Edicola – Opinioni

Ora sotto esame le banche

Ora sotto esame le banche

Francesco Manacorda – La Stampa

Domenica a mezzogiorno, mentre le famiglie italiane saranno occupate a preparare il pranzo a casa, o magari in gita o dirette allo stadio, ci saranno molte persone – analisti di Borsa e uomini delle banche – che sedute alle loro scrivanie aspetteranno con ansia una serie di numeri. A quell’ora, infatti la Banca centrale europea renderà pubblici i risultati degli esami e degli esercizi condotti sui 131 principali gruppi creditizi del Continente. È un passo necessario per lanciare l’Unione bancaria europea, che comprende anche la vigilanza di una sola autorità – e non più delle singole autorità nazionali – su tutti i maggiori istituti di credito. Mentre a Bruxelles ci si confronta, anche in modo vivace, sui conti pubblici italiani, altri conti – quelli delle banche – si apprestano così a un esame europeo.

Per il mondo del credito la prova è doppia: ogni banca sarà sottoposta ad Aqr, o Asset Quality Review, e Stress test. Se volessimo tradurlo in termini comprensibili l’Aqr, che esamina in sostanza un campione di crediti concessi da ciascun istituto, è un po’ come un esame del sangue; gli Stress test, che simulano invece il comportamento dei conti di una banca in condizioni di difficoltà, somigliano a un elettrocardiogramma sotto sforzo. Proprio come quello che vi fanno sul tapis roulant per vedere come reagite a situazioni estreme. Se per una banca i risultati di Aqr e Stress test non dovessero arrivare a livelli minimi predeterminati, insomma se quella banca fosse giudicata non in grado di avere sufficiente patrimonio per la sua attività, le verrà prescritto un aumento di capitale. In pratica una cura ricostituente per rafforzare il patrimonio.

Ieri sera ogni banca ha ricevuto, in busta chiusa, i suoi risultati. Ma solo domenica tutte sapranno lo stato di salute di tutte le altre. In Italia ci saranno tredici banche esaminate. Gli analisti di mercato prevedono che la Carige non passerà l’esame e hanno dubbi sul fatto che il Monte dei Paschi di Siena ce la possa fare. Uno dei problemi è che l’esame del sangue fatto alle banche, il famoso Aqr, si basa sui dati al 31 dicembre 2013 – un anno brutto in generale e per l’Italia in particolare. È un po’ come se alla Banca centrale avessero fatto il prelievo quel giorno e adesso rendessero pubblici i risultati degli esami. Ma se uno che aveva i trigliceridi alti intanto si è messo a dieta, come si farà a capirlo? Per le banche italiane è un problema, visto che molte di loro in questi primi nove mesi del 2014 hanno effettivamente messo in atto azioni virtuose – ad esempio hanno venduto partecipazioni o hanno varato aumenti di capitale – per rafforzare il loro patrimonio. Così, dopo che da Francoforte arriverà il verdetto della Bce, toccherà alle autorità di vigilanza nazionali – da noi la Banca d’Italia – dettagliare che cosa ogni istituto ha fatto in questo periodo e come le sue analisi del sangue sono effettivamente migliorate.

Avrà senso questo esercizio che le stesse autorità nazionali stanno trovando molto macchinoso? Tornando alla nostra immagine iniziale, avranno significato analisi del sangue i cui risultati ciascuno tenderà poi a modificare o a rettificare a seconda di come si è comportato dopo il prelievo? Da un certo punto di vista sì, il significato c’è. In qualche modo – tutt’altro che preciso, ma comunque indicativo – ogni banca avrà dati trasparenti sullo stato di salute degli altri istituti. Nel migliore dei casi questo potrà portare anche a un aumento di fiducia all’interno del sistema. Anche gli investitori – chi compra direttamente azioni delle banche o chi magari si affida ai fondi comuni – avranno dei parametri per orientarsi meglio.

Ma assieme all’opportunità di una maggiore trasparenza, gli esami della Bce potrebbero offrire anche qualche rischio. Quale? Ad esempio che una visione troppo restrittiva porti a ricapitalizzazioni delle banche che inevitabilmente frenerebbero la concessione di credito. Una cosa è prestare 100 euro se a questo devi far fronte con 8 euro di capitale; un’altra è se di fronte allo stessa cifra prestata bisogna avere 10 euro di capitale. I banchieri italiani lamentano da tempo che il comportamento iper prudenziale dei regolatori – dopo la crisi finanziaria del 2008 molti pensano che per gli istituti sia meglio girare con cintura e bretelle assieme – rischia di penalizzare il credito, specie in un Paese come il nostro dove le imprese sono mediamente piccole e poco capitalizzate. Ovviamente le responsabilità non sono tutte dei regolatori. Ma è il caso di riflettere se non si stia esagerando con i requisiti di patrimonio delle banche in una fase in cui ci sarebbe bisogno di credito. In fondo anche il dogma dell’austerità dei bilanci pubblici come cura a tutti i mali, per anni vangelo della Commissione europea, è stato appena messo in discussione dal nuovo presidente Jean-Claude Juncker.

Scossa utile ma attenti ai rischi

Scossa utile ma attenti ai rischi

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

Matteo Renzi cerca di sparigliare le carte in tavola a Bruxelles provando a strapazzare protagonisti, palazzi e salotti buoni del potere europeo alla stessa maniera spudorata e guascona con cui a Roma ha attaccato, con determinazione e successo, quelli italiani. «Per un Paese come il nostro che ogni anno versa al bilancio europeo 20 miliardi e ha fatto una manovra da 36, uno o due miliardi in più non saranno un grande sforzo», spiega il presidente del Consiglio al suo arrivo al vertice Ue, minimizzando le contestazioni della Commissione Ue alla legge di bilancio per il 2015, ricordando che il Trattato prevede attenuanti per circostanze eccezionali, difendendo, in nome della trasparenza verso i cittadini, la decisione, criticata invece da José Barroso, di pubblicare la lettera confidenziale ricevuta da Bruxelles. Chiarendo, infine, che non tratterà con il presidente uscente della Commissione ma con il nuovo, Jean-Claude Juncker, in carica dal 1° novembre.

