Edicola – Opinioni

Acqua cara

Acqua cara

Davide Giacalone – Libero

Nessuno ha voglia di dire agli italiani che se a Torino devono pagare l’acqua che non hanno consumato, se si devono preparare a due anni di aumenti del 10% delle tariffe, ciò ha anche a che vedere con il referendum sull’acqua del 2011. Allora stravinse l’idea che dovesse restarne pubblica la gestione. Questo è il risultato. Allora si fece una grande campagna contro la vendita dell’acqua ai privati, cosa che, naturalmente, era fuori dal mondo. Nessuno ha mai supposto di privatizzarla, ma di privatizzarne la gestione. A sostenere la gestione privata rimanemmo in pochini, mentre l’onda del luogocomunismo spaventò gli stessi, Partito democratico in testa, che pure avevano positivamente operato in quel senso. Il centrodestra si squagliò, com’è suo costume quando si tratta di reclamare il voto su delle cose e delle idee, anziché su sigle e nomi. Così prese corpo l’insanabile contraddizione: da una parte sembra che tutti detestino le gestioni e le nomine politiche, dall’altra si volle che l’acqua restasse nelle mani della politica e dei nominati.

Le società variamente pubbliche che gestiscono l’acqua sono 1.600. Uno sproposito. Si dovrebbe chiuderle quasi tutte. Di queste 350 hanno ottenuto l’aumento delle tariffe: +3,9% nel 2014 e + 4,8 nel 2015. Così l’inflazione non la crea la crescita della ricchezza, ma la sua decrescita a favore delle tariffe amministrate. Le 350 che faranno crescere la bolletta, con un maggiore esborso medio di 130 euro annui a famiglia, sono le più grosse, quindi quelle che servono il maggior numero di clienti. La domanda è: le altre 1.250 società hanno rinunciato all’aumento? No, è che non hanno neanche presentato i dati minimi di bilancio. Non si sa quanto investono, quindi non si può disporre l’aumento delle tariffe. 1.250 società, variamente pubbliche, non hanno compiuto adempimenti elementari che, se si trattasse di privati, in ogni altro settore, provocherebbero l’arrivo della Finanza.

Torniamo alle 350: perché chiedono un aumento? Perché dicono di dovere fare investimenti nella rete. Dicono, cioè, esattamente quel che scrissi all’epoca del referendum: mentre l’impresa privata, che giustamente mira al profitto, fa investimenti per aumentare la redditività della rete, quella pubblica i soldi degli investimenti li chiederà ai cittadini. Mentre nel concedere a privati la gestione della rete di distribuzione si deve stabilire, in partenza, quali saranno gli investimenti che sono tenuti a fare e quale sarà il quadro tariffario in cui dovranno muoversi, quando si passa alle società pubbliche la musica cambia, perché sono amministrate dai compagnucci degli amministratori politici, quindi se hanno bisogno di soldi chiedono che siano presi dalle tasche dei clienti. Se, come è successo a Torino, i clienti si mettono a risparmiare, consumando meno acqua, scatta l’applicazione del minimo, sicché pagheranno anche quella che non scialacquarono.

All’Autorità per l’energia, il gas e l’acqua dicono: era necessario aumentare le tariffe, perché sono decenni che non s’investe nelle reti. Ma perché questo non lo si disse agli elettori, nel 2011? Era chiaro che così sarebbe andata a finire. Tanto chiaro che lo scrivemmo. Tutta questa gnagnera dei “beni comuni” e delle cose che devono restare in mano al pubblico, quindi alla politica e ai partiti, perché così si evita 1’avidità dei privati, serve solo a far da alibi all’insaziabile bisogno della macchina pubblica di ciucciar via quattrini dalle tasche dei cittadini. Che, in questo caso, sebbene raggirati, se la sono anche cercata. Non potendo tornare indietro (non prima del 2016) almeno si proceda al disboscamento delle società e alla stipula di convenzioni che obblighino agli investimenti, pena la perseguibilità degli amministratori. Sarebbe già qualche cosa.

Orgoglio&Pregiudizio

Orgoglio&Pregiudizio

Davide Giacalone – Libero

Dal ministero dell’Economia hanno fatto benissimo a non lasciar correre, usando anche Twitter per ricordare quali sono i punti di forza dell’Italia. Siccome, però, sono le cose che qui scriviamo da anni, senza (noi) cambiare opinione a seconda del colore dei governi, conosciamo anche il retro di ciascuna medaglia. Dal Ministero hanno lanciato l’hashtag #prideandprejudice. Vediamone i sei punti.

