Edicola – Opinioni

In economia meno potere agli Stati

In economia meno potere agli Stati

Stefano Lepri – La Stampa

Mario Draghi è oggi il primo degli europeisti. E si tratta di un europeismo democratico, non tecnocratico. Il suo discorso dell’altro giorno rappresenta in primo luogo una svolta radicale nella dottrina della Bce: l’economia nell’area euro non ripartirà senza un impulso – uno stimolo, per dirla all’americana – dai bilanci pubblici. Per realizzarlo occorreranno decisioni che esprimano l’interesse dei cittadini dell’area euro nel loro insieme; non basta la sommatoria delle politiche dei governi, che ci ha condotto nel vicolo cieco dove ci troviamo. Questo risulta dalla stringente analisi economica condotta da Draghi; ovviamente trarne le conclusioni spetterà ai politici. Ne saranno all’altezza?

Nei mesi scorsi, il presidente della Bce era stato accusato di muoversi con troppa lentezza, timoroso di nuove rotture con i tedeschi. Per molto tempo, aveva proceduto a passi piccoli, talvolta quasi impercettibili, seppur con costanza. Infine, davanti a un pubblico americano a lui più vicino per studi e mentalità, ha compiuto un balzo. Alcune cose che ha detto stanno facendo, faranno scandalo in Germania. Ha detto che l’austerità degli anni 2011-12 era «necessaria» a causa dei difetti di costruzione dell’area euro, ma è stata anche eccessiva. Continua a sostenere che le riforme strutturali sono urgenti ma vi aggiunge – novità assoluta – che per la ripresa occorrono «politiche di domanda» ossia meno rigore di bilancio.

Si attenua l’ansia per l’eccessivo debito pubblico, di fronte a troppe persone senza lavoro. In parte, la crescita la può ottenere ciascuno Stato tagliando spese poco utili e abbassando le tasse (operazione politicamente ardua, perché le resistenze delle relativamente poco numerose vittime dei tagli sono più forti, all’inizio, della gratitudine dei contribuenti). Ma non basta.

Tuttavia non si possono infrangere le regole di bilancio europee, frutto della diffidenza reciproca tra gli Stati, giustificata dai passati comportamenti irresponsabili di alcuni tra essi. Ne risulterebbero contrasti capaci solo di condurre alla paralisi. Ma la somma di politiche nazionali che rispettano le regole produce, oggi, un bilancio troppo restrittivo, recessivo, per l’insieme dell’area euro. Questa è la vera «cessione di sovranità» che Draghi propone. Non dunque di esautorare governi liberamente eletti a favore di qualche gelido progetto tecnocratico. Tutt’altro: in nome degli interessi dei cittadini dell’area euro – soprattutto di quelli che sono disoccupati – occorre vedere che cosa aggiungere alle politiche dei governi nazionali. Ovvero, se lo Stato italiano ha troppi debiti per spendere, gli investimenti necessari al futuro benessere nostro e del resto dell’area euro dovranno venire dal bilancio della Germania e degli altri Stati dai bilanci sani, o da quel programma comune promesso dal neopresidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker e a cui Berlino fa resistenza.

Nel gioco europeo sono dunque cambiate molte carte in tavola. Ricordiamoci che fino a ieri la Bce sosteneva che le regole del Fiscal Compact, casomai, non erano severe abbastanza. D’ora in poi, pignolerie eccessive contro l’Italia sono escluse. Tanto più quando Draghi ricorda che la stessa Commissione europea esprime dubbi su uno dei parametri usati per definire l’«obiettivo di medio termine» dei bilanci pubblici. Dove sono gli ostacoli da superare? C’è in realtà una simmetria perversa tra il nazionalismo economico conservatore dominante in Germania e un nazionalismo di sinistra che, presente da tempo in Francia, trova ora le sue forme anche in Italia. Una Europa più vicina ai cittadini si costruisce, appunto, in Europa; non ridando potere alle classi politiche nazionali.

