Edicola – Opinioni

Mille giorni all’alba

Mille giorni all’alba

Giuseppe Turani – La Nazione

Mille giorni per cambiare l’Italia a molti sono sembrati un’abile fuga in avanti. Un modo per non prendere impegni troppo ‘vicini ‘ e quindi facilmente verificabili. Mille giorni, però, sono probabilmente pochi. Due soli dati per capire come siamo messi male: oggi il sistema Italia, invece di produrre ricchezza, produce mille disoccupati al giorno. È un po’ come se avessimo inventato un’economia che gira all’incontrario Il secondo dato è che nella classifica mondiale dell’alta velocita su Internet (la modernità) siamo al 98esimo posto: siamo dietro alla Grecia e, se può consolarci, davanti al Kenya.

A questo si può aggiungere il fatto che sono almeno 10-15 anni che l’Italia non cresce. E questo nonostante si sia fatto larghissimo ricorso ai debiti. Gli esperti di Oxford Economics, e questa è una buona notizia, collocano il punto di svolta, dove cesseremo di andare indietro, in un momento che si colloca qualche settimana fa. Se hanno ragione, dovremmo già avere imboccato la strada buona. Ma gli stessi economisti ci dicono che nel periodo 2014-2018 la crescita media annuale dell’Italia sarà solo dello 0,9 per cento. Nel periodo successivo (2019-2023) la nostra crescita media annua dovrebbe essere dell’1,1 per cento. E prevedono, nel 2023, una disoccupazione ancora del 9,3 per cento: cioè quasi un italiano su dieci senza lavoro.

Quali siano le cose da cambiare lo si sa da sempre: meno burocrazia, meno spese folli della pubblica amministrazione, sindacati piccoli e grandi meno corporativi, una giustizia ‘umana ‘ nel senso che interviene in tempi ragionevoli). Per fare tutti questi cambiamenti bastano mille giorni? Io dico di no. Allora Renzi mente? No. Penso che speri di farci vedere qualcosa, qualche cambiamento in questi mille giorni, che ci faccia venire voglia di andare avanti davvero, smantellando l’Italia delle caste, dei ceti protetti, delle tonnellate di carta che vagano da un ufficio all’altro. Sono ottimista? Forse. Però se nessuno cambia questa Italia, questa Italia continuerà a essere una piccola cenerentola, mal sopportata dagli altri e che non garantirà niente ai giovani di oggi.

Gli imprenditori si coalizzino per cambiare l’agenda di Renzi

Gli imprenditori si coalizzino per cambiare l’agenda di Renzi

Bruno Villois – Libero

I 1.000 ipotetici futuri giorni dell’agenda del governo sono l’ultima trovata di Matteo Renzi. Il premier non passa giorno che non si inventi qualcosa per allungare la vita dell’esecutivo, avendo in mente chissà quali illtuninate idee in grado di modificare una situazione economica che non promette nulla di buono per il nostro paese. Le previsioni per i prossimi due anni per la salute della nostra economia sono tutt’altro che rosee, i più ottimisti si espongono per un complessivo aumento del Pil di 2,5 punti, gli obiettivi per meno di 2 punti e i pessimisti limitano la crescita ad un punto e poco più.

A fronte della limitata e adeguata crescita del Pil, si può prevedere un debito pubblico vicino o leggermente superiore ai 2.200 miliardi (+3% sull’attuale), gravato di interessi annui di almeno 50 miliardi di euro (qualcosina in meno se Draghi fa partire misure straordinarie a favore della ripresa). Anche dal punto di vista industriale non ci si può attendere gran che. Le principali 1.000 imprese italiane hanno ormai portato le loro produzioni entro confine, ma ben sotto il 50%, mentre Fiat, dopo la fusione con Chrysler, produrrà da noi meno del 10%, il tutto aggravato dal fatto che l’azienda pagherà le tasse non più in italia, avendo spostato la sede all’estero, esempio che sta riscuotendo, per ora, manifestazioni di interesse da parte di diversi maxi gruppi nostrani, stanche di pagare una tassazione che sfiora il 45%, interesse che potrebbe tradursi in fatti concreti già dal 2015.

Le altre principali aziende italiane di medie dimensioni, la cui attività è agganciata a forniture per Germania e Stati Uniti, potrebbero veder aumentare il rallentamento degli ordini dovuto ad un calo di domanda da parte dei due maggiori importatori di prodotti italiani. Se così fosse, ne seguirebbe una diminuzione dei tributi da parte dello Stato con significativa incidenza per i conti pubblici. Le piccole partite Iva, oltre 5 milioni, totalmente dipendenti dalla domanda di consumi interni, in assenza di politiche continuative di stimolo agli acquisti nel prossimo biennio continueranno a subire una costante diminuzione di redditività dovuta proprio alla deflazione che si è affacciata nell’ultimo mese rilevato da Istat. Senza dimenticare che la parte più debole delle Pmi, da stimarsi in circa 1/5 dei 5 milioni prima citati di partite Iva, è a totale rischio di sopravvivenza, in assenza di un deciso rilancio dei consumi.