1. L’avanzo primario italiano, dicono dal governo, è fra i più alti e stabili del mondo. Nel 2013 secondo solo a quello della Germania. Se è per questo, aggiungo, è il più alto al mondo, se si considera il cumulo degli ultimi ventuno anni; c’è sempre stato, a eccezione di un leggero scivolare nel 2009; e, se calcolato su ba-se annua, abbiamo fatto numeri che la Francia non s’è mai sognata. Non c’è dubbio: possiamo dar lezioni globali, in quanto a rigore finanziario produttivo di avanzi primari. Però: mentre accumulavamo avanzi primari il debito pubblico cresceva, talché il bilancio statale si chiudeva regolarmente in deficit. Il deficit di oggi è il debito di domani, così siamo i campioni mondiali di avanzi di dissennatezza. Non è un caso, del resto, che nel corso della seconda Repubblica i governi, costantemente alternandosi fra destra e sinistra, si siano vantati e vicendevolmente rimproverati di tutto, ma non gli avanzi primari. Sarebbe stato imbarazzante dover dire che fine facevano: gettati nella fornace del costo del debito crescente.

2. Abbiamo tenuto il rapporto deficit/pil entro il 3%, così chiudendo la procedura d’infrazione che subivamo. Siamo fra i pochi a rispettare quel parametro. Verissimo. E ci costa dolore. Ma tale nostra virtù la dobbiamo agli avanzi primari di cui sopra, quindi ai soldi che i cittadini versano per pagare il costo del debito. E la nostra tenuta del deficit la scontiamo con l’essere gli unici europei ancora in recessione. Altri hanno potuto comportarsi diversamente, perché all’appuntamento con la crisi dei debiti sovrani non sono arrivati con un debito pubblico smisurato.

3. Negli anni della crisi il nostro debito pubblico è cresciuto meno di quello di altri europei (e non), sia in assoluto che in rapporto al pil. Vero, siamo stati i soli, fra i grandi, a far funzionare il freno a mano. Ma l’altra faccia della medaglia è drammatica: il nostro debito è cresciuto perché spinto dal suo stesso costo, mentre il debito di tutti gli altri (tranne la Svezia, la sola ad aver fatto meglio di noi) è cresciuto per spese anticicliche. Il nostro debito cresce da solo, annientando la politica. Il debito tedesco o francese cresce per scelta politica. Non è una differenza da poco.

4. Il nostro debito pubblico è fra i più sostenibili, mentre il rischio connesso, sia nel breve che nel lungo periodo, è inferiore alla media europea. Non solo è vero, ma aggiungerei un dettaglio: noi e i tedeschi, dal punto di vista statale, siamo coetanei, solo che noi i nostri debiti li abbiamo sempre pagati, mentre loro, per due volte, li lasciarono insoluti. Quelli affidabili siamo noi. La sostenibilità, però, è anche il frutto di un patrimonio privato enorme e di un indebitamento privato minuscolo (rispetto agli altri), cui si aggiunge l’accondiscendenza a farsi tassare per pagare il costo del debito. Peccato che questo sia 1’inferno del socialismo fiscale. Se il debito non lo si abbatte, e se non si vuol perdere l’affidabilità, si corre verso la patrimoniale (ulteriore, perché già ne paghiamo diverse). Quindi: piano con l’orgoglio e in alto il pregiudizio, perché quello è il modo per autoevirarsi.

5. Siamo terzi per contributi versati ai paesi europei in crisi. E così. Ma questo è un punto molto delicato: perché fummo costretti a versare soldi che, aiutando i greci, servirono a salvare le banche tedesche e francesi che se ne erano rimpinzate? Siamo terzi per la semplice ragione che si paga in percentuale sul pil, e il nostro è il terzo pil. Perché, dovendosi salvare le banche, non si è pagato in rapporto all’esposizione delle proprie? Ci sarebbe costato meno e avremmo fatto rimarcare che le nostre sono state meno ciniche e incapaci di quelle altrui. Forse questo punto avrebbero fatto meglio a non metterlo, perché dietro c’è una storia ancora non raccontata. O forse non lo sanno. O forse pensano che gli altri siano tutti analfabeti fessi.

6. Infine: le nostre banche hanno ricevuto aiuti statali infinitamente inferiori a quelli che si sono visti altrove. Germania, Regno Unito e Francia in testa. Vero, ma va aggiunto quanto appena detto: abbiamo aiutato più le banche altrui che le nostre. Però, quando si sono fatti i test sulle banche le nostre si sono rivelate fra le meno capitalizzate. Ed è vero che le abbiamo aiutate poco, ma pure che fanno sempre meno le banche e sempre più le casse di riscossione. Il sistema delle fondazioni bancarie è al capolinea, mentre in Germania Stato e Lander sono soci delle banche.

Per i nostri lettori sono cose non nuove. Direi vecchie. Il fatto è che se i punti di forza non sei capace di farli valere, anche sfruttando le debolezze altrui (che ci sono, eccome), mentre quelli di debolezza te li fai rinfacciare notte e dì, con il di più delle polemiche interne, va a finire che di pregiudizi ne subisci tanti e con l’orgoglio ci fai poco.