Una spirale di tasse e di spese da spezzare

Una spirale di tasse e di spese da spezzare

Guido Gentili – Il Sole 24 Ore

Ma se il Fisco continua a rincorrere le maggiori spese pubbliche, quante speranze ha l’Italia di ritrovare la crescita? La risposta è: zero. Spezzare questa spirale perversa per cui la famosa austerity si scarica su famiglie e imprese e non vale per lo Stato (che ha tagliato però gli investimenti in conto capitale e di fatto rinunciato a qualsivoglia ruolo propulsivo) dovrebbe essere una delle “grandi” riforme, al pari di quella, per fare un esempio, che il Governo Renzi ha annunciato per la giustizia civile.

Uno sguardo incrociato alle scadenze tributarie di fine estate e inizio autunno e agli appuntamenti per la politica economica del Governo riporta la questione fiscale in primo piano. Diciamo subito che aver messo nel 2012 il principio del pareggio di bilancio in Costituzione non è un’assicurazione. Non avendo previsto né un tetto alla pressione fiscale né un tetto alla spesa, può accadere che sia quest’ultima ad aumentare di continuo inducendo governi e parlamenti a rincorrerla a suon di aumento delle tasse più che facendo ricorso alla revisione della spesa.

È quello che è successo negli ultimi anni, con i risultati, pessimi, che conosciamo. Non è pertanto un caso che la spesa pubblica si avvii a chiudere il 2014 a quota 825 miliardi (di cui 535 di spese correnti), quasi un +8% rispetto al 2013, mentre la pressione fiscale – superiore di oltre 5 punti alla media europea – raggiunge il 44% in rapporto al Pil (che diventa però oltre il 53% reale se consideriamo l’economia sommersa e oltre il 65% come tassazione complessiva per le imprese).

È su questo sfondo di numeri deprimenti che si gioca la partita. L’attesa revisione del Pil secondo le nuove regole europee (è dato in lieve crescita) non può fare miracoli.

Renzi («No a nuove tasse, sì ai tagli di spesa») pare deciso ad imprimere una svolta dopo il chiacchiericcio estivo alimentato anche da ministri, viceministri e sottosegretari. Vedremo. Tanto più considerato che il calendario fiscale rimette sul piatto dei contribuenti la vicenda Tasi (Tassa comunale sui servizi indivisibili): sono stati a giugno scorso solo 2.187 i Comuni che hanno rispettato le scadenze e dove si è pagata la prima rata di acconto 2014 entro il 16 giugno. Per tutti gli altri, circa 6mila Comuni, l’appuntamento è per il 16 ottobre ed entro il 10 settembre dovranno deliberare le nuove aliquote. Poi, il 16 dicembre versamento per tutti della seconda rata a saldo. La politica fiscale sulla casa, tanto arrembante sul terreno del gettito quanto oggetto di una persistente incertezza regolatoria che ha incrinato la fiducia dei contribuenti, viene così, con la scadenza del 16 ottobre, a battere cassa proprio nei giorni in cui il Governo, dopo aver aggiornato il Documento di economia e finanza (Def) presenta il 15 ottobre a Roma e a Bruxelles la Legge di stabilità per il 2015, sulla quale la Commissione europea esprimerà un giudizio entro il 15 novembre. Si tratta di una coincidenza, ma non è cosa da sottovalutare. E comunque, anche nel momento in cui il Governo Renzi affronterà in Europa un duro negoziato, contribuisce anch’essa a rimettere al centro, se davvero si vuole parlare di ripresa, la questione fiscale che a sua volta ripropone, o dovrebbe riproporre, l’irrisolto nodo della spesa pubblica. Conviene ricordare, per fare un solo esempio, la storia del fondo sanitario dal 2001 ad oggi come ricostruita dal Centro Studi Sintesi per il Sole 24 Ore. Sono stati distribuiti 512 miliardi, ma 87 euro ogni 100 hanno seguito il parametro della “spesa storica”, quello per il quale un anno dopo l’altro chi spende di più è di fatto garantito nella copertura della spesa. Questa componente della spesa avrebbe dovuto ridursi del 9% l’anno fino ad esaurirsi a partire dal 2013. Non è andata così e, a motivo di un ritmo di discesa concordato con le Regioni, o meglio di un piano quasi per nulla inclinato, l’addio è previsto per il 2066. Fantarealtà.

