Edicola – Opinioni

I nostalgici del Novecento

Pierluigi Battista – Corriere della Sera

Ogni sterzata in senso riformista in Europa occidentale ha un prezzo: l’inasprirsi della guerra tra le due sinistre. Oggi è il turno della Francia e dell’Italia, le ultime trincee ideologiche di una sinistra immobilista e conservatrice che teme ogni cambiamento come una profanazione, se non un tradimento della propria identità, e nobilita ogni difesa corporativa con il richiamo rituale ai sacri princìpi violati dall’«usurpatore» di turno. I piloti dell’Air France che bloccano il Paese per protestare contro i piani di sviluppo della compagnia low cost controllata dal gruppo sono i cugini d’Oltralpe dei sacerdoti che si sentono chiamati alla missione di difendere il dogma dell’articolo 18: una clausola oramai sempre più sconosciuta nella realtà del lavoro, nell’orizzonte esistenziale dei giovani, dei lavoratori delle piccole imprese e del commercio, dei vecchi e nuovi precari, dei vecchi e nuovi disoccupati.

Le svolte riformiste comportano gravi prezzi di popolarità e di consenso. Tony Blair ingaggiò un’interminabile e spietata battaglia contro il potente ma oramai decrepito establishment del vecchio Labour e solo grazie a quella offensiva coraggiosa riuscì a sfidare con successo la lunga egemonia dei Tories thatcheriani. Nella Germania del 2003 l’allora leader socialdemocratico Gerhard Schröder fu molto baldanzoso ed esplicito nel presentare un progetto riformista sul mercato del lavoro: «Ridurremo le prestazioni sociali dello Stato, promuoveremo la responsabilità individuale ed esigeremo un maggior contributo da parte di ciascuno». Fu una ricetta dolorosissima per la sinistra tedesca, che si spaccò, erodendo la base dei Socialdemocratici, pagò un duro prezzo elettorale ma contribuì alle riforme di cui la Germania aveva bisogno e che oggi fanno la differenza con tante nazioni dell’Europa mediterranea e latina. Oggi è la volta della Francia e dell’Italia, la culla della sinistra «latina», fortemente segnata dalle sue tradizioni politiche e sindacali, arroccata nelle sue fortezze ideologiche. E anche qui la guerra tra le due sinistre si annuncia feroce e cruenta.

Alla Francia di Hollande non basta certo la testa dei tre ministri del governo Valls, e in particolare di quella del ministro dell’Economia Montebourg sostituito dal neoministro Macron, socialista certo ma con un passato di banchiere. Già con Mitterrand, il massimalismo ideologico della sinistra francese subì fortissimi colpi. Nel primo mitterrandismo la sinistra socialista pagò il prezzo della sua alleanza con il Pcf, ma quella fase si chiuse, con una rottura e una guerra tra le due sinistre che si esaurì provvisoriamente con la disfatta di quella più vecchia e conservatrice. In Italia la bandiera di un riformismo capace di sfidare i tabù e i veti di un sindacato impermeabile alle innovazioni più radicali nel mondo del lavoro venne dapprima impugnata da Massimo D’Alema: ma il braccio di ferro fu vigorosamente vinto dalla Cgil di Sergio Cofferati, che qualche anno dopo, riempiendo le piazze e trascinando l’intera sinistra politica di allora, sconfisse anche il tentativo di Berlusconi di modificare l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Oggi Francia e Italia sono nuovamente di fronte a una biforcazione fatale: mettersi in gioco fino a sfidare tabù consolidati e apparentemente invincibili, oppure ripiegare su un minimalismo di compromesso che forse potrebbe salvare «l’anima» della sinistra antica ma farebbe fallire per l’ennesima volta l’ambizione di una sinistra moderna e non più prigioniera dei suoi schemi.

Trasformatore o trasformista?

Trasformatore o trasformista?

Davide Giacalone – Libero

Chissà se Susanna Camusso si è mai chiesta come mai tanti giovani italiani lavorino a Londra, mentre i giovani inglesi che lavorano a Roma sono delle rarità. I malpancisti sono divenuti tutti monetaristi immaginari, sicché credono che la formula vincente sia l’autonomia della valuta e la svalutazione. Peccato che quella sia la ricetta che ci ha portati alla perdizione, mentre furono le riforme di Margaret Thatcher a evitare che il Regno Unito scivolasse in un altrimenti inarrestabile declino. Fra quella sinistra (che non sta solo a sinistra) e Matteo Renzi, quindi, mille volte meglio il secondo. Ma c’è un ma. E neanche uno solo.
Tutto sta a capire se si tratta di un trasformatore o di un trasformista. Ce ne sono di buoni e cattivi. Le alleanze cavourriane, ad esempio, furono un bene, il trasformismo successivo un pantano. La parte virtuosa (allora come oggi) consiste nel trovare forze diverse che convergono nel rendere possibile quel che è necessario. La parte viziosa (sempre presente) s’incarna nel tentativo di rappresentare sentimenti e interessi fra loro inconciliabili. Dove va inquadrato Renzi? Non è un trastullo, perché dalla risposta dipende anche la possibile durata del governo in carica e, conseguentemente, della legislatura. Nata male e (fin qui) sopravvissuta malamente.

