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Produttività: il vero problema dell’Italia

Produttività: il vero problema dell’Italia

Abstract

L’Istat ha recentemente certificato che il costo del lavoro in Italia è in linea con la media europea. Dal 2007, in realtà, stiamo assistendo a una compressione dei salari reali che, in linea teorica, potrebbe rendere le nostre imprese più competitive sui mercati internazionali. Come dimostriamo in questo lavoro, non basta analizzare i livelli di salario reale per capire se un paese è più o meno competitivo: bisogna guardare anche alla produttività. Da questo punto di vista, ci si accorge che dal 2007 al 2013 oltre agli stipendi è calata la produttività e per cause che spesso non hanno a che fare con la crisi economica.

Le retribuzioni

Hanno suscitato un vivo dibattito, per almeno un giorno, i dati ISTAT sulle retribuzioni in Italia.

grafico 1

FONTE: Struttura del costo del lavoro – ISTAT (2014)
 
Come si può vedere, i dati riportati, che fanno riferimento alla situazione nel 2012, presentano un Paese in cui la somma fra la retribuzione lorda e i contributi sociali si pone subito sotto la media dell’Area Euro. Un fatto che smonta molti luoghi comuni sull’alto costo del lavoro in Italia: un costo elevato se paragonato a quello presente in Polonia, ma inferiore a quanto pagato in Francia o in Germania. Secondo dati più recenti riguardante il periodo fra 1° trimestre del 2009 e il 2° trimestre 2014, il costo del lavoro è variato sostanzialmente poco e non sempre al rialzo, con una netta flessione verso l’immobilità dal 3° trimestre del 2013.

grafico 2

FONTE: ISTAT- INDICATORI DEL LAVORO NELLE IMPRESE (2014)
 
A questo punto, c’è da chiedersi cosa sia accaduto negli altri paesi, per poter capire se effettivamente negli anni stiamo assistendo a una crescita o a una riduzione del salario degli occupati italiani relativamente ai loro colleghi di altri paesi europei.
Secondo quanto descritto in un recente lavoro dell’ILO, International Labour Organization, l’agenzia dell’Onu che si occupa di monitorare le variabili chiave del mercato del lavoro (occupati, retribuzioni, qualità forza lavoro, ecc…) e di promuovere nel mondo le migliori pratiche per favorire un’occupazione diffusa, regolare e sicura, in Italia il salario reale, ovvero la retribuzione lorda commisurata al costo della vita, è scesa dal 2007 del 6%. Un calo questo più rilevante di quello registrato, per esempio, in Portogallo o in Irlanda.

grafici 3 4

FONTE: ILO Global Wage Report 2014/15
 
In Italia, soprattutto dal 2010, il potere d’acquisto dei salari è sceso del 6% e c’è quindi poco da meravigliarsi se la domanda interna non si riprende: meno soldi ai lavoratori, meno consumi. Questo vuol però anche dire che se il lavoro costa meno, a parità di ogni altro fattore le aziende diventano più competitive. Questa spinta verso una maggior competitività dovrebbe riflettersi nel tempo nella produzione di beni e servizi meno costosi, e quindi più appetibili sui mercati internazionali. Così, di solito, vengono interpretati questi dati nei mass media.
Eppure, mancano due elementi per comprendere se davvero questa riduzione del reddito da lavoro porterà veramente a un aumento della competitività del sistema, un aumento che a regime potrà creare nuovi posti di lavoro e rilanciare la domanda interna. Il primo elemento riguarda la produttività. Il secondo elemento ha a che fare con la massa di denaro appannaggio dei lavoratori stipendiati, la stragrande maggioranza della forza lavoro.

La produttività

A un bravo imprenditore dovrebbe interessare poco quanto costa un dipendente: finché costui rende all’impresa più di quanto essa spenda per averlo a sua disposizione, ci sono buone ragione per assumere delle persone. Si pensi al calcio, un settore in cui la forza lavoro è molto costosa (si prendano i dati sui giocatori più pagati del calcio nazionale o europeo per farsene un’idea).
Seguendo questa catena di ragionamento, si argomenta che se il costo del lavoro diminuisce, un’impresa sarà più competitiva e cioè: pagando meno una persona che compie un certo lavoro, il lavoro costerà meno e potrà essere venduto a un prezzo più basso. Se, ad esempio, si riduce la tariffa kilometrica dei taxi, ogni tratta costerà di meno, rendendo così più competitivo il servizio di taxi rispetto alle alternative presenti (es.: bici, auto privata, mezzi pubblici, ecc…).
Purtroppo spesso si da per scontato che la produttività non cambia nel tempo, rimanendo costante indipendentemente dalla paga o da altri fattori. Semmai, questa aumenta a seguito di investimenti specifici.
E’ ovvio che una persona ben pagata lavora meglio, se non altro perché vede riconosciuto il suo impegno. In ogni caso, questo ragionamento serve a far comprendere che l’analisi del costo del lavoro senza l’analisi della produttività non porta a nessuna conclusione azzeccata. Così come senza un’analisi della cause che portano a modificare il costo del lavoro o la produttività, non si può pensare di proporre una qualsiasi riforma che sortisca degli effetti positivi nel medio-lungo periodo.
Eurostat, l’istituto di statistica europeo, fornisce dati molto interessanti sulla produttività. Nella tabelle che riportiamo in Appendice, l’Istituto analizza i dati sulla produttività reale per addetto nei 28 paesi dell’Europa Unita. Fatto 100 la produttività misurata nel 2010, l’Italia ha un valore di 102 nel 2004, raggiunge un valore pari a 103 nel 2007, e scenda a un valore di 98 nel 2013. Quindi, alla riduzione del 6% del salario intercorsa fra il 2007 e il 2013 si è accompagnata una riduzione della produttività per addetto del 4,85%.
Attenzione a leggere bene questi dati: si guardi il caso della Germania e della Spagna. In Germania il salario è cresciuto, fra il 2007 e il 2013, del 3%, mentre la produttività per addetto è scesa del 2%. Però nello stesso periodo la disoccupazione è scesa di circa il 3%, facendo sì che vi fossero più addetti e quindi, a parità di produttività, abbassando il valore della produttività per addetto (produttività totale / occupati).
In Spagna, invece, a fronte di un calo del salario reale del 3%, c’è stato un aumento della produttività per addetto del 10%. Eppure la Germania tira, la Spagna no. Questo si spiega con riferimento al numero di addetti: infatti, se la disoccupazione aumenta più della produttività totale dovremmo assistere a un aumento della produttività per addetto. In Spagna la disoccupazione è aumentata ed è circa il doppio della nostra: ora è circa al 25%, era poco più dell’8% nel 2007. Meno persone che fanno le stesse cose, produttività che sale. Fra Germania e Spagna c’è una differenza di 20 punti nel tasso di disoccupazione e questo spiega la differenza fra i dati dei due paesi.
In definitiva, come emerge dalla seguente figura, l’Italia ha molti punti di produttività da recuperare. E da anni, da ben prima dell’introduzione dell’Euro.
Grafico X: Relazione fra la retribuzione reale per addetto e la crescita della produttività nelle principale economie sviluppate, 1999-2013

