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Aumenta lo “spread” tra il costo del denaro al Sud rispetto al resto d’Italia

Aumenta lo “spread” tra il costo del denaro al Sud rispetto al resto d’Italia

Nonostante gli interventi straordinari della BCE e qualche timido segnale di ripresa dei prestiti concessi al complesso del settore privato, i volumi degli impieghi bancari italiani diretti alle imprese risultano tutt’al più stagnanti. Se le manovre espansive sul credito bancario non hanno, almeno per il momento, influito sui volumi, sembra invece che un positivo effetto lo stiano avendo sul costo del denaro.

I tassi d’interesse sugli impieghi mostrano – per ogni diversa tipologia di operazione, che qui comunque dobbiamo analizzare in forma aggregata – una riduzione generalizzata e quantificabile, per il 2015 rispetto all’anno precedente, in circa un punto percentuale. Sulla base di queste analisi, si potrebbe concludere che il dato incoraggiante riguarda pertanto il costo del denaro, piuttosto che la sua disponibilità.

Prendendo a riferimento le operazioni autoliquidanti e a revoca (destinate tipicamente ai fabbisogni di capitale circolante), il tasso attivo medio risulterebbe sceso, al terzo trimestre del 2015, al 5,46% su tutto il territorio nazionale, con una flessione di 86 punti base rispetto all’anno precedente e 99 rispetto al 2012.

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Sempre su base aggregata, le nuove erogazioni nel periodo per operazioni a scadenza (più propriamente destinate agli investimenti in immobilizzazioni), risultano più economiche rispetto a un anno prima per 104 punti base (scadenza inferiore all’anno) e 155 punti base (scadenza entro 5 anni).

Il costo effettivo del credito risulta dunque, nella sostanza, ritornato ai livelli del 2010 (l’anno che ha preceduto la crisi dei paesi periferici dell’Eurozona), con una riduzione per i mutui alle imprese (a medio/lungo termine) quantificabile in 48 punti base e un aumento contenuto (42 punti base) per i fidi in conto corrente e gli anticipi.mappa_02

È interessante notare che anche in questo caso le differenze tra aree regionali, già di per sé molto significative, hanno mostrato una recente tendenza all’aumento. Ciò è soprattutto vero per gli anticipi e le aperture di credito in conto corrente, che costano alle imprese del Sud ora il 2,42% in più in media rispetto al Nord (era il 2,04% nel terzo trimestre del 2014 e l’1,67% nel 2010).

Per quanto concerne le operazioni a scadenza, la tendenza è invece più complessa da analizzare e mostra una riduzione delle differenze rispetto all’anno precedente ma comunque un aumento rispetto ai livelli 2010. I mutui alle imprese meridionali costano in media tra lo 0,79% e l’1,09% in più rispetto alle imprese del nord (in base alle diverse durate), e la forbice pur drasticamente diminuita rispetto al 2014 – risulta più ampia di circa 15-16 punti base medi rispetto ai valori di cinque anni prima.01_costocreditoregioni

 

Una Buona Spesa. Ecco quello che manca

Una Buona Spesa. Ecco quello che manca

Massimo Blasoni – Metro

I vincoli economici imposti dall’Unione europea ci hanno costretto ad accogliere nel nostro lessico il termine anglosassone di spending review. Ad oggi manca però ancora una sua concreta attuazione nonostante la nomina di ben cinque commissari governativi ad hoc. Questione di scelte politiche, certo, ma anche di una cultura della spesa pubblica ancora insufficiente. Lo dimostra ad esempio la scarsa attenzione che la politica italiana ha a suo tempo prestato al programma quinquennale di spending review presentato a Westminster dal Cancelliere dello scacchiere George Osborne. Alla sua base c’è il concetto liberale di Enabling State, che permette di attuare una spending review che non sia una caccia a politici e funzionari “spreconi”, ma che fornisca una base forte che può essere declinata anche in parametri quantitativi.

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Giachino (Fi) “Logistica: motore di sviluppo per far crescere il Paese”

Giachino (Fi) “Logistica: motore di sviluppo per far crescere il Paese”

di Mino Giachino*

Concordo con la relazione di Confetra (Confederazione Generale Italiana dei Trasporti e della Logistica) del 12 aprile che rivendica il ruolo strategico per lo sviluppo del Paese della logistica. Non posso però non sottolineare  che Confetra aveva approvato sia la Legge Obiettivo che il Piano Nazionale della logistica del 2006 che quello del 2012-2020 cui avevano lavorato due Governi Berlusconi. Purtroppo il Governo Monti non solo sciolse la Consulta dei trasporti e della logistica di cui Confetra faceva parte e alla quale Confetra partecipò sempre con tanti voti favorevoli ma mise nel cassetto il Piano della logistica cui avevo lavorato io, con gli operatori e con i prof.ri Gros-Pietro, Boitani, Bologna, Rocco Giordano, Dallari, Incalza e il compianto prof. Riguzzi.

