Edicola – Opinioni

Basta aumenti Iva

Basta aumenti Iva

Francesco Forte – Il Giornale

Circolano due notizie inquietanti. L’Unione europea avrebbe chiesto all’Italia di aumentare al 10% l’Iva, attualmente al 4% per i generi alimentari e altri beni di prima necessità. E il Pil italiano quest’anno anziché crescere dello zero, come si è visto dai dati sino a luglio, decrescerebbe secondo l’Ocse dello 0,4 (con un peggioramento nel secondo semestre) e ciò danneggerebbe l’equilibrio di bilancio e il rapporto debito/Pil. Di qui una manovra correttiva, che verrebbe attuata sul lato delle imposte, anziché sul lato delle spese e delle privatizzazioni.

Se si seguisse la prima tesi, insieme alla seconda, ciò diventerebbe un vero suicidio. E i famosi 80 euro in busta paga apparirebbero una presa in giro, insensata. Che il Pil debba decrescere dello 0,4 in Italia nel 2014 mentre quello medio dell’Eurozona avrà comunque secondo l’Ocse un modesto andamento positivo, è qualcosa che dipende da ciò che Renzi si deciderà a fare, tanto per il decreto Sblocca Italia, che ancora non è operativo, quanto per l’urgentissima liberalizzazione del mercato del lavoro, di continuo rimandata e ridimensionata.

Comunque, in questo frangente, il governo non si può permettere un aumento generale al 10% dell’aliquota Iva del 4%, che in parte ricadrebbe, come maggior onere, sui consumatori e in parte rimarrebbe a carico delle imprese, accrescendo la crisi che serpeggia in molti esercizi commerciali e in molte imprese dei beni di largo consumo. E non si potrebbe neppure addurre l’argomento adottato per aumentare le imposte sugli immobili e reintrodurre quella sulla prima casa, ossia che esse riguardano i proprietari (come se non ci fossero persone a basso reddito che lo integranti con qualche modesto possesso immobiliare). L’aliquota Iva del 4% riguarda frutta, pasta, pane, verdura, latte, latticini, formaggi, cereali, pesce, crostacei, fertilizzanti, giornali, articoli per disabili, medicinali, vendita di prima casa e analoghi beni considerati di prima necessità.

Guardando con attenzione la lista, si trova che qualche aliquota del 4% è un privilegio, ma non sembra che lo si possa dire per l’elenco di massima appena esposto. Se è vero che esiste una richiesta dell’Unione europea di aumento dell’aliquota dal 4% al 10%, ciò non può riguardare i beni di consumo nella fase finale, perché questa tassazione è competenza dei singoli Paesi. Al massimo la richiesta europea per il consumo finale è di adottare l’aliquota ridotta comunitaria del 5% e non del 4%, ma l’Italia non è l’unico Paese che ha ottenuto questa piccola deroga.

Ciò che l’Unione europea ci può chiedere è di portare al 10% l’aliquota prelevata sui beni importati, per armonizzare il traffico internazionale comunitario. Questo può convenire anche a noi, perché ci consente di penalizzare le aziende produttive e gli esercizi commerciali che non fatturano l’Iva alla propria clientela. Essi perderebbero il diritto al rimborso del 10% sulla merce importata corrispondente e la loro concorrenza sleale rispetto agli esercizi che effettuano le fatturazioni diminuirebbe. L’Iva al confine per il traffico extracomunitario si controlla facilmente per i beni di massa di natura agroalimentare dato il loro volume e dato che, quando si tratta di prodotti freschi, si debbono adottare veicoli speciali a ciò attrezzati, Per il traffico comunitario non c’è la tassazione al confine, ma per i veicoli che trasportano i prodotti freschi è agevole fare i controlli presso i luoghi di destinazione all’ingrosso. Questo gettito comporta un recupero di imposte evase e non un onere per il consumatore, posto che alla fase finale il tributo rimanga al 4%.

Per il pane, la pasta, il latte, la frutta e la verdura ecc. che si vende nei negozi, la decisione dell’aumento appartiene al governo italiano. E sarebbe una ingiuria al buon senso l’effettuare questo aumento proprio ora, che la gente tira già la cinghia e che c’è scoraggiamento. Se il Pil diminuisce, anziché crescere di zero, il governo deve tagliare le pubbliche spese di natura variabile, non aumentare le entrate. In una famiglia, se il reddito cala, si tagliano tutte le spese variabili, non solo quelle dei biondi e non dei bruni e dei calvi o viceversa.

Disoccupati nascosti e produttività a terra, così il Paese perde colpi

Disoccupati nascosti e produttività a terra, così il Paese perde colpi

Federico Fubini – La Repubblica

Uno dei più bassi livelli di occupazione al mondo, dentro uno dei sistemi che protegge di più il posto di chi un impiego permanente lo ha. Una disoccupazione giovanile senza paragoni con qualunque altro Paese, in proporzione alla quota generale dei disoccupati. Un aumento di stipendi e salari più rapido che in Germania, unito a un crollo dei consumi che invece in Germania continuano ad aumentare.

