Edicola – Opinioni

La strada obbligata per ritrovare la crescita

La strada obbligata per ritrovare la crescita

Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

Il Governo Italiano è impegnato su molti, difficili fronti, in Europa e in Italia. Sappiamo anche che il presidente del Consiglio Renzi, la cui energia è davvero tanta, vuole gestire in prima persona tutto. Sono quindi legittime le preoccupazioni che questo impegno sia eccessivo e che si impongano scelte e deleghe più chiare. Sulle riforme economiche necessarie, per evitare confusione, partiamo dalle raccomandazioni delle istituzioni europee all’Italia per passare poi ad una conclusione. E cioè che la spinta (sia pure limitata, senza quella europea) alla nostra crescita ed occupazione passa dal rilancio degli investimenti con le risorse recuperate dalla spending review e dall’evasione, con la riduzione del carico fiscale ed in particolare dell’Irap (solo simbolicamente ridotta in primavera), con un efficace partenariato pubblico-privato, con l’occupazione promossa da politiche attive e retributive nuove anche nel pubblico impiego.

Le raccomandazioni europee. Sono quelle espresse nel giugno scorso dal Consiglio della Ue e dalla Commissione europea, sul Programma nazionale di riforma e su quello di stabilità presentati dal governo. Purtroppo sono raccomandazioni che si ripetono da anni e sul cui adempimento l’Italia ha fatto poco. Eppure le stesse sono difficilmente contestabili anche se possono apparire semplificanti ed eccessive. Esse si riferiscono 1) alle politiche di bilancio; 2) all’alleggerimento del carico fiscale sui fattori produttivi; 3) all’efficienza della pubblica amministrazione; 4) al rafforzamento del settore bancario; 5) alle riforme del mercato del lavoro; 6) alle riforme del sistema di istruzione; 7) alla semplificazione normativa; 8) alla politica dei trasporti e delle infrastrutture. Il governo ha risposto a queste raccomandazioni evidenziando che le riforme richieste sono in cantiere anche se la realtà è (molto) più contenuta.Anche perché non sono chiare le nostre priorità e questo preoccupa perché l’economia reale italiana continua a peggiorare, pur con tutta l’ Eurozona.

Le valutazioni sul 2014. Infatti le previsioni (ci riferiremo a quelle di Prometeia sia pure con nostre valutazioni) danno troppi segni negativi: il Pil scende dello 0,2%; gli investimenti (macchinari, attrezzature, mezzi di trasporto) scendono dello 0,4%; gli investimenti in costruzioni del 2,3%; la domanda totale interna dello 0,2%; la disoccupazione ormai si avvia al 13%. Non compensano questi dati negativi l’aumento della spesa delle famiglia dello 0,2% e un saldo dell’interscambio merci sull’estero al 2,8% del Pil. Due altri fatti (uno negativo e l’altro positivo) sono noti ma è bene ricordarli. L’inflazione (al netto di energia e alimentari, che sono componenti più volatili) è scesa in agosto allo 0,5%, che è il nostro minimo storico anche perché mai prima eravamo andati sotto quelle di Francia e Germania. In positivo vi è il calo dei tassi sui titoli di Stato con il conseguente risparmio di interessi passivi che contribuirà a tenere il deficit sul Pil sotto il 3%. In sintesi: i segnali moderatamente fiduciosi di una ripresa sono stati archiviati dai dati del secondo trimestre.

Priorità e risorse. Bisogna allora individuare tra le Raccomandazioni europee le più urgenti, proseguendo nel frattempo con le riforme ad effetto strutturale sul medio termine dei 1.000 giorni prefigurati dal governo. La priorità è quella di rilanciare gli investimenti, l’innovazione e l’occupazione, soprattutto quella giovanile. Perché da questa dipende la fiducia nel futuro che a sua volta contribuisce ad un aumento (vero) nella spesa delle famiglie. Per fare questa operazione vanno trovate le risorse e selezionati gli impieghi. Il reperimento delle risorse deve imperniarsi (ma non esaurirsi) sulla spending review (compresa la ristrutturazione delle aziende partecipate dagli enti locali). Poiché i quasi 60 miliardi di risparmi (al lordo delle minori entrate) del triennio 2014-2016 sono ben documentati dal Programma Cottarelli (che tra l’altro indica prudentemente entità minori di quelle prefigurate da altri nel 2012), bisogna dare esecuzione alla stesso senza esitazione. Inoltre va riequilibrato il carico fiscale recuperando l’evasione. Perché la nostra pressione fiscale apparente è al 44% ma quella effettiva (sui contribuenti leali) è al 54%.

Investimenti e lavoro. Con le risorse che si liberano bisogna spingere gli investimenti, l’innovazione, la tecnoscienza, l’industria, le infrastrutture che, oltre ai noti effetti moltiplicativi, devono anche sostenere la competitività del sistema Paese. Queste misure passano sia attraverso una riduzione del carico fiscale sulle imprese, e in particolare sugli investimenti, sia attraverso iniziative di partenariato pubblico-privato dove nuovi strumenti di finanza per le infrastrutture e l’industria servono molto. Non meno importante è l’intervento sul lavoro e l’occupazione dove il ministro Poletti sta operando bene. Bisogna arrivare alla semplificazione dei contratti, a migliori politiche attive, a contratti a tempo indeterminato ma a protezioni crescenti, a rivalutare l’apprendistato e l’alternanza scuola-lavoro, a rivedere i sussidi di disoccupazione e la cassa integrazione anche per prevenire forme che disincentivano il lavoro stesso. Poi ci vuole una radicale riduzione e ristrutturazione del pubblico impiego premiando solo il merito. Sappiamo che il Governo ha già adottato vari provvedimenti in queste direzioni. Siamo anche convinti che solo un successo pieno al proposito darà una (prima) spinta alla competitività italiana e aumenterà la nostra forza in Europa.