Comparve sulla scena nazionale come trasformatore della sinistra, talché qui applaudimmo. Non tutto quello che si diceva alla Leopolda era convincente, ma lì si trovava la rottura con gli ideologismi di una sinistra irrimediabilmente compromessa con una tara genetica: il comunismo. Lì c’era l’embrione della sinistra moderna, pragmatica, occidentale. Il primo sintomo negativo fu l’ossequio al centralismo democratico, secondo cui: fai la battaglia nel tuo partito, ma se la perdi ti allineai alle tesi dei vincitori. Sembra lealtà, ma è stalinismo. È l’idea che il partito conti più della collettività, che la fedeltà valga più della libertà. Non è un caso che oggi Renzi pretenda che a quel principio si attengano i suoi oppositori, ora in minoranza come lo fu lui.

Il primo atto qualificante del suo governo, e fin qui anche il più ricordato, il più citato, il più rivendicato, quindi, in buona sostanza, l’unico significativo, è stato la retrocessione fiscale di 80 euro mensili a un congruo gruppo di contribuenti (tutti fra i protetti). Un gesto in perfetto stile Carlo Donat Cattin. Prima sindacalista, poi capo della corrente democristiana Forze Nuove.(Considerandolo un errore grave, trovo curiosa la polemica sugli effetti, perché se hai la febbre a 40 e prendi la tachipirina, non pretendi che cali dopo pochi minuti, ma va anche detto che questo era ciò che si aspettavano al governo).

Come il vecchio ministro democristiano del lavoro, Renzi non teme di sfidare il sindacato di sinistra, la Cgil, ma lo scavalca a sinistra. Da qui le chiusure a Camusso e la corrispondenza d’amorosi sensi con Maurizio Landini. Amore ora infranto. La dottrina di Donat Cattin, certo non l’unico a sostenerla, accompagnato da tanti keynesiani capaci di far rivoltare nella tomba il grande di Cambridge, la sua idea che la politica possa togliere allo Stato per dare agli elettori, consumare oggi per lasciare al domani il compito di pagare, è alla radice del processo che ha trasformato una poderosa macchina produttiva in un trabiccolo indebitatissimo, con il motore ancora vivo e la carrozzeria miseramente sfasciata.

Chi scalò il Pd da destra s’è poi prodotto in uno scavalcamento a sinistra di Pier Luigi Bersani e compagni. E questo è trasformismo. Chi alla Leopolda evocò casi di malagiustizia, ricordando che un procedimento in corso non significa colpevolezza e non può comportare ostracismo, poi plaudì l’idea che i manager inquisiti dovessero essere allontanati, salvo affermare che un manager inquisito deve restare al suo posto, dopo avere stabilito che al loro posto rimangono i sottosegretari in quelle condizioni, mentre vanno in galera i parlamentari per i quali si chiede l’arresto, anche se solo indagati e non ricorrendo neanche uno dei motivi per cui un qualsiasi cittadino dovrebbe poter essere privato della libertà. Trasformismo. Anche confusionario.

Poi, però, annuncia la fine dello statuto dei lavoratori e da una spallata all’articolo 18. Trasformatore. Quali dei due? Lasciando da parte preferenze e tifoserie, puntiamo alla prova dei fatti. Renzi, come Berlusconi, dice di essere un bipolarista. Bene. Vuole una legge elettorale che stabilisca chi vince. Bene. La vuole subito, e questo è male. Male perché non ha senso: se si vota subito si vota anche per il Senato e quella legge non potrà mai funzionare. Ma lui dice: si vota nel 2018. Bene, facciamo finta. E come ci arriviamo, al 2018? Posto che la maggioranza di governo già oggi si regge con parlamentari eletti da elettori di destra, ci arriviamo con un connubio che tenga assieme i riformisti, che porti il Nazareno sui temi economici, come qui sostenuto fin dall’inizio. Questo è da trasformatori. Se si nega tale passaggio, enunciando riforme che poi non potranno farsi, degradandosi in vessilli vuoti, allora si è trasformisti. Il tempo costa e ne abbiamo già buttato parecchio. I video con Marta e Giuseppe sono solo propaganda. Ci vuole pure quella, come il sale sulla bistecca. Di solo sale, però, si crepa in fretta.