L’Europa non è abituata ad avere a che fare con un’Italia polemica e combattiva, che ribatte punto su punto e senza complessi alle reprimende Ue che fin troppo spesso le piovono addosso. Ma un’Italia più presente e partecipe nella squadra europea è un bene per il Paese e per l’Europa. Però non sempre brillanti show mediatici e negoziati ad alta voce sono gli strumenti migliori per centrare gli obiettivi. Sono cinque i Paesi che hanno ricevuto lettere con richieste di informazioni e chiarimenti sulle leggi di stabilità. A parte l’Italia, nessuno ha levato gli scudi né ha pubblicato i contenuti.

Invece tutti, Francia per prima, si limitano a trattare cercando di tirare acqua al proprio mulino, di smussare gli angoli dei patti europei a proprio vantaggio. «Le regole vanno interpretate con il massimo di flessibilità per incoraggiare il rilancio degli investimenti», ha ripetuto anche ieri il francese François Hollande. Che, dopo aver flirtato con Renzi inseguendo ambiziosi patti europei per la crescita, per ora solo immaginari, sembra aver ripiegato con discrezione sulla realpolitik di sempre: intesa con la Germania nel tentativo di massimizzarne lo scudo sui mercati con il minimo sforzo in termini di riduzione del deficit e di riforme da fare. Berlino non si fida di Parigi ma non può permettersi di tirare troppo la corda rischiando di scatenare una nuova tempesta sull’euro.

Proprio perché vuole riasserire la credibilità delle regole europee, pur sapendo che nell’attuale scenario di recessione e deflazione un eccesso di severità avrebbe effetti controproducenti per tutti, Angela Merkel si muove decisa ma senza clamori. Le stentoree prese di posizione di Renzi disturbano le sue manovre con Hollande ma, soprattutto, rischiano di fare dell’Italia il materasso delle concessioni ai francesi: non per cattiveria o arbitrario accanimento ma per dare ai mercati l’esempio di una coerenza nel rispetto dei patti europei che pure alla fine non ci sarà.

Quando Renzi evoca a gran voce le circostanze eccezionali per attenuare i morsi del rigore di bilancio fa il suo mestiere. Ma quando liquida in 1 o 2 miliardi l’entità dello sforzo aggiuntivo che gli verrà richiesto corre il pericolo di venire smentito. Perché è vero che l’economia italiana boccheggia e ha un disperato bisogno di crescita e investimenti ma è altrettanto vero che nel 2014 non ha rispettato l’impegno a una correzione strutturale dello 0,7%, la stessa prevista per il 2015, ma ha registrato un aumento del deficit dello 0,3. Visto che nella prossima Legge di stabilità lo sforzo si riduce allo 0,1%, lo scostamento di cui si discute ammonta all’1,6% del Pil, una cifra superiore ai 20 miliardi. Le circostanze eccezionali, che ci sono tutte, abbatteranno l’impegno richiesto: fino a 2 miliardi è forse è sperare troppo.

Che il cambio della guardia a Bruxelles porti più comprensione per le ragioni italiane appare un grosso azzardo: ricorda quello della sinistra europea quando contava sull’avvento della Spd al governo in Germania per scardinarne i dogmi rigoristi e dare una forte sterzata alla crescita. Juncker crede con convinzione nei benefici insiti nelle politiche di austerità e riforme ma ritiene altrettanto fondamentale rimettere in moto lo sviluppo con un piano da 300 miliardi in 3 anni. Però non è chiaro quali saranno i suoi reali margini di manovra. A sentire ieri la Merkel si direbbe sempre gli stessi: «I deficit più alti non aiutano la crescita, lo dimostra l’esperienza del passato. Dobbiamo coniugare sviluppo e consolidamento di bilancio». Decisamente la partita di Renzi in Europa rischia le sabbie immobili.

Perché serve la manovra espansiva

Perché serve la manovra espansiva

Guido Gentili – Il Sole 24 Ore

Nel lessico della minuziosa governance europea, dove le virgole possono prevalere sulle buone idee, nulla è casuale. Dunque, c’è poco da interrogarsi sul significato delle due parole (“deviazione significativa”) che sintetizzano l’analisi con cui la Commissione chiede spiegazioni al Governo italiano sulla sua strategia di bilancio. Nelle “Raccomandazioni” del Consiglio europeo del luglio scorso, quelle che richiedevano “sforzi aggiuntivi” per il rispetto del Patto di stabilità, c’era scritto che “nel 2014 è prevista una deviazione dal percorso di aggiustamento verso l’obiettivo di medio termine che, se si ripetesse l’anno successivo, potrebbe essere valutata come significativa, anche in base al parametro di riferimento per la spesa”.