Anche dal punto di vista bancario, nonostante le declamate attese renziane, per utilizzare i 200 miliardi di euro forniti, pro famiglie e soprattutto piccole imprese, ci si deve aspettare ben poco, per almeno due motivi: le restrittive disposizioni delle varie Basilea impediscono alle banche di concedere prestiti ad aziende che non hanno i fondamentali finanziari adeguati alla tipologia del prestito, inoltre dopo gli accantonamenti di oltre 150 miliardi di euro dovuti a perdite per crediti inesigibili, le banche italiane non andranno certo a rischiare sulla loro pelle, anche se le risorse arrivano dalla Bce. In sintesi non esistono motivi validi, a livello economico-finanziario, per tirare avanti altri mille giorni con l’attuale esecutivo.

L’unica possibilità per allungare la vita del governo è quella di concentrare ogni sforzo, sia economico-finanziario che di progettazione e programmazione, sulla realizzazione di una politica industriale e commerciale, definita nei particolari e scadenzata nei tempi, in grado di identificare i comparti e settori su cui puntare gli investimenti pubblici e attrarre quelli privati, mettendo a disposizione agevolazioni concrete per gli insediamenti e defiscalizzando i conferimenti di capitale o patrimoniale destinati alla crescita delle imprese e alla loro patrimonializzaizione, in modo da poter ottenere adeguati prestiti da parte del sistema bancario. Renzi e suoi ministri hanno rinviato a fine settembre i contenuti del programma dei mille giomi, giusto aspettare i contenuti prima di giudicare, nel frattempo le categorie economiche dovrebbero, a mio parere, coalizzarsi per chiedere di puntare su una vera e nuova politica industriale e commerciale, quale primo obiettivo del Governo.

La T-ltro e i benefici (limitati) per le pmi

La T-ltro e i benefici (limitati) per le pmi

Maximilian Cellino – Il Sole 24 Ore

Un nuovo taglio dei tassi, l’avvio di un piano di riacquisti di Abs o il tanto agognato quantitative easing in salsa europea. Il toto-Bce impazza fra operatori e analisti in vista dell’appuntamento di domani a Francoforte, con il concreto rischio che il mercato si sia forse spinto troppo in là con l’immaginazione nelle ultime settimane. Qualcosa di certo pero l’Eurotower lo ha già sulla rampa di lancio: il nuovo piano di finanziamenti a lungo termine finalizzato alla concessione di credito (T-Ltro), che prenderà il via con l’ormai prossima asta del 18 settembre e che avrà una seconda puntata a dicembre.

Da qui a fine anno sul piatto ci sono 400 miliardi, che le banche europee dovrebbero girare alle imprese e che potrebbero diventare anche mille, secondo quanto ipotizzato dallo stesso Mario Draghi, da qui al 2016 se il piano dovesse funzionare. Il punto in questione, in sostanza, è proprio questo: quanti fondi chiederanno gli istituti di credito? E soprattutto, riuscirà questo denaro a raggiungere materialmente le aziende in difficoltà per il credit crunch?

Sul primo aspetto, un recente studio di Barclays ha stimato in quasi 270 miliardi le richieste che potranno pervenire nelle prime due operazioni T-Ltro, con una preferenza per l’appuntamento di dicembre in modo da gestire in modo migliore la concomitante scadenza delle Ltro varate ormai anni fa: una cifra questa che riscuote consenso anche fra le altre banche d’affari, così come l’ipotesi che a farsi avanti siano soprattutto gli istituti della «periferia» europea, italiani e spagnoli in testa.

Obiettivamente più complicato è capire se effettivamente questa liquidità (che poi è nuova soltanto in parte, perche va a rimpiazzare raccolta già esistente, Ltro in primis) prenderà la strada dell’economia reale e servirà davvero ad aiutare migliaia di piccole imprese in affanno. Qui i dubbi sono più che legittimi, se si pensa all’utilizzo che è stato fatto degli oltre mille miliardi ottenuti attraverso le più volte citate Ltro e anche ai risultati (scarsi per ora) raggiunti dal «funding for lending» della Banca d’Inghilterra, il piano che più si avvicina ai finanziamenti vincolati che la Bce si prepara a erogare.

Alcuni sondaggi condotti nelle ultime settimane da Morgan Stanley mostra che un certo scetticismo aleggia anche fra le banche stesse, e non soltanto per la debolezza della domanda di prestiti (che spiegherebbe, secondo gli analisti, per 2/3 la contrazione del credito). C’è infatti il pericolo che quel denaro sia riutilizzato essenzialmente per rifinanziare aziende con il merito di credito più elevato (tipicamente, le più grandi) ignorando invece le Pmi che poi sono il vero obiettivo del piano.