Più che un mercato del lavoro, lo si potrebbe definire un suk di contraddizioni. Gli obiettivi e gli esiti delle norme che governano l’impiego sembrano procedere in direzioni opposte: all’impegno all’equità e al benessere iscritto nelle leggi corrisponde una fabbrica di esclusione, inattività e impoverimento chiamata oggi Repubblica italiana. Certo non è solo colpa delle regole, ma a sei mesi da quando il governo varò la legge delega sul lavoro uno dei suoi obiettivi è chiaro: arrivare a una situazione diversa da questa. I dati dell’Ocse sull’occupazione e quelli di Eurostat sull’andamento sulle remunerazioni fanno sospettare che dev’esserci qualcosa di profondamente sbagliato in Italia. Difficile altrimenti capire perché il quadro sia peggiore anche rispetto ad altri Paesi colpiti dalla crisi. O perché risultino false alcune delle credenze che, in questo Paese, molti considerano semplicemente ovvie.

Una di queste è che l’Italia ha una disoccupazione elevata, ma molto meno della Spagna e semmai come la Francia. Questa opinione deriva dal fatto che in Spagna la disoccupazione ufficiale è al 24,5%, in Italia al 12,6% e in Francia al 10,3%. Benché non venga mai detto, però, questi dati non sono paragonabili perché non lo sono le istituzioni alla loro base: in Spagna tutti i disoccupati godono di un sussidio e dunque hanno interesse a dichiararsi tali, mentre in Italia spetta quasi solo ai cassaintegrati, i quali però per le statistiche sono «occupati». Gli altri, il grosso dei senza lavoro, spesso non si iscrivono agli uffici per l’impiego perché lo considerano inutile.

Un quadro più realistico viene dai dati dell’Ocse sulla popolazione attiva in proporzione al totale dei residenti: Italia e Spagna sono entrambe appena al 36%, cioè lavora uno su tre e fra solo la Grecia è di poco sotto; la Francia è molto sopra, al 45%. Se poi si guarda alla popolazione attiva fra quella in età da lavoro (fra i 15 e i 64), la Spagna è al 74%, la Grecia al 67,3% e l’Italia è staccata al 63,5%. In altri termini, questi numeri dicono che i dati dell’Istat presentano un quadro della disoccupazione più roseo rispetto alla realtà. La popolazione attiva in Italia è pari o persino minore rispetto a Paesi con tassi di disoccupazione doppia o più. Il sistema produce più esclusi di quanto non raccontino i numeri ufficiali.

Disattenzione c’è spesso su un altro aspetto nel quale l’Italia spicca per il risultato peggiore al mondo: la sproporzione, a sfavore dei giovani, fra la quota totale dei senza lavoro e quelli delle nuove generazioni. In nessun altro Paese la percentuale dei disoccupati giovani (fino a 25 anni) è così alta rispetto al totale: nessun altro Paese penalizza tanto, in proporzione, le ultime generazioni. In Italia il tasso di disoccupazione giovanile è 3,4 volte più alto di quello generale, più del triplo; in qualunque altro Paese Ocse, Spagna, Grecia, Portogallo inclusi, tende invece ad essere il doppio o poco più.

Altrettanto falsa (e diffusa) del resto è la credenza che spiega il recente successo della Spagna nel creare molti più posti dell’Italia con il fatto che quelli iberici sono soprattutto precari. È vero il contrario: la Spagna ha sì un’incidenza più alta di contratti a tempo, il 23% contro il 13% dell’Italia, ma dall’anno duemila non fanno che diminuire sul totale dei contratti mentre è proprio in Italia che da allora sono sempre in aumento, anno dopo anno.

C’è poi un’ultima «verità» italiana, che i dati di Eurostat non confermano: maggiori aumenti di salari e stipendi sostengono i consumi, dunque giovano all’economia. Il confronto con la Germania sembra indicare che non è così. Nei sedici anni da quando nel 1997 furono fissate le parità di cambio in vista dell’euro, i salari nell’industria manifatturiera in Italia sono saliti del 54,5% e in Germania del 39,8%; gli statali italiani hanno avuto aumenti del 48,6% e i tedeschi del 30%. Nel frattempo però la produttività in Germania è cresciuta del 50%, mentre in Italia solo del 10%. Il risultato è che le imprese italiane hanno reagito a questa pressione sui costi chiudendo o espellendo dipendenti, al punto che in questo Paese ormai lavora appena una persona su tre. In Germania invece lavora più di una persona su due, perché le imprese hanno assunto, e lì dal 2008 i consumi sono saliti del 6% mentre qui sono crollati del 13%. Se vuole davvero riformare il lavoro, questo governo avrà molto da fare.