grafico 5

FONTE: ILO Global Wage Report 2014/15

Il settore manifatturiero

Nello specifico, prendendo a riferimento il comparto manifatturiero, il settore che traina sostanzialmente il nostro export e che da lustro all’idea di Made in Italy, come fa osservare il Centro Studi di Confindustria (Scenari Industriali, giugno 2014), dal 2007 al 2013 il manifatturiero in Italia ha perso competitività rispetto ai partner europei sia in termini di produttività oraria sia di costo del lavoro:

grafico 6

Come riporta il Centro Studi di Confindustria, a commento del grafico appena riportato:
«Sul piano internazionale il manifatturiero italiano ha perso competitività in termini di CLUP2 rispetto sia alla media dell’Eurozona sia ai singoli principali paesi (che infatti si collocano tutti nel quadrante in basso a destra del grafico), dato che la produttività del loro manifatturiero è cresciuta più che in Italia, con un costo del lavoro che è aumentato a ritmo inferiore. Durante la crisi anche l’industria manifatturiera tedesca ha sofferto in termini di produttività, che è cresciuta solo dell’1,5%. L’andamento del costo del lavoro in Germania è stato, tuttavia, ben più contenuto che in Italia (+14,8% cumulato), grazie a una moderazione salariale già in atto nel periodo pre-crisi e che si è allentata solo di recente. Tra il 2007 e il 2013 il CLUP tedesco ha pertanto registrato un incremento pari al 13,0%. Ciò fa sì che dall’inizio della crisi la competitività di costo del manifatturiero italiano sia arretrata rispetto a quella dell’industria tedesca di 6,2 punti percentuali, aggravando il già ampio divario accumulatosi nel decennio precedente (35 punti dal 1997 al 2007)» (p. 51)
Nel settore manifatturiero, il CLUP è aumentato del 20% in 6 anni (2007-2013), rendendo il settore meno competitivo. E non c’è svalutazione che tenga per riportare competitività ad un sistema che ha dei problemi strutturali! A conferma di quanto detto prima, come si vede nel seguente grafico riportato nell’ottimo studio di Confindustria anche nel settore manifatturiero il problema della competitività del sistema Italia ha una storia lunga almeno 3 lustri.

grafico 7

Esistono molteplici spiegazioni alla base di una scarsa competitività del sistema Italia. Qui vogliamo riportare due soli dati: l’andamento dello Stock di capitale fisso e la spesa in Ricerca e Sviluppo. Il primo dato serve a capire se le imprese continuano a investire nell’impresa e il secondo dato serve a capire se il sistema Italia investe per sviluppare nuove tecnologie, nuovi prodotti, nuovi processi.
Stock di capitale lordo, stock di capitale netto e ammortamenti, Anni 1980-2009.
(Variazioni percentuali, Valori concatenati – Anno di riferimento 2000)

grafico 8

FONTE: ISTAT – Investimenti fissi lordi per branca proprietaria, stock di capitale e ammortamenti.
 
Come si vede, lo stock di capitale netto nel paese cresce ad un tasso sempre più basso, specialmente negli anni dello sviluppo massiccio dell’informativa applicata all’industria e ai servizi (dagli anni ’90 in poi), consegnandoci all’alba della crisi un Paese poco attrezzato per rispondere con la tecnologia alle sfide che ha davanti. Non va meglio, ovviamente, alle spese per Ricerca & Sviluppo: le imprese coprono il 50% delle spese in R&S, lo Stato l’altro 50%, con valori al di sotto della Spagna o del Portogallo.

grafico 9

 

Senza innovazione non si possono fare passi avanti nella produttività. Ma senza investimenti, non avremo mai alcuna innovazione.

Conclusioni

I salari reali sono diminuiti e ora sono in linea con la media Europea: questo ci ha detto l’Istat poche settimane fa. Se non fosse accaduto null’altro, questa sarebbe una buona notizia. Purtroppo, come abbiamo cercato di mettere in luce in questo studio, la riduzione del salario si accompagna a una riduzione della produttività che ha fra le sue cause una scarsa attitudine delle imprese italiane e dello Stato a investire in R&S e nello stock di capitale utile alla produzione. Ai lettori lasciamo trarre le conclusioni sulle vere urgenze del paese.

Appendice

tabella1

 

 

Rassegna Stampa
La Notizia
Credito: in Fvg nel 2014 meno prestiti per 6,3 miliardi

Credito: in Fvg nel 2014 meno prestiti per 6,3 miliardi

Alessandro Cesare – Diario del Web

Ci sono sempre più soldi nei forzieri delle banche ma, paradossalmente, diminuiscono in maniera costante i prestiti a famiglie e imprese. Nei primi dieci mesi del 2014 i prestiti del sistema bancario del Fvg sono scesi di 6,3 miliardi di euro, a fronte di un aumento dei depositi di 5,1 miliardi di euro. Lo rende noto un report del Centro Studi ImpresaLavoro, che ha analizzato l’andamento dell’attività bancaria in regione.

