Edicola – Opinioni

Ormai impazza la burocrazia dei divieti insensati e delle leggine

Ormai impazza la burocrazia dei divieti insensati e delle leggine

Sergio Luciano – Italia Oggi

Autostrada Serenissima, esterno notte. A una stazione di servizio di un gruppo petrolifero italiano, l’erogatore di Gpl, pur segnalato come attivo, risulta in realtà chiuso. Il gestore, anzi la gestrice – per usare uno di questi terrificanti nomi al femminile che fanno contenta la presidenta Boldrini – si sfoga con il cliente «a secco»: «Non me ne parli, siamo infuriati, il fatto è che il serbatoio, per legge, deve stare ad almeno 42 metri dal più vicino manufatto abitativo e due anni fa il gestore del bar ha ristrutturato lo stabile, è stato autorizzato ad allargarlo e si è preso due metri di spazio in più, proprio verso il serbatoio, per cui la distanza, che era di 42 metri, si è ridotta a 40 e non ci hanno mai più ridato l’agibilità dell’impianto. Noi ce la siamo presa col barista, che ha girato la palla sul concessionario, che l’ha rimpallata a lui, e così sono passati due anni, siamo fermi alle lettere degli avvocati e abbiamo perso un sacco di soldi».

Ecco: chiunque viva nel mondo reale sa che questa burocrazia dei piccoli «no», più o meno insensati, sta ormai ammazzando l’Italia. E le pur (per certi versi) lodevoli iniziative riformiste del governo Renzi sembrano non rendersene conto.

È una burocrazia folle. Che il ventennio berlusconiano non è riuscito a risanare, anzi. È l’Italia dei burocrati piccoli piccoli, che non tentano nemmeno di entrare nel merito delle questioni ma moltiplicano paletti e leggine, e quando va male li usano per escutere tante microtangenti, ma comunque sempre per non fare e non «far fare». La vera riforma della pubblica amministrazione da fare sarebbe questa: demolire questa burocrazia. Nel caso dell’impianto Gpl, è del tutto evidente che una regola sulla distanza minima è necessaria, ma è anche chiaro che – fatta la frittata di aver ridotto quella distanza – dovrebbe esserci una qualche autorità in grado o di derogare alla regola così marginalmente violata, o di imporre a chi ha causato il danno di pagare di tasca sua un risarcimento al danneggiato. Macché.

Al contrario, lo Stato arretra dove sarebbe per molti versi meglio che restasse. Si pensi all’ormai scontata decisione di ridurre il controllo in Eni ed Enel, senza clausole antiscalata, col rischio di privare l’Italia della proprietà di due colossi energetici ben gestiti che mezzo mondo ci invidia; e invece esonda, protunde, invade e schiaccia dove dovrebbe e potrebbe farsi i fatti suoi. È l’eterno tradimento del motto liberista secondo cui «è permesso tutto ciò che non sia esplicitamente vietato». In Italia, si sa, «è vietato tutto ciò che non sia esplicitamente permesso».

Italia e Ue: un incrocio favorevole

Italia e Ue: un incrocio favorevole

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi – Corriere della Sera

Grazie ad un incrocio fortunato di eventi i Paesi dell’euro hanno oggi la possibilità di attuare quella svolta che è necessaria per uscire dal lungo periodo di stagnazione economica in cui viviamo da quasi sette anni. Il governo italiano potrebbe avere un ruolo fondamentale nel renderlo possibile.

Venerdì scorso Mario Draghi ha detto chiaramente che per ricominciare a crescere sono necessarie riforme strutturali dal lato dell’offerta, accompagnate però da una ripresa della domanda, in particolare dei consumi delle famiglie e degli investimenti delle imprese. E che questo la Bce non può farlo, almeno non da sola. La prima mossa spetta ai governi che, oltre a fare le riforme, soprattutto del mercato del lavoro, devono abbassare le tasse riducendo al tempo stesso la spesa pubblica. E se le due cose non possono procedere alla medesima velocità, perché le tasse si abbassano in un giorno mentre per tagliare le spese serve un po’ più tempo, non bisogna strapparsi le vesti se il deficit temporaneamente cresce. Forse anche la Germania se ne sta convincendo. Infatti (anche se questa non è una buona notizia) i dati recenti lasciano intravvedere un rallentamento dell’economia tedesca che potrebbe rendere Angela Merkel meno ostile a provvedimenti concordati volti ad aumentare la domanda interna nell’eurozona.

Domenica a Parigi il presidente Hollande ha chiesto al suo primo ministro, Manuel Valls, di sostituire i membri del governo che si opponevano alle riforme e ai tagli di spesa. Il cambiamento più significativo è avvenuto al ministero dell’Economia e dell’Industria dove Emmanuel Macron (36 anni), il più liberista dei consiglieri di Hollande, ha sostituito Arnaud Montebourg (56 anni), un socialista del secolo scorso, alfiere dell’intervento dello Stato nell’economia, strenuo oppositore della globalizzazione e apertamente ostile alla Bce. Una svolta che ricorda il marzo del 1983 quando Mitterrand, dopo due anni di illusioni, cambiò radicalmente politica, si affidò a Jacques Delors e salvò la sua presidenza. Anche a Parigi si comincia ad accettare che «il liberismo è di sinistra».