La stessa Morgan Stanley si spinge però a stimare una possibile riduzione del costo del finanziamento per una piccola o media impresa spagnola compreso fra 30 e 80 punti base (cioè 30-80 centesimi), mentre in Italia l’impatto sarebbe più limitato (20-40 centesimi) perché la redditività inferiore delle banche di casa nostra tenderebbe di fatto a limitare il trasferimento dei benefici alla clientela. L’intervento Bce andrebbe in sostanza nella direzione giusta, servirebbe cioè a ridurre la frammentazione esistente sui mercati del credito nell’Eurozona. Non riuscirebbe tuttavia a colmare il divario esistente. Perché se è vero che in base ai dati pubblicati dalle Banche nazionali un’azienda italiana ha ottenuto a giugno un nuovo finanziamento a un tasso medio del 3,09% e una spagnola al 3,48%, è innegabile che le francesi e le tedesche paghino ancora molto meno (rispettivamente il 1,23% e 11,93%). E per i prestiti di importo inferiore al milione (3,96%) e quelli sotto i 250mila euro (4,54%), sicuramente più indicativi per le Pmi, il solco è addirittura più netto.

Per le aziende italiane qualche risparmio però ci sarebbe: ipotizzando una dinamica dei prestiti simile a quella recente (dal luglio 2013 al giugno 2014 in Italia sono stati erogati nuovi finanziamenti per quasi 385 miliardi) le T-Ltro targate Bce potrebbero comportare una minor spesa complessiva in termini di interessi compresa fra 770 milioni e 1,54 miliardi di euro. Benefici che sarebbero ovviamente più limitati sul complesso dei prestiti inferiore al milione di euro (477 milioni) e ai 250mila euro (264 milioni): non sarà forse la panacea che molti si auguravano dalle T-Ltro, ma si tratta pur sempre di un passo avanti.

La sveglia di Draghi per la politica

La sveglia di Draghi per la politica

Jean Pisani Ferry – Il Sole 24 Ore

I banchieri centrali vanno spesso fieri di essere noiosi. A eccezione di Mario Draghi. Due anni fa, a luglio 2012, il presidente della Banca centrale europea colse tutti di sorpresa annunciando che avrebbe fatto «whatever it takes», ovvero qualsiasi cosa, per salvare l’euro. L’impatto fu grande. In questi giorni Mario Draghi ha approfittato del simposio annuale dei banchieri centrali a Jackson Hole, nel Wyoming, per lanciare un’altra bomba. Il suo discorso stavolta è stato più analitico, ma non meno ardito.

1) Il governatore della Bce ha preso posizione nel dibattito in corso sulla risposta politica più adeguata per far fronte all’attuale stagnazione dell’eurozona. Draghi ha sottolineato che, oltre alle riforme strutturali, bisogna sostenere la domanda aggregata e che il rischio di fare «troppo poco», supera quello di fare «troppo».
2) Draghi ha confermato che la Banca centrale europea è pronta a fare la sua parte per stimolare la domanda aggregata e ha parlato del quantitative easing, la politica di acquisto di bond, come strumento necessario in un contesto in cui le aspettative inflazionistiche sono scese sotto l’obiettivo ufficiale del 2 per cento.
3) Suscitando la sorpresa dei più, Draghi ha aggiunto che c’è spazio per una posizione fiscale più espansionistica nell’eurozona in generale. Per la prima volta, il governatore ha affermato che l’eurozona ha sofferto per l’insufficienza e l’inefficacia delle politiche fiscali di Usa, Regno Unito e Giappone attribuendolo non agli elevati deficit pubblici preesistenti, ma al fatto che la Bce non potesse fare da cuscinetto finanziario ai governi e risparmiare alle autorità fiscali la perdita della fiducia del mercato. Inoltre, ha auspicato un dibattito fra i membri dell’euro su una politica fiscale unitaria dell’eurozona.

Draghi ha infranto tre tabù in un colpo solo: 1) Ha fondato il suo ragionamento sul concetto eterodosso di un mix politico che combina misure monetarie e misure fiscali. 2) Ha parlato esplicitamente di una politica fiscale comune quando l’Europa ha sempre ragionato solo su base nazionale. 3) La sua affermazione secondo la quale impedire alla Bce di agire come prestatore di ultima istanza comporta uno scotto elevato – rendendo vulnerabili i governi e riducendo il loro spazio fiscale – contraddice il principio secondo il quale la Banca centrale non deve sostenere il prestito ai governi.

Il fatto che Draghi abbia scelto di sfidare l’ortodossia, in un momento in cui la Bce ha bisogno di sostegno per le proprie iniziative, fa capire quanto sia preoccupato per la situazione economica dell’eurozona. Il suo messaggio è che il sistema politico, così come funziona attualmente, non è adatto alle sfide che si prospettano all’Europa, e che sono necessari ulteriori cambiamenti politici e istituzionali. Ora resta da vedere se – ed eventualmente come – questo coraggio a parole si tradurrà in un’azione politica. Ci sono sempre meno dubbi sui benefici del quantitative easing da parte della Bce, quella misura che è stata a lungo considerata come troppo “non convenzionale” per essere contemplata, ha gradualmente guadagnato consensi. A livello operativo sarà difficile da attuare perché la Bce, a differenza della Federal Reserve, non può contare su un mercato obbligazionario unificato e liquido, e la sua efficacia resta incerta. Ma con buona probabilità si farà.