Continua a leggere su Diario del Web.
Credito: in Fvg nel 2014 meno prestiti per 6,3 miliardi

Credito: in Fvg nel 2014 meno prestiti per 6,3 miliardi

Introduzione

Una piccola nota per comprendere come il problema del credit crunch, ovvero della mancanza di credito per le aziende, sia anche legato alle scelte di investimento delle famiglie. Il credito che le istituzioni finanziarie e monetarie possono erogare al mondo delle imprese segue regole tecniche complesse e precise, regole che dopo la crisi del 2008 hanno subito delle modifiche che vanno sotto il nome di Basilea 3, ovvero dei negoziati che hanno definito i nuovi standard di solidità bancaria. In sostanza, affinché una banca possa prestare denaro a terzi deve non solo raccoglierlo presso gli agenti economici (famiglie e imprese), ma deve garantire al sistema finanziario che la scelta di dare credito a un certo soggetto non comprometta la solidità della banca stessa. E quindi con Basilea 3 stato ribadito con più forza il concetto che la banca rappresenta un ingranaggio fondamentale per fornire sicurezza e liquidità ai diversi attori economici.
Negli ultimi anni in Italia si è potuto osservare come la propensione al risparmio dei cittadini sia prima calata (fra il 2008 e la fine del 2010), per poi risalire e stabilizzarsi intorno al 10%.
Propensione al risparmio delle famiglie consumatrici:

grafico 1
Fonte: Istat

Questo aumento della quota di risparmio contribuisce a ridurre la quota dei consumi, strozzando così la domanda interna di beni. Questo, in sé, non sarebbe un problema se i risparmi accumulati dalle famiglie fossero investiti per produrre in futuro maggior reddito per il Paese.

Le ragioni del risparmio

Le famiglie risparmiano per diversi motivi: accumulare risorse per acquisti di beni durevoli (es.: casa); per sicurezza (es: assicurazioni vita, acquisto titoli di stato sicuri, il materasso); per investimento reddituale (es: obbligazioni, azionariato). Si può immediatamente vedere come le motivazioni alla base della scelta di risparmio hanno effetti diversi sul sistema economico nel suo complesso.
Il risparmio per l’acquisto di un bene durevole, come la casa, richiederebbe molto tempo e molte risorse. Proprio per ovviare a questo problema (immobilizzare ingenti risorse per lungo tempo non è facile per una famiglia) si è sviluppato il mercato dei mutui bancari, strumenti che rendono ragionevolmente più facile accumulare la massa di denaro necessario all’acquisto di un immobile in poco tempo: invece di immobilizzare il denaro per poi acquisire il bene, si acquisisce il bene attraverso un debito a lunga scadenza. Insomma, si privilegia la spesa oggi e il risparmio domani, piuttosto che fare il contrario. Si privilegia l’attività economica adesso attraverso lo sviluppo dell’attività bancaria: a questo, in fondo, servono le banche. Purtroppo, questa forma di risparmio è al palo da diversi anni, come testimonia questo grafico:
Tasso di investimento delle famiglie consumatrici, definito dal rapporto tra investimenti fissi lordi delle famiglie consumatrici, che comprendono esclusivamente gli acquisti di abitazioni, e reddito disponibile lordo.
grafico 2
Fonte: Istat
 
Il risparmio per motivi di sicurezza, invece, ha ragioni legate alle esigenze di cassa di breve periodo o di lungo periodo. Accumulo denaro nei conti correnti o nei conti di deposito per assicurarmi di avere la liquidità disponibile appena diventi necessario far fronte a qualche evento improvviso: in uno stato d’insicurezza economica come quello che stiamo vivendo, la probabilità di un evento improvviso aumenta e con esso la massa di denaro nei conti corrente.
Come ci ricorda la Banca d’Italia: «Con riferimento ai depositi bancari, nel 2013 erano censiti oltre 73 milioni di conti per un ammontare totale di circa 920 miliardi di euro (…). L’ammontare medio per cliente era pari a circa 12.500 euro1». Per quanto riguarda il lungo periodo, l’investimento in titoli di stato sicuri o nelle polizze assicurative (vita e pensione), rispondono alla necessità di garantirsi in un futuro relativamente lontano un capitale fronte di un bassissimo rischio e di un bassissimo guadagna. Secondo Banca d’Italia, nel 2013 le famiglie italiane possedevano un patrimonio in attività finanziarie pari a 3.848 miliardi di Euro (+2,1% rispetto al 2012). Si pensi che 1/4 di questa ricchezza finanziaria è investita in assicurazioni e titoli di stato (poco più di 900 miliardi di €).
Nel 2013 la distribuzione di questa ricchezza seguiva l’andamento riportato nel seguente grafico:
grafico 3
Fonte: Banca D’Italia
Riporta sempre la Banca d’Italia: «Si è arrestata nel 2013 la ricomposizione dei portafogli delle famiglie, verso i depositi bancari e verso il risparmio postale». Si è arrestato, quindi, un flusso che ha visto cambiare la composizione del portafoglio degli italiani verso strumenti poco rischiosi e di immediata liquidità: questa è una delle forme tangibili dell’insicurezza economica che ancora respiriamo ogni giorno.
Infine, abbiamo il risparmio per investimenti a fini reddituali, ovvero quel 43,3% del patrimonio finanziario delle famiglie che in vario grado contribuisce al mantenimento del potere d’acquisto dei cittadini nel tempo. Questa motivazione di risparmio è anche quella i cui effetti di breve termine si riverberano con maggior rapidità sul sistema. L’acquisto di azioni, di obbligazioni o il finanziamento di fondi comuni di investimenti rappresenta uno strumento molto rapido di passaggio dal risparmiatore verso chi, nel mercato, necessità di finanziamenti.