Il semaforo ideologico

Il semaforo ideologico

Maurizio Ferrera – Corriere della Sera

Le riforme vanno fatte osservando i problemi concreti della società e non i semafori delle ideologie. E in politica chi strilla di più non merita necessariamente di ricevere maggiore attenzione. Queste celebri affermazioni di Tony Blair forniscono un’utile bussola per valutare ciò che sta accadendo in Italia sul fronte del lavoro. Giovedì scorso il Senato ha approvato in Commissione il disegno di legge delega noto come Jobs act . Gli obiettivi sono molteplici e ambiziosi: estensione e rafforzamento degli ammortizzatori sociali e delle politiche per l’impiego, misure per l’occupazione femminile e la conciliazione vita-lavoro, semplificazioni di norme e adempimenti, anche al fine di attirare investimenti esteri. Il testo contiene inoltre una delega al governo per introdurre un nuovo «contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti» che superi l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.

Su quest’ultimo punto si è scatenata l’opposizione dei sindacati, Cgil in testa, e di una parte del Pd. In base a un riflesso quasi automatico, il semaforo ideologico della vecchia sinistra ha subito acceso la luce rossa. L’idea di ricalibrare le tutele per i nuovi assunti (senza toccare, si badi bene, i contratti in essere) è stata bollata come un inaccettabile attacco ai diritti fondamentali e alla stessa dignità dei lavoratori. I sistemi europei che non prevedono il reintegro in caso di licenziamento sono forse delle giungle? Tutti hanno ovviamente il diritto di esprimere (anche «strillando») la propria opinione. Per chi è interessato alle buone riforme, la domanda da porre è però molto semplice: il Jobs act affronta in modo serio i problemi concreti dell’economia e della società italiana di oggi? E fornisce risposte promettenti?

Com’è tristemente noto, il dramma del nostro mercato del lavoro riguarda soprattutto i giovani: due milioni e 300 mila senza occupazione e altrettanti «precari». Su cento fortunati che trovano un lavoro subordinato, meno di 50 hanno un contratto a tempo indeterminato: in Francia e Germania sono più di 60, nei Paesi nordici e in Gran Bretagna (dove ha governato la Thatcher) sono più di 70. La stragrande maggioranza del mondo giovanile non conosce né l’articolo 18 né la cassa integrazione. I contratti atipici hanno scarsissime tutele in caso di mancato rinnovo e conseguente disoccupazione. Meno di un quarto di chi ha un lavoro dipendente riceve formazione professionale: in Germania e in Gran Bretagna almeno la metà, in Danimarca il 75%. Non v’è da stupirsi se i sondaggi internazionali rivelano che i nostri giovani (soprattutto le donne) sono i più insicuri, i più scoraggiati e pessimisti rispetto alle chance di carriera, i più angosciati dal timore di perdere il posto e non trovarne un altro.

È a questi problemi concreti che guarda il Jobs act , con un duplice intento. Da un lato, fare in modo che le imprese tornino ad assumere con contratti «buoni», a tempo indeterminato, investendo sulla formazione dei giovani. Dall’altro lato, assicurare a tutti un pacchetto di sostegni in denaro e in servizi per far fronte agli eventuali periodi di disoccupazione. La sequenza virtuosa su cui scommette il Jobs act è questa: con un sistema di regole più semplici e flessibili, le imprese assumeranno di più, e con contratti molto più stabili di quelli attuali. Le tutele saranno estese e rafforzate, ma in forme compatibili con la flessibilità, anche in uscita: non riguarderanno più il singolo posto di lavoro, bensì la transizione da un posto ad un altro, come avviene in tutti i Paesi Ue. Se la sequenza si attiva, la riforma contribuirà a risolvere il problema economico-sociale più drammatico che il nostro Paese si trova ad affrontare dopo la ricostruzione post-bellica e la crisi degli anni Settanta.

Il Jobs act che andrà preso in votazione al Senato è lungi dall’essere perfetto. Per superare l’articolo 18 basta una norma, mentre per allargare le tutele occorre un lavoro difficile e paziente di progettazione istituzionale, finanziaria, organizzativa. Una sinistra pragmatica e responsabile incalzerebbe il governo su questo fronte, invece di arroccarsi a difesa dello status quo. D’altro canto, un mondo imprenditoriale che ha molto da guadagnare dalla riforma potrebbe ben dare qualche segnale positivo: ad esempio confermando pubblicamente che la scommessa del Jobs act non è un azzardo, che le imprese sono pronte a fare la loro parte. Ci aspettano settimane di turbolenza politica e sociale. Il governo ascolti tutti, anche chi strilla, e non esasperi lo scontro. Ma vada avanti per la sua strada: il semaforo che conta è quello delle buone soluzioni ai problemi reali degli italiani, non quello delle vecchie sirene ideologiche.