La disfatta degli economisti

La disfatta degli economisti

Paul Krugman – La Repubblica

La scorsa settimana ho partecipato a una conferenza organizzata da Rethinking Economics , un gruppo gestito da studenti che invita, indovinate un po’, a ripensare l’economia. E Dio sa se l’economia deve essere ripensata alla luce di una crisi disastrosa, che non è stata predetta né impedita. A mio avviso però è importante rendersi conto che la disfatta intellettuale degli ultimi anni interessa più di un livello. Ovviamente l’economia come disciplina è uscita drammaticamente dal seminato nel corso degli anni – o meglio decenni – portando dritto alla crisi. Ma alle pecche dell’economia si sono aggiunti i peccati degli economisti che troppo spesso per faziosità o per amor proprio hanno messo la professionalità in secondo piano. Non da ultimo i responsabili della politica economica hanno scelto di ascoltare solo ciò che volevano sentirsi dire. Ed è questa sconfitta multilivello – e non solo l’inadeguatezza della disciplina economica – la responsabile del terribile andamento delle economie occidentali dal 2008 in poi.

In che senso l’economia è uscita dal seminato? Quasi nessuno ha pronosticato la crisi del 2008, ma probabilmente è un errore scusabile in un mondo complesso. La responsabilità più schiacciante va alla convinzione ampiamente diffusa allora tra gli economisti che una crisi del genere non potesse verificarsi. Alla base di questa certezza sprovveduta dominava una visione idealizzata del capitalismo in cui gli individui sono sempre razionali e i mercati funzionano sempre alla perfezione.

I modelli teorici sono utili in economia (e adire il vero in qualsiasi disciplina) come strumento per illustrare il proprio pensiero. Ma a partire dagli anni Ottanta è sempre più difficile pubblicare sulle maggiori riviste un contributo che metta in discussione questi modelli. Gli economisti che hanno cercato di prendere coscienza della realtà imperfetta hanno affrontato una “novella repressione neoclassica”, per dirla con Kenneth Rogoff, di Harvard, non certo un radicale (e con il quale ho avuto da discutere). Dovrebbe essere assodato che non ammettere che il mercato possa essere irrazionale o fallire significa escludere la possibilità stessa di una catastrofe come quella che, sei anni fa, ha colto di sorpresa il mondo sviluppato.

Tuttavia molti economisti applicati avevano una visione più realistica del mondo e i testi di macroeconomia pur non prevedendo la crisi, hanno saputo predire abbastanza bene la realtà del dopo crisi. I tassi di interesse bassi a fronte di gravi deficit di bilancio, l’inflazione bassa a fronte di una offerta di moneta in rapida crescita e la forte contrazione economica in paesi che impongono l’austerità fiscale hanno colto di sorpresa gli esperti in tv, ma corrispondevano semplicemente alle previsioni dei modelli fondamentali nelle situazioni predominanti del post crisi. Ma se i modelli economici non sono stati poi così deludenti nel dopo crisi, altrettanto non si può dire di troppi economisti influenti che si sono rifiutati di ammettere i propri errori, lasciando che la mera faziosità avesse la meglio sull’analisi, o entrambe le cose. «Ho sostenuto che una nuova depressione non fosse possibile, ma mi sbagliavo, è che le imprese reagiscono al futuro insuccesso della riforma sanitaria di Obama».

Direte che sbagliare è tipico della natura umana, ed è vero che mentre il dolo intellettuale più sconvolgente è attribuibile agli economisti conservatori, anche alcuni economisti di sinistra sono parsi più interessati a difendere il loro orticello e a prendere di mira i colleghi rivali piuttosto che a correggere il tiro. Ma questo comportamento ha sorpreso e sconvolto soprattutto chi pensava che fossimo impegnati in un reale dibattito. Avrebbe fatto differenza se gli economisti si fossero comportati meglio? Oppure chi è al potere avrebbe agito comunque come ha agito, infischiandosene?

Se immaginate che i responsabili della politica abbiano passato gli ultimi cinque o sei anni alla mercé dell’ortodossia economica siete fuori strada. Al contrario, chi aveva potere decisionale ha recepito moltissimo le idee economiche innovative, non ortodosse, che a volte erano anche sbagliate, ma fornivano loro la scusa per fare quello che comunque volevano fare. La gran maggioranza degli economisti orientati alla politica sono convinti che l’aumento della spesa pubblica in un’economia depressa crei posti di lavoro, mentre i tagli li distruggono, ma i leader europei e i repubblicani statunitensi hanno deciso di credere allo sparuto gruppo di economisti di opinione opposta. Né la teoria né la storia giustificano il panico scatenatosi riguardo agli attuali livelli di debito pubblico, ma i politici hanno deciso di abbandonarsi comunque al panico, citando a giustificazione studi non verificati (e rivelatisi erronei).

Non voglio dire che la teoria economica è a posto né che gli errori degli economisti non contano. Non lo è, gli errori contano e sono del tutto favorevole a ripensare e riformare il settore. Il grande problema della politica economica non sta però nel fatto che la teoria economica tradizionale non ci dice cosa fare. In realtà il mondo starebbe molto meglio se la politica reale avesse rispecchiato gli insegnamenti del corso di economia di base Econ 101. Se abbiamo fatto la frittata – e così è stato -la colpa non è dei libri di testo ma solo nostra.

Le riforme annunciate adesso non bastano più

Le riforme annunciate adesso non bastano più

Marco Bertoncini – Italia Oggi

L’invito del commissario europeo Katainen (Non basta mettere in agenda le riforme, bisogna applicarle) riecheggia stimoli di molti commentatori. Siccome la fase fabulatoria di Matteo Renzi procede, è invitato a smetterla con frasi a effetto, messaggini, battute. Gli arrivano esortazioni a riflettere sulle priorità.