Ecco, il piano del Governo Renzi per il 2015 è arrivato e la “deviazione” è diventata “significativa”. Il che, tradotto in chiaro, vuol dire che la partita tra Bruxelles (dove siamo al passaggio di consegne tra Manuel Barroso e Jean Claude Juncker alla guida della Commissione) e Roma si è appena aperta e che Matteo Renzi ha deciso di giocarla in attacco. Puntando, in Italia e in Europa, su una politica economica di rottura in chiave pro-crescita, impostazione oggi sostenuta con forza anche dalla Banca d’Italia. La posta in gioco è questa e la mossa del premier italiano, fino al 31 dicembre alla guida anche del semestre di presidenza europea, è politicamente significativa al pari della deviazione di bilancio che prospetta. Naturalmente, a patto di trarne tutte le conseguenze e mettendo in conto che non sarà una schermaglia verbale a far “cambiare verso” all’Europa, atteso che anche il nuovo presidente della Commissione Juncker (che promette a sua volta il piano europeo da 300 miliardi di investimenti entro Natale ma non ha specificato con quali risorse) sostiene che le regole non si cambiano e che flessibilità è quella prevista dai trattati. In questo, allineato con la posizione della Cancelliera tedesca Angela Merkel, che l’ha voluto al vertice del governo europeo.

L’Italia, terza economia dell’eurozona ma col nervo scoperto di un debito pubblico fin qui dimostratosi incomprimibile anche per la cronica assenza della crescita (ieri Eurostat ha segnalato che è appannaggio dell’Italia il più alto incremento del secondo trimestre 2014, +3,1% al 133,8%) ha assoluta necessità di una scossa. La stessa Commissione europea, nelle sue raccomandazioni del luglio scorso, metteva l’accento sulla necessità di ridurre il carico fiscale sul lavoro, “creare un ambiente più favorevole per le imprese”, riformare il mercato del lavoro. Oggi, la Banca d’Italia scrive nero su bianco che la scelte del Governo di far salire l’indebitamento netto del 2015 dello 0,7% del prodotto, facendo arrivare il rapporto deficit/Pil al 2,9%, appena sotto la fatidica soglia del 3%, “appaiono motivate”. “Un più graduale processo di riequilibrio può aiutare ad evitare – osserva la Banca centrale – una spirale recessiva della domanda e si giustifica se i margini di manovra che ne derivano saranno utilizzati efficacemente per rilanciare la crescita dell’economia e innalzare il potenziale di sviluppo nel medio e lungo termine”. Come dire che la legge di stabilità, ieri controfirmata dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano schierato contro la “paralisi” e che non si stanca di chiedere “cambiamenti veri”, va nella direzione auspicata.

Ma se da un lato Renzi può mettere oggi all’attivo la spinta in positivo di Bankitalia e Quirinale, dall’altro non può che essere consapevole fino in fondo della partita che ha aperto e che non potrà essere affrontata, a meno che non si punti ad un compromesso di piccolo cabotaggio dopo aver alzato la voce, a colpi di “uno o due miliardi li troviamo subito, anche domattina”. Né è immaginabile che l’atteso cambio di rotta della politica economica possa camminare sulle sabbie mobili di testi legislativi improvvisati e che si compongono nel tempo, riempiendo di volta in volta i buchi che emergono qua e là e che ri-attualizzano la retroattività come metodo di governo fiscale. Piuttosto, a partire dal Jobs Act e dall’attuazione puntuale delle riforme, sono le scelte chiare e lineari quelle che devono imporsi come fatti. Quanto pesa sui mercati, proprio perché l’Italia si misura qui ogni giorno sulla sostenibilità del suo debito, il fattore credibilità? È questa la domanda cui il Governo deve dare una risposta adeguata.

Casa, se le tasse pesano più della rendita

Casa, se le tasse pesano più della rendita

Salvatore Padula – Il Sole 24 Ore

Diciamo la verità. Fa un certo effetto confrontare la rendita catastale complessiva attribuita al patrimonio immobiliare italiano con il costo fiscale che tra imposte dirette, imposte indirette e tributi locali i proprietari sopportano ogni anno. Quasi 37 miliardi di euro di rendita contro oltre 50 miliardi versati annualmente al fisco fra tributi e balzelli.

Le tasse “pesano” molto più della rendita, per la precisione la superano di oltre il 35 per cento. Naturalmente, la rendita indica solo in teoria la redditività di un immobile. La realtà è diversa e sappiamo come la rendita non rappresenti il reddito figurativo che un proprietario ricava dal proprio immobile. Il nostro sistema di tassazione, infatti, utilizza come base imponibile il valore catastale di un fabbricato o di un terreno che si ottiene moltiplicando la rendita per determinati coefficienti che variano a seconda della tipologia dell’immobile.

In linea di principio, però, la sorpresa rimane. Perché, per azzardare un esempio, è come se un investimento finanziario fosse tassato non sul rendimento ottenuto (la rendita) ma sul valore del capitale, del patrimonio. Non scopriamo da oggi che la tassazione sul mattone ha raggiunto livelli esorbitanti (basti dire che prima del 2012, il gettito immobiliare complessivo del mattone non arrivava a 37-38 miliardi). È che ogni giorno diventa più evidente come sia urgente un ripensamento dell’intero sistema. Abbiamo, in primo luogo, un problema di tassazione locale degli immobili. C’è il caos della Iuc (Imu+Tasi) da risolvere, con l’impegno del governo ad andare verso un’imposta davvero unica, che consenta di superare la convivenza di Imu e Tasi, che sia più semplice da calcolare e, auspicabilmente, che, pur rispettando l’autonomia dei sindaci, possa evitare gli eccessi che abbiamo in questi mesi toccato con mano.

C’è, poi, un aspetto che la politica fatica a cogliere legato alla struttura dell’imposizione sul mattone. Nei sistemi in cui la tassazione è di stampo patrimoniale e il possesso dell’immobile subisce un prelievo significativo, la tassazione indiretta sui trasferimenti è generalmente contenuta. In Italia, non avviene così e alle pesanti pretese del fisco (locale) sul possesso di un immobile si aggiungono quelle altrettanto pesanti (dello Stato) sulle compravendite.