Il credit crunch

Tornando al problema iniziale, l’assenza di credito verso le imprese, se rimaniamo nell’ottica del trasferimento del risparmio privato verso investitori privati, allora dovremmo chiederci come la variazione della propensione al risparmio possa aiutare o meno le imprese. Famiglie in cui aumenta la propensione al risparmio sono famiglie che consumano meno: e questo, per le imprese, non è un bene. Soprattutto quando il risparmio finisce sotto il materasso, lontano dai flussi economici della nostra economia. Famiglie in cui aumenta la propensione al risparmio e indirizzo le loro attività finanziarie verso conti corrente e titoli di stato, aiutano poco le imprese: quel denaro rimane o immobilizzato negli istituti di credito, a loro volta in sofferenza per i prestiti erogati, o fornisce allo Stato la liquidità necessaria a sostenere le sue spese, di cui solo una parte, una parte sempre minore, è destinata agli investimenti produttivi.
Infine, famiglie in cui aumenta la propensione al risparmio e indirizzo le loro attività finanziarie verso il mercato azionario e/o obbligazionario forniscono il loro denaro direttamente alle imprese attive nei settori economici, superando quindi la funzione di redistribuzione dei depositi tipica dell’attività bancaria. Purtroppo, per quanto la quota di attività finanziarie che contengono questa voce sia pari al 43% del totale della ricchezza finanziaria, come riporta l’Osservatorio sui Risparmi delle famiglie italiane, uno studio redatto da GFK Eurisko e Prometeia, «gli investimenti si sono indirizzati prevalentemente verso gli strumenti di risparmio gestito e assicurativi». Questo significa che gli italiani tendono a investire il loro denaro negli strumenti più rischiosi attraverso l’intermediazione di gestori. Una buona notizia se non fosse che «Il comparto degli investimenti continua a non sedurre larga parte del suo mercato potenziale. Investire appare oggi meno di moda che in passato». Eccola qui una parte rilevante del credit crunch: le persone non si fidano a dare il proprio denaro al sistema finanziario, anche se così facendo potrebbero rimettere in modo gli investimenti necessari alla ripresa sostanziale dell’economia. Eccola servita la nostra trappola della liquidità.
Si chiede al sistema delle imprese di diventare meno banco-centrico. Per farlo, si deve cambiare certamente la mentalità degli imprenditori ma non basta: serve dare una buona ragione affinché il pubblico si senta certo che l’operazione di finanziamento diretto che fa sia ragionevole e trasparente.

Il Friuli Venezia Giulia

Rispetto a quanto detto nelle pagine precedenti, proviamo adesso ad analizzare la situazione regionale. Prima di tutto bisogna osservare che la situazione del credito verso le imprese è critica. Per quanto le sofferenze sembrano essere in diminuzione, rimangono davvero molto elevate.
grafico 4
Fonte: Banca D’Italia
Questo ovviamente ingessa l’attività bancaria, alle prese con la gestione di crediti che rischiano di diventare inesigibili, scalfendo così la solidità degli istituti coinvolti.Nonostante ciò, il denaro nei forzieri delle banche non mancano.
grafico 5
Fonte: Banca D’Italia
Come di vede dal grafico qui sopra riportato, c’è stato un accumulo di depositi molto rilevante da 2011 ad oggi in FVG. Le banche, quindi, sono state inondate di soldi non solo dalla BCE ma dai cittadini stessi.

grafico 6

Eppure questi denari restano lì, fermi, lasciando le imprese in balia di banche con depositi sempre più gonfi ma sempre più irrigidite dalle criticità dei crediti già emessi nel passato.

grafico 7

Concretamente proviamo a vedere che cos’è accaduto nei primi dieci mesi del 2014.

tabella 1

tabella 2

tabella 3

Elaborazione ImpresaLavoro su dati Banca d’Italia
 
Autore: Paolo Ermano
Il grande equivoco sul “tesoretto” dell’Italia

Il grande equivoco sul “tesoretto” dell’Italia

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

Nel fine settimana appena trascorso, editorialisti grandi e piccoli, uomini politici grandi e piccoli e intellettuali grandi e piccoli hanno stappato bottiglie di champagne a proposito di due notizie: l’approvazione da parte del Parlamento tedesco del Programma greco di riassetto strutturale; le stime Istat secondo cui nel primo trimestre 2015 il Pil potrebbe segnare un aumento dello 0,1% e la fine della recessione. Le due notizie sembrano, a una lettura veloce, distinte e distanti. Sono invece strettamente connesse. L’esultanza al fatto che Berlino abbia dato la fiducia (per così dire) ad Alexis Tsipras e al suo Governo vuol dire che ormai la democrazia (non solo quella parlamentare ma ogni forma di democrazia) appartiene al passato.

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Realismo politico e teoria liberale