Troppa paura di quella borsetta

Troppa paura di quella borsetta

Danilo Taino – Corriere della Sera

Il Regno Unito è sugli scudi. Giustamente, dopo la conclusione della bella e democratica battaglia di Scozia. Una parte dell’Italia, però, continua a parlare della Gran Bretagna e della sua storia recente attraverso stereotipi. Due giorni fa, la leader della Cgil Susanna Camusso ha accusato Matteo Renzi di pensare alla Thatcher quando parla di riforma del mercato del lavoro. Il presidente del Consiglio ha garantito di non avere in mente la ex primo ministro britannico. Ancora una volta, la Iron Lady è tratteggiata come un simbolo dell’ingiustizia sociale, come un disastro accaduto a una Nazione. Non è proprio cosi.

Negli Anni Settanta (Margaret Thatcher fu eletta la prima volta nel 1979) la Gran Bretagna non era solo un Paese noioso. Era in ginocchio e spaccata. Perso l’impero, niente sembrava più funzionare, nell’economia e tra la gente Nonostante la società ribollisse di creatività, a cominciare dalla musica, tutto si riduceva a scontri: destra-sinistra, sindacati-imprenditori, protestanti-cattolici, ragazzi-ragazze, ricchi-poveri. Thatcher fu lo choc che cambiò il Paese: liberò energie, mise in retromarcia il declino. Quando arrivò al potere, il 50% delle famiglie non possedeva un’auto. Solo poco più del 30% aveva un telefono. Nel 1981, i britannici fecero 19 milioni di viaggi all’estero. Oggi, l’83% ha un’automobile, più del 99% delle famiglie ha un telefono fisso o dispone di cellulari, i viaggi all’estero sono triplicati.

È vero che in trent’anni questi indici sono migliorati in tutta Europa: ma è ancora più vero che ciò in buona misura è avvenuto grazie alle privatizzazioni e alle liberalizzazioni – delle quali Thatcher fu pioniera nel mondo – che hanno creato competizione e innovazione, dai telefoni agli aerei. Rispetto al 1981, la spesa dei britannici per le comunicazioni è cresciuta del 500%, per il turismo del 400%, per abiti e scarpe del 400%. Nel 1979, l’83% della classe operaia visitava regolarmente un pub dove giocava a biliardo o a freccette e c’erano 3,7 milioni di pescatori. Oggi, più del 20% di uomini e donne va regolarmente in palestra. Nel 1976, il 44% dei maschi fumava, quota oggi ridotta di oltre il 50%. Ancora più importante, dal punto di vista della mobilità sociale introdotta in una società prima bloccata: nel 1977, si contavano 754 mila studenti universitari a tempo pieno o part-time; oggi sono 2,4 milioni e nessuno può seriamente dire che la laurea in Gran Bretagna sia riservata alle élite, come invece era prima.

Questi dati – in buona parte messi assieme dallo storico Niall Ferguson per il suo pamphlet Always Right – indicano forse ancora più dei dati sull’economia la trasformazione sociale indotta dalla Iron Lady, la scossa profonda data a un intero Paese che non era solo in declino ma pensava che quello fosse il suo destino, che non ci fosse più nulla da fare. Invece di ripetere stanchi stereotipi, l’Italia di oggi dovrebbe forse prendere nota; reagire si può. Si tende a paragonare Renzi a Tony Blair: ma, nella rinascita, Blair arriva dopo, prima c’è la borsetta di Margaret Thatcher.

Renzi non paga. Trattiamo

Renzi non paga. Trattiamo

Alessandro Sallusti – Il Giornale

Matteo Renzi ha perso la scommessa fatta in diretta tv nel salotto di Bruno Vespa, con me casuale testimone: lo Stato non è riuscito a pagare entro il 21 settembre i suoi debiti con imprese e fornitori. Mancano all’appello 35 dei 60 miliardi e poco importa se la colpa è della politica, della burocrazia o di chiunque altro. Tra le tante promesse questa era sicuramente la più importante. Altro che legge elettorale, altro che ridimensionamento del Senato o rivoluzione nella scuola. Trentacinque miliardi sono una montagna di soldi che avrebbero potuto salvare imprese e famiglie dalla morsa della crisi. Azzerare i debiti della pubblica amministrazione era e rimane la più urgente delle riforme. Se la Camusso, la Cgil e i sindacati tutti, invece che rompere i santissimi per boicottare la riforma del lavoro avessero protestato, urlato e scioperato per ottenere il pagamento dei debiti, avrebbero fatto cosa meritoria per i lavoratori e il Paese intero. Perché una cosa è certa: il lavoro lo si difende solo aiutando e proteggendo gli imprenditori, soprattutto quelli medi e piccoli. Cosa questa a cui ha rinunciato anche Confindustria, un carrozzone che negli ultimi anni, sotto la gestione di Montezemolo e della signora Marcegaglia, ha avuto colpe nella conservazione sfascista non di molto inferiori a quelle dei sindacati.