Il “miracolo” delle grandi opere

Il “miracolo” delle grandi opere

Valerio Castronovo – Il Sole 24 Ore

Particolari sconti fiscali per le infrastrutture figurano nel decreto legge “Sblocca Italia”, previsto nel Consiglio dei ministri di fine agosto. Le opere pubbliche, insieme all’edilizia, erano le leve su cui faceva affidamento anche lo “Schema” per lo sviluppo del reddito e dell’occupazione (a cui venne dato poi il nome di “Piano”) che il ministro del Bilancio, Ezio Vanoni, mise a punto insieme a Pasquale Saraceno, 60 anni fa, nell’agosto 1954, durante alcuni giorni di vacanza che essi passarono in Valtellina, a Morbegno e in Val Masino.
Ministro del Commercio estero nel 1947, Vanoni aveva svolto un ruolo di rilievo dal 1948 al 1953, quale titolare delle Finanze (a lui si dovevano, fra l’altro, la riforma tributaria e l’istituzione dell’Eni); Saraceno, un veterano dal 1933 dell’Iri (dove dirigeva il Servizio studi), era stato fra i promotori della Svimez e proprio nell’ambito dell’Agenzia per lo sviluppo del Mezzogiorno (un cenacolo di autorevoli meridionalisti e giovani studiosi di valore) s’era avviato – in coincidenza con la redazione di un documento presentato in aprile all’Oece sulla struttura dualistica dell’economia italiana – un progetto inteso a individuare e valutare quali avrebbero potuto essere i fattori propulsivi per una crescita dell’economia e del lavoro e per la riduzione del divario fra Nord e Sud.

L’annuncio da parte di De Gasperi, in giugno, al Congresso della Dc a Napoli, che Vanoni stava lavorando a un piano in grado di «assicurare a ciascuno un lavoro, una casa, una sussistenza degna di un uomo libero», suscitò naturalmente molte aspettative. Si era ormai esaurita la spinta impressa all’economia italiana dal recupero nel dopoguerra degli impianti non totalmente utilizzati, dalla ripresa fisiologica dell’agricoltura e dagli aiuti straordinari del Piano Marshall; inoltre s’era manifestato un disavanzo complessivo della bilancia commerciale, che registrava saldi attivi soltanto con la Svizzera e la Germania occidentale.
In pratica, lo “Schema” di sviluppo a cui lavorò, sotto la regìa di Vanoni, un gruppo di esperti della Svimez e di consulenti stranieri (tra i quali Paul Rosenstein Rodan e Jan Timbergen) era una sorta di “manifesto”, di disegno di programmazione, per una politica economica di lungo periodo, che assicurasse un efficace coordinamento dei provvedimenti dello Stato e un buon funzionamento del mercato. In sostanza, nell’arco di un decennio ci si proponeva di conseguire tre obiettivi: la creazione di quattro milioni di posti di lavoro nei settori industriale e terziario, che compensassero la riduzione dell’occupazione agricola (destinata a scendere, stando alle previsioni, dal 41 al 33% del totale); il superamento del divario Nord-Sud attraverso la promozione degli investimenti nel comparto industriale; il raggiungimento dell’equilibrio della bilancia dei pagamenti. Affinché tutto ciò si realizzasse, si calcolava che ci sarebbero voluti un tasso di sviluppo medio annuo del 5%, un costante aumento della propensione al risparmio, e un mutamento della ripartizione settoriale e territoriale degli investimenti, sostenuti in particolare dallo Stato e dalle imprese pubbliche.