Al tempo stesso ci sono pochi dubbi sul fatto che la politica fiscale non soddisferà le aspettative di Draghi. In Europa manca una visione comune su una politica fiscale e il cuscinetto che la Bce potrebbe offrire agli Stati sovrani può essere concesso solo ai Paesi che s’impegnano ad adottare una serie di politiche negoziate. Persino questo sostegno condizionato nel quadro del programma di Outright monetary transactions (Omt) della Bce è stato osteggiato dalla Bundesbank e dalla Corte costituzionale tedesche. L’iniziativa di Draghi su questo fronte andrebbe così interpretata non solo come un’esortazione a passare all’azione, ma anche e forse ancora di più, come un’esortazione a riflettere sull’approccio futuro della politica europea. La questione è la seguente: come può l’eurozona definire e attuare una politica fiscale comune senza avere una politica di bilancio comune?

L’esperienza internazionale mostra che il coordinamento volontario serve a poco. Quanto è accaduto nel 2009 è stata una rara eccezione; crolli come quello seguito alla bancarotta di Lehman Brothers – così improvvisi, nefasti e fortemente simmetrici – si verificano una volta in decine e decine di anni. All’epoca, tutti i Paesi si sono trovati praticamente nella stessa situazione e tutti hanno condiviso la stessa preoccupazione che l’economia globale potesse scivolare in una depressione. Oggi il problema dell’Europa, per quanto serio, è diverso: un significativo sottogruppo di Paesi non ha uno spazio fiscale in cui muoversi e non sarebbe così in grado di sostenere la domanda. E, anche se la Germania sta andando molto meglio di tutti ed è dotata di uno spazio fiscale, non intende usarlo a beneficio dei suoi vicini di casa. Se deve essere intrapresa un’azione fiscale congiunta, occorre mettere in atto un meccanismo specifico per farla partire. Si potrebbe pensare a una procedura decisionale congiunta che, in alcune condizioni, prevedesse l’approvazione del Parlamento nazionale e di una maggioranza di Paesi membri (o dal Parlamento europeo) per le normative sul bilancio.

Oppure si potrebbe pensare a un meccanismo ispirato ai permessi di deficit negoziabili immaginati da Alessandra Casella della Columbia University: ai Paesi verrebbe concesso un permesso sul debito, ma sarebbero liberi di negoziarlo. Un Paese che mira a registrare un deficit minore potrebbe così decidere di cedere il suo permesso a un altro che intende registrarne uno più elevato. In questo modo sarebbe raggiunta la soglia comune prevista pur venendo incontro alle preferenze nazionali. Qualsiasi meccanismo del genere pone una serie di domande, ma il fatto che sia l’autorità responsabile dell’euro a sollevare la questione fa capire come l’architettura della moneta comune sia ancora in divenire. Pochi mesi orsono, erano tutti d’accordo sul fatto che fosse ormai superato il momento di ripensare l’euro e che l’eurozona avrebbe dovuto convivere con l’architettura ereditata dalle riforme attuate con la crisi. Ora non è più così. Potrebbe volerci del tempo prima di raggiungere un accordo e prendere delle decisioni, ma il dibattito riprenderà. E questa è una buona notizia.

Riforme economiche a passo di carica

Riforme economiche a passo di carica

Stefano Micossi – Corriere della Sera

Caro direttore, è chiaro a tutti che l’agenda del governo debba ora concentrarsi sulla realizzazione dell’ambizioso programma di riforme economiche annunciato al momento della sua costituzione – si può sperare, con lo stesso passo di carica adottato per le riforme costituzionali in Senato. La partita si vince o si perde con la nuova Legge di stabilità (il bilancio 2015-2017) e i1 Jobs Act. Su questo, la discussione in corso non mi sembra sempre sufficientemente lucida.

In primo luogo, meglio prendere atto che non vi sono margini nel bilancio pubblico per un sostegno significativo della domanda; continuare a parlarne è una perdita di tempo. Va anche ricordato, però, che il bonus in busta di 80 euro, le misure già adottate per sbloccare i pagamenti arretrati delle amministrazioni pubbliche e quelle in gestazione per sbloccare i cantieri, spendendo quel che già è stato stanziato, implicano una spinta notevole all’economia, che certamente inizierà a manifestarsi con intensità crescente a partire dall’autunno.