Sullo sfondo resta la riforma del Catasto. L’obiettivo è di eliminare le iniquità del sistema attuale (ci sono immobili simili con valori catastali molto diversi o valori catastali identici per immobili diversi tra loro). La revisione delle rendite restituirà basi imponibili molto più elevate rispetto a oggi, come molte simulazioni fanno chiaramente emergere. Se così stanno le cose, c’è allora da chiedersi che accadrà al gettito fiscale sul mattone. Crescerà con la stessa dinamica delle rendite? La delega fiscale, che fissa i criteri della riforma del Catasto, indica il principio dell’«invarianza di gettito». Quindi, nuove rendite più eque senza aumento di tasse. Ma ancora: sarà vero? E funzionerà il meccanismo che affida a governo e Parlamento il compito di vigilare per evitare i rincari? Qualche rischio, insomma, è dietro l’angolo. Ma attenzione: 50 miliardi di tasse sono già uno sproposito. Vediamo di non preparare il terreno a un nuovo pericoloso record.

Il rischio della manovra è il deficit di credibilità

Il rischio della manovra è il deficit di credibilità

Daniele Manca – Corriere della Sera

In quello che sta accadendo attorno alla bozza della legge di Stabilità c’è molto poco di ragionevole. Si è già detto, scritto e riconosciuto del coraggio che è stato necessario per scrivere una Finanziaria incentrata sulla parola «crescita». Nei prossimi giorni l’Europa farà domande, esprimerà indicazioni e giudizi. Ci troveremo a discutere di percentuali e percorsi di risanamento più o meno rispettati. Ma la vera sfida sarà combattere l’aumento di un parametro ben più insidioso, pericoloso e in drammatico aumento: il deficit di credibilità. Ricevere una richiesta di chiarimenti è già indizio di inosservanze più o meno gravi delle regole che si è data l’Unione Europea. Il governo italiano eccepirà e fornirà delucidazioni rendendo possibile il via libera. Ma non sarà una promozione.

Sulla spinta di una crisi che stava mettendo a rischio la stessa Europa, nel novembre 2011 si decise di cambiare le regole per i bilanci dei Paesi Ue. Nel riscrivere le norme era chiaro che da quel momento Bruxelles non si sarebbe impiccata ai decimali di punto di questo o quel parametro. Il governo di Matteo Renzi ha messo l’asticella del deficit al 2,9%. Ha scelto di camminare su una lastra di ghiaccio finissima. Potremo usare tutta la flessibilità che ci è permessa dal fatto di restare sotto il tetto del 39. Ma impegnandoci a rispettare altri parametri.

La bozza della legge di Stabilità è arrivata alla Ue il 15 ottobre, con quella francese, 5 giorni dopo quella tedesca, dopo la finlandese. Particolari ininfluenti forse. Ma a distanza di una settimana a Bruxelles sanno che il Quirinale ha ricevuto la bozza solo ieri. Che la Ragioneria dello Stato avrebbe messo in discussione alcune coperture. E che i numeri potrebbero cambiare. il via libera, se arriverà, più che sulle cifre sarà sugli impegni e quindi politico. Ma lo spettacolo di queste ore a quanto avrà fatto salire il deficit di credibilità? E quanto ci costerà? Le altalenanti piazze finanziarie sono sempre pronte ad abbandonare chi non rispetta i vincoli che si è dato, cambia numeri o mostra incertezza nelle scelte. E sono i mercati che acquistano i titoli del debito italiano, non Bruxelles.

Renzi è solo un disinvolto boyscout o sta cambiando la politica e il Paese?

Renzi è solo un disinvolto boyscout o sta cambiando la politica e il Paese?

Pierluigi Magnaschi – Italia Oggi

Renzi ha fatto macroscopici errori. Basti prendere la riforma del Senato. Aveva in mano una carta clamorosa, quella dell’abolizione completa, pura e semplice, del Senato stesso e l’ha sprecata puntando invece su una sua trasformazione pasticciata che non taglia i costi e, nei fatti, mortifica la democrazia. Ma, accanto agli errori, Renzi ha anche cambiato la politica, dentro e fuori il suo partito. Dentro e fuori anche dal perimetro della politica politicante. E lo ha fatto in un periodo di tempo incredibilmente breve, rispetto ai tempi brontosaurici della politica italiana. Renzi infatti ha conquistato il suo partito da solo un anno ed è al governo da soli sette mesi.

In un paese normale (ma l’Italia, sinora, non lo è stato) la classe dirigente politica apicale viene costantemente rinnovata, dall’andamento delle elezioni. Chi viene sconfitto dal voto, non viene immediatamente riciclato ma torna all’attività privata. Siccome però, in Italia, l’attività politica non è, di solito, una fase della propria vita professionale, ma soltanto l’intera e sola vita professionale di un leader politico, se quest’ultimo soccombe, non può essere mandato a casa perché, non sapendo fare nient’altro, finirebbe ai giardinetti, magari anche in relativa giovane età. La classe dirigente politica italiana è quindi a esaurimento. Non potendoci pensare gli elettori a darle il benservito, è solo la mano di Dio che, a un certo punto, ma per tutti, interviene dicendo: stop.

In un paese normale, l’invasione sovietica dell’Ungheria del 1956, che aveva dato una bella salassata a tutta la nomenclatura comunista occidentale, avrebbe mandato a casa la vecchia classe comunista. Da noi invece quella terribile e illuminante vicenda è passata come l’acqua sulle piume di un’anatra. Il successivo crollo del Muro di Berlino, avvenuto 25 anni fa, ridusse, comprensibilmente, ai minimi termini il Partito comunista francese (Pcf), che pure era stato il secondo più importante partito comunista in Europa occidentale (dopo il solo Pci). Da noi invece il crollo del Muro si è concluso con il cambio del nome del Pci avvenuto alla Bolognina da parte dell’allora segretario Achille Occhetto che infatti, paradossalmente, ma non tanto, fu poi l’unico a essere stato rottamato. A capo del Pci, nelle sue successive diverse sigle, sono rimasti, senz’alcun imbarazzo, gli uomini che si erano formati alla scuola di partito sui sacri testi marxisti, ritenuti per buoni.