A Roma Matteo Renzi si è impegnato a varare oggi, il giorno prima del vertice europeo di domani, la riforma della giustizia e il decreto cosiddetto sblocca Italia. Ma la riforma più importante riguarda il mercato del lavoro. Renzi ha promesso che si adopererà affinché entro il mese di settembre il Parlamento vari il disegno di legge delega proposto dal suo governo, che riprende le idee del senatore Pietro Ichino riscrivendo da zero lo Statuto dei lavoratori. E quindi modificando anche il famoso articolo 18.

Come non sprecare questo incrocio fortunato? L’Italia ha una responsabilità particolare, e non solo perché il vertice europeo di domani sarà presieduto da Matteo Renzi. Siamo (con l’eccezione della Grecia) il Paese dell’euro con il debito più elevato e quindi quello che più di ogni altro deve convincere che la qualità delle riforme attuate giustifica un allentamento temporaneo dei vincoli sul deficit, condizione necessaria per poter abbassare subito le tasse sul lavoro. Le parole «qualità» e «attuate» qui sono cruciali. Le riforme non devono essere annunci ma leggi approvate. E a queste leggi devono seguire in tempi rapidi i decreti che le rendono operative, la qualità appunto. Ad esempio a 5 mesi dalla legge che ha abolito le Province (Legge 56 del 7 aprile) i decreti che ne ripartiscono le funzioni fra Stato, Comuni e Regioni non sono ancora stati varati, cosicchè quella riforma per ora rimane una norma senza effetti. Anche se va riconosciuto al premier di aver abolito il livello elettivo dei Consigli provinciali.

Uscire dalla riunione Ue di domani senza un accordo sulla necessità di sostenere la domanda interna significherebbe rimandare almeno di un altro anno la ripresa dell’eurozona. Raggiungere quell’obiettivo dipende anche dalle decisioni che prenderà oggi il Consiglio dei ministri, dalla determinazione con cui Renzi ripeterà l’impegno a varare il Jobs Act entro settembre e dall’esempio che egli saprà offrire al nuovo governo di Parigi, che si trova ad affrontare problemi analoghi.

Essere convincenti sulle riforme e sul percorso che vogliamo seguire per uscire dalla recessione deve essere l’obiettivo di Renzi nel vertice europeo. Se egli invece lascerà che la riunione si perda in una trattativa defatigante sui nuovi commissari e sul ruolo che avrà Federica Mogherini a Bruxelles, avrà perso un’occasione che potrebbe non ripresentarsi più. È improbabile che domani vengano già varati provvedimenti a livello europeo per far crescere la domanda. Ma sarebbe importante che una prima discussione cominciasse.

Non disturbare il manovratore

Non disturbare il manovratore

Domenico Cacopardo – Italia Oggi

Con una certa solennità, il capo II della riforma della pubblica amministrazione, nel testo convertito, è dedicato alle misure in materia di organizzazione. Si inizia con le società a partecipazione pubblica: «(…) salva la facoltà di nominare un amministratore unico, i consigli di amministrazione delle società controllate (…) che abbiano conseguito nel 2011 un fatturato da prestazione di servizi a favore di amministrazioni pubbliche superiore al 90% dell’intero fatturato devono essere composti da non più di tre membri, ferme restando le disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità (…) il costo per compensi agli amministratori deve essere contenuto nell’80% di quanto speso nel 2013 (…) per le altre società a totale partecipazione pubblica il numero dei consiglieri non può superare i 3 o i 5 membri (…)».

Queste norme, criptiche e farraginose, meritano qualche spiegazione. Nella prima parte dell’articolo (il 16), si parla, in sostanza, della massa di aziende, nate sotto l’egida della riforma degli enti locali condotta da Franco Bassanini. Si tratta dell’in-house, di società a prevalente partecipazione comunale (provinciale, regionale) che hanno, come scopo sociale, compiti propri dell’ente di cui sono emanazione. Un esempio: per la realizzazione di infrastrutture di loro competenza, molti comuni hanno costituito un’apposita società che gestisce l’intero procedimento. C’è, in questa modalità organizzativa, un non detto: se il comune dovesse appaltare la costruzione di un ponte sul fiume che lo attraversa, dovrebbe applicare le norme europee e indire una gara abbastanza libera che potrebbe essere vinta da un’impresa sgradita al sindaco e ai suoi assessori. Rivolgendosi alla propria società, formalmente, privata, gli amministratori locali pensano che l’operazione sia manovrabile e che, comunque, trattandosi di un soggetto privatistico, come dire, è più difficile che la magistratura intervenga. Una bubbola infondata, vista la severa giurisprudenza penale. Tuttavia, le possibilità di farla franca sono oggettivamente maggiori.