In secondo luogo, la discussione sulla Legge di stabilità dovrebbe riferirsi ai dati reali: i tagli di spesa programmati, o sperati, dalla spending review – per ricordare, 17 miliardi entro il 2015, 34 miliardi a regime – sono già quasi interamente impegnati. Infatti, il govemo eredita dai predecessori circa 16 miliardi di aumenti di spese e riduzioni di entrata non coperti, ai quali occorre aggiungerne altri dieci per la copertura permanente del bonus e, con ogni probabilità, qualche altro millardo per restituire la Robin tax tremontiana sui petrolieri (che la Corte costituzionale si appresta a dichiarare contraria alla Costituzione). Quel poco che avanza, andrà destinato al miglioramento del saldo strutturale di bilancio. Dunque, da qui non può venire neanche un penny per abbattere il cuneo fiscale: la spending review non libera risorse, serve solo per evitare maggiori tasse per risorse già distribuite.

Le risorse per ridurre il cuneo fiscale nella misura necessaria – due punti percentuali di Pil, come recentemente suggerito anclie sulle colonne del Corriere – non possono allora che venire da una riforma fiscale che sposti i carichi d’imposta verso le imposte indirette, attraverso la graduale convergenza (su un arco pluriennale) di tutte le aliquote dell’Iva verso l’aliquota ordinaria (22 per cento). Essa richiede, naturalmente, di cornpensare i nuclei famigliari meno abbienti con trasferimenti diretti di reddito i quali, trattandosi di persone che non compilano la dichiarazione dei redditi, possono essere realizzati attraverso l’lnps. L’aumento dell’lva produrrà due ulteriori effetti benefici: farà salire l’inflazione, pericolosamente vicina allo zero, e migliorerà la competitiviltà di prezzo dei nostri prodotti sul mercato domestico (una specie di svalutazione fiscale). Si tratta di una delle riforme che le istituzioni europee ci chiedono da tempo; la Legge di stabilità è lo strumento giusto per realizzarla.

Poi viene il Jobs Act. Con le regole attuali, assumere, gestire il rapporto di lavoro e licenziare è troppo complicato; il precariato e i bassi tassi di occupazione ne sono la diretta conseguenza. Serve un contratto di lavoro nuovo, molto libero a meno di poche garanzie fondamentali, nel quale durata e principali condizioni siano fissate liberamente tra le parti. L’idea che la riforma si risolva in una vacanza temporanea dalle regole attuali è stupida e autolesionistica. Inoltre, la riforma sarebbe monca se non si accelerasse la piena attuazione al meccanismo dell’Aspi, introdotto dal governo Monti, e non si iniziasse fin d’ora ad utilizzare i contratti di ricollocamento per superare il barocco sistema della cassa integrazione straordinaria e in deroga e muovere con decisione verso il nuovo sistema di flexi-security. Anche qui servono risorse, forse fino a due punti percentuali di Pil: possono venire in parte dallo smantellamento dei sostegni attuali alla disoccupazjone, in parte dai fondi strutturali, come da ternpo va suggerendo anche Tito Boeri.

Ecco, questo è il carnet impegnativo, ma non impossibile, con il quale il presidente del Consiglio potrebbe presentarsi in Europa quest’autunno: argomentando, allora sì con credibilità, che di nuove manovre correttive non se ne parla, né per il disavanzo né per il rientro dal debito, fino a che l’economia non avrà ripreso a crescere.

L’uomo dei risparmi ora aumenta il bus

L’uomo dei risparmi ora aumenta il bus

Roberto Onofrio – Il Secolo XIX

Un taglio netto alle società partecipate, che in Italia sono più di 10 mila. Bene. Nel giro di un anno se ne potrebbero eliminare almeno 2 mila, garantendo a Regioni e Comuni 500 milioni di minori spese. Ottimo. Una politica anti-sprechi che in 3 anni assicurerebbe dai 2 ai 3 miliardi di risparmi. Fantastico. Il programma snocciolato ieri dal commissario alla spendíng review, Carlo Cottarelli, a proposito di società partecipate, ha un tono convincente, armonico. Giusto. Èpiù che corretto voler

sfoltire una giungla di municipalizzate che la politica italiana ha fatto crescere in questi anni in modo sconsiderato, per moltiplicare esponenzialmente incarichi, poltrone, consulenze. È più che legittimo volersi almeno avvicinare un po’ a Paesi molto più virtuosi, su questo fronte, come la vicina Francia, che non ha più di mille società partecipate.

Quello che stona, però, nel ragionamento proposto da Cottarelli, è il richiamo riferito al trasporto pubblico locale, perennemente deficitario. Che cosa “inventa” il commissario per risanare i bilanci in rosso di queste partecipate? L’aumento di ticket e abbonamenti. Per allinearsi ai parametri europei, dice, che contemplano prezzi più alti di quelli italiani. Peccato: c’è un sentore di già visto e

già sentito in questa ricetta, che difficilmente può disegnare un futuro diverso. Il cittadino, così, continua ad avere la sensazione – che è più di una sensazione – di dover essere comunque il terminale a cui chiedere il vero sacrificio per risanare i deficit di chi ha ideato e gestito (male) le varie aziende del trasporto pubblico. Non solo. Il paragone con i costi più alti richiesti in altri Paesi europei, che dovrebbe giustificare gli aumenti, è improprio. Per essere corretto dovrebbe mettere a confronto anche l’efficienza del servizio, l’ampiezza della rete, i tempi di percorrenza, la puntualità, la pulizia e il decoro dei mezzi e delle strutture. Tutte condizioni che, se realizzate anche in Italia, allargherebbero la platea degli utenti e quindi anche gli incassi.