Nella situazione economica e finanziaria, nella condizione dei conti pubblici, con la salita del debito e del peso fiscale, anche da personaggi favorevoli al riformismo predicato da R. giungono consigli: scelga, presto, quali siano le riforme meglio rispondenti alle esigenze di questi mesi. E tenga presente la condizione di Camera e Senato. Finora Renzi ha peccato (per presunzione?; per ignoranza?) di sottoconsiderazione per tempi, riti, problemi, numeri in Parlamento. Non tiene in sufficiente conto, per esempio, la legge di Stabilità, con relative sessioni di bilancio. Eppure al medesimo strumento legislativo sono state rinviate decine di disposizioni originariamente previste nel decreto- legge sblocca Italia (e non solo in esso), uscito pesantemente ridimensionato rispetto all’originale.

È diffuso, insomma, l’invito a lasciar andare le promesse sulla rivoluzione totale, quasi su una rinnovata «ricostruzione futurista dell’universo», per passare a poche indispensabili riforme, immediatamente attuabili, che producano effetti tanto entro poco tempo quanto in futuro. Non si tratta soltanto di rispondere a quel che (si dice spesso a vanvera) ci è chiesto dall’Europa, dalle organizzazioni internazionali, dalla Banca europea ecc. Si tratta di darsi alcuni obiettivi, grandi e strategici, e d’imporli, prima di tutto al Pd, poi alle Camere. Altrimenti, è facile prevedere una nemmeno lenta corrosione del fenomeno Renzi.

Italia in coda a un’Europa depressa

Italia in coda a un’Europa depressa

Giuseppe Turani – La Nazione

Stiamo viaggiando dentro un convoglio che ha il freno a mano tirato e, naturalmente, siamo il vagone di coda, quello che si sta perdendo per strada. Questo è il senso del ‘ultimo rapporto Ocse sull’economia europea. È quasi inutile persino guardare le cifre, tanto sono deludenti.

La crescita europea, nel suo complesso, quest’anno sarà grosso modo quella che in America si ha in un trimestre. Se poi dall’insieme del Vecchio Continente passiamo ai singoli Paesi più grandi le cose cambiano di poco. La Germania ha un po’ più di sprint rispetto alla media, ma siamo sempre in una zona di bassa crescita. La Francia fa un po’ peggio della Germania e l’Italia rischia addirittura di farsi, oltre ai due che ha già fatto, altri due anni di recessione: il 2014 e il prossimo. Perché accade questo? La risposta non è difficile: l’Europa è un Paese chiuso dentro una doppia ingessatura.

La prima riguarda il suo assetto istituzionale e le sue regole di convivenza. È un’area lenta, dove nulla si cambia se non dopo lunghi dibattiti e lunghi scontri con delle burocrazie molto potenti, che hanno il solo obiettivo di rendere tutto ancora più labirintico e complicato. Inoltre, non si può nemmeno escludere che l’Europa tenti di difendere un welfare diventato ormai molto costoso. La cura delle persone (il welfare) è la cosa che distingue l’Europa dall’America, ma forse il suo peso comincia a essere eccessivo.

Il secondo tipo di ingessatura che frena l’economia del Vecchio Continente è quella che si potrebbe definire come “avarizia monetaria”. Negli Stati Uniti, allo scoppio della crisi hanno deciso di non badare a spese e le rotative della Federal Reserve hanno lavorato anche di notte per stampare dollari. È probabile che abbiano anche esagerato, ma alla fine il gigante si è mosso e adesso cresce abbastanza bene. In Europa, come tutti sanno, si è seguita la strada inversa. I tedeschi si sono opposti a usare l’euro (magari stampato in quantità industriali) come medicina per la crisi. Poiché molti Paesi (Italia compresa) avevano già esagerato con i debiti, hanno preteso (e pretendono) che prima si faccia un po’ di ordine: i famosi ‘compiti a casa ‘. Abbiamo cominciato con Monti e stiamo ancora andando avanti, tre governi dopo. Gli altri Paesi non stanno molto meglio però. La Germania respira appena, rispetto alle sue potenzialità, e la Francia se ne sta li con l’acqua alla gola.

La conclusione è molto semplice: i tedeschi volevano un Continente serio e ordinato, con governi molto attenti e responsabili, a loro immagine e somiglianza, ma finora non hanno ottenuto quasi niente di tutto questo. Sono solo riusciti a trasformare un’area in cui vivono più di 400 milioni di persone in una zona depressa del pianeta.

Il bivio tra retorica e rinunce

Il bivio tra retorica e rinunce

Stefano Lepri – La Stampa

Con il suo pessimismo sull’economia italiana, paradossalmente l’Ocse ci aiuta. Sapere che nel 2014 resteremo ancora in recessione ci dice in primo luogo che l’urgenza delle riforme interne è assoluta, oltre a tutte le resistenze di categorie e interessi; in secondo luogo, conforta a insistere perché cambi la politica di austerità europea. A un Paese in tali condizioni non si può chiedere una ulteriore stretta di bilancio per il 2015. Sarà già gravoso rispettare il limite del 3% di deficit, come Matteo Renzi e Piercarlo Padoan si sono impegnati a fare; sarebbe inopportuno conformarsi al più rigido vincolo del «Fiscal Compact», ovvero una nuova riduzione di mezzo punto del deficit «strutturale».