Va notato il 90% del fatturato destinato a servizi della pubblica amministrazione di cui la società è figlia: questa qualificazione mostra come il governo sappia bene la natura distorsiva di questi strumenti organizzativi e di malaffare, ma che ne voglia limitare i costi. Chiamare una norma del genere «riforma» è una inqualificabile mistificazione.

È vero che da qualche giorno si parla di obbligare gli enti locali a liquidare gran parte delle 7/10 mila società e, proprio oggi, il consiglio dei ministri dovrebbe decidere qualcosa. Leggeremo i testi con la solita attenzione, anche se è lecito immaginare che la «vis» riformatrice si limiterà a un piccolo aggiustamento, senza incidere seriamente sul deleterio sistema. La massa di quadri politici che vivono da parassiti e malversatori nel mondo delle aziende pubbliche (che drena una impressionante quantità di denaro dei cittadini e che procura ai partiti risorse non dichiarate) non può essere colpita senza compromettere il patto tra vertici dei partiti e cosiddetta base e, per li rami, il consenso elettorale. Meglio prendersela con i pensionati il cui peso nelle urne non è paragonabile a quello dei quadri di cui sopra.

L’art. 17 della riforma induce all’ilarità: si occupa di «sic!» di ricognizione degli enti pubblici e unificazione delle banche dati delle società partecipate. La solita domanda viene spontanea: è necessaria una legge per una semplice, normale attività amministrativa gestibile con semplici direttive dalla presidenza del consiglio dei ministri? Si pensi che il comma 2 ter, dispone che entro il 15 febbraio 2015 «sono pubblicati sul sito internet istituzionale del Dipartimento della funzione pubblica della presidenza del consiglio dei ministri l’elenco delle amministrazioni adempienti e di quelle non adempienti all’obbligo di inserimento di cui al comma 2 e i dati inviati a norma del medesimo comma. A parte la zoppicante costruzione della frase, immaginate come trema, per esempio, il sindaco di Napoli di fronte alla prospettiva di essere inserito nell’elenco dei «cattivi» che non hanno contribuito all’unificazione delle banche dati nazionali? Purtroppo, questo è il metodo. Questi sono i contenuti.

I tanti annunci gelano la fiducia

I tanti annunci gelano la fiducia

Federico Fubini – La Repubblica

Viviamo in tempi di deflazione del denaro e inflazione di parole. Impossibile tenere il conto di quante volte al giorno ormai la classe politica parli di “riforme” o di “fiducia”. L’unica certezza è che l’inflazione è quel fenomeno per il quale l’abbondanza crescente di una certa materia prima ne deprime il valore. L’impero spagnolo distrusse il prezzo dell’argento nel sedicesimo secolo per gli eccessi con cui lo importava dal Perù. Il governo di Matteo Renzi rischia di trovare la sua sindrome dell’argento peruviano nella serie di annunci ai quali non sempre, non in modo univoco, seguono poi i fatti. Il bilancio di questo mese d’agosto permette di far sorgere qualche sospetto che il pericolo esista realmente.

Proviamo a riassumere. Al Consiglio dei ministri dei primi del mese sarebbe dovuta passare la riforma dei Beni culturali di Franceschini. Poi è slittata. Ora tutto sarebbe pronto, ma a quanto pare non sarà varata neppure dal vertice di domani a causa dell’ ingorgo di altri procedimenti. Eppure neanche misure più in alto nell’agenda del Consiglio dei ministri odierno stanno avendo vita facile. Per dirne una, solo sei giorni fa il premier aveva annunciato che oggi sarebbe toccato alla scuola: «Il 29 agosto presenteremo una riforma complessiva », scadenza poi confermata in un tweet di giovedì. Del resto il governo non smentiva, anzi avvalorava, il progetto di stabilizzare circa 100 mila precari dell’istruzione con le misure in arrivo.

Poi però anche qui contrordine: slitta tutto, sempre per colpa dell’ ingorgo . A crearlo sono altri due provvedimenti. C’è il decreto Sblocca-Italia, del quale ancora ieri sera a nessuno era chiaro il profilo date le vaste divergenze fra Padoan (Economia) e Lupi (Trasporti) sui fondi da spendere. E c’è la riforma della giustizia, dove però molto verrà affidato a una delega al governo, cioè anche qui a scelte da compiere poi più in là nel tempo.

La lista di questo agosto di inflazione verbale potrebbe continuare. Alternativamente gli italiani hanno scoperto che sarebbero state tagliate le pensioni più alte, poi che non sarebbero state toccate. Che sarebbero stati congelati gli stipendi del pubblico impiego, poi che ciò era fuori questione. Che andava abolito l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (quello offre le tutele maggiori d’Europa contro il licenziamento di chi ha un contratto permanente), poi che l’articolo 18 non andava toccato, infine che non serve parlarne, perché presto cambieranno tutte le norme sul lavoro.

Questo resta un governo di coalizione, espresso da uno dei parlamenti più frammentati della storia repubblicana. Nemmeno per un leader determinato come Matteo Renzi è facile controllare le spinte centrifughe dei suoi ministri e dei partiti di maggioranza. Ancora meno lo è adesso, con l’economia mai davvero uscita da un’unica grande depressione iniziata alla fine del 2008. Più è impellente l’urgenza di fare qualcosa di risolutivo, più diventa chiaro che non esistono né scorciatoie né bacchette magiche. Si può solo lavorare in Italia e con il resto d’Europa per individuare le priorità e affrontarle passo dopo passo.