Torti e ragioni della recalcitrante Germania sull’Europa poco teutonica

Torti e ragioni della recalcitrante Germania sull’Europa poco teutonica

Giuseppe Pennisi – Formiche.net

Nonostante sia da quasi mezzo secolo sposato con una francese (non certo filotedesca tanto più che nata dove negli anni della seconda guerra mondiale, c’era “la linea di demarcazione tra territorio occupato e la Repubblica di Vichy”), sin dagli anni dell’università i miei migliori amici personali erano tedeschi. La Germania mi aveva affascinato al liceo con la sua filosofia e la sua musica. Quando in un’università internazionale ero con studenti di differenti Paesi, finii con fraternizzare, e studiare, con i colleghi tedeschi per il loro fortissimo senso del dovere e la loro parimenti profonda lealtà. Non avere imparato la lingua (se non per sommi capi) è ancora un cruccio, causato dall’avere vissuto per oltre tre lustri negli Stati Uniti.

Molti amici e colleghi italiani (nonché francesi) hanno difficoltà a comprendere l’atteggiamento della Repubblica Federale in generale e dei Governi tedeschi nei confronti di programmi e progetti (ad esempio, gli eurobond) che faciliterebbero il processo d’integrazione europea. In effetti, i tedeschi (non solo i Governi ma la popolazione in generale) sono recalcitranti nei confronti di un’Europa più integrata e più coesa di cui Berlino (il Paese più vasto e più potente) avrebbe tutti i titoli per assumerne la guida.

Per comprendere il fenomeno occorre guardare al passato ed al futuro. Per il passato un utile contributo è Reluctant Meisters: How Germany’s Pasti s Shaping its European Fuure di Stephen Green. Green non è uno storico di professione ma un Lord britannico, che è stato Ministro del commercio con l’estero ed anche Presidente della Hong Kong and Shanghai Bank. I tedeschi diffidano del resto d’Europa dal lontano 9-15 dopo Cristo quando leader tribale di nome Hermann sconfisse tre legioni romani nella foresta di Teutoburg per essere fatto a pezzi dopo alcuni anni (quando i romani tornarono con ancora maggiori forze). In tempi più recenti, si sono considerati (a torto od a ragione) vittime della guerra dei trent’anni 1618-48, delle scorribande napoleoniche ed infine del Trattato di Versailles che li umiliò al solo scopo di giungere ad un armistizio di vent’anni della lunga guerra mondiale che ha caratterizzato la prima metà del Ventesimo Secolo.

Il ‘miracolo tedesco’ – ricorda Lord Green – è stato il frutto degli aiuti americani (i quali anche delinearono la Costituzione ed il sistema politico della Repubblica Federale). Sono stati anche gli americani a contribuire, più degli altri europei, al crollo del muro di Berlino ed alla riunificazione. Agli americani va la loro gratitudine e lealtà. Anzi – Lord Green non lo dice ma ne ho la chiara sensazione – da quando gli Usa hanno diminuito il loro interesse (a torto o a ragione) nel processo di integrazione europea caratterizzato, a loro avviso, da bisticci tra comari – pure la Germania Federale non vede perché deve assumere un onere pesantissimo nei confronti di millenari avversari che hanno scarso senso del dovere e spesso hanno concluso guerre con alleati differenti da quelli con cui le avevano iniziate.

A queste determinanti relative al passato, se ne aggiungono fortissime altre concernenti il futuro. La Germania “sente” più di altri Paesi europei l’invecchiamento della propria popolazione. Coen Teulings della University di Cambridge – un demografico olandese distinto e distante dalle beghe del Continente (e per questo motivo sulle rive del fiume Cam) – ha calcolato che per fare fronte alla “sfida demografica” (ad esempio, pensioni ed assistenza medica decenti) il risparmio complessivo delle famiglie tedesche deve porsi sul 350% del Pil. Non che l’Italia sia piazzata meglio. Per i tedeschi (in generale) la differenza è che loro se ne curano, a ragione del “dovere” che sentono profondamente nei confronti delle generazioni future, mentre gli italiani (con i francesi, gli spagnoli, i portoghesi ed i greci) se ne preoccupano meno. Perché – mi diceva recentemente un vecchio compagno di studi che ha fatto, in quel di Francoforte, il banchiere per tutta la vita professionale – dobbiamo metterci alla guida di tale brigata e porci l’onere sulle nostre spalle? Come rispondere?

La local tax, scommessa ad alto rischio per i cittadini

La local tax, scommessa ad alto rischio per i cittadini

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Le tasse sull’abitazione principale sono una delle passioni più intense della politica di questi anni, con il risultato che in sette città su 10 la Tasi sulla casa media è più cara dell’Imu 2012 (e il quadro peggiora se si guarda ai centri minori, dove le detrazioni sono ancora più rare), e che gli appartamenti più modesti sono anche i più penalizzati rispetto al passato. Basterebbe questo per chiedere a partiti e Parlamento di occuparsi d’altro. Al di là della battuta, però, l’ennesima riforma del Fisco sul mattone è indispensabile, perché fra i tanti difetti delle regole scritte pochi mesi fa c’è anche il fatto di non aver saputo guardare più in là del proprio naso: tetti di aliquota e mini-aiuti statali sono stati previsti solo per quest’anno, lasciando campo libero nel 2015 ad aumenti record. Senza modifiche, l’anno prossimo si potrebbe imporre alla prima casa un prelievo del 6 per mille senza detrazioni, il doppio rispetto a oggi.