Renzi ha dovuto battersi contro questo enorme moloch organizzativo, fatto non solo di parlamentari ma anche di sezioni, di sindacato (Cgil), di coop e soprattutto di enti locali, di Asl, di municipalizzate, di patronati. Una ragnatela immensa di interessi, di consuetudini, di condizionamenti e di posti di lavoro. Il successo di Renzi, che oggi sembra ovvio, ha dell’incredibile. E il fatto che, successivamente, non sia stato divorato dal Pd (che ha tentato di reagire ma non aveva più fiato in corpo) è ancor più inspiegabile. Il merito di questo cambiamento epocale, che è stato radicale ed ormai è anche irreversibile, è tutto e solo di Renzi che, coscientemente o meno, ha colto il momento. Il corpaccione Pd (a gestione Pci, perché questa è la realtà anagrafica del partito) era diventato torpido, indebolito com’era dalla troppa lunga consanguineità, dovuta al mancato ricambio della classe dirigente. Non a caso la sinistra Dc, dai Prodi alle Bindi ai Fioroni, per intenderci, (che ci si era insinuata nel Pd) aveva accettato l’ospitalità della nomenclatura e si era accontentata dello strapuntino offerto da chi aveva in mano le redini del partito.

Ma Renzi ha fatto altro e di più. Ha osato riportare i sindacati alla fisiologia che compete loro, in una società pluralistica, mettendo in riga anche il sindacato che è sempre stato l’azionista di maggioranza del suo partito: la Cgil. Un sindacato che, durante gli anni del centrismo imperante, bastava che accennasse di voler fare (non, facesse) uno sciopero generale, per indurre il governo a dimettersi immediatamente dallo spavento. Era lo stesso sindacato che, in occasione delle Finanziarie, pretendeva di sedersi a fianco del governo per determinarne le scelte. Per rendersi conto del salto di qualità fatto da Renzi e della sua radicale rottura rispetto alle prassi del passato, basti pensare che col governo Ciampi (non secoli fa, dunque) le trattative dei sindacati con il governo durarono per ben 41 giorni. Ciò voleva dire, sul piano simbolico (e, in politica, i simboli sono quasi tutto), che il sindacato, se era in grado di bloccare per 41 giorni l’attività del governo, aveva preso, di fatto, il governo per il collo come se fosse un pollo e lo avrebbe lasciato andare solo quando avesse ottenuto tutto quanto il sindacato voleva ottenere da esso. Ora, se il sindacato (che rappresenta solo i suoi iscritti; che, tra l’altro, sono enormemente gonfiati) ha la meglio sul governo, che rappresenta invece la maggioranza di tutti gli elettori, ciò significa che è stata alterata (nei fatti, in concreto e in profondità) la fisiologia democratica specificamente dettata dalla Costituzione tanto lodata a parole, quanto violata, e per così lungo tempo, nei fatti.

Con i sindacati, Renzi ha subito detto che essi sono degli organismi corporativi (nel senso che rappresentano degli interessi settoriali; legittimamente, intendiamoci bene) e che quindi non hanno nessun titolo per voler cogestire, con il governo, la politica economica che, sempre ai sensi della Costituzione, è di esclusiva competenza del governo stesso. Inoltre, al pari di altri grossi organismi di rappresentanza economica, anche i sindacati confederali hanno il diritto di essere informati dal premier sulle intenzioni del governo. Cosa che è regolarmente avvenuta: Renzi ha convocato le organizzazioni sindacali alle 8 del mattino (uno scandalo, a Roma) e ha finito l’incontro un’ora dopo, a palese e pubblica dimostrazione che si trattava di un incontro per fare una comunicazione, non certo di un incontro per intavolare una trattativa.

Lo stesso atteggiamento, Renzi lo ha assunto anche nei confronti della Confindustria che aveva nutrito, con gli anni, nei confronti del sindacato, e in particolare nei confronti della Cgil, una sorta di sindrome di Stoccolma che è la sindrome che si impadronisce dei sequestrati quando, in occasione dell’assedio della polizia per liberarli, i sequestrati stessi finiscono per solidarizzare nei confronti di chi li tiene prigionieri, contro la polizia che vuole liberarli. La sindrome è inevitabile ma non per questo può essere accettata. Questa complicità (al posto della salutare conflittualità fra sindacati e datori di lavoro) era infatti il frutto rancido della passata concertazione quando sindacati e imprenditori, quando non riuscivano a mettersi d’accordo, chiedevano (e ottenevano) di far mettere dal governo, la parte che mancava, affinché potesse essere raggiunta l’intesa.

Insomma Renzi, forse senza accorgersene completamente, in questo è molto boyscout, ha tirato già in Italia il Muro di Berlino di un passato che, da noi, non riusciva a passare. Non so che cosa riuscirà a fare in futuro. Ma sicuramente, in sette mesi, sfidando un potere decrepito, ha fatto ciò che nessuno politico era mai riuscito a fare nei precedenti settant’anni.