Anche per questo però la corsa all’argento peruviano che si è scatenata – la ridda di annunci, le continue invocazioni della “fiducia” – non fanno che produrre conseguenze opposte. Nessuno assume, investe nella propria azienda o compra un elettrodomestico a rate se non sa cosa lo aspetta e se i messaggi che riceve sono caotici e contraddittori. Non può essere solo sfortuna se in agosto la fiducia delle imprese in Italia è scesa più che in qualunque altro Paese dell’area euro.

Forse è il caso di ispirarsi alla Spagna di oggi, quella che ha affrontato molte riforme senza parole a vuoto e ora cresce al ritmo del 2% annuo. Non a quella di cinque secoli fa.

Tutto il resto è fuffa

Tutto il resto è fuffa

Giorgio Mulé – Panorama

Mettetevi nei panni di Joe, un americano in vacanza a Roma. Negli States essere ricco non è un reato; possedere due case non fa di un cittadino il perfetto obiettivo del fisco; avere messo soldi da pane non lo fa somigliare a un evasore fiscale. Joe è un marziano ai nostri occhi. Atterra a Fiumicino e scopre che l’Italia deve rinviare le sue previsioni di bilancio per ricalcolare il Prodotto interno lordo. Accipicchia, o meglio woooow!, pensa: gli italiani si sono rimessi in moto e stanno superando la crisi. Ecco, dear friend, le cose stanno un po’ diversamente: ce l’ha presente Johnny Stecchino nel bellissimo movie di Robeno Benigni? Beh sì, insomma noi ricalcoleremo il nostro Pil alla luce delle previsioni di Cosa nostra su tre settori: andamento del mercato della droga, della prostituzione e del contrabbando.

Tutto perfettamente illegale. Joe, it’s not a joke, non si scherza affatto: aumenteremo il nostro Pil, avremo pure big benefici nei conti pubblici. Manco fa in tempo a smettere di ciondolare la testa di qua e di là, farfugliando qualcosa che somiglia a un intraducibile «what the fuck…››, che gli capita di leggere la proposta di un signore che conosce bene perché ha conquistato gli States con i megastore Eataly. Mister Oscar Farinetti, renziano della prima ora, è quel che si dice un ambasciatore dell’Italia nel mondo. Già in predicato di fare il ministro, dà la sua ricetta per mettere a posto la spesa previdenziale: «Ci vuole una bastonata: tetto massimo di 3.000 euro netti, bastano e avanzano per vivere» sentenzia. E quelli che prendono di più, cioè i 600mila italiani che hanno versato contributi per 40 anni? La risposta è facile, caro Joe, basterebbe ricordarsi come si traduce in americano «cazzi loro» però va bene anche «what the fuck. ..».

Passata la pagina di economia dove il suo connazionale Bob Wilt, presidente del colosso Alcoa, annuncia la chiusura definitiva dello stabilimento di Portovesme in Sardegna con 455 lavoratori a spasso perché, dear italians, «le ragioni di fondo che rendevano non competitivo l’impianto non sono purtroppo cambiate», il nostro Joe decide che è tempo di lasciarsi alle spalle tanta mestizia e rigenerare lo spirito con una visita alla Casa di Augusto in occasione del bimillenario della morte dell’imperatore. È obbligatorio prenotare, al centralino parlano anche in inglese. Wonderful. Peccato che dopo 10 minuti d’attesa, Joe viene invitato a richiamare «tra qualche giorno» perché la Soprintendenza deve fissare ancora le regole per le visite. D’altronde hanno avuto sono duemila anni per farlo. Ci risiamo col bisbiglio: «What the fuck…» lasciamo Joe al suo disgusto e concentriamoci un momento su di noi.

La realtà dell’Italia è esattamente quella che avete letto, se non peggio. E allora, visto che s’ode di nuovo la rumba degli annunci, sarà il caso di mettere in fila le priorità. Sono due: lavoro e giustizia. Si lasci perdere la fuffa, si eviti l’effetto grigliata mista mettendo sul fuoco provvedimenti dall’indiscusso valore mediatico ma dalla scarsissima possibilità di vedere la luce. L’Italia riparte se si mette mano in profondità in quei due settori con il concorso di tutti perché, come per le riforme istituzionali, rappresentano un terreno comune dove le forze politiche responsabili possono e devono incontrarsi. Lavoro e giustizia hanno priorità assoluta: da lì passano sviluppo, competitività e credibilità, soprattutto nei confronti degli investitori esteri. ll resto, come direbbe Obama, è horseshit.