Una conclusione. Tutto ciò è per noi necessario ma non sarà sufficiente se le istituzioni europee non spingeranno gli investimenti infrastrutturali (materiali e immateriali) e una forte reindustrializzazione sostenibile anche con strumenti finanziari nuovi, come gli EuroUnionBond. Perché la politica monetaria della Bce per quanto espansiva (e non priva di rischi per bolle speculative) non può supplire una politica per l’economia reale.

Non trattateci come sudditi

Non trattateci come sudditi

Angelo Panebianco – Corriere della Sera

È solo un paradosso apparente che i sondaggi mostrino il sostegno degli italiani per Matteo Renzi (raggiunge il 64 per cento dei consensi nel sondaggio di cui ha dato conto il Corriere domenica, e in nessun altra rilevazione scende sotto il 50), unito però a un diffuso scetticismo sulle misure del governo. Non c’è nulla di irrazionale. Anzi, il pubblico si mostra giudizioso. Si affida a Renzi perché lo riconosce come l’uomo forte del momento, colui che domina la politica e dice di sapere che cosa occorra fare per portarci fuori dai guai. In situazioni tribolate non è insensato affidarsi (provvisoriamente) all’uomo forte disponibile. Ma, al tempo stesso, gli italiani non si mostrano stupidi, non si fanno prendere in giro. Fino ad oggi il governo non è risultato molto convincente nella sua azione e i sondaggi lo registrano.

Proviamo a domandarci che cosa ci sia di poco convincente. Detto in modo enfatico e (non troppo) esagerato, di poco convincente c’è il fatto che non si è visto fin qui nessun provvedimento volto a restituire agli italiani i diritti di cittadinanza, nessun provvedimento che dia l’impressione di volerli trasformare da sudditi, quali per molti versi sono, in cittadini. Alcuni anni fa l’economista Nicola Rossi scrisse un bel libro (Sudditi , Istituto Bruno Leoni) che documentava il modo in cui politica e amministrazione avevano ridotto alla stato di sudditanza gli italiani, che pure, stando alla Costituzione, dovrebbero essere cittadini. Nel periodo intercorso non è cambiato nulla. E nemmeno Renzi finora ha fatto granché. Il caso della Tasi è esemplare. Come documentavano, sul Corriere di ieri, Fracaro e Saldutti, a meno di un mese dalla scadenza, più di 3.000 Comuni su 8.000 non hanno ancora fissato l’aliquota che dovrà essere versata. Una grande quantità di italiani continua ad ignorare quanto dovrà pagare. Il governo Renzi, sulla scia di Letta, ha ripetuto l’errore fatto a suo tempo dal governo Monti con l’Imu.

Ma perché mai dovrebbero ripartire i consumi se si impongono tasse e poi si lasciano passare mesi e mesi prima che i cittadini (pardon: i sudditi) possano conoscerne l’entità? Eppure sarebbe bastato poco. Sarebbe bastato stabilire che le inefficienze dell’amministrazione sono a carico solo dell’amministrazione. Sarebbe bastato decidere che i Comuni avevano tempo, poniamo, fino al maggio 2014 per stabilire l’ammontare dell’aliquota. Dopo di che, avrebbero perso il diritto di esigere il pagamento della tassa.

Sbaglia chi crede che perché ci sia crescita economica occorra che la politica sia «amichevole verso il mercato». Occorre invece che sia amichevole verso i diritti di cittadinanza. L’orientamento pro-mercato ne è soltanto una conseguenza. Chi, ad esempio, oggi vuol fare impresa è sottoposto alla tagliola e al ricatto delle autorizzazioni che l’amministrazione rilascerà a suo comodo, quando vorrà. Anche qui basterebbe poco per ristabilire il diritto di cittadinanza: il silenzio-assenso. Se l’autorizzazione esplicita non arriva entro un termine preciso, si dà per acquisita. E i funzionari che non se ne sono occupati nel tempo previsto saranno civilmente e penalmente corresponsabili di eventuali abusi. Se il governo cominciasse ad «elargire» agli italiani diritti di cittadinanza avrebbe forse più successo di quello fin qui ottenuto con gli ottanta euro, riuscirebbe a fare ripartire l’economia. E forse i consensi di cui Renzi gode oggi nel Paese non risulterebbero effimeri, passeggeri.

C’è meno tempo

C’è meno tempo

Davide Giacalone – Libero

È tardi, è tardi”, ammoniva l’agitato coniglio bianco, in Alice nel paese delle meraviglie. Correre, muoversi, avverte il governatore della Banca d’Italia. C’è tempo, risponde il ministro dell’Economia. Intanto Maria Elena Boschi va a Cernobbio e si chiede, divertita, ma si può essere accusati d’andare troppo veloce e troppo piano allo stesso tempo? Non ha torto, infatti è un raggiro. Che ella contribuisce ad alimentare. Qui contano due cose: la direzione e il tempo di marcia. Dire di volere riscrivere lo statuto dei lavoratori per favorire sia la mobilità che la stabilità significa indicare direzioni opposte. Bloccare contratti statali e assumerne 190mila in più, sono direzioni opposte. Volere il merito e premiare le graduatorie sono cose opposte. E veniamo ai tempi, che sono una cosa seria.

