si è sommato a un quadro di partenza già di per sé preoccupante. E così in Italia nel 2015 si rileva un cuneo fiscale tra i più alti al mondo. La strada per apportare correzioni il governo la conosce, ed è quella da percorrere esercitando la delega fiscale.

*Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro

Il pubblico pesa troppo

Il pubblico pesa troppo

Massimo Blasoni – Metro

Nel 1861 l’Italia, su circa 25 milioni di abitanti, aveva appena 3 mila o poco più impiegati pubblici censiti nella pianta organica dei Ministeri, specificamente collocati negli apparati centrali. Sarebbero diventati 11 mila nel 1876. Circa 90 mila alla fine del secolo. La spesa statale, come percentuale del Pil, si attestava intorno al 10%. Oggi i dipendenti pubblici dichiarati dalla Ragioneria dello Stato sono tre milioni e 300 mila. A questi però si aggiungono, secondo l’Istat, 38 mila tra professori universitari a contratto e ricercatori, a cui sommare i dipendenti delle partecipate degli enti locali. Vi sono poi i dipendenti delle partecipate e controllate dal Tesoro. Dai dati della Corte dei Conti, ad esempio, la Rai ha oltre 12 mila dipendenti, le Ferrovie 69 mila e le Poste 144 mila.

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Formazione in un’impresa o in un centro di addestramento regionale?

Formazione in un’impresa o in un centro di addestramento regionale?

Uno studio importante di Marco Guerrazzi dell’Università di Pisa fornisce interessanti risposte ad un domanda di vecchia data: se la formazione in impresa sia più o meno pertinente di quella in centri di addestramento pubblici, in Italia per lo più regionali o sponsorizzati dalle Regioni. Il testo integrale del lavoro (in inglese) è nell’ultimo fascicolo dell’autorevole International Journal of  Training and Development con il titolo The Effects of Training on Italian Firm’s Productivity: Microeconomic and Macroeconomic Perspectives.

In Italia, l’analisi dell’offerta di formazione professionale e la determinazione del suo impatto sulla produttività del lavoro assumono caratteristiche distintive rispetto ad altri paesi europei. Da una parte, a dispetto di una struttura dei salari piuttosto compressa che dovrebbe consentire alle imprese di recuperare i costi sostenuti per la formazione sotto forma di retribuzioni inferiori, gli imprenditori italiani non sono incoraggiati nel finanziamento di tale tipo di attività. Negli ultimi anni, questa particolare attitudine ha assunto una certa persistenza nonostante una tendenziale perdita di competitività del sistema produttivo che, al contrario, avrebbe dovuto suggerire con una certa urgenza l’adozione di interventi attivi miranti ad invertire la rotta. Inoltre, da un punto di vista squisitamente quantitativo, l’impatto della formazione professionale sulla produttività misurato a livello di singola unità produttiva in Italia è decisamente inferiore rispetto a quello rilevato in altre realtà nazionali.

Al fine di approfondire queste peculiarità del panorama industriale italiano, l’indagine ISFOL-INDACO e l’indagine ISTAT-CVTS4 sono state utilizzate in maniera congiunta per valutare, rispettivamente, l’effetto della formazione professionale sulla produttività di un ampio campione di imprese e l’impatto di tale attività sui tassi di crescita osservati all’interno dell’Unione Europea. In questo modo, sul piano positivo, diventa possibile spiegare per quale motivo le imprese italiane sono il fanalino di coda nelle classifiche internazionali sulla fornitura di formazione. In aggiunta, sul piano normativo, un’analisi di questo genere può fornire un valido supporto per l’adozione di misure volte a contrastare l’insoddisfacente performance dell’intera economia osservata negli ultimi vent’anni.

L’indagine INDACO ha scandagliato oltre 7.000 imprese private con almeno sei dipendenti o più. Queste unità produttive, in larga misura concentrate nel settore della manifattura, impiegavano all’incirca 750.000 lavoratori. In questo campione, le imprese formatrici erano oltre il 50% e al loro interno, in media, la quota di lavoratori formati ammontava al 28% circa. Questi valori non sono troppo distanti da quelli forniti dall’indagine CVTS4, la quale, con riferimento al 2010 e per l’intero territorio nazionale, stimava una quota del 56% per quanto riguarda le imprese formatrici e il 36% per quanto concerne i lavoratori formati.

Da un punto di vista operativo, l’accostamento dei dati sulle imprese censite da INDACO con i corrispondenti riferimenti contabili contenuti nel database ASIA ha consentito di ricavare campione di oltre 4.000 unità produttive – con una distribuzione sul territorio nazionale piuttosto fedele a quella dell’intera popolazione di riferimento – per la quali erano disponibili dettagliate informazioni riguardo ai valori di bilancio e alle caratteristiche di impresa Utilizzando tecniche di stima semplici, è emerso immediatamente che la formazione professionale misurata sia sul margine estensivo (percentuale di lavoratori formati), sia sul margine intensivo (ore medie di formazione per addetto), ha determinato un effetto positivo statisticamente significato sulla produttività aziendale misurata, alternativamente, come ricavi e valore aggiunto per addetto. Questo primo risultato è stato ulteriormente approfondito e raffinato tenendo conto che, generalmente, le imprese di più grandi dimensioni hanno una maggiore propensione alla formazione rispetto a quelle più piccole. In breve, a parità di altre condizioni, un aumento unitario delle ore medie di formazione per addetto è in grado di aumentare i corrispondenti riferimenti dei ricavi e del valore aggiunto di oltre un euro. Di conseguenza, in tutti quei casi in cui il costo della formazione aggiuntiva può essere spalmato una forza lavoro di una certa ampiezza, investire in questa direzione può risultare conveniente per le imprese.