Realismo politico e teoria liberale

Carlo Lottieri

Esiste un legame molto stretto tra liberalismo e realismo politico. Gli autori liberali si sono sempre sforzati di guardare l’universo sociale e politico evitando di confondere i desideri e la realtà: Questo talvolta può avere spinto verso il pessimismo, ma certamente ha tenuto questa tradizione assai lontana da illusioni infondate.
Larga parte degli studi della Public Choice School, ad esempio, mostra che i comportamenti “interessati” e opportunistici di politici, imprenditori, sindacalisti e funzionari pubblici finiscono per convergere in una somma di piccole o meno piccole “cospirazioni”, le quali favoriscono una dilatazione del potere pubblico. I contadini difendono i sussidi europei, gli insegnanti il posto fisso, i farmacisti il sistema delle licenze, e il risultato è che l’insieme di questi egoismi danneggia tutti e ostacola la crescita della società.
Tutto questo fu analizzato con grande acume da Vilfredo Pareto, che mostrò – anche sulla scorta degli insegnamenti di Frédéric Bastiat – come in ogni iniziativa pubblica i benefici tendano a essere immediati (mentre i costi sono posticipati), visibili (mentre i costi sono invisibili) e concentrati (mentre i costi sono dispersi). In tal modo è facile prevedere che ogni progetto statalista avrà un’ampia probabilità di avere successo, vincendo l’opposizione di quanti, invece, vogliono in ogni modo contenere l’espansione del potere.
Tale realismo, a ogni modo, non deve toglierci la speranza. Una simile espansione dei poteri pubblici, in effetti, non può procedere in maniera illimitata, dato che le conseguenze sono sempre catastrofiche. Un ordine sociale basato sulla pianificazione, sulla redistribuzione, sull’ingegneria sociale e sulla redistribuzione egualitaria non è destinato a durare in maniera indefinita. Il suo esito naturale è l’estinzione: come è successo all’impero romano nella sua fase finale e come sta succedendo all’Europa contemporanea.
Questo significa che una società può essere facilmente condotta verso una crescente statizzazione da una serie di convergenze di interessi (e non solo da ciò, poiché l’imporsi di talune ideologie gioca la sua parte), ma alla fine è costretta a pagarne il prezzo. Anche il più resistente dei muri di Berlino alla fine crolla.
Questo succede per un motivo assai semplice. Una società basata sulla proprietà privata, sulla tolleranza, sul rispetto della libertà contrattuale e sul diritto di associazione è semplicemente in sintonia con la natura umana. E ogni sistema sociale che invece si oppone alle logiche di fondo della libertà costruisce un tale intrico di problemi che, in tempi anche relativamente rapidi, porta alla distruzione quell’ordine sociale.
Tutto ciò risulta assai chiaramente quando si considera, ad esempio, uno degli effetti principali dell’intervento pubblico: il parassitismo organizzato. Mentre in una società liberale ognuno trae di che vivere dai beni e dai servizi che mette a disposizione del prossimo, in una società statizzata è anche possibile avere redditi che superino il milione di euro accumulando incarichi alla guida di enti pubblici: com’è successo, appunto, in Italia.
In questo senso la strategia parassitaria è una strategia – sul piano individuale – assai vincente. Ma che succede al corpo sociale in tale situazione? Fatalmente esso declina. In natura come in società, il moltiplicarsi dei parassiti porta alla morte il soggetto parassitato: l’albero perde le foglie e i produttori smettono di lavorare. Quando ci si ribella alla natura e alle sue regole elementari, prima o poi il conto si paga ed è salato.
Questo deve indulgere a un qualche ottimismo. Può darsi che la ragionevolezza si manifesti solo quando tutto sarà distrutto e lo statalismo avrà trasformato l’Europa in una specie di deserto sociale ed economico. Oppure è possibile che – anche sulla scorta di qualche eccezione virtuosa – ci si renda conto che è bene tornare alle sane leggi del mercato. Una cosa però è chiara: la libertà può essere calpestata, ma non senza che questo produca conseguenze molto negative.
Per tale ragione chi crede nella responsabilità individuale, nella proprietà privata e nel contratto deve nutrire una qualche fiducia nel fatto che, prima o poi, questi valori saranno riconosciuti anche da quanti oggi li disprezzano. Prima o poi, il futuro sarà liberale. C’è un limite oltre il quale non si può andare: e questo perché lo statalismo finisce per dissolvere la società stessa e obbliga, quindi, a prendere atto delle leggi fondamentali che regolano l’interazione sociale.
Certo sarebbe auspicabile che si riuscisse a prendere consapevolezza di questo prima di avere toccato il fondo. Diversamente i costi per tornare a vivere in condizioni civili potrebbero essere anche molto elevati.
Meno prestiti e più depositi in Fvg, aumenta il risparmio di famiglie e imprese

Meno prestiti e più depositi in Fvg, aumenta il risparmio di famiglie e imprese

Udine Today

Nei primi dieci mesi del 2014 i prestiti del sistema bancario del Friuli Venezia Giulia ad imprese e famiglie sono scesi di 6,3 miliardi di euro, a fronte di un aumento dei depositi presso le banche di 5,1 miliardi di euro: lo rende noto un report del Centro Studi ImpresaLavoro che ha analizzato l’andamento dell’attività bancaria in regione.

Secondo l’istituto fondato da Massimo Blasoni, non si allenta quindi la morsa del credit crunch e questo nonostante il sistema bancario abbia ricevuto dal 2011 ad oggi fortissime iniezioni di liquidità. In parte si è trattato di trasferimenti effettuati dalla BCE ma una buona fetta di quelle risorse derivano dall’incremento del risparmio di famiglie e imprese.

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Così Palazzo Chigi prepara la rottamazione di Telecom

Così Palazzo Chigi prepara la rottamazione di Telecom

Davide Giacalone – Libero

Il passo in avanti è notevole: alla merchant bank di Palazzo Chigi ora si parla l’inglese. Il decisionismo ha anche prodotto un’innovazione: non ci si limita ad appoggiare le scalate a opera di sconosciuti che operano dall’estero (come all’epoca dei “capitani coraggiosi”); non ci si produce in piani da suggerire e imporre ai diretti interessati (come all’epoca del “piano Rovati”); ora si pensa di procedere direttamente per decreto legge, seppure in presenza di una smentita del sottosegretario al ministero dello Sviluppo Economico, Antonello Giacomelli. Inglese più gazzetta uflfciale. ll bello è che il tema è sempre lo stesso: Telecom ltalia. Prima da spolpare, trasferendo all’estero e ai privati la ricchezza degli italiani. Poi da indirizzare e sottrarre alla gestione dei proprietari, portando Marco Tronchetti Provera alle dimissioni. Ora da condurre al fallimento (in gran parte meritato), mediante rottamazione del solo asset che fa da garanzia all’enorme debito, la rete.

Spero non sfugga la curiosa coincidenza: assieme al trapelare di tale operazione apprendiamo che è pronto il fondo “salva imprese” (dei cui difetti e pericoli abbiamo già scritto), finanziato con soldi pubblici, che più nega di volere essere una nuova Gepi e più ce ne sfuggono le differenze, e che dovrebbe occuparsi, tra le prime cose, della crisi Sirti. Ovvero della società, un tempo Iri, che lavora(va) alle reti di telecomunicazione. Tutti i salmi finiscono in gloria e tutti i (falsi) trionfi di mercato finiscono con ristatalizzazioni. Significativo, inoltre, che dopo avere provato a sposare Telecom ltalia e Metroweb, la cui proprietà è riconducibile allo Stato, e dopo avere ricevuto un rifiuto, si supponga di operare con un decreto per rottamare la rete del mancato marito, rivalutando quella della sposa non impalmata.