Nessuno si faccia illusioni: le iniziative monetarie illustrate da Mario Draghi non aumentano il tempo a disposizione dei governi europei rimasti inerti, ma lo diminuiscono. C’è un colossale equivoco, su questo punto. Forse qualcuno pensa che il gioco funzioni come quando, nel luglio del 2012, il presidente della Banca centrale europea bloccò le speculazioni contro l’euro imbrigliandone il sintomo, ovvero la divaricazione esagerata degli spread. Lì si poteva essere beneficiati e immobili. Ora no. Ora non basta chiedere la grazia a santa Bce. Ora vale il diverso adagio: aiutati che Dio t’aiuta. E fai in fretta.

La riduzione del tasso d’interesse non ha effetti immediati sul sistema produttivo, né quel differenziale nel costo del denaro risulterà decisivo (si tenga presente che con il tasso Bce allo 0,15% i tassi reali, pagati dal sistema produttivo, oscillavano dal 4 al 9%). In quanto all’effetto riduttivo del cambio, avvantaggiandoci sul dollaro, ha effetti sicuramente positivi per le esportazioni, ma queste, importantissime, riguardano solo un pezzo del nostro mercato. Si avvantaggiano di più i tedeschi, se la mettiamo su questo piano. Iniziative come Tltro (rifinanziamento a lungo termine), ora targhettizzato sul sistema produttivo, non portano automaticamente i soldi dalle banche alle imprese. Non sono vasi immediatamente comunicanti. Serve che ci siano imprese intenzionate a chiedere credito per crescere ed espandersi, non solo per salvarsi e galleggiare. Tltro non sfiora i problemi di chi ha chiuso o si è trasferito. O si accinge a farlo. Se le aziende non assumono e licenziano non è solo perché il credito scarseggia, ma anche perché il fisco e la burocrazia abbondano e straripano. Gli stimoli monetari sono utili, ma da soli non producono effetti ragguardevoli. È un po’ come dare il Viagra a un paziente anestetizzato: se ne può anche (forse) propiziare la turgidezza, ma non ne può trarre alcun dinamico utile.

Il bello è che, tanto a Jackson Hole quanto nella conferenza stampa di Francoforte, Draghi lo ha detto e ripetuto chiaro e tondo: provo a fare la mia parte, ma senza riforme che fluidifichino i sistemi produttivi e li adeguino alla realtà della globalizzazione (le riforme definite “strutturali”, con una formula che più la si ripete e meno significa) e senza pulizia dei bilanci pubblici, non servirà a nulla. A questa evidenza dobbiamo aggiungere una postilla: la Bce parla dell’euroarea, giustamente, ma non sta scritto da nessuna parte che si muoverà tutta in modo omogeneo, anzi, sappiamo per certo che è avvenuto e avverrà il contrario. Questo significa che le iniziative Bce porteranno giovamento maggiore a chi si è mosso, minore a chi si muove in ritardo, nessuno a chi resta fermo. Possono anche mettere la stessa camicia, ma mentre il francese Manuel Valls (buttando fuori un ministro dell’economia che diceva di ispirarsi a Matteo Renzi) ha varato tagli per 50 miliardi, qui si cincischia su 20. Se continuiamo a parlare senza costrutto e senza concretezza, se continuiamo a biascicare gnagnere come “riforma degli ammortizzatori sociali” o “premio al merito”, “semplificazione” o “velocizzazione”, senza né dire che cosa significano, nello specifico, cosa comportano e come si ottengono, il solo effetto sarà l’aumento della distanza relativa fra l’Italia e gli europei che hanno capito.

A ciò aggiungete il peso e il costo del debito pubblico e avrete un risultato impressionante. La disputa sui tempi è surreale, se letta con i cronometri delle sceneggiate interne, mentre è decisiva se misurata con quelli delle opportunità da cogliere. La Bce ha prima conquistato e comprato tempo, favorendo anche chi era al volante ma faceva brum-brum con la bocca, ora passa a distribuir carburante, sicché i piloti immaginari resteranno al palo, mentre altri correranno altrove.

Casa, tassati e maltrattati

Casa, tassati e maltrattati

Massimo Fracaro e Nicola Saldutti – Corriere della Sera

Benjamin Franklin, inventore del parafulmine e uno dei padri fondatori degli Stati Uniti, considerava le tasse come una delle due cose inesorabili della vita. Da noi, quando si parla di tasse, c’è una terza cosa a cui sembra quasi impossibile sottrarsi: la complicazione per pagarle. I cittadini (non i sudditi, come spesso sono considerati) avrebbero sempre il diritto di sapere l’entità delle imposte da versare. E di conoscere questo dato in tempo sufficiente per poter programmare come distribuire i propri redditi tra i consumi, il risparmio, il rispetto dei doveri verso lo Stato e i Comuni.