Pagare il biglietto è giusto, cosi come trasformare i controllori in pubblici ufficiali, se può servire a scoprire chi fa il furbo. Meno nobile (e fin troppo semplice) sembra l’intenzione di chiedere un sovrapprezzo a chi continua a sopportare in silenzio disagi e disservizi.

Sta per scoppiare la bolla speculativa chiamata Matteo

Sta per scoppiare la bolla speculativa chiamata Matteo

Maurizio Belpietro – Libero

C’è una bolla speculativa che minaccia di esplodere provocando vari danni nel nostro Paese. La bolla si chiama renzismo, fenomeno mediatico che è stato gonfiato ad arte da chi aveva il compito di vigilare e invece ha preferito, per calcolo o incapacità, chiudere non solo un occhio ma tutti e due. Il renzismo è un atteggiamento di totale fiducia che ha colto gli italiani dopo anni di delusioni. Senza che nessuno li mettesse in guardia, gli elettori si sono dunque affidati ciecamente alle promesse del presidente del Consiglio, accogliendo senza perplessità ogni sua dichiarazione. Risultato, dopo sei mesi di governo con la disoccupazione alle stelle, il debito pubblico fuori controllo, un’inflazione che ci ha fatto tomare indietro di 50 anni e un Pil in discesa, la fiducia in Renzi comincia a vacillare e con essa l’idea che bastasse un rottamatore per rottamare la crisi.

I segnali che ci fanno intravedere il rischio di un’esplosione della bolla speculativa sono più d’uno e tutti portano il marchio della disillusione. Come spesso accade, anche perché quando ha un’idea in testa non si tiene un cecio in bocca, il primo a parlare è stato Diego Della Valle, cioè l’imprenditore che aveva seguito con gioia la discesa in campo del pifferaio magico di Firenze. Il padrone delle Tod’s all’improvviso, mentre ancora Renzi aveva il vento in poppa perché non erano stati resi noti i dati riguardanti il Prodotto interno lordo, se n’è uscito con un’invettiva contro i riformatori al gelato, accusando il premier di voler cambiare la Costituzione senza avere rispetto del sistema di pesi e contrappesi messo a punto dall’Assemblea costituente. Poteva sembrare un’invettiva dettata da rancori personali, magari dalla stangata sulle aziende ferroviarie che rischia di mettere in ginocchio una delle società dell’imprenditore a pallini. E invece, dopo la sparata di Della Valle ne sono arrivate altre e quasi tutte di gente che sei mesi fa aveva gratificato il capo del governo di un’ampia apertura di credito.

Prima Giorgio Squinzi, il quale da presidente di Confindustria aveva salutato Enrico Letta con la carta vetrata, minacciando di rivolgersi direttamente al capo dello Stato. Un calcio negli stinchi cui era seguito un incontro proprio con Renzi, non ancora premier ma già segretario del Partito democratico. Ma se quella di Squinzi allora era sembrata un’investitura da parte del capo degli imprenditori, qualche giorno fa è arrivata la sconfessione, con un discorso molto critico sulla situazione economica e i famosi 80 euro. Come se non bastasse, si è aggiunta la botta di Sergio Marchionne, un altro che aveva guardato a Renzi con grande entusiasmo. Al manager con il pullover non è piaciuto il presidente del Consiglio gelataio e non ne ha fatto mistero, spiegando che non bastano le battute a far ripartire un Paese.

Tre imprenditori e tutti di primo piano già significano qualcosa e cioè che l’industria e la finanza cominciano a non credere più nel cambiamento di verso promesso dal premier. Tuttavia a questa presa di distanza se ne sono aggiunte altre, quasi sempre di persone che in principio avevano creduto nel progetto di rinnovamento dell’ex sindaco. Luca Ricolfi, sociologo di sinistra e autore di molti ragionati editoriali sulla Stampa e Panorama, ha confessato sul giornale piemontese il proprio pessimismo, spiegando che non si risolve una crisi sperando semplicemente che passi. Per Ricolfi aspettare confidando nel fatto che prima o poi torni il sole e la ripresa rimetta le cose a posto è un’illusione che rischia di rivelarsi catastrofica. Previsioni fosche si intravedevano anche sulla prima pagina del Corriere della Sera, a commento del tanto sbandierato pacchetto di misure economiche soprannominato «Sblocca Italia». Dario Di Vico, l’editorialista cui è stato affidato il compito di commentare, non ha nascosto la delusione, lasciando trasparire anche un sospetto, ossia che il presidente del Consiglio, invece di pensare a come far uscire l’Italia dalla crisi, pensi piuttosto a come farla entrate al più presto in campagna elettorale, portando il Paese alle urne già nel 2015. Insomma, altro che mille giorni: qui l’ex rottamatore sembra pensare ai prossimi cento.