Approvato alla fine del 1954 dal Governo centrista presieduto da Mario Scelba, questo “Piano” raggiunse, alla fine del decennio, alcuni risultati di rilievo: come, l’aumento di 2,6 milioni di addetti nell’occupazione extra-agricola (sebbene l’esodo dalle campagne fosse stato superiore alle previsioni) e l’equilibrio della bilancia dei pagamenti. Inoltre, il varo dello “Schema Vanoni” concorse alla decisione della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo di incrementare i suoi prestiti, di cui venne a beneficiare la Cassa del Mezzogiorno.
Tuttavia, furono soprattutto l’aumento della produttività per unità di lavoro e gli effetti dei progressi tecnologici e organizzativi, con le relative economie di scala, nonché l’incipiente espansione della domanda di beni di consumo durevoli, a determinare un salto di qualità, nel giro di pochi anni, rispetto all’idea di un’evoluzione assai più graduale in cui s’imperniava il Piano Vanoni. D’altra parte, agì da acceleratore l’adesione dell’Italia nel marzo 1957 alla Comunità economica europea e, quindi, l’impegno per una progressiva liberalizzazione degli scambi. Sta di fatto che mano pubblica e mano privata posero, ognuna per la propria parte, le basi del “miracolo economico”.

Quel balletto sulle pensioni dà una mazzata alla ripresa

Quel balletto sulle pensioni dà una mazzata alla ripresa

Renato Brunetta – Il Giornale

Difficile dare torto a Enrico Morando, migliorista doc (la corrente del Pd di Giorgio Napolitano) quando dice che ritornare sul tema delle pensioni è «estremamente negativo, perché la riforma della previdenza pubblica già è stata fatta». Ne avrebbe tuttavia dovuto parlare prima con Pier Paolo Baretta, ex Cisl, ben più possibilista, disposto a salvare solo le pensioni minori: 2.000 euro al mese.

Lordi o netti? Si tratta di autorevoli esponenti della maggioranza parlamentare. Fanno parte non solo dello stesso governo, ma dello stesso Ministero: quello dell’economia. Il primo: vice ministro; il secondo: sottosegretario. Forse era opportuno, prima di procedere ad ulteriori esternazioni, invocare il coordinamento del ministro Pier Carlo Padoan. Che, a sua volta, andando a ritroso nella catena di comando, avrebbe dovuto interessare della questione il premier, Matteo Renzi, che avrebbe, a sua volta, dovuto frenare il ministro del lavoro, Giuliano Poletti, prima dell’intervista che ha determinato una nuova piccola tempesta estiva.

Se abbiamo rievocato la vicenda è solo per dimostrare lo stato di confusione in cui versa il governo in una materia così delicata, come la previdenza, che interessa circa 16 milioni di persone. Se aggiungiamo che la maggior parte di loro sono capifamiglia, possiamo ben dire che l’argomento è universale. Riguarda tutti gli italiani. Dalla singola pensione non deriva solo il sostentamento del singolo, ma quell’economia familiare – il welfare naturale – che è uno degli antidoti più potenti ai morsi della crisi. Sono sempre più spesso i padri che aiutano i figli disoccupati o con un reddito insufficiente. I nonni che si sobbarcano dell’onere di far quadrare il magro bilancio familiare. Turbare, in modo intermittente, quel delicato equilibrio non è solo un atto inutile di crudeltà. Genera la più generale incertezza. E con essa un’ulteriore contrazione dei consumi – quelli che possono – nel timore di tempi più neri. Risultato: un ulteriore avviluppo della crisi, nella spirale della deflazione.

Ai tanti smemorati della maggioranza, ricordiamo che il contributo di solidarietà sulle pensioni più alte esiste già. Lo ha previsto la legge 486 del 2013: gentile lascito del governo Letta. Colpisce tutte le pensioni superiori a circa 5mila euro netti al mese. Con una progressione che va dal 6 al 18 per cento per quelle superiori a 195mila euro lordi l’anno (circa 10mila netti al mese). In quest’ultimo caso la somma delle due aliquote (quella erariale ed il contributo) porta ad un prelievo marginale di circa il 65 per cento. Siamo al limite dell’esproprio. La rilevanza di questi argomenti spiega il diluvio di prese di posizione che questi propositi hanno alimentato. La ferma opposizione di parti consistenti della stessa maggioranza. Le preoccupazioni dei sindacati e di tutti coloro che operano nel sociale. La nostra stessa dura reazione per porre fine ad un gioco stupido e dannoso. Non sono mancate, naturalmente, le voci dissonanti. Gli economisti della voce.info hanno quasi brindato. Chi condanna senza appello il metodo retributivo non tiene conto del fatto che quand’esso era operante la «speranza di vita» degli italiani – la base di ogni discorso serio sulla previdenza – era di gran lunga minore di quella attuale.