Anche la fantasia fiscale, però, ha dei limiti, e la «tassa unica» su cui sta lavorando il Governo rappresenta nei fatti un ritorno all’Imu, con aliquote e sconti un po’ più bassi ma con lo stesso impianto. Appurato che soldi per esentare tutte le abitazioni non ce ne sono, la scelta non è sbagliata, perché riporta un minimo di progressività al carico fiscale. Sugli altri immobili, però, il rischio è che la nuova aliquota massima al 12 per mille si traduca in un’altra tornata di rincari, dopo che quest’anno i Comuni hanno potuto arrivare fino all’11,4 per mille. Né si può fare troppo affidamento sulla capacità di discriminare tra i diversi immobili. Da un lato, l’esperienza insegna che quando il sindaco è in difficoltà finanziarie (o non sa tagliare le spese) l’aliquota sale su tutti i tipi di fabbricati. Dall’altro, è difficile sostenere che una casa sfitta – magari perché non si trova un inquilino – “merita” l’aliquota al 12 per mille più di un negozio affittato, ad esempio. La nuova tassa tutta comunale, insomma, è una scommessa sull’autonomia. Purché a perderla non siano i contribuenti.

La tentazione irresistibile della spesa pubblica

La tentazione irresistibile della spesa pubblica

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi – Corriere della Sera

I primi dati sull’economia dell’eurozona nell’ultimo trimestre dell’anno non sono positivi: il 2015 potrebbe iniziare con un ulteriore rallentamento. I risultati definitivi per l’anno che si chiude saranno disponibili solo a metà febbraio, e queste previsioni vanno prese con cautela. Tuttavia le intenzioni di acquisto delle aziende dell’eurozona hanno raggiunto in novembre il livello più basso da 16 mesi in qua. Anche l’indicatore degli ordini è sceso, per la prima volta in un anno. L’indice Markit – che traduce questi dati in una previsione del Prodotto interno lordo (Pil) – vede un’eurozona che nel 2014 è rimasta sostanzialmente ferma (+ 0,1/0,2%) dopo due anni consecutivi di recessione: – 0,7% nel 2012 e -0,4% nel 2013.

Per l’Italia questo significa che la straordinaria serie di 13 trimestri consecutivi di caduta del Pil potrebbe non interrompersi. Tredici trimestri! Non è mai accaduto in un Paese avanzato dalla crisi degli anni Trenta. I risvolti sociali si vedono. Nelle periferie delle grandi città si è accesa una guerra fra deboli, tra italiani impoveriti dalla recessione e immigrati. C’e poi un’altra guerra, quella fra generazioni: padri e madri protetti dai sindacati, e figli precari ignorati. La famiglia italiana compensa questa «guerra» con trasferimenti infra-familiari, con i figli disoccupati mantenuti da genitori pensionati. Ma la prossima generazione, quella dei nostri nipoti, non godrà di un tale lusso. Solo una cura drastica può interrompere questa spirale di depressione. La strada per uscire da questa recessione che pare non finire mai non sono investimenti pubblici che, se va bene, impiegherebbero un paio d’anni a produrre domanda e nel frattempo rischiano di produrre solo corruzione. Occorre abbassare in modo radicale la pressione fiscale su famiglie e imprese per aiutare i consumi e dare una boccata d’aria a chi produce. Non tranquillizza che il ministro dell’Economia, illustrando la legge di Stabilità alla Camera, abbia detto che «la pressione fiscale passerà dal 43,3% del 2014 al 43,2 nel 2015». Cioè rimarrà invariata.

Contemporaneamente, per evitare che la riduzione delle tasse si traduca in un aumento permanente del debito, essa va accompagnata da un impegno formale a ridurre di altrettanto la spesa. Se questo impegno richiedesse un controllo da parte della Commissione europea, esso sia benvenuto: potrebbe solo aiutarci a resistere alle mille lobby che si oppongono ai tagli di spesa. Occorrono fantasia e determinazione nel tagliare spese non essenziali, salvando quelle che veramente garantiscono la protezione dei più deboli. Ma di tagli veri nella legge di Stabilità non c’è più che qualche miliardo.