Nel caso delle imposte sulla casa di questa pratica, che dovrebbe essere di ordinaria amministrazione in un Paese con rapporti equilibrati tra Fisco e cittadini-contribuenti, sembriamo essercene dimenticati. È successo per l’Imu nel 2012 e nel 2013. È successo per la Tasi – la tassa sui servizi comunali alla collettività nel suo insieme – nell’estate scorsa e sta succedendo anche adesso, alla vigilia dell’autunno. E se tre indizi fanno una prova come diceva Agatha Christie… A meno di un mese dalla scadenza, 3.100 Comuni su oltre 8.000 non hanno ancora fissato l’aliquota della nuova tassa dovuta dai proprietari immobiliari e, in qualche caso, dagli inquilini. La scadenza per decidere è fissata per domani, mentre la delibera comunale dovrà essere pubblicata sul sito del ministero delle Finanze entro il 18 settembre. Se la delibera viene pubblicata in tempo utile, la prima rata della Tasi andrà versata entro il 16 ottobre (e il saldo a dicembre). Se il Comune non fa in tempo, allora i cittadini interessati dovranno passare alla cassa direttamente a dicembre e pagheranno le aliquote standard e la Tasi in unica soluzione. Ma non è finita. Perché alcuni sindaci, virtuosi, avevano già chiuso la pratica Tasi a maggio e hanno già incassato la prima rata a giugno (a dicembre incamereranno la seconda). Insomma un ginepraio di regole e di scadenze che finisce per disorientare. Un’incertezza tributaria che frena i consumi e fa aumentare il risparmio improduttivo. Per non parlare, poi, della difficoltà di reperire, sul sito delle Finanze, l’aliquota Tasi, considerato il tono burocratico delle delibere. E la loro mole. Quella del Comune di Milano, relativa a tutte le tasse locali, è di 63 pagine.

Certo anche per i Comuni, alle prese con difficoltà di bilancio, non dev’essere stato facile impostare la politica fiscale, stabilire quali categorie esentare o quali detrazioni immaginare, ma i cittadini non si meritano di dover vivere in una simile Babele delle imposte in versione federal-comunale. Altro che bollettini precompilati, come promesso. Si è sempre sostenuto che, avvicinando le tasse e gli enti impositori ai cittadini, le cose sarebbero migliorate e la trasparenza complessiva sarebbe aumentata. Purtroppo non sembra sia andata così, almeno finora.

Complicato anche fare i confronti tra Tasi e Imu. E rispondere alla domanda che interessa tutti: pagherò di più? La sensazione è che la Tasi finirà per essere una tassa regressiva: inciderà, in proporzione, di più sugli immobili di minor valore e sulle famiglie con i redditi più bassi perché le detrazioni non sono paragonabili a quelle in vigore con l’Imu. La tassa regressiva, probabilmente, neanche l’eccelsa mente di Franklin sarebbe riuscito a inventarla.

Risparmiare è un bene, non può diventare il paracadute della paura

Risparmiare è un bene, non può diventare il paracadute della paura

Daniele Manca – Corriere Economia

L’Italia ha una grande fortuna. Si chiama risparmio. Per Kenneth Rogoff, uno dei maggiori studiosi al mondo di debiti sovrani, che lo raccontava al Corriere lo scorso sabato, è il motivo che rende più sopportabile e gestibile persino l’enorme indebitamento pubblico del Paese. Le famiglie non hanno perso la propensione a mettere da parte e a investire i propri soldi. E quando è accaduto, è stato solo perché la crisi o le tasse glielo hanno imposto. Ma anche in questi difficili momenti, l’atteggiamento non è cambiato.

Secondo Assogestioni nei primi sei mesi di quest’anno ai fondi sono arrivati circa 60 miliardi: la stessa cifra dell’intero 2013. Anche la consueta indagine della Coop sul consumi nota questa aumentata propensione al risparmio (per chi può permetterselo). Il segnale ha sicuramente un aspetto positivo che è quello di continuare a far affluire denaro (soprattutto attraverso una gestione professionale) al sistema economico. L’elemento che impensierisce è che questo risparmio contenga in sé la preoccupazione per il futuro. Che si tratti cioè di denaro accantonato per costituirsi delle riserve per fare fronte o a maggiori tasse o a maggiori spese dovute al cattivo stato dei conti pubblici. In poche parole un paracadute della paura.

Con le mosse e le dichiarazioni di Mario Draghi, presidente della Bce, c’è in Europa chi sta lavorando per rafforzare la ripresa fragile del Vecchio Continente. E allora da che cosa nascono queste preoccupazioni? Si sa che le aspettative di famiglie e imprese giocano un ruolo decisivo nell’andamento di un Paese. Se il quadro politico e incerto, se le riforme delle quali si parla stentano a decollare, se l’attività economica viene continuamente ostacolata e non agevolata, se crescita e sviluppo non sono la prima priorità, è difficile che le aspettative diventino positive.

Privatizzare: molte parole, nessuna politica

Privatizzare: molte parole, nessuna politica

Federico Fubini – Affari & Finanza

Un’occhiata all’indietro dà l’idea della strada che ci siamo lasciati alle spalle. Se le privatizzazioni di cui si parla oggi fossero state fatte prima della crisi finanziaria, sarebbe andata come segue: dalla vendita del 5% dell’Eni lo Stato avrebbe ricavato circa cinque miliardi di allora, cioè in termini reali tenuto conto dell’inflazione – più di quando si spera di raccogliere oggi vendendo il 5% sia di Eni stessa che di Enel. E una cessione di una quota del genere della società elettrica avrebbe prodotto due miliardi in più. Se non altro, forse la crisi del debito avrebbe agguantato l’Italia più tardi e sarebbe durata meno. Com’è noto la storia non si fa con i «se», neanche quella finanziaria. Ma guardare da dove veniamo, stimare l’enorme perdita di valore delle imprese a controllo pubblico in questi anni (esempio: nel 2006 Finmeccanica valeva il doppio di oggi) può aiutare ad affrontare il bivio al quale siamo di fronte. Vero è che il messaggio contenuto nelle occasioni perdute del passato resta ambivalente. Può dare ragione a Pier Carlo Padoan, quando il ministro dell’Economia sostiene che bisogna andare avanti senza soste con le cessioni di società e beni pubblici per arginare il debito. Ma può rafforzare anche la posizione di Matteo Renzi, che vuole prima far crescere il valore delle imprese ai livelli di quale anno fa e solo dopo venderne le quote. L’impressione è che per ora il premier abbia stoppato il proprio ministro più autorevole, proprio quando questi pensava di avere già il suo via libera.