Veniamo alla sostanza: avrebbe ragione il governo ad intervenire per promuovere il rimodernamento delle reti di telecomunicazione? Sì. Quell’arretratezza è una palla al piede dell’Italia. Tale intervento può e deve essere articolato su due fronti. Il primo consiste nel rimodernare la pubblica amministrazione e moltiplicarne l’offerta digitale. Più cose il cittadino può fare on line, più c’è domanda di reti digitali, più è conveniente investire nel renderle capienti e capillari. Il secondo fronte consiste nel rendere più convenienti gli investimenti, mediante defiscalizzazioni, e meno estenuanti le pratiche burocratiche. C’è una terza cosa che lo stato deve fare: produrre norme chiare (in gran parte d’importazione europea) e far rispettare le regole.

Facesse queste cose, sarebbe da benedire. Non servono decreti legge, però. Se si pensa a quello strumento è perché si ha in mente un altro mestiere: stabilire come devono essere falte le reti, quali i programmi d’investimento, quale la redditività accettabile. Che è ilmestiere delle imprese e del mercato. Scegliere fra fibra ottica e reti in radiofrequenza (o, meglio, sulla proporzione del mix) è il mestiere del mercato. Tanto che un privato s’è fatto avanti chiedendo di acquistare una società statale d’impianti televisivi, ricca di punti d’illuminazione. Si può ben dire di no, ma aggiungendo in quale altro modo mettere quella ricchezza al servizio della digitalizzazione delle reti. Se si risponde: no, perché abbiamo in mente un’altra rete, si va alla statalizzazione. Il trionfo dei mercati senza mercato. Non mi stupisce che a questo antico mito italico si ritorni mediante anglofoni che usano il potere politico. Avverto solo che questo film lo abbiamo già visto. La prima versione era neorealismo ricostruttivo. La seconda temo sia un remake con sottotitoli. Per non capenti.

Investimenti pubblici, così Lupi e Madia possono zittire le nuove polemiche

Investimenti pubblici, così Lupi e Madia possono zittire le nuove polemiche

Giuseppe Pennisi – Formiche

Le leggera, e flebile, indicazione di una possibile ripresa economica, e le voci (peraltro incontrollate ed inconsulte data la situazione generale della finanza pubblica) potrebbero fare prospettare un graduale aumento dell’investimento pubblico. In tutta Europa – lo si è visto su Formiche.net del 24 febbraio – la spesa in conto capitale è quella che è stata maggiormente compressa dall’inizio del percorso verso la moneta unica iniziato nel 1992.

Il Piano Juncker – abbiamo visto sempre il 24 febbraio – per ora contiene soltanto alcune promesse e numerose illusioni. “In Italia,- ha scritto Paolo Coccia di Bnl-Bnp su Formiche-net del 15 novembre 2014 – i pochi investimenti pubblici si accompagnano ad un non adeguato livello delle infrastrutture. Su 17mila chilometri di rete ferroviaria, solo il 5,4% è ad alta velocità, mentre in Francia si raggiunge il 6,7% e in Spagna il 13,5%. Il ritardo interessa anche il comparto tecnologico: la fibra ottica risulta ancora poco diffusa e la velocità media per lo scarico dei dati raggiunge livelli pari solo a poco più della metà di quelli francesi”.

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Ma cosa è questa austerità?

Ma cosa è questa austerità?

Giuseppe Pennisi – Formiche

I successi elettorali dei movimenti, se non apertamente anti-europei, quanto meno contrari alle specifiche assunte da politiche, strategie, programmi e misure adottate nell’unione monetarie impongono si approfondire cosa si intenda con austerità, vocabolo centrale nel lessico dei dibattiti di politica economica europei e nazionali in corso in questi giorni. E’ facilmente intuibile che uno degli esiti sarà una differente declinazione del termine austerità.

In questo approfondimento, possono essere di grande aiuto i saggi sul tema prodotti nella letteratura economica. Ma occorre fare attenzione. Il tema dell’austerità è diventato merce di largo consumo tanto nel mondo accademico quanto nella pubblicistica giornalistica. Ha prodotto una vera e propria piccola industria che sforna paper, libri, articoli come se fossero hamburger; occorre distinguere con cura tra quelli che dicono qualcosa di nuovo, basato su vera ricerca, e quelli che scopiazzano i lavori di chi ha pubblicato appena prima di loro. O, peggio ancora, si rivolgono al Prof. Google.

Tra i 150 saggi sull’argomento usciti nell’ultimo mese, tre sono parsi di interesse per i lettori di Formiche. Il primo è un lavoro preparato per l’Economic Policy Panel dell’EIEF (Einaudi Institute of Economics and Finance) tenuto a Roma a fine 2014 ed i cui atti saranno pubblicati tra qualche mese. E’ uno studio collettaneo di Alberto Alesina, Francesco Giavanni e Matteo Paradisi, con la collaborazione di uno stuolo di loro ricercatori. Definita austerity essenzialmente come ‘consolidamento fiscale’ (riduzione della spesa ed aumento dell’imposizione tributaria per ridurre deficit e, quindi, debito), il lavoro analizza, con una strumentazione quantitative, se il ‘consolidamento’ effettuato a partire dal 2009 nell’eurozona ha avuto effetti recessivi sull’eurozona. Le conclusioni sono due: a) gli effetti ci sono stati ma non superiori a quelli quantizzati in altri casi di ‘consolidamento’; b) le implicazioni su produzione ed occupazione sarebbero state notevolmente inferiori a quelle effettivamente computate se si fosse agito sul lato della spesa (riducendola) piuttosto che su quello delle entrate (aumentandole).