Può sembrare pura necrologia, ma non è così. La logica del pro-rata, vale a dire della sola applicazione «de futuro» delle riforme, aveva quell’origine statistica. Il sistema venne progressivamente modificato – l’ultima volta con la legge Fornero – proprio a seguito dell’allungamento della vita media. L’alterazione del parametro demografico rendeva progressivamente insostenibile, cosa che invece era nel t-n, come direbbero gli economisti della Voce . Ossia nel tempo precedente. Può sembrare fin troppo sofisticato. Ma questa è stata la base materiale di decine di sentenze, sia della Corte Costituzionale (sentenza 116/2013) che della Cassazione (sentenza n. 17892/2014), nel ribadire la non retroattività di quelle disposizioni di legge o atti amministrativi a danno delle pensioni già in essere.

Considerazioni che dovrebbero bastare. Sennonché la logica espropriativa che è alla base delle argomentazioni di chi vorrebbe colpire il presunto privilegio rappresentato da una pensione non di semplice povertà è ancora più devastante. Il parametro numerico è solo uno degli elementi che caratterizzano la relativa equazione. Le altre incognite – altrettanto essenziali – sono date dall’entità dei contributi versati e dal numero degli anni che hanno caratterizzato quel prelievo. Ma di questo non si parla. È semplicemente scomparso dal radar dei nuovi «livellatori». La cosa è paradossale. Se si accettasse la tesi del ricalcolo delle pensioni – passaggio dal «retributivo» al «contributivo» ad essere principalmente colpiti non sarebbero i «ricchi», ma i poveracci. Di fronte a quest’obiezione, le risposte sono state sempre sconcertanti. Il ricalcolo – è stato detto – va applicato solo ai benestanti. Vale dire a quella classe media, considerata la forte progressione delle aliquote Irpef , già massacrata da una pressione fiscale senza precedenti. Si avrebbero, in questo modo, due diversi sistemi di calcolo: vantaggioso per i meno abbienti, punitivo per gli altri. Il tutto, naturalmente, in barba al principio d’eguaglianza – articolo 3 della Costituzione – e della progressività del carico fiscale – articolo 53 della stessa.

Le polemiche di questi ultimi giorni non hanno senso. O meglio hanno un senso traslato, com’è nella migliore tradizione del politicismo italiano. L’indizio è stato fornito da la Repubblica : non solo giornale bene informato, ma molto spesso il vero suggeritore occulto delle posizioni di alcuni esponenti del governo. La polemica è legata all’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Proposta condivisa da tutto il centrodestra. Piuttosto che impegnarsi in una discussione seria su questo argomento, ecco la mossa del cavallo. Alimentiamo un nuovo tormentone sulle pensioni, per arrivare all’inevitabile compromesso: voi la piantate di agitare il tema e noi facciamo lo stesso per le pensioni. Risultato finale? Niente di niente.

È accettabile questo baratto? Lo sarebbe se non avessimo a cuore il destino degli italiani. Insistere sulla maggiore flessibilità del mercato del lavoro, non è un totem: come ama ripetere Matteo Renzi. Ma quel che più conta è che quel freno (non certo l’unico) ha progressivamente azzoppato l’economia italiana, impedendo la crescita della produttività che è il vero ed unico volano dello sviluppo. Ha infatti reso impossibile politiche attive per il lavoro, che sono il volto nascosto che alimenta il denominatore. E se il Pil non si muove – checché ne dicano i cultori della «decrescita felice» – si fermano tutte le altre componenti dell’economia.