Questa settimana i due continueranno a parlarne. Padoan dirà a Renzi che i ricavi da privatizzazioni di Eni e Enel, gli unici possibili in tempi brevi, servono quest’anno per non far saltare le metriche di contenimento del debito. Insisterà perché il piano non slitti. Probabilmente prospetterà al premier un compromesso: fra le banche d’affari di Londra c’è già la fila per proporre al governo varie tecniche di ingegneria finanziaria in modo da portare al Tesoro gli incassi da cessioni subito (come vuole Padoan) ma vendere le quote dopo (come dice Renzi). Si può lavorare con dei bond convertibili in azioni dei due grandi gruppi. Si può effettuare una vendita a termine. Di certo, sono tutti sistemi con i quali i banchieri della City incaricati dell’operazione finirebbero per guadagnare due volte a spese del contribuente: ricche commissioni al primo passaggio, quello dell’anticipo di cassa, e poi al secondo con la vendita vera e propria delle quote. Si può dunque essere scusati se si viene assaliti da un sospetto: quando le situazioni diventano così ingarbugliate, è perché nel Paese resta un’ambiguità di fondo. Non si è mai fatta chiarezza sull’uso migliore del patrimonio pubblico o sulla presenza dello Stato nei soli grandi gruppi rimasti. Non si riesce a decidere se la vogliamo o no, e perché. Si va avanti a fari spenti, un po’ a tentoni: il modo migliore per restare incagliati.  

Una finanza locale in cortocircuito

Una finanza locale in cortocircuito

Salvatore Padula – Il Sole 24 Ore

Il tormentone della Tasi si avvicina all’ennesima (ma non ultima) scadenza confermando e, anzi, rendendo ancor più evidenti i timori sull’effettivo peso del nuovo tributo sui servizi indivisibili dei Comuni. Le delibere, almeno quelle già approvate in oltre 4mila città (per le scelte sulla Tasi c’è tempo ancora fino a mercoledì), dimostrano senza ombra di dubbio che i sindaci continuano a considerare l’imposizione immobiliare come la via più semplice, anche se affatto indolore per i cittadini-proprietari, per far quadrare bilanci che da anni scontano pesanti tagli ai trasferimenti statali, regole più rigide sul Patto di stabilità interno, nuovi vincoli dettati dalla spending review.

Se è vero, come ricorda spesso Piero Fassino, presidente dell’Anci, che i Comuni tra il 2008 e il 2013 hanno avuto una riduzione di risorse pari a 17 miliardi, tra minori trasferimenti e «contributi al Patto di stabilità interno», allora non è difficile cogliere il senso delle scelte con cui molte città si sono misurate o si stanno misurando. A ciò va aggiunto che la spesa dei municipi – pur con un andamento più virtuoso rispetto a quello di altre amministrazioni – non ha davvero invertito la direzione di marcia: secondo i dati del Siope (uscite per cassa), nel 2013 le spese correnti hanno toccato i 55 miliardi, contro i 48 del 2008, mentre le spese in conto capitale sono scese l’anno scorso a 13 miliardi dai 20 del 2008. Le spese correnti tra il 2008 e il 2013 sono quindi cresciute del 14,5% rispetto a un’inflazione nel periodo dell’11 per cento. Certo, non va scordato che le uscite dei Comuni scontano nel 2013 l’effetto positivo dei piani per i pagamenti dei debiti alle imprese, ma non tutto il differenziale è (purtroppo) finito in quella direzione.

La combinazione di questi fattori spiega – ma non giustifica – il perché di un ricorso così spregiudicato all’utilizzo della leva tributaria. L’anno scorso i sindaci hanno incassato solo per Imu e addizionale Irpef quasi 20 miliardi (rispettivamente, 15,7 e 3,9), ai quali vanno aggiunti i 4,5 ottenuti dallo Stato come “rimborso” per l’Imu non pagata sulla prima casa. Nel 2008 si era ben distanti: 12,6 miliardi tra Ici e addizionale Irpef, più 3,3 di rimborsi Ici prima casa.

Viste le cifre in gioco, l’equazione è presto scritta: meno finanziamenti dallo Stato, spesa difficilmente contenibile, uguale pressione fiscale ai livelli massimi. Anzi, vien da pensare che quest’ultima finisca per diventare la “variabile dipendente”, determinata meccanicamente dall’andamento delle altre due voci. Ed è questa la spirale viziosa che va spezzata. Il rischio che a una riduzione dei trasferimenti e a maggiori vincoli sul Patto di stabilità i Comuni facessero fronte non con politiche di contenimento della spesa ma agendo sull’aumento delle tasse non era così imprevedibile (e anzi era stato ampiamente previsto).

La verità è che è giunto il momento di guardare avanti e uscire dalla vecchia disputa su chi pesa di più tra Imu e Tasi. C’è un sistema di prelievo sugli immobili da ripensare, cogliendo l’occasione della riforma del Catasto, che è importante ma che da sola non rimetterà tutto a posto ed eliminerà solo in parte le storture del prelievo attuale. Allo stesso modo, occorre immaginare meccanismi in grado di correggere la logica per cui lo Stato taglia e riduce, ma scarica sugli enti la responsabilità di trovare nuove risorse, cosa che i sindaci fanno puntualmente agendo sulle tasse. Serve, cioè, un progetto organico di finanza locale, non estemporaneo, capace di definire con chiarezza i rapporti tra centro e periferia. Ma capace anche di incidere realmente sulla spending review, di agire sugli sprechi e di restituire efficienza agli enti locali.