Bondage tributario

Bondage tributario

Davide Giacalone – Libero

Dal governo dicono: aboliamo il canone Rai. Bravi. Bravissimi. Applausi. Poi leggi con attenzione: hanno in animo di abolire la tassa per il possesso del televisore, ma introducono un obbligo di finanziamento della Rai, proporzionale al reddito e ai consumi, che grava su tutti i contribuenti, anche quelli che non possiedono il televisore. Meno bravi. Molto meno. Vabbe’, non lo aboliscono, ma lo riducono, facendolo passare dagli attuali 113.50 euro a una somma variabile fra 35 e 80 euro. Bravini. Però poi ci ragioni e ti accorgi che no, alla fine il prelievo fiscale aumenterà. E non solo perché sarà più facile colpire l’evasione, ma anche perché sarà lecito colpire le persone oneste. Che non è una bella cosa.

Come al solito, ci tocca ragionare sugli annunci. Costantemente divisi dai testi di legge da un congruo lasso di tempo. Questa volta l’attesa dovrebbe essere breve, dato che siamo alla fine di ottobre e sono prossimi alla stampa i bollettini da inviare agli italiani, in partenza a gennaio. Quei bollettini dovrebbero sparire e il corrispettivo dovrebbe essere pagato con il modello F24. Qui comincia la nebbia, perché dal governo dicono che ciascuna “famiglia” pagherà in ragione del reddito e dei consumi. Ma le famiglie non compilano dichiarazioni dei redditi e non pagano modelli F24, quelli sono i singoli contribuenti. Chi e come calcola il reddito e i consumi familiari? Ancora prima: cos’è una famiglia? Domanda pertinente, perché oggi la Rai non considera “famiglia” neanche marito e moglie, ove risiedano in case diverse, arrogandosi, una televisione di Stato, il diritto di stabilire che non basta un canone, ma ne devono pagare due. Una famiglia, due canoni. Del resto, pensate a tutte le unioni di fatto, etero od omosessuali: in attesa che si concluda l’ozioso dibattito su matrimoni, equiparazioni e diversità, fin qui era chiaro che se sto a casa mia (proprietà o affitto, non cambia) e pago il canone, ove ospiti, a scopo di lussuria o conversazione, un altro individuo, del mio sesso o di sesso diverso, quell’altro non è tenuto al pagamento del canone. Con la novità, invece, paghiamo tutti: quattro conviventi, quattro canoni.

Con la novità, del resto, paga il canone anche la badante del nonno. È stata assunta per assisterlo e conviverci, già oggi la Rai le manda il bollettino, trattandola da evasore senza che minimamente lo sia, ma domani non riceverà la missiva, non avrà casa propria, non possiederà un televisore, ma dovrà pagare. Diciamo che le stiamo fornendo una ragione in più per sposare il nonno. Sperando che il vegliardo sia ancora nelle condizioni di accorgersene e usufruirne, ma mettendo in conto che, in quel modo, ella s’appropria di una parte dell’eredità. Tirate le somme, si raggiunge una vetta d’illogicità ideologica: dopo avere sostenuto la bischerata che se pagassimo tutti pagheremmo meno, si realizza un sistema nel quale paghiamo tutti, paghiamo meno, ma ci costa di più. Segnalo la cosa perché, se riescono a farla, è degna dei manuali sulle perversioni fiscali. Una specie di bondage tributario.

Chiudo segnalando il reiterato imbroglio, dato che la Rai, nel succedersi di vertici politici, tecnici, professorali, al di sopra e al di sotto delle parti, continua a ripetere sempre la stessa solfa: il canone italiano è fra i più bassi d’Europa. È falso. Quel gettito copre il 50% del finanziamento Rai, ed essendo l’altra metà procurata da introiti pubblicitari, facilissimi da raggiungere perché con spazi illimitati, venduti anche a prezzi stracciati, in reti rette da soldi pubblici, ne deriva che ciò che lo Stato, con le sue leggi, garantisce alla Rai è il doppio del canone. Che, a quel punto, non è proprio per niente fra i più bassi d’Europa, ma il più alto. Si obietta: molti lo evadono. Sono dei cattivoni, perché non si evade. Ma hanno ragione, perché è un prelievo iniquo e insensato. Apposta sostengo che va abolito, cancellato, incenerito. Non camuffato e illegittimamente travestito da imposta progressiva sui redditi, quale con questa riforma diviene. E la Rai, come fa a campare? Vende, si ridimensiona. Magari prova anche a fare il servizio pubblico, sempre che si trovi qualcuno in grado di stabilire cosa sia.

Nel secolo di Internet tutti in attesa della bollinatura

Nel secolo di Internet tutti in attesa della bollinatura

Massimo Tosti – Italia Oggi

I retroscena sulla mancata «bollinatura» della ragioneria generale dello stato alla legge di stabilità porta ulteriore acqua al mulino di Renzi. Pare che la verifica sulla copertura finanziaria sia stata effettuata da una signora, alto funzionario della ragioneria, incaricata dei rapporti con palazzo Chigi (e delegata anche a partecipare alle riunioni preparatorie del consiglio dei ministri e del Cipe). Il ragioniere generale dello stato, Daniele Franco, si sarebbe irritato per essere stato scavalcato e, quindi, si sarebbe preso il tempo necessario per «bollinare» il provvedimento. Piccole beghe interne all’alta burocrazia, che (non a caso) il premier ha additato tra i responsabili dei ritardi, causati da procedure logoranti, che ostacolano l’azione di governo (e anche le attività imprenditoriali, e persino la vita dei comuni cittadini, costretti a riempire quintali di moduli inutili per sentirsi in regola con la piovra statale).