San Matteo non ha fatto il miracolo

San Matteo non ha fatto il miracolo

Mario Deaglio – La Stampa

Il coraggio – sospira Don Abbondio nel XXV capitolo dei «Promessi Sposi» – uno non se lo può dare. E nemmeno la fiducia, siamo tentati di aggiungere, guardando ai dati, appena resi pubblici dal’Istat, sul clima di fiducia degli italiani che segnalano una netta caduta per il terzo mese consecutivo. Il giudizio degli intervistati è peggiorato su quasi tutto: molto sulla situazione economica dell’Italia, poco o nulla sulla situazione economica attuale della loro famiglia, per la quale, però, è aumentato il numero di quanti si aspettano un peggioramento imminente. Rispondendo alle varie domande del questionario, gli intervistati, quando non vedono nero, vedono tutto con lenti con varie gradazioni di grigio. Questo clima nazionale di sconforto è tanto più deludente in quanto la caduta dell’indice di fiducia segue una sua impennata decisa di inizio anno (spesso attribuita a un «effetto Renzi») che l’aveva quasi riportato ai valori del 2008, ossia all’inizio della crisi.

Per fortuna il clima di fiducia non si traduce necessariamente in comportamenti, così come la salita primaverile non ha portato a una corsa agli acquisti, c’è da sperare – mentre invece le associazioni dei consumatori ne traggono previsioni infauste – che non andiamo incontro a uno «sciopero dei consumatori», peraltro già molto «svogliati» negli ultimi mesi. Dopo l’aggiornamento di questo indice è però più difficile pensare a un aumento, anche piccolo, dei consumi privati. Il «bonus» mensile di ottanta euro che dieci milioni di lavoratori stanno incassando non solo non ha inciso, come già si sapeva, sulle abitudini di spesa, ma non ha neppure aumentato il «buon umore economico» degli italiani. I motivi per i quali il «bonus» – una misura generica di rilancio, meno efficace di misure «mirate» a determinati settori economici o segmenti sociali – non si sta traducendo in un aumento di consumi, ma, al massimo, in una loro stabilizzazione sono nascosti nelle pieghe dei bilanci famigliari. E’ verosimile che, per non ridurre troppo il loro tenore di vita, negli ultimi 2-3 anni, molte famiglie abbiano contratto dei debiti e che usino quest’entrata mensile addizionale per ripagarli; è altrettanto verosimile che, prima dei normali beni di consumo, si pensi a spese sanitarie rinviate scarsamente coperte dal servizio sanitario nazionale (per esempio le cure dentarie).

Invece di attingere ai loro risparmi e convertirli in acquisti necessari, gli italiani continuano a investirli in titoli del debito pubblico che rendono pochissimo: ai tassi dell’asta dei Bot semestrali di ieri (nella quale la domanda si è rivelata molto abbondante, superando di oltre una volta e mezza la quantità offerta) il rendimento di 1000 euro basta appena a prendere un caffè ed e quasi dimezzato rispetto all’asta precedente. Certo, i titoli sono stati tutti acquistati da operatori finanziari, in parte esteri, ma una quota rilevante finirà, prima poi, grazie alla loro intermediazione, nei portafogli delle famiglie italiane che, per paura della crisi, esitano a utilizzare quelle risorse per spese necessarie.

Insomma, San Matteo Renzi ha dato una notevole scossa a molti aspetti del-la vita economica italiana e altre promette di darne con il prossimo Consiglio dei Ministri. Non è riuscito, però (ancora?) a compiere il miracolo di far sorridere gli italiani. D’altra parte, le notizie che giungono dal resto d’Europa mostrano che questo «male italiano» si sta lentamente diffondendo e che praticamente tutte le economie dell’Unione Europea sono in frenata. Per la prima volta ieri su organi di stampa tedeschi si è evocato lo spettro di una recessione,  attribuendone indirettamente la causa al conflitto ucraino che ha seriamente danneggiato le esportazioni della Germania (e dell’Italia) verso la Russia. Gli occhi degli europei, e non solo degli italiani, sono tutti puntati su San Mario Draghi, il quale, dall’alto dei 148 metri dell’Eurotower di Francoforte, dove ha sede la Banca Centrale Europea, sta preparando le sospirate misure «non convenzionali» che dovrebbero immettere denaro nell’economia, raggiungendo direttamente (ossia usando le banche principalmente come tramite) imprese desiderose di investire e famiglie desiderose di sottoscrivere prestiti per acquistare un’abitazione.

E’ ragionevole attendersi un miglioramento che permetta all’economia europea di non scivolare in deflazione, ma non aspettiamoci che le economie ripartano a razzo: in economia è difficile trovare dei grandi santi che risolvano i problemi. Milioni di italiani e di altri europei sembrano invece continuare a credere che la ripresa deve scendere dall’alto, derivare da fatti esterni senza accorgersi che in buona parte la si crea giorno dopo giorno, avendo il coraggio di compiere piccole scelte, comprese quelle di acquistare i beni che servono con spese che rientrino nelle normali disponibilità delle famiglie e di varare piani di crescita che restino nell’ambito della normale attività delle imprese. Decine di milioni di famiglie europee, con la somma delle loro decisioni, determinano in buona parte il «clima economico». Questi milioni di piccoli miracoli individuali sono la condizione necessaria, anche se non sufficiente, perché ci scuotiamo di dosso quest’infernale recessione.