La relazione sottolinea ancora una volta il contributo che alla crescita potrà dare la logistica se si rinnoveranno le infrastrutture portuali, aeroportuali e i trafori alpini (Tav, Terzo valico). È la linea che portò i Governi Berlusconi, non altri, a ottenere dall’Europa che ben 4 corridoi ferroviari del futuro passassero nel nostro Paese con ben tre grandi snodi logistici a Novara, Verona e Padova. Apprezzo molto la ripresa sia delle autostrade del mare che del ferrobonus, due misure, però , ideate dai Governi Berlusconi e che sbloccai io quando ero al Governo. Constatiamo però che salvo il cargo aereo i volumi trasportati sono ancora inferiori no solo al 2007 ma al 2011.

Io mi auguro con tutto il cuore, da italiano e a da padre di tre figli, che il Piano Delrio abbia successo anche perché dopo 4 anni di governi non eletti la crescita è bassissima ed è dovuta in gran parte alle politiche di Draghi e al calo del prezzo del petrolio. Sono lieto che il Piano Delrio, come il Ministro ha detto in Senato, abbia ripreso anche i lavori del Piano cui avevo lavorato e che fu messo nel cassetto da Monti.

Il mio Piano però affrontava il mutamento del paradigma della vendita del trasporto da “franco fabbrica” a “franco destino” la norma che aiuterebbe più di tante altre cose la logistica italiana a riappropriarsi di funzioni e di lavoro rispetto alla logistica estera, mentre per la logistica urbana quel po’ che si sta facendo si riferisce al protocollo che ideai e scrissi insieme a Luzzati, Scandurra, Zavi e Marciani e che MIT è Torino, Milano e Napoli firmarono nel 2012.

La maggiore crescita arriverà dal potenziamento dei porti e dalla realizzazione dei trafori alpini. Per cogliere le opportunità offerte dall’ampliamento del Canale di Suez e dal gigantismo navale per occorre che vadano avanti i contenuti concordati dalle tre regioni del Nord Ovest e dal Ministro Delrio a Novara, a partire dalla nuova diga foranea di Genova utilizzando i fondi Fesr e i fondi del Piano Junker.

Cavour valorizzò per primo il porto di Genova e prefigurava il ruolo dei trafori per contendere i traffici al porto di Marsiglia. 150 anni dopo a causa dei tanti ritardi e dei tanti No, l’Italia è l’unico Paese che perde traffico a favore dei porti del Nord Europa e a Marsiglia ha sede il terzo operatore mondiale del trasporto container.

Occorre che tutto il mondo dei trasporti e della logistica dal marittimo agli spedizionieri, dalle società di logistica all’autotrasporto, senza del quale la economia italiana non potrebbe funzionare, sostengano insieme nel Paese e con Governo e Parlamento il ruolo decisivo del motore di crescita della logistica.

*Responsabile trasporti e logistica di Forza Italia, già Sottosegretario al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti

Paglia (Si): “Banche, no a interventi che pesano su imprese e famiglie”

Paglia (Si): “Banche, no a interventi che pesano su imprese e famiglie”

Giovanni Paglia*

Il viceministro Morando, partecipando al convegno organizzato da Sinistra Italiana su banche e tutela dei consumatori, ha parlato di accordo raggiunto in sede europea per ampliare il fondo di ristoro per gli obbligazionisti delle quattro banche, e ha riconosciuto il sostanziale fallimento del mercato nella gestione delle sofferenze, preannunciando un prossimo intervento legislativo.

La prima è una buona notizia, che va incontro alle lotte dei risparmiatori e anche alla posizione da sempre sostenuta da Sinistra Italiana, che credeva indispensabile riconoscere l’eccezionalità del caso delle quattro banche. La seconda è da valutare. Noi crediamo che lo Stato debba intervenire direttamente rilevando NPL (Non Performing Loans – prestiti non performanti) con sottostante immobiliare, per liberare i bilanci delle banche e contestualmente rafforzare la dotazione di case popolari e la promozione di nuove esperienze imprenditoriali.