Tagli agli stipendi: giusti con giudizio

Tagli agli stipendi: giusti con giudizio

Giancarlo Mazzuca – Il Giorno

Al netto delle pensioni e degli interessi, la spesa pubblica ha iniziato a diminuire da noi nel 2011, con un calo che è stato però la metà di quello della Spagna e un terzo dell’Irlanda e del Portogallo. In Spagna sono state tagliate persino le tredicesime, in Grecia si è fatto molto peggio. Quindi dire, come fa Renzi, che nella pubblica amministrazione italiana “c’è troppo grasso che cola”, non è sbagliato. Anzi è corretto. Quindi il ricorso ai possibili tagli e al blocco degli stipendi è senz’altro una misura spiacevole ma giusta. Certo, si tratta di capire dove tagli e dove blocchi. Sarebbe un’azione molto positiva dare una robusta sforbiciata agli stipendi dei tanti politici (a tutti i livelli) che con la politica hanno trovato il paese della cuccagna e un posto di lavoro quando fare politica non dovrebbe essere una professione. Sarebbe invece una carognata bloccare lo stipendio a un poliziotto che prende 1.400 euro al mese e rischia ogni giorno la vita mentre potrebbe essere una soluzione positiva l’accorpare in qualche modo i 5-6 (ma quanti sono?) corpi di polizia.

In questa battaglia contro gli sprechi e la spesa pubblica, il pié veloce Renzi si è mosso in ritardo. Ha sbagliato cioè i tempi di intervento dopo avere avuto vari mesi per identificare nella spending review di Cottarelli i tagli che avrebbe dovuto fare ma non ha fatto. E solo di fronte al bisogno di trovare 20 miliardi in seguito ai calcoli sbagliati dei tecnici del suo governo, ha deciso il blocco degli stipendi della PA (ma nello stesso tempo l’annuncio di migliaia di assunzioni nella scuola per il prossimo anno, tutto da verificare) e i tagli lineari nei vari capitoli di spesa dei ministeri sulla scia di quanto fatto da qualche suo predecessore. Sbagliando un ‘altra volta perché il blocco dei contratti abbinato al blocco del turnover, rischia di rendere ancora meno motivato chi lavora nel settore.

Renzi ha commesso anche un altro errore. Nella sua strategia va avanti a muso duro, come un panzer, quando la tattica dovrebbe suggerirgli un po’ di buon senso: non può ignorare del tutto le parti sociali, i sindacati, che infatti sono già sul piede di guerra. E qui s’innesca un altro errore, questa volta dei sindacati che non possono più difendere l’indifendibile ma possono invece essere propositivi e fare pressing perché si aumenti la qualità del lavoro, si eliminino gli sprechi, si cambino norme vecchie, si puniscano gli illeciti. Sarebbe per il sindacato darsi quel nuovo ruolo che finora è mancato.

Basta con le riforme inutili che hanno affossato l’Italia

Basta con le riforme inutili che hanno affossato l’Italia

Renato Brunetta – Il Giornale

Sarebbe ora di finirla con la retorica delle riforme. Se ne sono fatte, da Monti in poi, più di 40, e l’Italia non è mai stata peggio di così. Quaranta riforme, dunque, che non sono servite a nulla. Quaranta riforme per obbedire all’Europa. Quaranta riforme sotto il ricatto dei mercati, sotto lo sguardo attento e interessato dei giornaloni, dei poteri forti, delle alte istituzioni benedicenti. Quaranta riforme inutili, se non dannose. Quasi sempre controriforme.

“Negli ultimi 18 anni (1996-2013) l’unico periodo in cui l’Italia ha fatto meglio della media Ue è stato il 2009-2010”: governo Berlusconi. Lo scrive, in uno studio di febbraio 2014, scenarieconomici.it, un sito di analisi politica ed economica fondato a marzo 2013 da un gruppo di

ricercatori indipendenti, che, con riferimento a 6 indicatori di finanza pubblica-economia reale (Pil, disoccupazione, produzione industriale, inflazione, deficit, debito), ha messo a confronto le performance dell’Italia rispetto alla media Ue. Quello del senatore a vita, professor Monti è risultato il peggior governo per l’Italia. Seguito subito dopo dall’esecutivo Letta. Anche se non è nuovo, in tutti questi mesi lo studio non è stato ripreso da nessun giornale; nessun opinion maker italiano ne ha mai parlato, tranne poche citazioni del sottoscritto. Allo stesso modo, lo studio non è stato confutato da nessuno. Proprio perché le analisi ivi contenute poggiano su basi solide. Ma in contrasto con i luoghi comuni della sinistra e dei giornaloni dei poteri forti. E per questo da ignorare. Allora perché citiamo questo studio, ancorché non nuovo? Perché ci serve per fare una considerazione.