Harris Dellas e Dirk Niepelt, ambedue della Università di Berna, partono da una differente accezione del termine austerity – la riduzione dei consumi dai livelli desiderati causata dalla capacità di servizio del debito. In tal modo, austerity diventa essenzialmente uno strumento per ottenere dal mercato migliori condizioni finanziarie (e per il rimborso del debito e per avere fresh money , nuovi finanziamenti). E’ un segnale, quindi, per conquistare credibilità o per migliorare quella che già si ha. Ha funzionato nell’attuale crisi dell’eurozona? Per Dellas e Niepelt è un segnale ‘costoso’, aggettivo qualificativo eloquente.

Molto interessante il saggio rivolto specificatamente ai Paesi dell’Europa centrale, orientale e meridionale pubblicato sul Journal of Economics and Business dell’Università di Rijka, in Croazia, e firmato da Anita Čeh Časni, Ana Andabaka Badurina e Martina Basarac. L’analisi utilizza una batteria di indicatori per il periodo 2000-2011. Il concetto di austerity è strettamente collegato a quello di incidenza del debito pubblico sul Pil, L’esito dei vari test effettuata nell’Università croata è che occorre incidere sulla causa non sui suoi esiti. Le proposte sono che una politica ‘credibile’ di ‘consolidamento fiscale’ deve essere coniugata con politiche che favoriscano crescita ‘duratura di lungo periodo’, quali ‘promuovere lo sviluppo industriale, incoraggiare la crescita e creare un clima per attrarre e favorire investimenti’, unitamente a ‘programmi di riduzione del debito’.

Tartassati e ripudiati

Tartassati e ripudiati

Lorenzo Baffo – Effe

È tempo di bilanci. Per l’investitore­-risparmiatore quello degli ultimi anni anni è stato comunque negativo, al di là delle performance registrate in termini di operatività. A determinare il segno meno ha contribuito infatti il peso del fisco, con un incremento di prelievi dell’ordine del 130% nel periodo 2011 ­2015. Sì, proprio del 130%, una stangata meditata, voluta e adottata dagli ultimi tre Governi, convinti che il risparmio sia un limone da spremere. Gli italiani ancora una volta hanno sopportato, proprio mentre poco o nulla si faceva per colpire evasori e corrotti. La scelta di centrare i portafogli era facile poiché ­ essendo detenuti da intermediari professionali ­ le possibilità di sottrarsi al pagamento di imposte e prelevamenti risultavano quasi nulle. E lo si è fatto con l’accetta, attuando un incremento delle riscossioni da ben 9 miliardi di euro. Lo dimostra una documentata e analitica indagine del centro studi di ImpresaLavoro, iniziativa di ispirazione liberale nata su idea dell’imprenditore friulano Blasoni. Pochi “media” hanno dedicato attenzione alla ricerca, perché affrontare il tema del rapporto fra fisco e risparmio appare oggi inopportuno, in un approccio servile nei confronti di chi governa. “F Risparmio & Investimenti”, grazie alla sua totale indipendenza, vuole mettere in evidenza i risultati del lavoro, per avviare un approfondimento e un dialogo con i propri lettori.

Da dove si parte

Chiunque disponga di risparmi sa cosa è successo. Vale però la pena riassumere l’evoluzione delle aliquote fiscali sui redditi di natura finanziaria per capire come sia stato possibile strappare dalle tasche degli italiani 9 miliardi di euro in più. Il grafico alla pagina successiva potrebbe anche tradire, nel senso che non evidenzia totalmente il peso della stangata, apparentemente relativa solo all’operatività con azioni e obbligazioni. Occorre evidenziare invece come, in un periodo di forte crisi della finanza, molti piccoli e medi investito­ri-risparmiatori si siano concentrati sulle offerte bancarie, con conto deposito e bond degli stessi istituti, tutti ormai gravati dell’aliquota al 26%. Effetto pesante anche per fondi e polizze, cosi come per le forme pensionistiche, sulle quali è solo iniziato un lavoro di penalizzazione fiscale che probabilmente proseguirà nei prossimi anni. La tosatura è poi proseguita con l’imposta di bollo sui conti correnti e sui depositi titoli, nonché con l’entrata in vigore di Tobin Tax e aggravi sulle gestioni previdenziali. Chi detiene un patrimonio, piccolo o grande che sia, sa bene quanto abbia inciso tutto questo sui suoi risparmi, fra l’altro nel dileggio di premier, ministri, politici e sindacalisti vari, soddisfatti di aver colpito il risparmio degli italiani, equiparandoli a speculatori ed evasori fiscali, quelli magari con capitali all’estero. Tutto questo è noto, ma molto meno lo è l’insieme di storture che la tassazione adottata comporta, senza che nessuno ne approfondisca gli aspetti.

Ecco cosa non funziona

Lo studio di ImpresaLavoro evidenzia, oltre agli aspetti punitivi delle politiche fiscali adottate dagli ultimi tre Governi, con le stangate maggiori decise da Monti e Renzi, nei confronti del risparmio, anche altri punti non adeguatamente presi in considerazione, che aggravano il peso sopportato dagli investitori. Uno, più volte messo in evidenza da “F Risparmio & Investimenti”, riguarda l’aspetto della doppia tassazione, che assume connotati ampi. La ricerca ne mette in luce una parte. È quella relativa agli utili riutilizzati dalle società di capitali, tassati una prima volta a titolo di imposta sui redditi delle società (Ires) e una seconda volta quando gli stessi vengono distribuiti ai detentori delle quote. Il problema interessa sia le partecipazioni cosiddette rilevanti ­ cioè chi detiene quote consistenti ­ sia il piccolo risparmiatore, che viene a pagare una doppia imposizione, perché per lui la seconda parte si manifesta con il prelievo del 25% sulle rendite finanziarie. Non solo: i dividendi come tutti i redditi di capitale ­ non sono compensabili nel regime del risparmio amministrato e pertanto soggetti a tassazione anche in presenza di perdite precedenti. Le norme non lo prevedono nemmeno se ci sono minusvalenze realizzate sui medesimi titoli da cui deriva il provento, anomalia che i tanti consulenti (perfino cosiddetti finanzieri!) dell’attuale e dei precedenti Presidenti del Consiglio non hanno evidenziato agli estensori delle normative. Un altro aspetto discutibile, che evidenziamo noi, è quello della doppia tassazione sui dividendi riferiti ad azioni straniere. Quelli distribuiti da società non residenti in Italia sono comunemente assoggettati a ritenute fiscali nel Paese di quotazione della società che li assegna (consiste nella ritenuta alla fonte); sull’ammontare netto è poi applicata la “ritenuta Italia”, salvo in alcuni casi, riguardanti soprattutto specifici titoli Usa. In realtà sulla ritenuta alla fonte interverrebbero ­ per specifici accordi ­ delle limitazioni sulle aliquote. Sulla parte eccedente bisognerebbe quindi chiedere un rimborso, con procedure però complesse, che pochi risparmiatori attuano. Su quest`aspetto ­ assai specialistico ­ nessuno è intervenuto a difesa dell’investitore italiano, che si vede costretto a versare più di quanto non dovrebbe. C`è chi osserva come questa stortura sia voluta per favorire il posizionamento sulle azioni italiane, poiché sottoposte al solo prelievo del 26%. Se cosi fosse la scelta sarebbe grottesca, trattandosi di un’ulteriore stortura nei confronti di un libero mercato realizzato solo a parole.