Sarebbe invece del tutto sbagliato limitarsi, come adombrato dal vice ministro, a intervenire sulle procedure concorsuali e sugli incentivi ai fondi speculativi. In questo caso a pagare sarebbero ancora una volta famiglie e imprese in difficoltà. E questo è inaccettabile.

* Deputato di Sinistra Italiana, componente della commissione Finanze

Come fare una buona spesa, i consigli del Prof. Pennisi

Come fare una buona spesa, i consigli del Prof. Pennisi

Simone Bressan* – Formiche.net

cop_pennisi_def2Spending review è un termine anglosassone di cui fino a poco tempo fa l’opinione pubblica ignorava persino l’esistenza. Non c’è da stupirsi, visto che dalle nostre parti la spesa pubblica è sempre aumentata in maniera allegra e incontrollata. I vincoli economici imposti dall’Unione europea ci hanno però recentemente costretto ad accoglierla nel lessico corrente. Peccato, però, che al suo sempre più vasto e gratuito utilizzo non siano poi seguiti risultati concreti apprezzabili, e questo nonostante le altissime aspettative suscitate dalla nomina di ben cinque commissari governativi ad hoc: Piero Giarda, Enrico Bondi, Mario Canzio, Carlo Cottarelli e ora Yoram Gutgeld. Questione di scelte politiche, certo, ma anche di una cultura della spesa pubblica ancora largamente insufficiente.

Lo dimostra ad esempio la scarsa o nulla attenzione che la politica italiana ha a suo tempo prestato al programma quinquennale di spending review presentato al Parlamento di Westminster dal Cancelliere dello scacchiere britannico George Osborne (uno dei principali contendenti per un alloggio al No. 10 di Downing Street alle prossime elezioni politiche). Eppure, è stato uno dei temi principali di discussione non solo del Regno Unito, ma anche degli Stati Uniti e della Francia (dove il “rientro” nei parametri europei di rapporto tra indebitamento e Pil sta riportando in auge quel “Programme de rationalisation des choix budgetaires” che negli Anni Ottanta fu uno di principali strumenti che portarono all’accordo del Louvre sul cambio fisso tra franco francese e marco tedesco).

Alla sua base c’è un concetto forte: quello dello Enabling State. Non è concetto nuovo: lo elaborò teoricamente Sir John Elvidge quando nel 2012 era fellow del Carnegie Institute, ma è stato divulgato dal saggio “The Enabling Society”di Peter Hicks del 2015. In buona sostanza afferma il principio che i compiti dello Stato nella sfera economico-sociale sono quelli di permettere a ciascuno di dispiegare a pieno le proprie capacità, anche quelle solo potenziali. È un concetto liberale che permette di attuare una spending review che non sia una caccia a politici e funzionari “spreconi”, ma che fornisca una base forte che può essere declinata anche in parametri quantitativi. Resterebbe confinato in un mero dibattito intellettuale se non venisse espresso in obiettivi precisi. Dalle tabelle e dai grafici nel documento portato da Osborne in Parlamento, si mostra invece che lo si può raggiungere facendo fare una svolta a ‘U’ alle tendenze della spesa pubblica: in percentuale del Pil questa dovrebbe passare dal 45% nel 2010 al 36% nel 2020. I traguardi vengono monitorati ogni anno dall’Office for Budget Responsability.

A titolo di raffronto, in Italia la spesa delle pubbliche amministrazioni è pari al 51% del Pil e i documenti di Governo auspicano di portarla al 47% nel 2018, anno della scadenza naturale della legislatura. In breve, partiamo da una situazione molto più grave delle Gran Bretagna: per oltre sei mesi lavoriamo per fornire risorse alla pubblica amministrazione, che li intermedia in base a vari obiettivi. Soprattutto, i vari tentativi di spending review di questi ultimi anni hanno documentato inefficienze e spese, pagate con un aumenti tributari e para-tributari a carico dei cittadini e delle imprese. Occorre, però, un programma chiaro del Governo con traguardi specifici e monitorabili. Non tutti i traguardi saranno condivisibili da un elettorato uso a mance elettorali. Non sarebbe realistico l’obiettivo di ridurre di dieci punti percentuali l’incidenza della spesa pubblica sul Pil, nel contesto di un’Italia che non cresce o cresce poco e ha comunque una vasta area (il Mezzogiorno) in condizioni arretrate. Per i primi anni, si deve porre un obiettivo più contenuto – da modificare, però, quando, anche grazie ad un Enabling State più efficace, più efficiente e più snello, la crescita riparte e si mantiene a livelli (attorno al 2,5%) compatibili con la struttura demografica e produttiva del Paese.