Orientando l’analisi verso una visione aggregata dei sistemi economici, e di quelli europei in particolare, una spiegazione di questo fenomeno può essere fornita esaminando l’impatto che la formazione professionale esercita sui tassi di crescita dell’intera economia. Esiste, infatti, una recente letteratura empirica e teorica secondo la quale la formazione, al pari di altre attività intangibili, è in grado di esercitare un impatto positivo sul PIL che tale impatto può essere formalmente contabilizzato (growth accounting). Questo ovviamente implica che i paesi nei quali le imprese sono meno inclini ad investire in formazione professionale hanno performance macroeconomiche che tendono ad essere meno soddisfacenti.

Con riferimento all’anno preso in considerazione dall’indagine INDACO esaminata in questo lavoro, una riprova di questa relazione può essere facilmente ottenuta mettendo in relazione i tassi di crescita del PIL osservati all’interno dell’Unione Europea nel 2009 con le rilevazioni sulla formazione contenuti nell’indagine CVTS4. Al riguardo, si veda il diagramma: mette chiaramente in rilievo che nel 2009, anno critico della Grande Recessione, i paesi europei nei quali la forza lavoro occupata è stata maggiormente coinvolta dalle imprese in attività di formazione hanno subito una riduzione del PIL meno pronunciata rispetto a quelli nei quali le imprese sono state meno attive in tale direzione. All’interno di questo scenario, l’Italia presentava una percentuale di lavoratori formati al di sotto della media europea (il 36% contro il 37%) e, parallelamente, è evidente che l’economia italiana nel suo complesso ha sofferto una perdita di PIL ben superiore a quella sofferta dai paesi europei più importanti come la Germania, la Francia e la Spagna.

Figura 1: L’impatto della formazione professionale sulla crescita economia

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Fonte: Elaborazione su dati CVTS4 e EUROSTAT

In linea con quanto recentemente raccomandato dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro e dalla Commissione Europea,  qualche forma di incentivo alla formazione in impresa può essere d’aiuto. In effetti, è verosimile che se le imprese nel loro complesso potenziassero l’erogazione di formazione professionale, l’impatto sulla produttività di questa formazione addizionale sarebbe maggiore in ogni singola unità produttiva. Dall’altra, un incremento della formazione potrebbe rendere il sistema economico italiano meno vulnerabile rispetto al verificarsi di shock macroeconomici avversi. In altre parole, un aumento della formazione potrebbe contrastare gli effetti recessivi causati dalla caduta della domanda aggregata che abitualmente caratterizzano le situazioni di crisi economica.

Uno stato “minimo” dove trionfano efficienza e modernità

Uno stato “minimo” dove trionfano efficienza e modernità

Sandro Iacometti – Libero

Servizi funzionanti, tasse basse, burocrazia inesistente. Siamo a Liberrima, paradiso di modernità ed efficienza, dove trionfa l’ideale dello Stato minimo e si celebrano i diritti fondamentali dell’individuo. Un sogno, ovviamente, a cui Massimo Blasoni ha voluto dedicare l’ultimo capitolo del suo saggio Privatizziamo!, in questi giorni in libreria per i tipi di Rubettino Editore. Imprenditore del Nordest, alla guida del terzo gruppo italiano attivo nella costruzione di strutture socio-sanitarie e presidente del Centro Studi ImpresaLavoro, Blasoni maneggia con disinvoltura i grandi maestri della tradizione liberale e liberista, da Smith a Nozick, da Hayek a Friedman.

L’autore descrive, numeri alla mano, il declino dell’Italia, l’impoverimento delle famiglie, il tracollo dei conti pubblici. «Così non va», sintetizza, e una via d’uscita «è immaginabile solo rompendo gli schemi» del dibattito culturale e politico. La rottura non è il liberismo selvaggio. Quello che viene proposto è un cambio di prospettiva. Un mondo di regole e leggi (drasticamente ridotte) dove «lo Stato continua a garantire servizi, ma in modo diverso». Dove tutti, siano essi soggetti pubblici o privati, cercano sul mercato prestazioni che vengono fornite da «società in concorrenza che si sfidano su qualità, innovazione e costi».

Ma Privatizziamo! è molto più di un inno alla privatizzazione. È un appello alla rivoluzione liberale in ogni settore. Dal fisco, che ancor prima di essere più leggero dovrebbe essere semplice e trasparente, alla politica, che dovrebbe ridurre le sue competenze e i suoi rappresentanti, al lavoro, che malgrado le recenti novità del Jobs Act continua a proporre modelli di rigidità costosi e poco orientati ai bisogni di lavoratori e aziende.

Blasoni non si fa troppe illusioni sulla capacità della classe dirigente di raccogliere i suoi suggerimenti. Alla sinistra, spiega, «non si può chiedere di giocare un ruolo autenticamente riformatore in senso liberale». Quanto ai moderati, bisogna riconoscere «i troppi errori compiuti, i troppi tradimenti, le numerose timidezze». La soluzione è quella di ripartire da zero. Cominciando da un elettorato più consapevole, che abbia ben chiaro che «il mondo intorno a noi è competitivo, non solidale» e che «lo sviluppo del nostro Paese, con più libertà e meno Stato, così come il lavoro dei nostri figli non saranno frutto di casualità, ma la conseguenza della nostra capacità di decidere per il tempo a venire e creare le occasioni per concorrere. Senza compromessi».