Quando critica i «burocrati di Bruxelles» Renzi ha ragione: se non fosse stato per il grido di allarme di Mario Draghi e per il suo richiamo al dramma della disoccupazione, sarebbero rimasti arroccati ai decimali del rapporto deficit-Pil. Ma la partita che Renzi ha aperto con Bruxelles è piena di insidie. Se, come ha fatto nell’ultimo vertice europeo, egli si avvicinasse troppo a Cameron e lasciasse intendere di essere anche lui pronto a rovesciare il tavolo, i mercati e gli altri Paesi europei comincerebbero a chiedersi quanto sia solido l’impegno dell’Italia a rimanere nell’unione monetaria. A quel punto sarebbe difficile criticare chi sostiene che la Banca centrale europea, qualora decidesse di acquistare titoli pubblici dei Paesi dell’eurozona, dovrebbe escludere da tali acquisti i titoli di Stato italiani.

Gli accordi che svelano il nostro “buco”

Gli accordi che svelano il nostro “buco”

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

L’Italia è alle prese con una nuova sfida, ma a Roma e a Milano pare non accorgersene nessuno. Se ne parla in cenacoli come quelli dello Iai, dell’Ispi, della Fondazione Ugo La Malfa, dell’Istituto Bruni Leoni, ma non si è sentita voce istituzionale. Neanche un tweet dal Presidente del Consiglio, Matteo Renzi o dai Ministri preposti (Affari esteri e Sviluppo economico) o da enti sempre sul punto di essere chiusi o riformati, come l’Ice. Proprio a quest’ultimo, la nuova sfida darebbe spunto per una nuova e più forte ragione di vita.

In breve, la globalizzazione che sembrava sgretolarsi dopo la crisi del 2008 è tornata alla grande. Questa è la conclusione a cui giungono Pankaj Ghemawat della Stern School della New York University e Steven Altman della Business School dell’Iese. Hanno compilato il Global Connectedness Index della Dhl sulla base di dati di 140 paesi che rappresentano il 99% del Pil e il 95% della popolazione mondiale. Utilizzano una vasta congerie di indicatori per misurare l’ampiezza e la profondità dell’integrazione internazionale: flussi commerciali, movimenti di capitale, migrazioni, rapidità e diffusione delle informazioni.

Secondo lo studio, dopo un arresto nel 2008-2009, la globalizzazione ha ripreso, più in profondità che in ampiezza. L’eurozona è rimasta un po’ all’angolo (e l’Italia in particolare è tra i fanalini di coda). Soprattutto, dopo una fase della globalizzazione pilotata dal mondo “avanzato” occidentale, adesso le imprese dei grandi paesi occidentali stanno rispondendo stancamente, e con un colpevole ritardo, alla tendenza, con il rischio di trovarsi spiazzate sui mercati più dinamici. Nel 2013, ad esempio, i Paesi in via di sviluppo emergenti hanno rappresentato (con il 36% della popolazione mondiale) il 17% degli utili delle cento maggiori imprese internazionali. L’anno scorso i paesi che hanno “globalizzato” di più (abbattendo barriere) sono quelli dell’America Latina e dei Caraibi. Particolarmente veloce, la globalizzazione delle informazioni, in accelerazione dal 2010.

Tra gli indicatori di integrazione internazionale, mentre i flussi finanziari sono in ripresa, preoccupa il commercio. Nel lontano autunno 2000, nell’ambito della Wto (l’Organizzazione mondiale del commercio) si aprì a Doha un negoziato multilaterale che avrebbe dovuto rimuovere le ultime restanti restrizioni agli scambi internazionali, particolarmente nei comparti dell’agricoltura e dei servizi. Sinora il negoziato non ha portato a nulla di concreto. È nel frattempo scaduta “l’autorizzazione” data dal Congresso americano al Presidente di presentarne i risultati per una ratifica in blocco.

C’è stato un pullulare di accordi bilaterali che hanno reso il commercio internazionale un vero e proprio labirinto. Su proposta della Casa Bianca sono iniziati negoziati per due vaste aree di “partnership” economica e commerciale – attraverso l’Atlantico e il Pacifico. Queste due trattative stanno proseguendo. Purtroppo, l’Italia pare schierata con la Francia in materia di “eccezioni culturali” (un termine nobile per indicare meno nobili protezioni dell’audiovisivo), dimenticando che un commercio più libero è la premessa per un mondo più libero. Speriamo che cambi idea e linea.

Anche e sopratutto perché il 13 novembre, gli Stati Uniti e l’India hanno raggiunto, dopo anni di trattative che bloccavano il negoziato multilaterale, un accordo sul commercio agricolo (in particolare sugli stoccaggi delle derrate alimentare) a cui si lavorava sin dal Kennedy Round degli anni Sessanta del secolo scorso. Non è questa la sede per analizzare i dettagli tecnici di un accordo, i cui lineamenti erano già stati posti alla riunione ministeriale Wto in dicembre 2013 a Bali. Secondo stime dell’ufficio del Rappresentante speciale del Presidente Usa per i negoziati commerciali – se sbloccato questo nodo la trattativa multilaterale si riapre -, l’accordo potrebbe portare a 21 milioni di nuovi occupati e aggiungere mille miliardi di dollari al Pil dell’economia mondiale. I Paesi in via di sviluppo dovrebbero fare uno sforzo in investimenti, anche infrastrutturali, per gli stoccaggi.