La «bollinatura», non a caso, è una pratica che risale all’Ottocento, quando il ragioniere generale aveva un bollo di stagno che apponeva sulla legge di bilancio. Erano i tempi di Silvio Spaventa e del pareggio di bilancio: preistoria rispetto alla comunicazione via web ed e-mail e al deficit spending. La burocrazia si muove ancora con la lentezza di centocinquant’anni fa, e dietro l’andatura da bradipo si nascondono anche le gelosie fra gli altri dirigenti. Il presidente Napolitano si è giustamente angustiato quando si è visto recapitare la manovra economica del governo senza i necessari bolli e controbolli, temendo che il governo avesse eluso l’obbligo di sottoporre all’organo di controllo la copertura finanziaria del provvedimento. Ma le cose non starebbero così (stando al gossip successivo).

Renzi esce rafforzato nel suo proposito di semplificare le procedure e di eliminare, per quanto possibile, l’onnipotenza dei funzionari. Quando, una decina di anni fa, Berlusconi denunciava l’impossibilità di governare questo paese, diceva una cosa giusta. Ma aveva il torto di essere l’uomo sbagliato per protestare. Renzi, che gode di un consenso popolare vastissimo, ha la chance di modificare le regole ed evitare le trappole insite in un sistema che fa acqua da tutte le parti.

In Europa qualcosa si muove

In Europa qualcosa si muove

Stefano Lepri – La Stampa

Il debutto di Jean-Claude Juncker davanti al Parlamento europeo mostra che qualcosa si muove: diventa sempre più chiaro che l’austerità non porta la ripresa, e che occorre cambiare strada. L’interrogativo è se il mutamento sarà abbastanza rapido da evitare uno scontro politico tra i maggiori Paesi dell’area euro. A poco è servito sceneggiare i rapporti tra Italia e Commissione europea secondo i ricordi del passato, bacchettate, bocciature, rimbrotti, sberleffi. Il «fondo di riserva» inserito nella manovra 2015 contiene i margini per intendersi a metà strada salvando la faccia a entrambe le parti, come probabilmente avverrà nei prossimi giorni.

Quale realtà corrisponderà poi alle cifre contabili, è tutto da vedere; e ha una importanza relativa. Di fatto, la manovra economica italiana rifiuta di rispettare alla lettera il «Fiscal Compact» europeo; questo andava pur detto, da chi ha il compito di dirlo. D’altra parte, ormai (quasi) tutti nel continente sanno o sospettano che applicare quella regola oggi sarebbe letale. Il nuovo presidente della Commissione europea, politico astuto, sta studiando come destreggiarsi. Un po’ di faccia severa contro Francia e Italia potrà forse aiutarlo ad ammorbidire la resistenza della Germania al piano di investimenti aggiuntivi per 300 miliardi sul quale si è di nuovo impegnato ieri mattina davanti all’assemblea di Strasburgo. Però l’accordo è già in vista.

I rischi sono altri. Un compromesso pasticciato come se ne sono conclusi tanti negli anni scorsi non risolverà nulla. L’attenzione va spostata altrove: il governo italiano dovrà soprattutto mostrarsi capace di riformare l’Italia sulle linee che ha promesso. Questo è il contributo migliore alla ripresa in un’Europa purtroppo paralizzata nei suoi due centri politici più importanti.

A Parigi non si riesce a decidere quasi nulla (e sì che tanti in Italia esaltavano la repubblica presidenziale!). A Berlino ci si comporta come se nulla stesse accadendo. Negli anni scorsi avevano aggravato le difficoltà dell’area euro contrastanti interessi nazionali, legati anche a questioni di potere bancario. Ora, a impedire di uscire dalla crisi è soprattutto il peso di idee vecchie. In Francia si tratta soprattutto della «sinistra passatista, nostalgicamente attaccata a un passato lontano» nelle parole del primo ministro Manuel Valls che se ne vuole distanziare; una sinistra ostile perfino a liberalizzazioni tipo quelle di Prodi e Bersani nel 2006, che non esita a far traballare il governo quando l’estrema destra xenofoba è lanciatissima nei sondaggi. Nell’altro caso si tratta della maggioranza di governo tedesca, orgogliosa di un passato più recente, della Germania che si risolleva negli anni Duemila e supera la prima fase della crisi senza perdita di posti di lavoro; eppure oggi solo capace di impartire agli altri Paesi prediche obsolete e di far muro contro tutte le iniziative che Mario Draghi studia per ravvivare l’economia.

All’interno della Banca centrale europea le idee nuove si sono fatte strada, ultima prova un discorso tenuto dal membro del direttorio Benoît Coeuré qualche giorno fa: le riforme strutturali sono indispensabili ma nell’immediato possono perfino essere controproducenti se non si avrà allo stesso tempo un impulso della politica di bilancio da parte dei Paesi che se lo possono permettere. L’unica speranza sta nell’adoperare insieme tutti gli strumenti, perché combinati funzionano meglio. L’Italia ne è un esempio chiaro. A poco servirebbero cali di tasse anche forti oppure buoni investimenti se non si ha – dalle strutture dello Stato, dalla vita pubblica – l’impressione che in questo Paese valga la pena darsi da fare, impegnarsi, scommettere sul futuro.

Un bluff i conti del governo

Un bluff i conti del governo

Mario Baldassarri – Panorama

Il governo ha detto che la manovra per il 2015 «pesa» 36 miliardi di euro, con 18 miliardi di tagli di tasse e 15 miliardi di tagli di spesa. Questi numeri sono poi stati diffusi e amplificati pedissequamente da tutti i media. C’è un problema. però. Quei tagli di tasse e di spese sono riferiti ai valori «virtuali» delle previsioni tendenziali per l’anno prossimo, numeri che non sono ancora «entrati» nell’economía reale e finanziaria italiana. Ciò che invece conta per l’economia sono i dati «veri» del prossimo anno, che si avranno «dopo» aver tagliato o aumentato i valori virtuali delle previsioni tendenziali. Se quest’anno ho speso 1.000 euro e prevedo di spenderne 1.200 l’anno prossimo, un «taglio» di 100 euro sui 1.200 «previsti» significa un aumento di 100 euro rispetto a quest’anno e non una diminuzione. I numeri riferiti ai dati tendenziali virtuali del 2015 (che esprimono la manovra da 36 miliardi) e i numeri che si ottengono dopo i tagli di tasse e di spese proposti vanno confrontati con i dati veri dell’anno in corso, cioè il 2014.