Se i destinatari dei rimborsi – in maggioranza piccole e medie imprese – fossero stati storicamente decisivi per formare il consenso elettorale della sinistra sono certo che l’impegno di Renzi a mantenere la promessa nei tempi indicati sarebbe stato ben altro. Purtroppo per loro non è così. E allora ecco la necessità che il centrodestra, che di quelle categorie è il principale referente politico, aiuti sì Renzi nella sua spallata al sindacato e in generale ai più biechi conservatorismi che ostacolano la ripresa. Ma non gratis. Chi produce beni per venderli (anche) allo Stato – così come poliziotti e carabinieri – non vale meno dei dipendenti meritevoli degli ottanta euro, degli insegnanti. Fare ostruzione sulla nomina dei membri laici della Consulta e del Csm è roba loro. Ci piacerebbe vedere presto deputati e senatori del centrodestra bloccare il Parlamento per sbloccare i 35 miliardi che mancano all’appello. Oppure appoggiare la riforma del lavoro di Renzi se unita a un decreto che sospende il pagamento degli oneri aziendali per i nuovi assunti (costo zero per l’erario). Insomma, fare – assieme a Renzi – cose liberali.

Il nuovo che spaventa un sindacato vecchio e la sinistra immatura

Il nuovo che spaventa un sindacato vecchio e la sinistra immatura

Pietro Reichlin – Il Mattino

L’opposizione della sinistra del Pd al contratto a tutele crescenti è la prova definitiva che sul lavoro si gioca una battaglia politica che ha poco a che fare con l’obiettivo di portare il nostro paese fuori dal ristagno economico. Tutti sanno che l’articolo 18 non crea e non conserva neanche un posto di lavoro, soprattutto per i giovani e nelle aree del paese dove esiste una vasta economia sommersa. Poche imprese sono oggi disposte a offrire un contratto a tempo indeterminato a chi entra sul mercato del lavoro. Pesano le incertezze legate all’inserimento e alle capacità dei nuovi assunti, la difficoltà di dimostrare la giusta causa nel caso di risoluzione del contratto per motivi economici e, soprattutto, i costi fiscali e contributivi che gravano sui contratti a tempo indeterminato. La conseguenza è che i giovani si devono accontentare di contratti a termine o a progetto o sono costretti ad aprire una partita IVA sopportando costi esorbitanti. Il contratto a tutele crescenti potrebbe contribuire a facilitare un’assunzione regolare, eliminare il percorso a ostacoli del rinnovo sequenziale di contratti a termine, portare il rapporto tra giovani e datori di lavoro su un sentiero di stabilità e reciproca fiducia, rendere più conveniente l’addestramento professionale. La via giudiziaria alla difesa del posto di lavoro, viceversa, non fa che incrementare il sommerso e scoraggiare la creazione di nuove imprese, soprattutto dove è già difficile essere competitivi, come nel Mezzogiorno. Tutto ciò determina nuove iniquità e una spaccatura crescente tra le diverse aree del paese.

Naturalmente, ciò non significa che il contratto a tutele crescenti sia una panacea. Basterà ad eliminare l’abuso dei contratti atipici? Il recente decreto Poletti che semplifica l’uso dei contratti a termine è coerente con l’ipotesi di fare del contratto a tutele crescenti la strada maestra per l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro? Non è detto che tutto funzionerebbe come promesso dagli estensori del progetto. Non bisogna dimenticare che la chiave di volta del successo della Germania sul versante della ripresa economica e dell’occupazione è stata principalmente il decentramento della contrattazione e la flessibilità invece, di agitare lo spettro dell’articolo 18. Un atteggiamento speculare a quello del Centrodestra, che vede, invece, nell’articolo 18, un’occasione per aprire nuove ferite a sinistra. Ma quale sarebbe la lesione dei diritti che il contratto a tutele crescenti verrebbe a creare? Si crede veramente che la preoccupazione di non essere adeguatamente protetti da un giudice in caso di licenziamento per ragioni disciplinari immotivate, o per discriminazione sindacale, sia in cima ai pensieri di un giovane interessato a un rapporto di lavoro stabile e duraturo? È forse meglio rinunciare a ogni cambiamento e rimanere con un vero precariato senza neanche un indennizzo monetario per chi perde il lavoro?

Si può comprendere che il sindacato veda nel contratto a tutele crescenti il pericolo di indebolire la propria forza contrattuale. Si tratta di una reazione poco lungimirante ma, tuttavia, tipica di un’organizzazione che rappresenta principalmente gli interessi di lavoratori stabilizzati. Viceversa, il fatto che la sinistra del Pd sposi in pieno la visione del sindacato su tale questione è frutto di una mancanza di maturità politica. Chi si oppone a Renzi all’interno del Pd ha scelto di farlo sulla base di una divisione ideologica e astratta tra destra e sinistra. Ma una sinistra lontana dai problemi veri del paese rischia di apparire conservatrice e minoritaria di fronte ad un’opinione pubblica sempre più consapevole che il lavoro non si crea con avvocati e carta bollata e che le riforme strutturali sono ormai ineludibili.