Il concetto di base della spending review annunciata dal Cancelliere dello scacchiere resta però valido. Non è neanche necessario creare un Office for Budget Responsability come in Gran Bretagna poiché è missione specifica della Ragioneria generale dello stato (Rgs), specialmente se all’ufficio studi vengono affidati i compiti per cui è stato concepito. Inoltre, l’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb), di recente istituzione, può aiutare il Parlamento a stimolare e vigilare Rgs e Governo tutto (specialmente i Ministeri di spesa). L’Italia è stata per decenni plasmata dal pensiero della scuola liberale di scienza delle finanze (si pensi a Benvenuto Griziotti) che – con quella svedese – ha preceduto americani, britannici e francesi nell’elaborazione di teorie, metodi e procedure di valutazione. Dispone inoltre di un migliaio di dirigenti e funzionari pubblici formati presso la Scuola nazionale di amministrazione (Sna) tra il 1995 ed il 2007, quando la direzione della Sna decise di chiudere questa linea di attività. Metodi e tecniche vengono applicati principalmente agli investimenti in opere pubbliche, i quali hanno un effetto di breve periodo (attivare capacità produttiva non utilizzata) e uno di medio e lungo periodo (migliorare il capitale sociale e quindi la produttività).

Recenti studi della Banca d’Italia e della Banca europea per gli investimenti documentano come nel nostro Paese imprese, lavoratori e cittadini siano penalizzati dal pessimo stato delle infrastrutture e della mancanza di finanziamenti per realizzarli, nonché dalla carenza di strumenti operativi per valutarne effetti e redditività finanziaria e sociale. Inoltre la spesa pubblica per infrastrutture è scesa a poco meno dell’1,5% del Pil, rispetto al 3,5% del Pil negli anni Ottanta (in linea con la media Ocse di allora, leggermente caduta oggi in buona misura a ragione della riduzione nell’Eurozona e più particolarmente in Italia) e del 2,5% alla fine degli anni Novanta (in gran parte a ragione della contrazione della spesa pubblica per poter essere ammessi nell’Eurozona). Dall’inizio della crisi finanziaria ad oggi, la spesa pubblica in conto capitale ha subìto una riduzione del 40% circa. Ridotta a livelli così bassi la spesa, ci si concentra necessariamente su piccoli interventi di completamento e manutenzione straordinaria. Utili e spesso urgenti (si pensi alle strade di Roma Capitale), ma ben lontane dall’afflato che si aveva quando, ad esempio, negli anni Sessanta il traforo del Monte Bianco venne costruito in appena tre anni e l’autostrada del Sole ci veniva invidiata in tutto il mondo.

Consapevole della rilevanza assoluta di questo tema, il Centro studi ImpresaLavoro ha deciso così di pubblicare “La Buona Spesa”, una guida operativa elaborata da Giuseppe Pennisi (economista di vaglia internazionale e presidente del board scientifico di ImpresaLavoro) e Stefano Maiolo (componente del Nucleo di valutazione e verifica degli investimenti pubblici della Regione Lazio). Il suo obiettivo dichiarato è quello di diffondere – grazie a un linguaggio semplice e accessibile a tutti – la conoscenza dei corretti metodi di valutazione della spesa pubblica.

Disponibile su Amazon in versione sia cartacea sia digitale, questo testo tiene conto dei metodi più avanzati per la valutazione delle opere pubbliche ed è il risultato di oltre 30 anni di ricerche e di applicazioni nelle materie specifiche della valutazione, che non può più restare una “riserva di caccia” per esperti. Incorpora regole e direttive nazionali ed europee attualmente in vigore e si propone come uno strumento essenziale per la migliore utilizzazione dei fondi comunitari. Mette l’accento sulla spesa in conto capitale perché è il comparto con maggiori esempi e casi di studio, ma indica come – seguendo ad esempio l’esperienza degli Stati Uniti – metodi e procedure possono essere applicati anche alle spese di parte corrente.