Se lo stato perde i colossi Eni e Enel

Se lo stato perde i colossi Eni e Enel

Federico Fubini – La Repubblica

Non c’è più tempo e il ministero dell’Economia si sta preparando a muovere in autunno. Fra la seconda metà di settembre e fine novembre, nel momento più adatto in base alle condizioni di mercato, le privatizzazioni entreranno nel vivo. Questa almeno è la tabella di marcia sulla quale stanno lavorando i tecnici del Tesoro. Si punta a partire con ciò che resta dei gioielli della corona, Eni e Enel, senza reti di sicurezza intrecciate grazie all’arte dell’ingegneria finanziaria pur di mantenere il controllo legale delle due società.

Nel Paese dell’Iri, dell’Efim e delle oltre diecimila partecipate di questi anni, per la prima volta un governo italiano è pronto a scendere sotto le soglie dello “Stato padrone” delle società più strategiche. Di entrambe oggi il governo detiene in modo diretto o indiretto appena più del 30%, la quota che permette in linea di diritto di controllare l’assemblea degli azionisti. Entro i prossimi tre mesi, però, dovrebbe andare in vendita il 5% sia di Eni che di Enel, per ricavi da circa 5 miliardi da reclutare a contenimento del debito pubblico.

Non sarà un passo a cuor leggero per le strutture di Via XX Settembre, eredi di una tradizione quasi secolare di controllo pubblico delle imprese. Se ci si sta arrivando, è perché la mano di carte in mano al ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan non dà molta scelta. È passato più di un anno da quando il suo predecessore, Fabrizio Saccomanni, iniziò a mettere in cantiere un nuovo programma di privatizzazioni per contrastare il continuo aumento del debito. E sono passati sei mesi da quando Padoan stesso ha stilato una tabella di marcia anche più ambiziosa, che prevede vendite di attività per dieci miliardi l’anno da adesso fino al 2017. Di questi progetti sono stati riempiti molti documenti del governo, inclusi quelli mandati a Bruxelles. Ma dai primi annunci di oltre un anno fa, il Tesoro è riuscito a incassare appena 350 milioni da Cassa depositi e prestiti per la cessione parziale di Fincantieri: il piano originario sulla società di costruzioni navali aveva previsto entrate per 600 milioni.

Per adesso è mancata soprattutto la qualità degli attivi da mettere sul mercato. Il piatto forte quest’anno avrebbe dovuto essere Poste Italiane, di cui il Tesoro intendeva iniziare a cedere il 40%. Ma Francesco Caio, il nuovo amministratore delegato, questa primavera ha scoperto di aver rilevato dal predecessore Massimo Sarmi un’azienda tutt’altro che in condizioni di essere quotata in Borsa. Le attività postali tradizionali viaggiano in una perdita fin qui in qualche modo resa meno visibile dai buoni risultati del Banco Posta. Nei settori più promettenti, soprattutto la spedizione di pacchi, le Poste in Italia hanno una quota di mercato molto inferiore alle omologhe ex monopoliste degli altri Paesi europei. E con i tassi d’interesse ai minimi, anche il Banco Posta fatica a garantire la redditività degli anni passati. Quotare in Borsa l’azienda adesso avrebbe comportato il rischio di un flop.

Caio ha chiesto tempo al governo per ristrutturare l’azienda e ora al Tesoro si conta sul fatto che nel 2015 si possa procedere alla cessione del primo 40% delle azioni. Gli introiti sperati dovrebbero arrivare a quattro o cinque miliardi. In seguito, se tutto andrà per il meglio, lo Stato dovrebbe gradualmente continuare a scendere nel capitale del gruppo di Caio e portare nuovi fondi a contenimento del debito pubblico.

Simile il processo previsto per Enav. L’Ente di navigazione aerea non è in condizioni di attrarre investitori privati oggi, ma si conta che lo sia tra un anno per ricavi da circa un miliardo. Per Sace invece i calendari del ministero dell’Economia sembrano prevedere tempi ancora più lunghi.

Di qui la decisione di accelerare su Eni e Enel, per schierare ricavi a contrasto dell’aumento del debito già da quest’anno. Della società elettrica, che capitalizza circa 31 miliardi di euro, il ministero dell’Economia ha il 31,2% e scenderebbe al 26%. Del gruppo dell’energia, che vale circa 66 miliardi, ha il 3,9% e la Cassa depositi e prestiti (del Tesoro all’80%) controlla un altro 26,3%. La sfida da ora in poi per lo Stato sarà continuare a esercitare il controllo di fatto anche senza il vincolo legale nell’assemblea degli azionisti: un passo in Italia impensabile per gran parte degli ultimi 80 anni, da circa metà dell’era fascista.