Occorre a questo punto chiedersi quale è la posizione del Governo italiano in sede di Unione europea (la Commissione europea negozia per tutti in base al Trattato di Roma) e se siamo pronti a rimuovere la nostra pregiudiziale sulla “eccezione culturale”. Si gradisce risposta.

Eppur si muove

Eppur si muove

Davide Giacalone – Libero

Mentre affondiamo nel nostro ombelico il corpaccione europeo si muove. In Germania si agitano forze che hanno compreso il pericolo che corriamo, e financo il guardiano del rigore, il ministro delle finanze Wolfgang Schäuble, rende nota la necessità di cambiare. E di farlo in fretta. Tutto questo avviene mentre è ancora in corso il semestre italiano di presidenza Ue, ma senza che in nulla pesi e si adoperi. Noi siamo impegnati a strillare perché Landini ha detto una scemenza, o a essere compenetrati della visita privata che il presidente della Repubblica ha reso al pontefice. Tutta roba che lascia il tempo che trova.

Il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, torna a dire che la ripresa non si vede, o la si studia al microscopio. Inutile sperare nella marea, insomma. Ma aggiunge che la Bce intende intervenire subito per sostenere l’economia e l’inflazione, avendo già ottenuto la drastica riduzione degli spread e il graduale deprezzamento dell’euro. Sono pronti anche a incrementare l’acquisto di titoli. Fin qui un film già conosciuto. La novità consiste nel fatto che Schäuble non scomunica l’operazione, ma fa sapere che è necessario avere al più presto una politica fiscale comune, non potendosi a lungo difendere l’euro nelle condizioni date. Va oltre, chiedendo la modifica dei trattati. È la stessa cosa che reclamiamo da anni, restando, naturalmente, da vedersi il quale direzione. Fino a oggi era stata esclusa, ora la partita si apre. Un passaggio cruciale e promettente. A patto di occuparsene.

I quattro grandi paesi europei sono su posizioni diverse. La Francia è preoccupata perché la nuova cessione di sovranità, a favore dell’Ue, contrasta con i propri fantasmi di grandezza e nazionalismo. La Germania nega che trasferimenti di ricchezza possano essere consentiti senza che ci siano anche travasi di sovranità. La Spagna afferma di avere pagato la crisi, sicché non intende accettare che altri abbiano sconti. Mentre l’Italia si perde in chiacchiere inutili sull’elasticità e nelle beghe interne, facendo finta di non vedere che i numeri della propria legge di stabilità sono campati per aria. Mentre i voti verso la protesta per la protesta crescono, i francesi sono impauriti dalla forma, i tedeschi dai quattrini, gli spagnoli dalle fregature e gli italiani da sé medesimi.

Potremmo avere un ruolo decisivo se solo ci muovessimo per dimostrare d’essere consapevoli che le previsioni di crescita sono campate per aria, che le riforme interne del mercato sono urgentissime e non possono perdersi nella gnagnera dell’articolo 18, che così come si profila non cambia nulla, che la necessità di abbattere il debito non può essere posposta all’alimentazione della spesa corrente (si veda il ragionamento qui svolto a proposito della scandalosa quotazione di Rai Way). Se così agissimo, indirizzandoci verso una cessione di sovranità che non ci costa, perché già compromessa, ma legata alla creazione di debito europeo destinato agli investimenti, se così agissimo faremmo vedere alla Francia il pericolo dell’isolamento, alla Germania quello dell’immobilismo e alla Spagna dimostreremmo che i sacrifici riguardano tutti e rendono. Sarebbe un nuovo e promettente inizio.

Gli eurobond, di cui parlammo fin dall’inizio di questa terribile crisi, sono più vicini di quanto si creda e percepisca, ma per agguantarli si deve cambiare la regola e la condotta della convivenza. Noi siamo nella condizione per poterlo dire e promuovere. Il che comporta, però, la fine dell’insulsa stagione delle promesse e delle prebende. Tanto vigore polemico va indirizzato non alla rissosità, ma alla cancellazione delle false sicurezze. Impressiona, invece, che mentre la consapevolezza si fa strada laddove più forti erano le resistenze e le paure qui si supponga di continuare a pestarsi gli attributi nel mortaio. E se il mondo politico mette in scena tutta la propria piccineria, figura non migliore fa la classe dirigente nel suo complesso. Ammesso che esista ancora.

Mignatte

Mignatte

Davide Giacalone – Libero

Aboliamo gli scontrini, puntiamo sulla tracciabilità usando i pagamenti elettronici, e l’Agenzia delle entrate non sarà più vissuta come un avvoltoio. Parole di Matteo Renzi. Già, peccato che è proprio lo Stato a non accettare i pagamenti elettronici. Peccato che anziché spiegarlo ai cittadini il capo del governo dovrebbe spiegarlo alla pubblica amministrazione. E peccato che anche questo rischia di essere un modo per ciucciare via soldi dalle tasche dei privati. Non saprei dire degli avvoltoi, ma la sensazione delle mignatte è forte.