Più che di un nuovo manuale tecnico si tratta, insomma, di uno strumento di lavoro utilizzabile da chiunque. A differenza di altri testi in commercio (nati per corsi universitari e post-universitari), questo lavoro parte, infatti, dalla premessa implicita che gli italiani in generale, e soprattutto i dirigenti e funzionari della Pubblica amministrazione che prendono le decisioni di spesa, quasi mai sono tecnicamente attrezzati per effettuare in prima persona valutazioni economiche quantitative. Spesso, infatti, il loro compito si limita a prendere atto di quanto suggeriscono loro consulenti ed esperti. Un limite che va superato.

* Direttore del Centro studi ImpresaLavoro

 

Capezzone (Cr): “Se il Governo si occupa di banche, i titoli crollano”

Capezzone (Cr): “Se il Governo si occupa di banche, i titoli crollano”

Daniele Capezzone*

Qualcuno dica a Renzi che i titoli bancari continuano a crollare. Più il Governo annuncia di “occuparsi” di banche, più c’è caduta libera… Questo dimostra la chiara sfiducia dei mercati verso l’interventismo politico in generale, e verso l’interventismo politico di questo Esecutivo in particolare.

*Deputato dei Conservatori e Riformisti

Un’assicurazione europea contro la disoccupazione

Un’assicurazione europea contro la disoccupazione

C’è relativamente poca attenzione nei confronti delle pubblicazioni di ricerca della Direzione Analisi-Economica Finanziaria del Dipartimento del Tesoro del Ministero dell’Economia e delle Finanza. La serie di paper, iniziata quando la Direzione era guidata da Lorenzo Codogno (ora alla London School of Economics), prosegue ora che ne è a capo Riccardo Barbieri Hermitte. Sono lavori di policy non solo di ricerca pure; per questo meritano di essere letti e discussi.

Di pregio il lavoro di Gianfranco Becatti, Germana Di Domenico, Giancarlo Infantino, intitolato “Un’assicurazione europea contro la disoccupazione: contesto, analisi e proposte di policy” . È il paper NT numero 1/2015. In breve lo studio sottolinea come  la crisi degli ultimi anni abbia mostrato che gli shock asimmetrici possono compromettere la stabilità e la performance economica dell’area dell’euro, con implicazioni negative anche di natura sociale. La politica di bilancio può svolgere un ruolo chiave nell’arginare tali effetti, ma, ad oggi, l’architettura europea non prevede meccanismi di stabilizzazione automatica.

In tale contesto, si è recentemente sviluppato un interessante dibattito circa l’opportunità di dar vita ad un nuovo strumento comune di assicurazione contro la disoccupazione, che si è arricchito di molteplici contribuiti scientifici. Nella nota si argomentano le diverse ipotesi tecniche avanzate in merito al disegno di un tale meccanismo a livello europeo, riportandone i potenziali vantaggi ma anche le aree di criticità ed evidenziando le direttrici lungo le quali potrebbe muoversi un’Europa più integrata, fiscalmente e socialmente, con il necessario consenso politico.

La proposta di un’assicurazione europea contro la disoccupazione – a mio giudizio- dovrebbe essere proposta dal Governo italiano in tandem con la generalizzazione del sistema previdenziale contributivo (in gergo europeo NDC, Notional Defined Contribution) che è stato applicato inizialmente in Italia ed in Svezia nel 1995 e successivamente adottato da numerosi Stati neocomunitari. Ciò renderebbe non solo più uniforme i meccanismi sociali dei singoli Stati dell’Unione Europea ma faciliterebbe risposte “europee” a shock asimmetrici.

Multe, il bancomat dei Comuni

Multe, il bancomat dei Comuni

Sandro Iacometti – Libero

Tartassati pure dai vigili. La differenza tra chi è strozzato dal fisco e chi viene sanzionato per un’infrazione del codice della strada è evidente e non in discussione. Eppure, i numeri strabordanti delle multe e la destinazione impropria dei proventi nei bilanci comunali permettono di individuare più di un’analogia. A partire dalla logica di fondo: spremere il cittadino. Una rilevazione del Centro