Cassa integrazione, un meccanismo da smontare

Cassa integrazione, un meccanismo da smontare

Enrico Cisnetto – Il Messaggero

Caro Renzi, già che hai intenzione di fare 30, fai 31. O meglio, se fai 18 (quel solo articolo o addirittura l’intero Statuto dei lavoratori), fai allora un passo in più e smonta la cassa integrazione. Proprio ieri la Uil ci ha fornito gli ultimi dati: nei primi otto mesi di quest’anno si sono consumate circa 714 milioni di ore, corrispondenti a mezzo milione di posti di lavoro mantenuti artificialmente in vita. A fine anno si conteggerà poco meno di un milione c mezzo di lavoratori bisognosi di tutele.

L’altra faccia della medaglia di questi dati è rappresentata da quelli relativi alle imprese. La produzione industriale dal 2007 è scesa del 25%. Una perdita ormai consolidata e che nulla fa prevedere possa essere non dico assorbita ma almeno ridotta. E questo nonostante il forte rimbalzo delle scorte: per la prima volta da oltre un anno, le imprese segnalano un’eccedenza dei magazzini, il cui saldo sale ai massimi dal 2011. Un segnale del fatto che le aspettative di ripresa della domanda non si stanno concretizzando. E la premessa che una volta riempiti i magazzini, si dovrà ulteriormente rallentare la produzione.

Ora, in una condizione come questa, che dura da sette anni, è difficile credere che siamo di fronte ad imprese momentaneamente in difficoltà, che si stanno ristrutturando e in tempi ragionevoli torneranno in piena attività. Dunque, perché spendere una montagna di quattrini per tenere in vita posti di lavoro che solo in pochi casi si potranno dawero salvare? Non è meglio usare queste risorse per sostenere i lavoratori con un sussidio di disoccupazione? È non solo inutile, ma controproducente immaginare che la ripresa della nostra economia passi dal mantenimento in vita di aziende che non hanno più le caratteristiche giuste per competere. Meglio accelerare la loro morte e creare le condizioni per farne nascere di nuove, profilate sulle esigenze dei mercati di oggi. Pensate forse che se non fosse intervenuta la recessione quel quarto di produzione industriale che abbiamo perso sarebbe rimasta in vita? Forse per qualche mese, un paio d’anni, poi avrebbe dovuto soccombere perché quella che attraversiamo non è una crisi congiunturale, ma una stagione di cambiamenti epocali. Allora, mettiamo al riparo i lavoratori – non i posti di lavoro – sostenendoli con un welfare adeguato, che vada loro incontro ma che nello stesso tempo cessi qualora il sussidiato dovesse rifiutare offerte di impiego. E mettiamo le imprese nella condizione di affrontare la crisi con tutta la flessibilità possibile.

La libertà di licenziamento, con indennizzo ma senza clausola di reintegro, è uno strumento utile, ed è un riflesso ideologico pensare che gli imprenditori siano interessati ad abusarne. Anzi, essa li spingerebbe ad evitare tutte quelle forme contrattuali che in questi anni sono state inventate per evitare le rigidità del tempo indeterminato. Ma non basta. Occorre che il Welfare non induca gli imprenditori a voler essi stessi mantenere in vita aziende decotte. Una rivoluzione darwiniana, ecco quello che serve.

Qualcosa è cambiato

Qualcosa è cambiato

Luca Ricolfi – La Stampa

Nell’ultima settimana qualcosa è cambiato. E’ cambiata la situazione, perché tutti gli organismi internazionali e i centri studi hanno smesso di scommettere sulla ripresa italiana: il 2014 sarà ancora un anno di recessione, e il 2015 chissà. Ma è cambiata anche la risposta della politica, almeno sul versante governativo: Matteo Renzi ha (finalmente) deciso di dare la priorità che meritano alle riforme economico-sociali, e in particolare al Jobs Act. Questa svolta, non ancora evidente nel discorso di martedì in Parlamento, troppo avaro di impegni precisi, è diventata invece chiarissima nei giorni successivi, con le dichiarazioni sull’articolo 18 e con il video-messaggio di venerdì, in cui Renzi ha attaccato frontalmente i sindacati, accusandoli di aver sempre privilegiato i lavoratori garantiti e trascurato gli occupati precari e chi un lavoro non ce l’ha.