Se quello di Berlusconi del 2008-2011 è stato il miglior governo dal 1996 a oggi, vuol dire che le riforme fatte in quegli anni erano buone, con impatto positivo sull’economia; mentre le riforme dei governi che si sono succeduti dopo sono state spesso inutili, oppure sbagliate, con effetti nulli, oppure dannose, oppure rimaste inattuate (si pensi a tutti i decreti attuativi arretrati che l’esecutivo non riesce a smaltire), oppure controriforme. Se quello di Monti è stato il peggior governo, quindi, le sue sono state o riforme sbagliate o, peggio ancora, controriforme. Da Monti in poi, l’elenco è lungo: i due provvedimenti Fornero su mercato del lavoro e pensioni, che hanno prodotto, rispettivamente, un milione di disoccupati in più e una spesa per esodati superiore ai risparmi derivanti dall’aumento dell’età pensionabile; il blocco delle riforme Sacconi sulla contrattazione decentrata; il blocco della detassazione dei salari di produttività; il pasticciaccio brutto di Imu prima e Tasi poi con riferimento alla tassazione degli immobili (triplicata tra prima del 2011 e oggi), con grave penalizzazione dei proprietari di case e crisi dell’intero settore edilizio, trainante per l’economia; la controriforma della Pubblica amministrazione; il blocco del processo di digitalizzazione, con la controriforma del “super ministro” Corrado Passera; il blocco dell’applicazione del merito nella Pa e nella scuola; il blocco del processo di privatizzazione e liberalizzazione delle Public utilities, come è avvenuto con il referendum contro la liberalizzazione del settore idrico, voluto e sostenuto dalla sinistra a giugno 2011; fino all’abolizione della norma che cancellava il reato di immigrazione clandestina, con tutto quello che ciò comporta, e che vediamo ogni giorno. E l’elenco potrebbe continuare. Tutte non riforme o controriforme.

Tutte controriforme rispetto a provvedimenti che, proprio grazie al governo Berlusconi, di cui scenarieconomici.it riconosce i meriti, avevano collocato il nostro paese nel mainstream europeo e rispetto ai quali negli anni successivi sono state fatte clamorose marce indietro, a danno dello sviluppo e della crescita dell’economia e della società italiane. Non riforme o controriforme volute da governi (Monti e Letta) non eletti, figli dei poteri forti e del conservatorismo sociale, con la benedizione dell’allora presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso, e della tuttora imperante cancelliera tedesca, Angela Merkel. Solo e sempre in chiave antiberlusconiana. Allo stesso modo, oggi Renzi governa senza aver ricevuto un diretto mandato democratico, e senza che il suo programma sia stato validato da una vittoria elettorale alle elezioni politiche. Non riforme o controriforme tutte approvate con decreto Legge, con il consenso plaudente del Colle più alto.

Che le riforme del governo Berlusconi fossero buone lo ha persino detto la Commissione europea quando, per esempio, il 24-25 giugno 2011 espresse il suo giudizio positivo sul Def e sul Piano nazionale delle riforme presentati dal governo Berlusconi, o quando espresse giudizio favorevole su tutti gli altri provvedimenti messi in campo per far fronte alla crisi nell’estate-autunno 2011, fino all’ottima valutazione anche della lettera di impegni che il governo italiano ha inviato ai presidenti di Consiglio e Commissione europea il 26 ottobre 2011, in occasione del Consiglio europeo di quel giorno, anche in risposta alla lettera che la Banca centrale europea aveva inviato al governo italiano il precedente 5 agosto.

Ma la stessa Europa che giudicava buone le riforme Berlusconi-Sacconi sul lavoro, Berlusconi-Gelmini sulla scuola, Berlusconi-Brunetta sulla Pa, Berlusconi-Romani sulle liberalizzazioni, Berlusconi-Matteoli sulle infrastrutture non poteva giudicare altrettanto buone riforme che, dopo pochi mesi, presentate via via da governi diversi, andavano nella direzione opposta. Non basta, dunque, dire riforme: occorre entrare nel merito delle stesse. Proprio per questo, Matteo Renzi dica che la sua riforma fiscale non sarà quella che vorrebbe l’ex ministro Vincenzo Visco, ma che deriverà, invece, dalla completa implementazione, nel più breve tempo possibile, noi abbiamo detto cento giorni, perché mille non li abbiamo, della delega fiscale, che porterà alla riduzione delle tasse, come fortemente voluto dal presidente della Commissione finanze della Camera, Daniele Capezzone. Renzi dica che per il mercato del lavoro non serve l’ennesima controriforma, come vorrebbe l’ex ministro Cesare Damiano, mentre occorre riprendere il processo di decentramento della contrattazione e della detassazione dei salari di produttività, come aveva cominciato a fare l’ex ministro Sacconi, i cui meriti sono stati riconosciuti anche dalla Banca centrale europea, con riferimento all’accordo del 28 giugno 2011 con le principali sigle sindacali e le associazioni industriali, che ha trovato poi la sua definitiva realizzazione nell’articolo 8 della manovra cosiddetta “di agosto” del 2011, nonché il superamento dello Statuto dei lavoratori, con particolare riferimento all’articolo 18, e la totale decontribuzione e detassazione delle nuove assunzioni.

Su questi due punti fondamentali per l’uscita dell’Italia dalla crisi deve finire l’ambiguità del presidente Renzi e le ipocrisie di Bruxelles, che saluta positivamente qualsiasi riforma venga proposta senza entrare nel merito, purché arrivi da governi proni e supini ai suoi diktat. Ma la via delle riforme deve essere tracciata dalla Germania in casa propria: l’enorme surplus delle partite correnti in quel paese fa male all’Europa intera e impedisce agli altri paesi di rispettare le regole. Per questo la reflazione in Germania, attraverso una grande riforma fiscale che aumenti la domanda interna, è il primo passo da compiere per riportare l’Eurozona a crescere. A ciò si aggiunga un grande piano di investimenti in reti tecnologiche, di telecomunicazione, infrastrutturali, di trasporto e di sicurezza. 300 miliardi di euro, quelli proposti dal presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, che possono aumentare fino a raddoppiarsi se nel programma sarà coinvolta la Banca europea degli investimenti o si utilizzerà, solo per garanzia, l’oro eccedentario delle banche centrali nazionali. Dati i tassi di interesse al minimo storico, decisi dalla Bce di Mario Draghi giovedì scorso, il momento è straordinariamente favorevole per tutti.