Anche l’Ocse, come già il Fondo monetario internazionale, chiede una pausa nell’austerità. Non solo appoggia Mario Draghi nella sua doppia richiesta ai governi di riforme strutturali e di sostegno alla domanda dove è possibile; lo invita a condurre la Bce verso misure monetarie «più vigorose» (contro cui la Bundesbank tedesca punta i piedi). Il messaggio è che nell’area euro con tante persone ancora senza lavoro e con l’inflazione a zero misure espansive – sia da parte delle banche centrali, sia da parte dei governi – sono benvenute. Non sarebbe cosi invece secondo gli astrusi calcoli strutturali della Commissione europea, i cui attuali parametri pongono al 20% il tasso di disoccupazione «normale» in Spagna.

Per l’appunto anche il ministro dell’Economia spagnolo Luis de Guindos, conservatore gradito ad Angela Merkel, chiede «autocritica» sulle scelte europee. E dall’unico grande Paese del continente che non ha conosciuto recessione, la Polonia, un governo liberale propone un ancora più ampio piano di investimenti collettivo. La Germania è isolata; può frenare la svolta accennata dal vertice di Milano, ma è evidente al mondo che applicare le sue ricette non ha risolto la crisi. Il suo stesso tanto vantato bilancio in equilibrio si regge su un drastico taglio degli investimenti pubblici, necessari per «pensare al futuro» specie in Paesi come i nostri dove l’età media della popolazione cresce in fretta.

Nello stesso tempo, occorre convincersi che le ricette all’italiana erano fallite già da prima. La spesa pubblica in eccesso ci dette negli Anni 80 poca crescita in cambio di enormi debiti, nei primi anni Duemila nessuna crescita e nuovi debiti. Tutto il «modello Italia» risulta inadatto al mondo di oggi, per colpe nostre e non altrui. Siamo cosi malridotti che forse nemmeno un taglio massiccio alle tasse, peraltro rischiosissimo, sarebbe efficace. Non si va avanti senza riforme profonde. Però ormai la parola a forza di ripeterla non si sa più nemmeno che cosa significhi. Quali riforme? Fa solo danno l’esasperante teatrino politico sulla «sovranità» e sul «decidiamo noi, non l’Europa».

In certe versioni nord-europee «riforma» significava rassegnarsi a un tenore di vita più basso. Ma il prolungarsi della crisi spazza via queste idee. Non è oggi utile stringere la cinghia nel tentativo di vendere di più agli altri Paesi, messi male anche loro.

Servono riforme meno crude e più complicate: distribuire meglio le poche risorse che abbiamo, organizzare le istituzioni in modo più efficiente, non sprecare. A ridare alle imprese la voglia di espandere gli affari, a togliere alle famiglie la paura di spendere, può essere soltanto un Paese che funziona meglio. Il guaio è che il vantaggio di tutti richiede di intaccare privilegi, sussidi, comodità, pigrizie, di molti. Non si rimedia con la retorica; occorre invece esporre con chiarezza gli scopi per cui vale la pena di chiedere qualche rinuncia; occorre impegnarsi a tempi ed obiettivi di miglioramento.

Al lavoro non servono sedute spiritiche

Al lavoro non servono sedute spiritiche

Alberto Orioli – Il Sole 24 Ore

La riforma del lavoro è a un tornante delicato e decisivo al Senato. Non c’è tempo per meline o per guerre di religione agitate dalla triste cabala del numero 18. Sulla delega che va sotto il nome, un po’ troppo esterofilo, di Jobs act si è già perso troppo tempo. Su questo l’Italia gioca la partita della credibilità in Europa e quella della fiducia per gli investimenti. Lo scontro paralizzante sul punto nevralgico del cosiddetto contratto a tutele crescenti non fa presagire nulla di buono.

L’obiettivo deve restare la creazione di un contratto a tempo indeterminato flessibile e semplice nella gestione. Le correzioni fatte alle regole per contratti a termine e apprendistato hanno già dimostrato, dati alla mano, che se si facilitano le procedure il mercato risponde e 36mila giovani hanno aumentato gli occupati in un solo mese (luglio) e altrettanti sono usciti dalla palude dell’apatia e dell’inattività per tentare, finalmente la ricerca di un’opportunità lavorativa. Non è ancora il lavoro ma è, almeno, la volontà di cercarlo e la fiducia che qualcosa stia cambiando o possa cambiare.

È anche per questo che da domani Il Sole 24 Ore proporrà ai suoi lettori un intero quotidiano online dedicato al tema del lavoro. Un nuovo strumento specializzato – destinato a tutti gli operatori, imprese e professionisti – per conoscere, per approfondire, per orientarsi tra gli annunci e la realtà del lavoro che cambia. Nel Paese ormai preda della deflazione – dato psicologico (di paura) prima ancora che economico – della disoccupazione quasi doppia rispetto a quella media europea, della produzione in ritirata, dei consumi svaniti è assurdo bloccare la discussione tra articolo 18 sì e articolo 18 no.