Partiamo dall’osservazione del mercato europeo: i pagamenti in contante sono regolati in modo diverso e il nostro è il solo Paese in cui è considerato illecito pagare in moneta mille euro. In Germania non ci sono limiti all’uso del contante. Il fatto che sia anche l’economia che va meglio non necessariamente suggerisce un rapporto di causa-effetto, ma lascia che sia fondato il sospetto. Me ne sono occupato altre volte e non ci torno, ma giusto per premettere che oltre a perdermi il bello del paradiso fiscale mi scoccia subire il peggio dell’inferno monetario.

Posto ciò, non c’è dubbio: se tutti i pagamenti fossero elettronici e tracciati non ci sarebbero margini per l’evasione fiscale. Che bello. Ma fino a un certo punto, perché ci sono pagamenti di cui legittimamente non intendo lasciare traccia. Ma facciamo finta che sia superabile il problema della privacy. C’è un dettaglio, che forse al presidente del Consiglio sfugge: nel mentre si costringono tutti i privati a dotarsi del pos, ovvero del terminale per incassare pagamenti da carte di credito, di debito e prepagate, lo Stato non li accetta. Ieri sono stato all’ufficio postale, per pagare una cartella Equitalia, e non hanno accettato la mia carta di credito. Che si fa? Direi che si costringono le Poste, che sono una società dello Stato, ad accettare anche quel circuito (legittimo, pubblicizzato, serio e globale). Finché le Poste si permetteranno di non accettare la carta di credito, essendo le Poste dello Stato, il loro proprietario non ha la legittimità morale per imporre ad altri alcunché.

Ma non è finita. Se un negoziante mi chiede di pagare un obolo in più, una volta visto che intendo pagare con la carta di credito, egli commette un illecito passibile di denuncia. Ed è giusto che sia così. Salvo il fatto che è esattamente quanto succede con Equitalia, dato che se vuoi pagare on line con la carta di credito ti chiede un euro in più. Equitalia, per chi si fosse distratto, è dello Stato. Allora: perché un negoziante deve accettare di subire il costo della transazione e lo Stato no? Direi che, anche qui, manca la legittimità morale per far lezioncine su come sarebbe giusto, bello e sano pagare.

Ancora non ho finito. Provate a pagare sigarette, sigari o tabacco con la carte di credito. Nella quasi totalità dei casi vi diranno che non è possibile. Ma non è che i tabaccai siano perfidi o accidiosi, è che il margine a loro riconosciuto è così basso che, a seconda dei diversi circuiti delle carte di credito, sono praticamente equivalenti e in qualche caso inferiori al costo della transazione. Meglio non dimenticare, anche in questo caso, che i tabaccai sono sì dei privati (micro)imprenditori, ma concessionari dello Stato, che vendono (tra le altre cose) prodotti di cui lo Stato ha il monopolio. E’ lo Stato a dettare le condizioni che rendono inutilizzabile la carta di credito.

Conosco già la risposta a questi rilievi: usa il Bancomat. No, scusate: uso quello che mi pare. Se si vogliono promuovere i pagamenti elettronici non si può farlo né a spese dei cittadini né stabilendo per decreto signorile a quale circuito devo portare i miei quattrini. Se la carta di credito è lecita chi opera per conto dello Stato deve avere l’obbligo di accettarla. In caso contrario, almeno, la si smetta di dire cose senza senso e prive della benché minima esperienza di vita vissuta.

Crisi italiana: quelle divergenze tra Bce e Bankitalia

Crisi italiana: quelle divergenze tra Bce e Bankitalia

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Su cosa verte la differenza di punti di vista tra Italia ed Unione Europa sulle circostanze eccezionali del Fiscal Compact che consentirebbero una deviazione dalle regole sull’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni (ossia il deficit), oltre al rinvio del pareggio di bilancio? Il nodo del problema è quello che in lessico economico viene chiamato l’output gap (letteralmente ‘divario produttivo’), ossia il differenziale tra Pil potenziale e Pil effettivo. Prima della crisi, nel 2008, la Commissione Europea, il Fondo monetario, e l’Ocse stimavano attorno all’1,3% la crescita potenziale del Prodotto interno lordo dell’Italia. Per avere un paragone, i ‘piani triennali’ dell’inizio degli Anni Ottanta la ponevano sul 22,5%, spiegando che è quello che già allora ci si poteva aspettare da un Paese con una popolazione anziana, un apparato produttivo non modernizzato eccetto che in certe nicchie specifiche, ed un’amministrazione pubblica tutt’altro che efficiente. Le stime econometriche che giungevano ad un potenziale di crescita dell’1,3% tenevano conto dell’evoluzione avvenuta negli ultimi trent’anni (non positiva né sotto l’aspetto demografico né sotto quello dell’apparato produttivo), nonché dal peso del debito che incide comunque sulla crescita.