Studi e Ricerche Sociologiche “Antonella Di Benedetto” di Krls Network of Business Ethics per Contribuenti.it ci dice che a Milano e Napoli viene elevata una multa ogni 9-10 secondi. Segue Aosta con 11 secondi; Roma e Torino con 12 secondi; Genova, Venezia, Firenze e Bari con 13 secondi; Pescara, Caserta, Bologna, Ancona e Perugia con 14 secondi; Verona Salerno e Palermo con 18 secondi. Chiudono la classifica Potenza, Reggio Calabria, Cagliari e Campobasso con 24 secondi. Impressionante la dinamica tendenziale: negli ultimi tre anni le contravvenzioni in Italia sono aumentate del 956%. Nello stesso periodo, in Romania (seconda in classifica) l’incremento è stato del 126%, in Grecia del 103%, in Estonia del 98%, in Slovacchia del 94%. Più giù Francia (37%), Inghilterra (17%) e Germania (10%). Possibile che in Italia siano tutti pirati della strada? Per rispondere alla domanda bisogna considerare l’entità del flusso finanziario che ogni anno entra nelle casse dei Comuni alla voce contravvenzioni. Nel 2015 la somma complessiva del gettito delle sanzioni è stata di 1,257 miliardi. Un gruzzolo enorme, su cui i sindaci ogni anno fanno affidamento per far quadrare i bilanci in dissesto.

Per avere un’idea di quanto queste cifre siano spropositate rispetto all’esigenza di far rispettare la legge e tenere in sicurezza le strade occorre, però, effettuare un’altra operazione. A questo proposito, abbiamo chiesto l’aiuto del Centro studi ImpresaLavoro, che è in grado di incrociare i dati sensibili di tutti i Comuni italiani. In questo caso, oltre ad individuare il gettito effettivo derivante dalle sanzioni per ogni singola amministrazione, il think tank creato dall’imprenditore Massimo Blasoni è riuscito anche a calcolare quale sia il peso pro capite delle multe considerando la platea dei soli automobilisti. Il quadro che ne emerge dimostra chiaramente che l’equivalenza tra contravvenzione e balzello è tutt’altro che azzardata. A Milano, ad esempio, che si è piazzata prima in questa classifica con 199 milioni complessivi intascati dalle contravvenzioni nel 2015 (+42% sul 2014), il sindaco per rimpinguare il bilancio ha potuto contare su un incasso di ben 249 euro per automobilista. Seguono Bologna, con 33,8 milioni complessivi e 141 euro a patentato e Firenze, con 26 milioni e 113 euro. Più in basso troviamo Torino, con un gettito complessivo di 47,9 milioni e una quota pro capite di 89 euro, Napoli, con 34,2 milioni e 68 euro, e Roma, con 83,4 milioni e 50 euro. Fanalini di coda Latina, con 1 milione e 14 euro, e Gorizia, con 153mila euro e solo 7 euro ad automobilista. Le cifre cambiano un po’, considerando la media triennale o prendendo in esame tutti i residenti sopra i 18 anni, ma la sostanza rimane la stessa. Nei principali capoluoghi italiani l’attività dei vigili urbani porta in dote per ogni contribuente una tassa annuale che oscilla dai 50 ai 200 euro. Versamenti che sono destinati a crescere. Un’indagine dell’Adnkronos sui bilanci di previsione di alcuni Comuni per il 2016 rileva incrementi “attesi” fino al 30%. A Roma addirittura ammontano a 325 milioni le entrate previste dalle multe, di cui 148 di arretrati (più 75 milioni sul 2014). Milano è in controtendenza: meno 50 milioni, ma il gettito stimato comprensivo di arretrati resta da record con 355 milioni.

Resta da capire dove finiscono tutti questi soldi. La legge è abbastanza chiara. Gli articoli 208 (proventi) e 142 (autovelox) del codice della strada prevedono che il 50% possa essere utilizzato a proprio piacimento e che l’altro 50% venga destinato a settori ben specifici, di cui il 12,5% obbligatoriamente per la segnaletica e il resto per la sicurezza stradale. Ma i continui scandali degli autovelox non a norma e dei semafori taroccati hanno suscitato più di un sospetto sul fatto che anche quella metà delle sanzioni torni in qualche modo ai contribuenti. Ne dubita fortemente, ad esempio, il vicepresidente della Camera, Simone Baldelli (FI), secondo cui «l’uso degli autovelox è diventato per alcuni enti locali uno strumento per garantirsi entrate supplementari con destinazioni non conformi alle previsioni di legge». Di qui la mozione, presentata dallo stesso Baldelli e approvata dalla Camera il 28 gennaio scorso, che impegna il governo a vigilare con più incisività e a presentare al Parlamento, entro il prossimo 30 settembre, un resoconto sullo stato di inadempienza dei Comuni. Segnatevi la data.

Il Quantitative Easing? In Italia funziona poco: colpa delle sofferenze bancarie

Il Quantitative Easing? In Italia funziona poco: colpa delle sofferenze bancarie

di Paolo Ermano*

Torniamo in apnea?