La delega di cui si dibatte in Senato ha l’ambizione di creare un nuovo sistema di ammortizzatori sociali; di puntare, forse per la prima volta, federalismo permettendo, sulle politiche attive per la ricerca di un’occupazione piuttosto che su quelle passive per la gestione assistenziale di chi i posti li perde. La delega ha l’ambizione di razionalizzare le forme di ingresso e di uscita dal mondo del lavoro con un occhio all’Europa e ai nuovi orizzonti globali; di traguardare, con un cuore gettato molto oltre l’ostacolo, anche il salario minimo per legge. Più che un problema di diritti – la cannoniera del massimalismo è già in azione – è semmai un problema di risorse, come accade per molte altre riforme che difficilmente sono a costo zero. Il tema dunque è il seguente: quanto risulta velleitario questo Jobs act?

La spinta riformista che tutto il mondo ci chiede non è il «lavoro sporco» come lo ha chiamato Maurizio Landini segretario Fiom e (strano) interlocutore privilegiato del premier, tramite cinguettii virtuali e non solo; ma è l’indicazione di una direzione di marcia moderna sul tema più delicato in assoluto, il lavoro appunto. Il vero problema del contratto a tutele crescenti non è tanto l’abbandono di diritti o procedure di garanzia come è il reintegro affidato magari più a capricci giurisprudenziali che al buonsenso, sostituibile con una congrua monetizzazione nei casi diversi dalla discriminazione di rango costituzionale. Il punto è la creazione di forme di incentivazione per rendere più appetibili e convenienti i contratti a tempo indeterminato, ristabilendo una corretta gerarchia tra impiego stabile e occupazione flessibile (più costosa).

Il Governo sta studiando forme di abbattimento dell’Irap o dei contributi caricati sul lavoro a tempo indeterminato, ma si scontra con le compatibilità di bilancio in una fase in cui l’economia continua la tragica stagione dell’arretramento. Ma proprio la riforma del lavoro sarebbe il lasciapassare europeo anche per la cosiddetta “flessibilità” nelle gestione dei parametri da applicare ai conti pubblici, vale a dire per avere più risorse spendibili. È un obiettivo che ci sollecitano Bce, Fondo monetario e proprio gli stessi partner europei. Ma è un tratto che sfugge alla discussione sul tema e questo è grave. È più facile infiammare assemblee o piazze al grido di “giù le mani dallo Statuto dei lavoratori” che ragionare sui costi di sistema e sul peso di un finanziamento del modello di welfare che è quanto mai squilibrato e a danno delle nuove generazioni (peraltro ormai nemmeno tanto nuove perchè lo squilibrio dura da anni). Eppure lo Statuto dei lavoratori andava stretto, già negli anni 90, anche al suo “genitore storico”, Gino Giugni più volte lucidamente schierato sulla necessità di rivedere alcune parte di una normativa ormai anacronistica rispetto al mutare delle condizioni di produzione, di competizione, di innovazione.

Se l’argomento fosse stato de-ideologizzato e ricondotto a più prosaiche categorie economiche probabilmente avremmo un numero assai più elevato di occupati. La discussione tutta “politica” sullo scippo dei diritti ha fatto velo per troppo tempo al tema decisivo dell’aumento della produttività, e per quella via anche dei salari, di cui nessuno si è curato per decenni. Se partiti, ministri e parti sociali si fossero concentrati su questo punto il Paese probabilmente sarebbe cresciuto di più, avrebbe trovato il sistema per valorizzare il capitale umano, avrebbe spinto in avanti la frontiera produttiva dell’innovazione. Invece sono anni che si assiste a un surreale dibattito della paura: quello dell’impresa che non vuole “fare matrimoni” con i propri dipendenti e quello dei dipendenti persuasi che il primo pensiero dell’imprenditore sia quello di licenziare i propri collaboratori. Sono queste due posizioni agitate sui fantasmi che hanno obnubilato le menti e azzerato ogni discussione costruttiva. Renzi batta un colpo: se può faccia finire questa seduta spiritica. Nel suo partito e fuori.

Una strategia da ripensare per non disperdere le risorse

Una strategia da ripensare per non disperdere le risorse

Alessandro Rota Porta – Il Sole 24 Ore

Bisogna voltare pagina rispetto all’attuale sistema dei bonus per le assunzioni. Il gap tra fondi utilizzati rispetto a quelli stanziati dalle diverse norme in materia dimostrano lo scarso appeal delle misure adottate dal legislatore negli ultimi anni. Il rischio è quello di disperdere risorse preziose che potrebbero essere destinate a un taglio trasversale del costo del lavoro, a maggior ragione nella fase economica attuale, con l’instaurazione di nuovi rapporti di lavoro praticamente al palo.