Nel 2010 il servizio studi della Banca d’Italia ha pubblicato uno studio che esaminava il periodo 1999-2005 (ossia gli anni che hanno preceduto la crisi) e poneva l’output gap del nostro paese tra lo 0,5% e lo 0,7% del Pil. Se la crescita potenziale è lo 1,3%, quella effettiva si poneva quindi attorno tra lo 0,8% e lo 0,6%. Mentre di recente, l’Ocse ha stimato l’output gap dell’Italia a -5 punti percentuali del Pil. Una chiara giustificazione di ‘circostanze eccezionali’.

La Banca centrale europea ha reso pubblico sul suo sito da meno di una settimana uno studio firmato da un gruppo di economisti. Non sono stati pubblicati lavori della Commissione Europea, ma si intende che le stime di Bruxelles coincidono con quelle di Francoforte. Il lavoro analizza gli effetti della crisi economica sui tassi di crescita potenziali, utilizzando una vasta gamma di modelli econometrici, e confronta l’eurozona con gli Stati Uniti ed il Giappone. Per l’Italia il Prodotto interno lordo potenziale sarebbe attorno al livello zero per l’anno 2013, proprio in quanto non sono state fatte le riforme sulle strutture dell’economia (essenzialmente miglioramento delle infrastrutture e delle reti, liberalizzazioni in tutti i settori, dalle professioni, alle banche ed assicurazioni, ai servizi pubblici locali, ai taxi, e via discorrendo) e in campo di privatizzazioni siamo riusciti a portare a casa solo quella dell’ente degli ufficiali in congedo. Quindi, non si possono invocare circostanze eccezionali. Non siamo, però, condannati alla ‘crescita zero’. A pagina 118 di quello studio, infatti, si dice chiaramente che tutto dipende dalle riforme strutturali, e cioè quelle sulla struttura economica del sistema nazionale, che non coincidono – lo ricordiamo – con quelle istituzionali. A questo punto Palazzo Chigi e Via Venti Settembre farebbero bene a mostrare le loro carte.

Alluvionati e tassati

Alluvionati e tassati

Il Foglio

Chirurgici come cecchini ieri Libero e Panorama hanno assestato un colpo ferale all’idea governativa di creare un sistema assicurativo universale contro le calamità naturali: pagherete altre tasse. Ai vertici dell’esecutivo, in realtà. non c’è chiarezza sul da farsi. Le dichiarazioni del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio – “si ragiona sull’ipotesi di un”assicurazione obbligatoria” – sono da leggere come voce dal sen fuggita che le truppe renziane a Palazzo Chigi si sono affrettate a smentire: “Non c’è alcuna ipotesi, siamo contrari a nuove tasse, non ci sarà un`altra Imu”, riporta il sito formiche.net. La proverbiale pezza più grande del buco: pronunciare la parola “tasse” in questo ambito e un boomerang, per di più fuorviante.

Un’assicurazione universale obbligatoria o semi-obbligatoria – se ne discute da vent’anni – non comporta necessariamente un aumento della pressione fiscale. Dipende dal criterio, ma in linea di principio si tratta di spalmare il rischio catastrofale sulla totalità dei cittadini col risultato di abbassare il costo medio della polizza per tutti (e magari renderlo deducibile dalla dichiarazione dei redditi). Sono oltre l’80 per cento i Comuni a rischio e, secondo l’Associazione delle imprese assicuratrici (Ania), assicurare un’abitazione di 90-100 mq costerebbe in media 100 euro l’anno.

Ovvio ci sono obiezioni (perché chi abita in Brianza dovrebbe pagare chi dorme sotto il Vesuvio?), controindicazioni (chi garantisce che i premi non aumenteranno senza controllo?) e perplessità (è comprensibile la diffidenza verso le assicurazioni nel paese meno assicurato d’Europa dove il costante rincaro dell’obbligatoria Rc Auto è odioso e odiato). Tuttavia sarebbe un sistema basato sulla mutualità sperimentato in ventuno paesi industrializzati: pagare tutti per pagare meno e soprattutto ricostruire in fretta. E poi la riscossione del premio è certa e puntuale. Se vogliamo parlare di tasse e calamità allora guardiamo ai balzelli delle accise sulla benzina. Aumentate sempre ma senza criterio all’indomani dei terremoti: soldi dei cittadini “motorizzati” che non hanno sistemato né L’Aquila né l’Irpinia. “Se finora la politica non s’è mossa – dice al Foglio Antonio Coviello, esperto di assicurazioni del Cnr – forse è perché sul fiume di soldi pubblici elargiti per le calamità non c’è controllo e fa comodo a molti. Il problema è che i soldi sono finiti”.