Renzi ha ragioni da vendere, perché la divisione fra lavoratori di serie A e lavoratori di serie B, garantiti e non garantiti, insider e outsider, è effettivamente uno dei nodi fondamentali dell’Italia, se non il nodo fondamentale. E il fatto che sindacalisti, politici e osservatori impegnati gli oppongano, nel 2014, i medesimi argomenti di 20 o 30 anni fa, non fa che confermare le buone ragioni di Renzi. E tuttavia… Per vincere una battaglia non basta avere sostanzialmente ragione, o che i propri avversari non dispongano di soluzioni praticabili. Occorre anche che le proprie soluzioni siano tali. In poche parole: che funzionino. Per questo penso che quella che si annuncia sembrerà (ai mass media) una battaglia fra «renzismo» e «camussismo», ma sarà invece (per l’Italia) una partita, dagli esiti imprevedibili, fra due renzismi entrambi possibili.

Il primo renzismo possibile è quello «di tipo Craxi». In questo scenario Renzi abolisce l’articolo 18 per i neo-assunti (come Craxi aveva fatto con la scala mobile), introduce il contratto a tutela crescente, riforma gli ammortizzatori sociali estendendoli a tutti gli occupati e rendendoli più severi (corsi di formazione, obbligo di accettare le offerte di lavoro). In poche parole: modernizza il mercato del lavoro. Se Renzi fa solo o principalmente questo (che comunque non è poco) è possibile che l’occupazione non riparta, che l’Italia continui ad essere uno dei Paesi Ocse con meno occasioni di lavoro, e che fra qualche anno ci tocchi sentir dire che «aveva ragione la Camusso, togliere l’articolo 18 non crea nuovi posti di lavoro».

C’è però anche un secondo renzismo possibile, chiamiamolo «di tipo Blair» giusto per dargli un nome. Il suo punto di partenza è la constatazione che le imprese, oltre al problema di un mercato del lavoro rigido, di una burocrazia asfissiante, di una giustizia civile lentissima e inaffidabile, hanno anche un serissimo problema fiscale: il costo aziendale di un’ora di lavoro è eccessivo, e la tassazione sul profitto commerciale (il cosiddetto Ttr) non ha eguali in nessuno dei 34 Paesi Ocse. Detto altrimenti: se le imprese non assumono non è solo, o principalmente, perché poi non possono licenziare, ma perché non hanno margini sufficienti. Questo significa che, per creare occupazione, occorre anche allentare la morsa fiscale sui produttori, il che costa molto in termini di risorse, e alla fine fa sempre arrabbiare qualcuno: se finanzi gli sgravi aumentando il debito pubblico si arrabbiano l’Europa e i mercati finanziari, se li finanzi tagliando la spesa pubblica si arrabbiano la Camusso e i sindacati.

Quale renzismo prevarrà, ammesso che la sinistra Pd e i sindacati non ci rispediscano subito al voto? Io tendo a pensare che Renzi non disdegni il renzismo di tipo Blair, ma che alla fine sarà costretto ad adottare quello di tipo Craxi. E la ragione è molto semplice. Ammettiamo per un momento che Renzi, che finora si è preoccupato soprattutto dei garantiti (bonus di 80 euro), e anche per questo ha goduto della benevolenza dei sindacati, abbia deciso finalmente di occuparsi di chi un lavoro non ce l’ha, giovani e donne innanzitutto. Ammettiamo che sia persuaso che ridurre i costi delle imprese sia una precondizione per metterle in grado di assumere. Ammettiamo che sia convinto che nella Pubblica amministrazione ci sia «grasso che cola», e che sia da lì che debbano provenire le risorse per riformare gli ammortizzatori sociali e ridurre il costo del lavoro. Anche assumendo tutto ciò, ossia una ferrea volontà di creare lavoro, resterebbe un problema politico enorme: sconfiggere la Cgil in una battaglia campale sull’articolo 18 è più facile, molto più facile, che tagliare 15 o 20 miliardi di sprechi nella Pubblica amministrazione. Nel primo caso (abolizione articolo 18), Renzi non avrebbe contro né i garantiti (che resterebbero tali, perché l’articolo 18 verrebbe abolito solo per i neo-assunti), né gli esclusi, la cui prima preoccupazione è quella di trovare un lavoro, ma solo i settori più politicizzati e conservatori della società italiana. Nel secondo caso (tagli di spesa pubblica), invece, Renzi avrebbe contro un po’ tutti: dipendenti pubblici, sindaci, governatori, percettori di prebende e sussidi, lobby legate alle commesse pubbliche. Insomma, vincere una battaglia ideologica è più facile che battere una rete di interessi. Il renzismo del primo tipo (alla Craxi) è più facile di quello del secondo (alla Blair).

Può darsi che, come il solito, io sia troppo pessimista. Ma ho l’impressione che, incassato il sostegno dei lavoratori dipendenti e di tanti elettori delusi da Berlusconi, a Renzi manchi ancora un tassello fondamentale: convincere gli uomini e le donne che stanno fuori o ai margini del mercato del lavoro che la sua battaglia è anche la loro.