Il declino dell’impianto che regola le agevolazioni sulle assunzioni è peraltro da ricercare in altri fattori, oltre alla negativa congiuntura occupazionale. Intanto, le misure sono state via via introdotte badando solo alle esigenze contingenti, volte a favorire questa o quella particolare categoria di lavoratori o di settore produttivo, senza seguire una logica organica. Inoltre, l’applicazione effettiva delle misure si è rivelata spesso farraginosa, per via del ritardo con cui sono arrivati i provvedimenti attuativi rispetto alle norme istitutive dei bonus. Allo stesso modo, anche le istruzioni di prassi – indispensabili per garantire la piena operatività degli incentivi – hanno creato criticità agli operatori per la loro complessità o per le procedure di assegnazione, talvolta legate alla “lotteria” dei click-day. Non è bastato, ad esempio, come aveva previsto la riforma Fornero del 2012, sostituire un incentivo cambiandogli semplicemente pelle: la staffetta tra il contratto di inserimento e i bonus destinati alla ricollocazione degli over 50 e delle donne «svantaggiate» non ha sortito infatti risultati attesi (come dimostrano i dati pubblicati in questa pagina).

L’altro “flop” – più recente – è stato quello del «bonus Letta» per l’assunzione dei giovani, destinato nei piani del Governo di allora a creare centinaia di migliaia di posti di lavoro: i risultati si sono rivelati modesti, anche per la complicatezza delle regole da rispettare. La stessa agevolazione ha addirittura rischiato di mettersi in concorrenza con altri contratti incentivati, come l’apprendistato, dal momento che si rivolgeva alla stessa platea di soggetti. Proprio i dati recenti sulle assunzioni in apprendistato, che danno questo istituto in sensibile crescita nel secondo trimestre dell’anno, dimostrano che la chiarezza delle regole è un presupposto fondamentale per dare appeal alle misure adottate agli occhi dei datori di lavoro. Gli ultimi interventi legislativi sull’apprendistato (il decreto «Giovannini» dell’anno scorso e soprattutto il decreto «Poletti») hanno portato una ventata di semplificazione, ricreando fiducia nei confronti di questa tipologia di rapporto.

Alla luce di queste esperienze – per non ripetere gli errori commessi – varrebbe forse la pena di abbandonare il puzzle dei bonus per dare vita a un concreto abbattimento del costo del lavoro, svincolato dalla sussistenza di doti specifiche da ricercare nei lavoratori. Se è vero che alcune categorie di soggetti sono più penalizzate di altre nell’entrare nel mercato del lavoro o nel ricercare nuova occupazione, è altrettanto vero che una sforbiciata al cuneo fiscale potrebbe portare a una maggiore competitività e quindi al rilancio dell’occupazione in genere.  

Ora servono misure di soccorso efficaci

Ora servono misure di soccorso efficaci

Fabrizio Galimberti – Il Sole 24 Ore

«L’insània negli individui è qualcosa di raro – ma nei gruppi, nelle nazioni e nelle epoche, è la regola». Questa massima di Friedrich Nietzsche è sempre di attualità, come si vede nella tragedia di Gaza, e – in modo meno sanguinolento – nelle politiche di austerità in Europa. Basta guardare alle cifre. In queste pagine abbiamo documentato, per molte variabili del nostro benessere (o malessere) economico, la distanza (tanta, troppa) fra la situazione attuale e quella del passato. Il “come eravamo” si declina in un salto del gambero, non in un nostalgico “Amarcord”. Stiamo tornando indietro e, quel che è più grave, questo regresso non è la fase discendente dello yo-yo, ma una discesa che rende più difficile la risalita.

In termini economici, una disoccupazione a questi livelli porta a un deterioramento del capitale umano: si manifesta come disoccupati scoraggiati che escono dalla forza lavoro e/o come un arrugginirsi delle abilità. Le misure attive di sostegno al lavoro (formazione e altro) in Italia sono meno diffuse e meno efficienti rispetto ad altri Paesi. E quel che abbiamo appena definito come “arrugginirsi delle abilità” non riguarda solo i singoli, ma interi settori in cui il know how si va sfilacciando fino a scomparire. Ma ancora più importante, in questo regresso dell’economia, è l’aspetto psicologico. L’intera vicenda del dopoguerra, con la miracolosa impennata dell’attività economica, aveva avuto come causa ed effetto la “rivoluzione delle aspettative crescenti”: ogni generazione, ogni figlio e ogni figlia, avevano la speranza e l’attesa di migliorare il tenore di vita rispetto a quello dei genitori. Questa convinzione diventava molla e motore del progresso: lo sforzo aveva una ricompensa. Ma se la rivoluzione delle aspettative crescenti inverte la marcia, perché sforzarsi? Ottimismo e attivismo cedono il passo a rassegnazione e apatia. Viene gettata la maschera di uno sviluppo senza fine e i ruggiti si trasformano in guaiti e lamenti.