Sul fronte delle entrate si vede allora che:
1) Gli 11 miliardi di deficit in più in realtà determinano un deficit pubblico del 2015 esattamente uguale a quello di quest’anno. Quindi. .. nessuna risorsa in più o in meno.
2) I 15 miliardi di spending review sono in realtà 10,3, poiché 2,7 miliardi sono già stati fatti quest’anno e i tagli alle regioni determinano rispetto a quest’anno una riduzione di soli 2 miliardi.
3) Dei 3,6 miliardi di aumento della tassazione sulle rendite finanziarie, 2,2 miliardi sono già stati realizzati nel 2014: il vero effetto sul 2015 è di 1,4 miliardi in più.
4) I 3,8 miliardi da lotta all’evasione si possono contabilizzare dopo averli realizzati e non ex ante (su questo la Commissione europea potrebbe avere da ridire).
5) Il miliardo di riprogrammazione significa solo spostare nel tempo futuro quelle spese e non ha niente a che vedere con il confronto con le spese del 2014.

Sul fronte delle spese si verifica che:
1) Dei 9,5 miliardi di bonus fiscale, 6 miliardi sono già stati dati quest’anno, quindi nel 2015 avremo soltanto 3,5 miliardi in più.
2) Dei 5 miliardi di riduzione Irap, 1,5 miliardi erano già stati dati nel 20l4, quindi le imprese avranno un ulteriore sgravio pari a 3,5 miliardi. Va detto inoltre che il gettito totale Irap è pari a circa 24 miliardi di euro. Il costo del lavoro rappresenta il 50-60 per cento della base imponibile. Se si eliminasse totalmente il costo del lavoro dall’Irap il mancato gettito sarebbe di 12-13 miliardi
di euro. Pertanto, con 5 miliardi si riuscirà a ridurre solo il 35 per cento del costo del lavoro dall’Irap.
3) 1,9 miliardi assegnati alla decontribuzione dei nuovi assumi a tempo indeterminato non possono essere considerati come maggiori spese o minori entrate. Infatti, se si attiverà più occupazione che altrimenti non si sarebbe ottenuta, l’Inps non riscuoterà i relativi contributi, ma lo Stato riscuoterà una maggiore Irpef che controbilancia quasi esattamente il mancato gettito contributivo. Se invece il provvedimento non attivasse nuove assunzioni non ci sarebbe allora alcun onere da parte del bilancio pubblico.
4) L’eliminazione delle maggiori imposte per 3 miliardi che sarebbero scattate l’anno prossimo è cosa «buona e giusta». Ma questo non significa alcuna riduzione di imposte rispetto al 2014 visto che ancora per nostra fortuna non c’erano.
5) La somma messa sugli ammortizzatori sociali per l,5 miliardi sembra essere aggiuntiva. Ma rispetto a cosa? Se, come tutti speriamo, i cassaintegrati si riducono forse dovremo spendere anche meno di quanto speso quest’anno. E se aumentassero?
6) I 3,4 miliardi di «riserva» potrebbero svanire se qualcuno non accettasse di contabilizzare i 3,8 miliardi di lotta all’evasione.
7) I 6,9 miliardi di conferma di provvedimenti della legislazione vigente erano già compresi nei numeri virtuali delle previsioni tendenziali e corrispondono, più o meno, a spese effettuate anche quest’anno.

Nel complesso, nell’economia italiana nel 2015 rispetto al 2014 ci saranno 13,3 miliardi veri in più di entrate (e non 36) e 11,8 miliardi in più di spese «vere» (e non 36). Dei 13,3 miliardi di maggiori entrate ne avremo 10,3 da tagli di spesa e 3 da maggiori tasse. E questi tagli di spesa sugli enti locali sono pressoché lineari. Infatti, non sono mirati alle tre voci di spesa che, in tutti gli enti pubblici, contengono sprechi, malversazioni e ruberie: acquisti di beni e servizi, fondi perduti ed ex municipalizzate. In più c’è il rischio che regioni ed enti locali aumentino le tasse anziché tagliare le spese.

Degli 11,8 miliardi di maggiori spese avremo 4,8 miliardi di sgravi fiscali alle famiglie. Tra questi appaiono 500 milioni di euro che andranno come buono-bebè agli oltre 500 mila bambini che nasceranno nel 2015. Ma se il bonus va dato per 3 anni, allora il costo nel 2016 è pari a l miliardo e dal 2017 in poi a 1,5 miliardi. Da dove si prendono? Ci sono poi 3,8 miliardi di sgravi fiscali alle imprese e 3,2 miliardi di maggiori spese per le assunzioni nelle scuole, per l’allentamento del Patto di stabilità interno, per il cofinanziamento e per le briciole a Giustizia, Roma Capitale e Milano Expo.

Alla luce del peso vero della manovra, appare quindi condivisibile e coerente la previsione del governo che stima, con la legge di stabilità e le riforme strutturali, una maggiore spinta alla crescita pari al più 0,1 per cento nel 2015 e al più 0,2 dal 2016 in poi. Purtroppo però con questi impulsi la disoccupazione aumenta almeno fino al 2016. Da dove verranno allora gli annunciati 800 mila occupati in più?