Meccanismo distorto

Un sistema normativo altrettanto contorto e punitivo riguarda le compensazioni da perdite pregresse, possibili soltanto per i cosiddetti redditi diversi, con limiti temporali (i quattro anni, al cui rispetto provvedono gli intermediari, senza nessuna possibilità di errore) e quantitativi, poiché “minus” realizzate prima del 2012 sono utilizzabili solo al 48,07% del loro ammontare e al 76,92% per quelle riferite dal 1 gennaio 2012 al 30 giugno 214. di eventuali guadagni futuri. Lo studio di ImpresaLavoro ricorda il caso più significativo di tale distorsione, riguardante i fondi. Rappresentando un reddito da capitale, se si realizza un utile ­ anche modesto ­ proveniente dalla vendita di questa tipologia di strumenti finanziari si deve comunque pagare la relativa tassazione e non si può compensarlo con eventuali perdite relative per esempio alla cessione di un’azione o di un’obbligazione. Un caso altrettanto assurdo riguarda proprio i bond: le cedole sono comunque tassate anche se il titolo cui si riferiscono viene per esempio rimborsato per un importo interiore a quello riferito all’investimento, il che avviene se lo si è pagato sopra il prezzo di emissione. La “minus” derivante verrà portata a compensazione esclusivamente di eventuali guadagno futuri. Che il legislatore abbia una visione travisata delle cose lo dimostra anche il vantaggio di aliquota fiscale previsto per i titoli di Stato, altra anomalia che potrebbe portare a complesse vicende legali. Non si vede infatti per quale motivo la tassazione su un Btp debba essere al 12,5% e quella su un’obbligazione per esempio di un’azienda di Stato lo sia al 26%. Certo si vuole così agevolare il risparmio incanalandolo verso il debito pubblico, ma allo stesso tempo si penalizza quello indirizzato verso le aziende e le banche con un’altra assurda deformazione delle regole di mercato. Ha senso per esempio che chi fa trading con i Btp sia sottoposto a un’aliquota inferiore di oltre la metà rispetto a quella cui è soggetto chi mette i propri risparmi a lungo termine su bond Enel o Eni? Ciascuno si dia la sua risposta.

L’altro fronte

A tutto questo si aggiunge l’aggravio di fiscalità sui beni immobili, che sta progressivamente penalizzando il mercato, con gli stranieri in particolare sempre meno interessati ad acquistare case in Italia, preferendo alternative molto più concorrenziali, quali Grecia, Spagna e Portogallo. Se l’investitore finanziario dal 2011 a oggi ha visto aumentare la tassazione del 130%, quello posizionato sul mattone ha sofferto una grandinata di aumenti da far paura. Nello stesso periodo il secondo ha pagato sugli immobili, diversi da abitazione principale, qualcosa come un +236% sulle seconde case locate a canone concordato, un 150% sulle seconde case affittate a canone libero, un +144% sugli uffici, un +140% sui negozi, un +115% sulle seconde case sfitte, un +108% sui laboratori artigianali e un +96% per strutture alberghiere e capannoni. In questo caso i dati sono stati forniti dall’ufficio studi della Cgia di Mestre, molto arriva nel seguire il comparto immobiliare. La ricerca annota che tuttavia per alcuni settori si sono registrate agevolazioni fiscali: per esempio la Tasi è stata resti totalmente deducibile dal reddito di impresa. Il motivo di incrementi così rilevanti dipende dalla scelta di molti sindaci di alleggerire il carico sulle prime case e di spostarlo su immobili a uso produttivo e su abitazioni diverse da quella principale.  Anche in questo caso si è pertanto pensato che chi possiede qualcosa sia un facoltoso speculatore da colpire in ogni modo.

Puniti, anzi strapuniti

Il criterio, con cui la problematica della tassazione sui patrimoni è stata affrontata in Italia dimostra un approccio punitivo che si traduce in immobilismo per chi ha capitali da investire, piccoli, medi o grandi che siano. In un quadro generalizzato di crisi e di sfiducia, il “gruzzolo” diventa sempre più tale e si tende a difenderlo in maniera conservativa, non reimmettendolo nel sistema produttivo attraverso l’acquisto di azioni, obbligazioni e case. Proprio le stangate fiscali hanno un impatto nefasto da questo punto di vista. Si traducono in immediato flusso in entrata per le casse dello Stato, ma rallentano la crescita. Il problema è che per i politici ­ tutti impegnati in visioni di breve termine, soprattutto in Italia ­ quella di tappare la voragine è l’unica soluzione possibile. Ecco perché i risparmi finiscono per essere tartassati e ripudiati, una terra di conquista in cui far pascolare le mandrie affamate e assetate dei burocrati legislativi, capaci di incrementare le aliquote ma non di risolvere lo carenze normative, spesso vistose. Finora i Governi dei grandi tassatori sono durati poco. Cosa faranno il prossimo e poi il successivo? Staremo a vedere.