L’amaca

L’amaca

Michele Serra – La Repubblica

Il dibattito sull’articolo 18 ha qualcosa di nobilmente nostalgico (nei suoi difensori) e di inutilmente maramaldesco (nei suoi avversatori). È un po’ come veder qualcuno che litiga sulla scelta delle tende in un palazzo ormai ridotto in macerie. Nel frattempo il lavoro è diventato una poltiglia che gli offerenti vendono sottocosto, e nonostante questo gli acquirenti non possono più permettersi di comperare; sistema pensionistico e sistema sanitario poggiano su basi di prelievo sempre più esigue. Specie ad ascoltare le storie di molti ragazzi, anche laureati, l’impressione è di vivere una specie di lungo “anno zero” del lavoro, che non c’è, se c’è è mal pagato, se è ben pagato è di corto respiro. Bisognerebbe, tra le macerie, ripensare daccapo a diritti, doveri, tutele.

Ma per farlo ognuno dovrebbe rinunciare a qualcosa: i sindacati alla memoria gloriosa ma oramai remota del proletariato di fabbrica e di una visione di classe resa impossibile dalla trasformazione delle classi (non solo quella operaia) in un immenso coacervo di individui smarriti e di interessi frantumati; i datori di lavoro al terrore, vecchissimo anche quello, che un lavoro più garantito sia solo un impiccio e una minaccia; la politica all’illusione di limitarsi ad arbitrare, come ai tempi di Agnelli e Lama, un conflitto padroni-operai oramai largamente in secondo piano rispetto al vero conflitto di classe, che è quello tra capitale finanziario da un lato, mondo del lavoro (imprenditori compresi) dall’altro.

Più La Malfa che Thatcher nel Piano Renzi

Più La Malfa che Thatcher nel Piano Renzi

Stefano Folli – Il Sole 24 Ore

Circa quarant’anni fa, in un’Italia molto diversa da oggi, Ugo La Malfa aveva posto un problema centrale alla politica del suo tempo, descrivendo la cittadella fortificata in cui si erano rinchiusi i privilegiati, ossia coloro che avevano un lavoro, e dalla quale erano invece esclusi i disoccupati. La sfida era piuttosto esplicita e così la intesero coloro ai quali era rivolta: il mondo comunista e socialista e i sindacati. Questi ultimi in particolare, con Luciano Lama, seppero raccogliere il messaggio e il confronto che ne seguì diede un contributo non trascurabile all’evoluzione della sinistra.

Questo per dire che non c’è bisogno di scomodare Blair o Schroeder, e tanto meno di tirare in ballo la Thatcher, per spiegare le iniziative di Renzi sulla riforma del lavoro. Nell’Italia smemorata dei nostri tempi tutto appare nuovo e mai sentito prima, per cui ogni presa di posizione che increspa lo stagno deve essere per forza importata dall’estero. Ed è vero, senza dubbio, che è urgente un rinnovamento culturale in grado di restituire un senso alla politica e anche di modellare nuove relazioni con il sindacato: purché quest’ultimo decida di vivere nel nostro tempo.

In ogni caso, quello che risulta essere – e in effetti è – un grave ritardo nell’aggiornare gli schemi e i codici del dibattito politico, è anche figlio della pigrizia degli ultimi vent’anni. Ossia il periodo in cui la sinistra, dietro l’alibi della lotta mortale a Berlusconi, ha rinunciato a muoversi con passo rapido e si è chiusa nel fortilizio da cui troppi sono stati tenuti fuori: i disoccupati, certo, ma anche coloro che via via hanno perduto fiducia nel sistema. Eppure sarebbe bastato ritrovare gli autentici spunti riformatori del dopoguerra, sviluppandoli nella cornice del Duemila, per colmare il vuoto.

Sulla questione del lavoro, è stato notato da molti osservatori, Renzi ha ragione. Come ha ragione nel colpire le incrostazioni ideologiche dure a morire, specchio di un’Italia che in quei termini non esiste più. Si chiedeva al premier di essere concreto, di passare ai fatti dopo tante parole, e non si può adesso rimproverargli di essere fedele a se stesso. Anche perché l’attuale sinistra – che militi nel Pd, in altre formazioni o nel sindacato – dovrebbe avere tutto l’interesse a incoraggiare il riformismo di Palazzo Chigi. Magari per correggerlo e integrarlo nel corso del dibattito parlamentare, ma senza dare l’impressione di un «no» pregiudiziale e quindi ideologico: il che vale per la Cgil, naturalmente, ma anche per la minoranza del Pd (non tutta per la verità, basta leggere le parole di buon senso pronunciate dal presidente democratico, Orfini).