Le battute non bastano

Le battute non bastano

Ernesto Galli Della Loggia – Corriere della Sera

I gufi e i rosiconi fatidici sono stati per il momento smentiti. La campanella dell’ultimo giro che solo poche settimane fa sembrava sul punto di suonare per Matteo Renzi è viceversa rimasta muta. In questo agosto, infatti, il premier ha mostrato capacità di ripresa e d’iniziativa politica che insieme alla sua ben nota energia lo hanno fatto uscire dalla situazione di stallo in cui sembrava essersi ridotto. Anche se lo stesso Renzi ha dovuto prendere atto che, a differenza degli Stati Uniti, l’Italia non è Paese da «Cento Giorni»: per combinare qualcosa d’incisivo, da noi di giorni è meglio metterne in conto almeno mille, e infatti le molte e importanti decisioni che si annunciano nel Consiglio dei ministri di domani sembrano per l’appunto distendersi nei loro effetti su un simile arco temporale.

Sempre dando per scontato, naturalmente, quanto in Italia invece non può mai esserlo, e che infatti da decenni è il vero punto critico dell’azione di qualunque governo: cioè che alle decisioni dall’alto si sia capaci di far seguire i fatti in basso, che alle riforme a parole seguano le riforme delle cose. Dunque da questi sei primi mesi di governo Renzi esce con non molti traguardi raggiunti ma con la sua forza sostanzialmente intatta.

A mio giudizio, però, anche con due punti deboli se cancellasse i quali il nostro presidente del Consiglio ne avrebbe tutto da guadagnare. Il primo riguarda lo stile che egli ha adottato per comunicare con l’opinione pubblica. A cominciare dal tono di ottimismo e di fiducia che caratterizza regolarmente i suoi interventi, punteggiati spesso di battute, di esortazioni ironiche, di parentesi salaci su questo e quello. Non vorrei sembrare un piagnone triste e tanto meno un nostalgico dell’algida cupezza montiana, ma sono convinto che per dare la scossa a un Paese che è precipitato in una situazione difficile, molto difficile, come l’Italia, converrebbe maggiormente un discorso dal tono serio, incline alla gravità più che alla leggerezza e all’ottimismo programmatico, come invece fa Renzi. Dopo un po’ l’ottimismo, infatti, rischia sempre di apparire di maniera; e spesso finisce per costeggiare pericolosamente la fatuità, facendo sembrare fatuo anche chi lo pratica. Un pericolo certo aggravato nel caso del presidente del Consiglio dalla giovane età, che pure per altri versi gioca giustamente a suo favore.

Personalmente poi non mi sembra alla lunga efficace neppure la comunicazione spezzettata e tendenzialmente alluvionale tipica del tweet, carissima a Renzi e consistente in una serie di brevi frasi apodittiche. Forse è l’ideale per le agenzie di stampa e per la pratica della digitazione isterico-maniacale sugli smartphone in cui è impegnato 24 ore su 24 il politico professionista italiota, ma ho il sospetto che alla gente, invece, faccia l’effetto di una forma di «battutismo» che, ripetuta tre o quattro volte al giorno per 365 giorni all’anno, non depone certo a favore della serietà e dell’impegno di chi vi si dedica. Senza contare che un eccesso di comunicazione rischia sempre, alla fine, di vanificare il messaggio insieme al suo autore. Il secondo palese punto debole di Renzi sta nella mancanza intorno a lui di una vera squadra di governo: ciò che probabilmente testimonia di un suo rapporto difficile e al limite inesistente con le élite del Paese. Giunto a Roma con un piccolo gruppo di fedelissimi alla sua persona in forza di un vincolo più o meno antico d’amicizia, di essi soli egli sembra fidarsi veramente e con essi soli sembra collaborare davvero. Saranno di certo tutti abili e di provato valore, non discuto, ma una squadra di governo è un’altra cosa. Significa competenze molteplici, accesso a conoscenze specifiche, possibilità di mobilitazione di energie esterne, reti di relazioni e dunque contatti con persone e ambienti a vario titolo importanti. Significa cioè un governo che in qualche modo rappresenti, e si consideri esso stesso, il vertice della classe dirigente del Paese.

So bene che nel caso di Renzi proprio una parte almeno della classe dirigente italiana non lo vede troppo di buon occhio, ma la migliore risposta non è rinunciare ad avere un rapporto con essa, bensì semmai – per un uomo politico che voglia lasciare un segno – quella di cercare di costruirne in embrione dei nuclei alternativi. E qui il discorso inevitabilmente si allarga. A mio parere la polemica renziana contro i «salotti buoni» è sostanzialmente giusta perché si appunta contro un aspetto importante della grande ingessatura oligarchico-corporativa che immobilizza l’Italia. Ma risulta una polemica sterile, gravata per di più da uno sgradevole sospetto di risentimento personale, se essa non si traduce immediatamente nella capacità di fare appello a energie diverse, di costruire luoghi e sedi – come potrebbe essere per l’appunto una squadra di governo – dove riunire forze realmente nuove per compiti nuovi. Energie, forze, che per fortuna nella società italiana non mancano.

Per come è messo il Paese, insomma, il governo attuale rappresenta un’occasione troppo importante per vederlo perdersi tra un tweet e l’altro o avvitarsi nell’isolamento in cui finora si è mosso. Il tempo per rimediare non è molto, ma ancora c’è.