I dubbi che ci hanno colpito di più sono però quelli di Giuliano Ferrara, cioè di uno che fin dal principio ha sostenuto il renzismo e per giunta stando seduto sull’altra sponda e non su quella comoda della sinistra. Da renzista devoto qual è, ieri l’Elefantino ha lanciato un barrito, scrivendo sul Foglio dei Fogli un editoriale in cui racconta un presidente del Consiglio in trappola, vittima degli stessi nemici e degli stessi errori di Berlusconi. «Non vorrei che tutti gli elogi alle grandi doti di comunicatore, per Renzi oggi come per Berlusconi ieri, alludano all’artista compiaciuto di sé che prende il posto dello statista». Da statista a ballista. E se le balle scoppiano fanno male.

Il renzismo si sta un po’ afflosciando

Il renzismo si sta un po’ afflosciando

Marco Bertoncini – Italia Oggi

La conferenza stampa sui mille giorni è stata in linea perfetta col personaggio Matteo Renzi. Dal trionfalismo alle battute, dagli annunci alla passione quasi sfrenata per i lanci di agenzia (nel senso che i suoi cinguettii, i suoi messaggi, i suoi lucidi, i suoi siti, vivono essenzialmente di fosforescenti immagini, di sintesi, di avvisi), c’era tutto R. nella compiaciuta presentazione di programmi, impegni, realizzazioni.

Per lui l’ideale sarebbe una generale sospensione di giudizio, sino al termine dei mille giorni, come non ha mancato di auspicare. Le valutazioni, tuttavia, già arrivano. Non è vero che siano riedizioni di negativi commenti già falliti prima del voto europeo. Infatti, oggi non ci sono soltanto alcuni sondaggi che indicano una minor presa di R. sugli elettori, del resto quasi scontata, anche perché il successo, le attese, le speranze, la percentuale medesima ottenuta alle europee, erano talmente elevati da non poter rimanere senza qualche caduta. No: l’elenco dei critici e degli insoddisfatti cresce. Si guardi ai republicones, dagli assalti del Fondatore contro il «Pifferaio» ai dubbi sui conti e sulle mancate coperture che si leggono con frequenza su L’Huffington Post. Si vedano i segnali non amichevoli giunti dal sindacato degli imprenditori (e collegato giornale): non paiono di sostegno talune dichiarazioni di personaggi quali Marchionne o Della Valle. Fior di commentatori, di analisti, di osservatori, validi o tali presunti o, insomma, quotati per la maggiore, hanno espresso dubbi, riserve, critiche, così su La Stampa come sul Corriere. Mentre il montismo durò fino alle urne, il renzismo pare un po’ afflosciarsi. Soltanto il Cav resta in attesa, magari non benevola, però attesa.

Non solo i gufi sanno leggere i numeri

Non solo i gufi sanno leggere i numeri

Gaetano Pedullà – La Notizia

I conti sono tutti nelle pagine interne. Chi avesse voglia e pazienza di andare a leggere scoprirà che neanche volando sarà possibile realizzare tutto quello che il premier ha promesso ieri. Figuriamoci procedendo passo a passo. A dirlo non sono i gufi, ma i numeri. E i numeri, si sa, sono argomenti testardi. Tra vecchi decreti attuativi mai applicati dall’amministrazione Letta e i nuovi bisognerebbe approvare una media di un provvedimento al giorno; sabato, domenica e Natale compresi.

Palazzo Chigi ha messo il countdown su Internet, ma la sparata è talmente grossa che a questo punto anche a un giornale riformista come questo, dunque ben felice che l’Italia cambi verso, viene un fortissimo sospetto. Anziché andare avanti con proposte ambiziose ma fattibili, vuoi vedere che si sta alzando la posta così tanto da poter poi dire che il Parlamento mette il carro davanti ai buoi e a quel punto giustificare il ritorno alle urne? Se così fosse, si sta commettendo un peccato mortale, perché anziché portarci subito alle urne e provare a dar vita a una maggioranza meno traballante di quella attuale, si sta buttando via altro preziosissimo tempo.

Il perdurare della crisi sta deteriorando oltre ogni limite la tenuta delle nostre imprese, l’assoluta impossibilità dei giovani (e anche dei meno giovani) di trovare un lavoro sta creando un clima depressivo dal quale sarà durissima riprendersi. Mai come in questi tempi i medici stanno prescrivendo tranquillanti e psicofarmaci. La prima riforma, dunque, deve essere quella di non perdere più tempo. E non prenderci in giro.