New deal europeo, quindi, reflazione in Germania, riforma fiscale e del mercato del lavoro in Italia, eurobond, project bond, joint-ventures pubblico-privato. E soprattutto, basta ipocrisia o ambiguità: Renzi ha continuato la linea Monti e Letta del «decretismo» forsennato, e ne è rimasto vittima. Cambi verso. Chieda alla Germania di reflazionare, chieda che l’impianto miope ed egoista della politica economica europea, che negli anni della crisi ha distrutto l’Europa, cambi, non solo sul piano economico, ma anche su quello geopolitico. La smetta con la retorica delle riforme, un tanto al chilo, e si concentri innanzitutto su 2, semplici: fisco e mercato del lavoro. Ma nella direzione giusta. E in Europa segua il piano Draghi-Juncker: politica monetaria espansiva, riforme, investimenti e flessibilità. Ne beneficerà l’Italia, ne beneficerà l’Europa, ne beneficerà il governo, ne beneficerà Renzi. Con buona pace dei gattopardi.  

Il nuovo welfare? Deve cambiare, non copiare i modelli

Il nuovo welfare? Deve cambiare, non copiare i modelli

Dario Di Vico – Corriere della Sera

Probabilmente quello di ieri sarà ricordato come il discorso delle Isole Tonga per l’affermazione, paradossale ma non troppo, che è più facile fare impresa in Polinesia che in Italia. Sergio Marchionne dopo il meeting di Rimini ha voluto marcare la sua presenza anche a Cernobbio e ha fatto l’en plein. E non solo per la lunga ovazione che ha salutato la fine del suo intervento. Innanzitutto ha dato sostanza e adrenalina a un’edizione del workshop Ambrosetti che rischiava di passare agli annali esclusivamente per le polemiche a distanza con il premier Matteo Renzi e le rubinetterie bresciane. Poi l’amministratore delegato della Fiat Chrysler ha avuto anche la capacità di riportare al centro della riflessione di Villa d’Este l’economia reale, laddove nei giorni precedenti avevano dominato ancora una volta gli economisti-scenaristi e gli eurocrati di Bruxelles, entrambi restii ad appassionarsi di fabbriche e di tecnologie. Mancava la voce degli imprenditori e con Marchionne è finalmente arrivata, senza lesinare sui decibel. Per completare il quadro varrà la pena ricordare che in questo settembre 2014 si discuterà in Italia di riforma del lavoro, mezza Europa vigilerà sui tempi dell’approvazione parlamentare del Jobs act e Marchionne ha detto la sua. Ha invitato la politica a ripensare profondamente il rapporto tra Stato, lavoratore e imprese senza dover per forza importare questo o quel modello straniero ma tentando di costruire una via italiana alla flexicurity.



Per tentare di capire ancora meglio l’affondo di Marchionne può avere un senso ricordare come diversi imprenditori in questo periodo cerchino di attirare l’attenzione sui mutamenti dei cicli economici dopo la Grande crisi. Mi è capitato di leggere di recente un’intervista al capo-azienda di una delle nostre multinazionali tascabili che raccontava in maniera efficace di “aziende stressate, ordini che arrivano all’ultimo o che all’ultimo vengono cancellati, continue modifiche tecniche, nuovi mercati che esplodono all’improvviso costringendoci a rivedere le strategie”. È questo in sostanza l’ambiente economico in cui si andrà operare e quand’anche la ripresa sarà arrivata avrà comunque queste caratteristiche. I cicli lunghi ce li possiamo scordare e come ieri ha sintetizzato il ministro Federica Guidi, anche lei presente a Cernobbio: «Le aziende non hanno più un portafoglio ordini a sei mesi ma a sei giorni».

Ma ci sono oggi le condizioni per una riflessione di così ampia portata, come quella delineata da Marchionne? E il governo Renzi se ne farà davvero carico a costo di aprire un nuovo fronte polemico dentro il Pd e con la Cgil? Il top manager Fiat evidentemente pensa di sì, spiega che non bisogna privilegiare la difesa statica del singolo posto di lavoro ma la persona favorendone la mobilità sociale e la formazione perché – sia chiaro a tutti – «noi non vogliamo lavoratori usa-e-getta ma persone coinvolte». Tutti concetti che ricordano molto da vicino le eresie del giuslavorista Pietro Ichino, spesso sottovalutate dal mondo confindustriale. E non a caso l’amministratore delegato di Fiat Chrysler ha voluto ancora una volta ricordare come «pur di riconquistare una libertà di contrattazione» con i propri dipendenti l’azienda avesse deciso a suo tempo di uscire da Confindustria. Chiudendo Marchionne ha aggiunto che da sei anni le attività italiane sono in perdita e nonostante ciò non è stato chiuso nessuno stabilimento o licenziato nessuno e il motivo primo è che «siamo fondamentalmente italiani». Una frase che i suoi avversari non gli abboneranno facilmente. A cominciare da Roberto Maroni che ieri sull’italianità della Fiat è stato più caustico dei sindacalisti.