L’Italia aveva i suoi problemi anche prima della Grande recessione. Ma quando questa allargò le sue ali uncinate sull’economia, quando all’urto del tifone recessivo succedette la coda velenosa della crisi da debiti sovrani, l’unica risposta che l’Europa seppe dare – e il problema non era e non è solo italiano – fu quella di un’austerità a senso unico. Ancora oggi viene chiesto all’Italia di versare altro sale sulle ferite dell’economia: proprio quando l’economia continua nella sua marcia del gambero, proprio quando – si veda il dato ultimo sulla produzione industriale – la nostre fabbriche sfornano un quarto e passa in meno rispetto ai massimi precedenti, si chiede all’Italia di stringere di più la politica di bilancio. Torna alla mente l’insània dei mandarini del Tesoro americano nei primi anni Trenta quando, di fronte all’evidenza di fallimenti e disoccupazione, sostenevano che lo Stato doveva dare il buon esempio e far quadrare i suoi conti, aumentando le imposte e diminuendo le spese.

È vero, l’ossessione di oggi, presso i sostenitori dell’austerità, è un po’ più sofisticata di quella di allora. Il ragionamento è questo: se non insistiamo sull’austerità, i Paesi in deficit non fanno le riforme che li aiuterebbero a crescere. Allora, pur se la nostra insistenza sembra crudele (“tough love”, direbbero gli anglosassoni), siamo in fondo dei burberi benefici. Il difetto di questo ragionamento è nel manico, sta in un serio problema di miopia. Le riforme, quand’anche si facessero oggi, prendono tempo a esplicare i propri effetti, mentre l’economia ha bisogno di un soccorso hic et nunc. Se questo soccorso non viene – anzi, se le viti del bilancio vengono strette ancora – l’emorragia continua e diventa più difficile introdurre riforme. La gente vede le regole europee come una camicia di forza e non come un obiettivo virtuoso. Così il cerchio si chiude, in uno stallo disperante di azioni e reazioni.

Come uscire da questo circolo vizioso? Una via è quella di annunciare unilateralmente un rinvio degli obiettivi di pareggio, come ha fatto la Francia. Ma la via maestra è un’altra: non quella delle punzecchiature, ma quella della politica alta. Eliminare la discrasia dei tempi – riforme a tempi lunghi, soccorso a tempi brevi – con un atto di fiducia. Accettare, da parte di una Commissione bruxellese eterodiretta dalla governante teutonica, un allentamento delle regole e dare fiducia ai Paesi nell’adozione delle riforme. Riforme che in ogni caso, come ha detto più volte Matteo Renzi, dobbiamo fare per il nostro bene, non perché ce lo impone l’Europa. Ma la fiducia è una merce scarsa nella politica europea. Purtroppo, Nietzsche aveva ragione.

Puntuale arriva l’autunno caldo

Puntuale arriva l’autunno caldo

Giancarlo Mazzuca – Il Giorno

Che bilancio si può trarre all’inizio dell’autunno? Sul fronte europeo si può dire che lo sforzo di Mario Draghi, inferiore a quanto atto dalla Fed americana e dalla Bank of Japan, difficilmente aiuterà le banche a ripulire i loro bilanci dai crediti più scadenti; quindi molte non saranno in condizioni di riattivare il credito alle imprese. Sul fronte italiano si può dire che con le sue sbruffonate (ricordate l’invito ad andare tranquillamente in vacanza?) Renzi ha tenuto a lungo nascosta la vera situazione drammatica del paese e che non ha cambiato verso come voleva in tema di flessibilità: ora deve fare le riforme che l’Europa ritiene indispensabili e le deve fare sotto il monitoraggio della stessa Europa.

Un bel risultato. Significa che i compiti a casa fatti sinora non sono sufficienti, che la ripresa non ci sarà subito (ma quante volte governi e politici ci hanno detto che si vedeva la luce infondo al tunnel?), che dopo tante promesse Renzi dovrà scontentare molti (anche i berlusconiani che per lui mostrano notevole entusiasmo), che non ci sarà nuova occupazione, che avremo un autunno piuttosto caldo con i sindacati sul piede di guerra. Già è iniziato il gioco dello scaricabarile con il leader della Cisl che dà dei “palloni gonfiati” agli ultimi cinque governi. E lo stesso Renzi dovrà chiarirsi le idee sul costo del lavoro essendo caduto in sole 48 ore in due contraddizioni: ha detto che bisogna seguire il modello costituito dalla riforma tedesca che prevede l’esenzione dei mini-job ma ha anche auspicato una diminuzione attraverso il taglio del cuneo fiscale. In un caso significa stipendi più bassi, nell’altro una riduzione della tassazione.

Siamo ora in attesa dei tagli. Che non saranno quelli della spending review ma tagli lineari. Almeno in gran parte, come al solito. Sforbiciate agli sprechi, quindi un impiego migliore de denaro pubblico? Uno spreco è sempre voluto, non nasce per caso, e ad ogni spreco corrisponde, sostiene Ugo Arrigo, docente di finanza pubblica alla Bicocca di Milano, un vantaggio concesso a qualcuno: un’agevolazione, una indennità, una fornitura. Chiaro dove si interverrà? Con l’esenzione naturalmente della casta politica. In merito alle tasse poi, non aumenteranno quelle dirette, si troverà qualche altro modo subdolo per aumentare quelle indirette. Come nel caso della Tasi che nella maggior parte dei Comuni sarà più cara dell’Imu.