Raccontare la verità sui conti in dissesto

Raccontare la verità sui conti in dissesto

Massimo Tosti – Italia Oggi

A mettersi nei panni di Matteo Renzi c’è da sudare freddo. Domani il consiglio dei ministri dovrebbe varare le riforme della scuola e della giustizia e, soprattutto, lo Sblocca Italia, il provvedimento destinato a ridare slancio all’economia. Ma il ministro competente Pier Carlo Padoan incontra difficoltà pressoché insormontabili nel reperimento delle risorse necessarie per lo sblocco. L’impressione è che per troppi anni (più probabilmente decenni) i governi abbiano rinunciato a mettere ordine nei conti dello Stato, con il risultato che oggi è persino difficile raccapezzarsi fra gli impegni di spesa e le prospettive di entrata. È un po’ come se una famiglia avesse perso il controllo della propria situazione patrimoniale, accendendo mutui e firmando cambiali molto al di sopra delle prospettive di guadagno: a un certo punto i nodi vengono al pettine (e gli ufficiali giudiziari bussano alla porta), ma nessuno in famiglia ha un quadro realistico della situazione. Carlo Cottarelli (responsabile della spending review) sta cercando di capirci qualcosa e sta compiendo un lavoro apprezzabile (ma non si sa quanto apprezzato dal presidente del consiglio): l’ultima indagine l’ha riservata alle aziende partecipate, con il risultato di mettersi le mani nei capelli verificando gli sprechi e i debiti accumulati da amministratori distratti (o incapaci, o preoccupati soltanto di assumere amici e amici degli amici in aziende inefficienti e strangolate da un personale pletorico e raccomandato).

Cottarelli si comporta come un tutore al quale il tribunale ha affidato il compito di rimettere in ordine i conti di un capofamiglia appena deceduto che ha lasciato un’eredità confusa e gravata di debiti. Il problema è che il governo non può accettare l’eredità incassata con beneficio di inventario. Ma è già positivo che si stia dando da fare per cercare di correggere i vizi del passato. Probabilmente ci vorranno anni (altro che mille giorni) per raddrizzare i bilanci e rimettere l’Italia in cammino verso la ripresa. L’unico appunto serio che si può rivolgere a Renzi è che, fino ad oggi, non ha avuto il coraggio di raccontarci tutta la verità. E pensare che Monti, l’economista, vedeva la luce in fondo al tunnel.

Le opportunità, i rischi

Le opportunità, i rischi

Fabrizio Forquet – Il Sole 24 Ore

Il ministro Padoan non la considera certo una risposta ai dubbi avanzati dal Financial Times. Ma l’urgenza con cui ha convocato la riunione di ieri al ministero dell’Economia per il rilancio del piano di privatizzazioni è un po’ anche questo. Padoan vuole evitare che si faccia strada sui mercati internazionali l’idea di un Paese avvitato nella crisi, il cui stesso governo non ha fiducia nei suoi asset industriali, gioielli o meno che siano.

«Il processo riparte – spiegava ieri il ministro – c’è un quadro strategico generale. E non abbiamo nessuna intenzione di deflettere». Il messaggio è chiaro: non solo il governo – come ventilava il quotidiano anglosassone – non rinuncia al suo piano, ma anzi intende accelerare proprio sulla dismissione di quote dei suoi due asset di maggior valore: l’Eni e l’Enel. Non c’è dubbio che la collocazione tutt’altro che brillante di Fincantieri abbia lasciato un segno, così come è stato un “sacrificio” per il Mef dover prendere atto che la cessione sul mercato del 40% di Poste dovrà aspettare almeno un anno, ma il ministro non intende rinunciare all’obiettivo programmato dei dieci miliardi di dismissioni per quest’anno. Perlomeno vuole arrivarci molto vicino. Cinque miliardi dovranno allora arrivare dal 5% di Eni ed Enel, altri 3 sono il frutto del rimborso dei Monti-bond, eppoi Stm e qualche altro spicciolo. «Il team dell’Economia è al lavoro», dice. A guidare la squadra il ministro ha messo direttamente il suo capo segreteria tecnica, quel Fabrizio Pagani che aveva impostato il piano privatizzazioni già da Palazzo Chigi ai tempi di Enrico Letta. Rispetto a quel programma originario le difficoltà non sono mancate e non mancano. Ma è giusto essere realisti. Non ci sono né il clima, né le opportunità della prima fase delle privatizzazioni. E tuttavia c’è un buon interesse nel mondo verso l’Italia, i fondi americani sono più che liquidi, dalla Cina alla penisola arabica sono in tanti a cercare buone occasioni di investimento in Italia.

Vent’anni fa quel clima e quelle opportunità furono in gran parte sprecate, con tanti, tantissimi errori. Ora un buon mix di prudenza, ma anche volontà di andare avanti può produrre risultati migliori. Purché le aspettative non siano troppo alte. E purché si abbia piena consapevolezza dell’alta selettività del mercato. Valorizzare prima di dismettere non è solo una regola aurea, è una necessità operativa. Pena il fallimento.