È presto per dire se le nuove misure messe in campo da Mario Draghi, che allargano gli spazi delle operazioni che vanno sotto il cappello di Quantitative Easing (QE), porteranno nuovo ossigeno nell’economia europea e in particolare nell’economia italiana. È certo che la situazione degli operatori finanziari nel Bel Paese è di difficile comprensione: da un lato abbiamo alcuni scandali che interessano banche più o meno grandi e più o meno legate al territorio (ad esempio, dalla Popolare di Vicenza alle quattro banche fallite del centro Italia), dall’altro processi di aggregazioni di alcuni istituti stanno modificando non solo la sensibilità degli italiani rispetto all’organizzazione dei servizi bancari, ma influiranno in maniera decisiva sugli assetti societari e sulla capacità del sistema di affrontare le cogenti sfide.

Le sfide che il sistema bancario deve e dovrà affrontare sono molte, a partire dalla riattivazione della circolazione del denaro, che sembra vivere un periodo non certo florido. Se partiamo con l’osservare l’andamento dei prestiti verso le famiglie e le società non finanziarie, quello che potremmo definire con un espressione un po’ forzata “economia reale”, la situazione è problematica: da giugno 2014 registriamo aumenti nei prestiti alle famiglie e contrazioni nei prestiti alle imprese (grafico 1, 2 e tabella 1 e 2).

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Mentre i prestiti alle famiglie, stabili fino ai primi mesi del 2015, hanno visto una crescita più sostenuta soprattutto durante l’autunno, in corrispondenza dell’aumento dell’indice di fiducia dei consumatori, i prestiti verso il mondo delle imprese continuano a vivere una contrazione che si sviluppa ad ondate, che riflette la complessità dell’indice di fiducia delle imprese, positivo per servizi, commercio e le costruzioni, stabile per la manifattura (Istat, Nota Mensile 3/2016).

In aggregato, l’ammontare dei prestiti elargiti a famiglie e imprese si è contratto dell’1% da giugno 2014, mentre le cartolarizzazione dei crediti sono cresciute nello stesso periodo di più del 5%.

Le sofferenze

Per spiegare come mai il canale del credito, che oggi ancor prima che nel processo di circolazione del denaro trova nella BCE una sponda forte, continui a rimanere sterile, si sono spesso chiamate in causa le sofferenze bancarie, quei crediti deteriorati al punto da diventare difficilmente esigibili dalla banche.

Un primo problema, che è da un po’ di tempo al centro dell’attenzione mediatica, riguarda l’andamento delle sofferenze. Il totale complessivo dei prestiti in sofferenza presso il sistema bancario italiano ha raggiunto quota 202 miliardi: di questi, €181,5 sono ascrivibili a famiglie e imprese. In particolare, le sofferenze appartengono principalmente al mondo delle imprese visto che da sole queste coprono circa il 71% del loro ammontare complessivo.

Come si può vedere nel grafico 3, sommando le sofferenze delle società non finanziarie (le imprese comunemente chiamate) con quelle delle famiglie, se ne ricava una crescita netta del 18% dal giugno 2014 al gennaio 2016.

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Questa è una vera spina nel fianco per la stabilità del sistema bancario italiano che prima o poi dovrà smaltire questi titoli. Non sembra che le operazioni della BCE per ora abbiamo aiutato il sistema bancario a gestire questa massa di prestiti in sofferenza.

La circolazione del denaro

Che le sofferenze giochino un ruolo cruciale quando cerchiamo di comprendere le ragioni per cui il sistema dei prestiti si sia relativamente arrestato è un dato di fatto. Tuttavia le sofferenze sono il sintomo di un sistema del credito nazionale troppo banco-centrico, soprattutto per quanto riguarda le imprese. La ricchezza privata per finanziare le aziende in Italia non manca, è solo che questa fluisce verso le imprese grazie alla dinamica del deposito-prestito che passa quasi esclusivamente per il canale bancario.

Da questo punto di vista è interessante osservare l’andamento dei depositi di famiglie e società non finanziarie. In entrambi i casi, partendo dal giungo 2014, si osserva un aumento dello stock di deposito (+4,3% per le famiglie, +12,8% per le imprese), un aumento però non sufficiente a sostenere la richiesta di prestiti avanzata: il saldo fra depositi e prestiti è negativo (i depositi di questi due gruppi non coprono l’esposizione creditizia, ovvero gli impieghi superano le fonti). Da giugno 2014 il gap fra depositi e prestiti si è ridotto del 30% (-78% da settembre 2008!), un risultato davvero notevole: le banche raccolgono un ammontare sempre maggiore di depositi, centellinando la richiesta di nuovi prestiti. Limitano, quindi, la circolazione del denaro.