I dilemmi Bce e i rischi di inerzia europea

I dilemmi Bce e i rischi di inerzia europea

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

Fino a che le riforme saranno vissute come un suicidio politico dai governi che ancora non le hanno fatte (Francia e Italia) e il rilancio della crescita economica europea sarà sentito come un vero e proprio “harakiri” dai governi che la crescita, poca, ancora ce l’hanno (Germania e nordici), l’eurozona non cesserà di ballare ai bordi di un vulcano a costante rischio di eruzione.

Non è un caso che subito dopo un vertice Ue, che sabato a Bruxelles ha rafforzato il controllo tedesco sui principali gangli istituzionali europei, e alla vigilia della riunione della Bce giovedì a Francoforte siano riesplose le polemiche tra i due fronti contrapposti. Al centro anche Mario Draghi e la sua giacca, strattonata con malagrazia da entrambi.

Sullo sfondo l’economia reale, in bilico tra recessione e deflazione, moltiplica i segnali negativi: ieri il turno della produzione manifatturiera, ai minimi da 13 mesi e a ritroso in Germania, Francia e Italia, cioè nei due terzi dell’Eurozona. Come nell’estate del 2012 aveva evitato l’implosione dell’euro annunciando che la Bce avrebbe preso «tutte le misure necessarie» per impedirla, così quest’estate Draghi ha lanciato un doppio messaggio per battere la duplice emergenza europea: il ricorso da un lato a tutti i mezzi, quantitative easing incluso se necessario, per fermare la deflazione e dall’altro, «visto che la politica monetaria da sola non può rilanciare l’economia», l’invito ai Governi a fare le riforme creando spazi per una politica fiscale più morbida.

Come nel 2012 i mercati hanno accolto bene il segnale. I Governi no. E per ragioni opposte. La Germania teme una svolta americana nella politica della Bce, il ripudio dell’ortodossia dei Trattati. «I paesi che hanno seguito politiche di rigore, in cambio degli aiuti al loro salvataggio, stanno facendo molto meglio di tutti altri in Europa: a volte le medicine sono amare ma fanno bene. La crescita carburata dai deficit, invece, porta al declino economico» ha tuonato il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble. Richiamo diretto a Parigi, Roma e… Francoforte.

Sul fronte opposto della barricata, invece, l’Italia di Matteo Renzi, presidente di turno dell’Ue, ha convocato per il 7 ottobre un vertice europeo straordinario su crescita e occupazione mentre la Francia di François Hollande insiste ad alta voce sulla flessibilità delle regole di stabilità in tempi di crisi e invoca una maggiore spinta alla crescita da parte della Bce, compreso un ritocco al ribasso del valore dell’euro rispetto al dollaro.

Con la sua visita ieri a Parigi, Draghi ha provato a ricucire con tutti sottolineando, insieme a Hollande, che gli strumenti per il rilancio della sviluppo «dovranno sempre rispettare i patti europei». Parole ovvie, prevedibili e scontate. Termometro evidente però delle crescenti tensioni che bollono nell’Eurozona. E che potrebbero indurre la Bce a una maggiore cautela rispetto agli annunci di agosto e alle aspettative dei mercati, con possibili effetti boomerang sui tassi e sui costi di finanziamento dei debiti sovrani.

Nessuno nega l’urgenza delle riforme strutturali che in Paesi come l’Italia e la Francia oggi appaiono prioritarie rispetto al ripianamento di debiti e deficit: non solo per rimettere in moto una crescita solida e sostenibile ma per evitare che eccessive divergenze nell’Eurozona provochino lo strabismo della politica monetaria unica, alla lunga insostenibile.

Nessuno però può ignorare le difficoltà politiche della sterzata: a Sud come a Nord. Con la popolarità al 17%, più di tanto Hollande non può remare contro il Paese, soprattutto non può farlo in fretta. Con Alternativa per la Germania, il partito nazionalista e anti-euro che ha ottenuto il 10% dei voti in Sassonia entrando per la prima volta in un parlamento regionale, nemmeno Angela Merkel ha larghi margini di manovra per solidarizzare sulla crescita europea, anche se il riequilibrio del super-attivo dei conti correnti sarebbe un atto dovuto secondo i patti europei. Il cui rispetto vale per tutti.

La politica del surplace, l’ortodossia immobilista, la mancanza di coraggio politico oggi avrebbero effetti disastrosi per tutti. La lezione greca dice che una crisi marginale, 2% del Pil dell’euro e 3% del debito, si è trasformata in crisi totale per la rigidità mentale e la miopia di chi in Europa l’ha gestita. L’emergenza crescita, da anni relegata in frigorifero, non può attendere oltre. Per dare risultati le riforme richiedono anni. Un’inerzia prolungata su azioni di sostegno finirebbe per travolgere l’Europa proprio quando ha un disperato bisogno di unità e coesione di fronte alla Russia di Putin che la sbeffeggia.