Un aumento dei depositi può essere giustificato dalla ripresa economica: modesto l’aumento dei depositi, modesta la ripresa; un aumento meno che proporzionale dei prestiti segnala sia una maggior richiesta di credito da parte delle imprese, sia un’incapacità del sistema bancario di fornire credito, per ragioni che possono variare dalla possibilità dei richiedenti di fornire adeguate garanzie, fino alla difficoltà dell’istituto di rispettare i parametri di solidità bancaria atti a veicolare con facilità la massa depositata verso la platea dei richiedenti. Se i dati sulle sofferenze portano a supporre che il problema sia oramai più nel sistema bancario che nei soggetti privati richiedenti credito, il gap fra deposito e credito porta a immaginare la necessità da parte del sistema di un riordino per evitare eccessive asimmetrie fra soggetti che prestano e soggetti che depositano.

Conclusioni

Dall’analisi dei dati di Banca d’Italia, emerge come le politiche di espansione del credito messe in atto dalla BCE attraverso il TLTRO e l’APP non abbiano ancora dato i risultati sperati. Dal 1 aprile sono diventate attive le nuove e più incisive misure di QE: valuteremo a breve i risultati, per quanto le borse hanno reagito tiepidamente finora.

Se da un lato è evidente come il costo del debito pubblico sia calato grazie all’operato della BCE, dall’altro non appare altrettanto evidente come l’aver ridotto la convenienza a investire nei titoli di Stato abbia spostato l’operatività delle banche verso il settore privato, famiglie e imprese innanzitutto.

Questo perché, come spiega un recente studio della BCE, la politica messa in piedi da Mario Draghi ha portato più risultati nel settore privato del nord Europa, dove il sistema finanziario era meno vulnerabile, rispetto al Sud dell’Europa (ECB: Economic bulletin, 7/2015, pp. 36). Ricordare ora l’opposizione dei paesi nordici alle operazioni di Mario Draghi dovrebbe far riflettere molto sulla distanza che passa fra gli annunci pubblici e la realtà delle cose. A noi interessano però le ragioni che lo studio della BCE avanza per giustificare questa diversità di risultati: proprio l’eccessiva presenza di crediti deteriorati nelle economie del Sud dell’Europa, Italia compresa, spiega la minor efficacia del QE in questi Paesi.

Occorre trovare un rimedio alla gestione delle sofferenze del sistema bancario nazionale, prima possibile, per almeno due ragioni. La prima, per poter maggiormente beneficiare della politica monetaria espansiva messa in piedi dalla BCE che durerà almeno fino a marzo 2017. La seconda ragione, collegata alla prima, ha a che fare con la timida ripresa in corso nel nostro Paese: rischiare di soffocarla per inefficienza del sistema bancario sarebbe davvero imperdonabile, soprattutto ora che le possibilità finanziarie offerte dall’euro-sistema sono così ampie e generose.

Un “azienda” nell’università: il canale che unisce laureati ed imprese

Un “azienda” nell’università: il canale che unisce laureati ed imprese

Sta per aprirsi la XXIV edizione del Forum Università-Lavoro, un “link tra laureati e mondo del lavoro” che anche quest’anno vedrà la partecipazione di oltre 30 aziende. L’edizione 2016 del career day è prevista per il prossimo 19 Aprile e si terrà, come di consueto, all’interno dell’edificio di Ingegneria dell’Università di Roma Tor Vergata.

L’evento aperto a tutti i laureati, di tutte le facoltà e università d’Italia, dà la possibilità ai visitatori di entrare in contatto diretto con i responsabili delle risorse umane delle più importati aziende nazionali ed estere. I servizi offerti sono molteplici: i curricula potranno essere presentati all’Hr presso lo spazio Stand allestito appositamente; durante la giornata si svolgeranno colloqui individuali nello spazio Placement e i visitatori potranno partecipare alle numerose conferenze presentate dalle aziende.

Per rimanere informati su tutte le novità relative all’evento, sulle aziende partecipanti e su come partecipare è possibile visitare il sito www.alitur.org/forum o seguire il gruppo di Facebook realizzato per l’appuntamento.