Questa politica, che è il sale dello sviluppo economico moderno, può essere sostituita dalla pura redistribuzione del reddito, come traspare dal libro di Gutgeld, il consigliere di Matteo Renzi («Più eguali, più ricchi»)? Che il mercato vada addomesticato è fuori dubbio. Ma da qui a sopprimerne, con politiche cervellotiche, l’intimo dinamismo ce ne corre. Vale un vecchio principio, tratto dalla saggezza contadina. Le pecore vanno tosate, non ammazzate. La loro eventuale macellazione può servire per un grande banchetto, ma il giorno dopo, se non si hanno altre risorse, è lo spettro della fame a prendere il sopravvento.

P.S. Nei giorni scorsi il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, con il suo «Le pensioni non si toccano» ha messo fine al disastroso dibattito agostano sulle pensioni. Bene, anche se la frittata è difficilmente rimediabile. I 16 milioni di pensionati non si fidano più. Con tutto quel che ne conseguirà in termini di incertezza. Come farsi del male inutilmente. E lo diciamo con amarezza e grande preoccupazione.

Al paese decotto non basta solo la politica monetaria

Al paese decotto non basta solo la politica monetaria

Antonio Salvi – Il Giornale

Bene ha fatto Draghi a ricordare ai governi europei che la politica monetaria da sola non può rilanciare in maniera strutturale le economie decotte. Ha parlato a nuora perché suocera (il primo ministro italiano, su tutti) intenda.

Draghi ha semplicemente sostenuto che, per sperare di prendere un buon voto a scuola occorre prima fare bene i propri compiti a casa e poi eventualmente sperare nella mano paterna del professore. Il rilancio delle economie in maniera non effimera non è mai, dico mai, stato realizzato attraverso l’attuazione di politiche monetarie ad hoc. Affinché il rilancio dell’economia avvenga in maniera durevole è necessario perseguire un recupero di competitività complessiva del sistema. Come? Facendo le riforme. L’Italia sta facendo i compiti a casa? No. E tutti i bei discorsi di Renzi? Parole al vento. Segnalo che sono già passati 6 mesi (centottanta giorni!), e ancora di riforme concrete non se ne vede l’ombra. Sacrosanto dunque il richiamo da parte di Draghi. L’agenda delle riforme che contano è chiara e il governo ha – temo per poco ancora – il giusto consenso nel paese per poterla attuare, eppure si traccheggia e si procede con tentativi velleitari e di pura facciata. Renzi non era colui che nell’ormai remoto 22 febbraio scorso aveva promesso una riforma al mese nei primi cento giorni del suo governo. Il fanfarone, vista la mala parata, ha pensato bene di aggiungere uno zero ai cento giorni, preferendo adesso cambiare il nostro paese in mille giorni. Approfittando della dabbenaggine degli italiani.

Ad avviso di chi scrive, la prima grande riforma da portare avanti è quella della pubblica amministrazione. Eppure, quella fin qui varata è solo una riformina che non cambia granché. Aspettiamo invece la legge delega, che forse arriverà nel giro di qualche anno. L’abolizione delle provincie? È solo sulla carta. Più in generale, è necessario ridurre la spesa pubblica. Dove? Ovunque. Sono solo io il cittadino italiano che quando entra in qualsiasi ufficio pubblico è investito dalla netta sensazione che dappertutto si batta la fiacca? E allora giù di scure, senza tanti riguardi. Il lavoro è un’altra emergenza del nostro paese. Renzi non ha fatto praticamente nulla a riguardo (salvo il poverissimo ddl Poletti), mentre la vera partita si gioca altrove, dove non c’è traccia di volontà del governo di voler intervenire seriamente. Ad esempio, sull’articolo 18, il quale andrebbe semplicemente cassato in toto. Si tratta di una tutela discriminatoria (distinguendo tra lavoratori di serie A e lavoratori di serie B) e anacronistica. Lo capiscono infatti anche i bambini (ma non le teste d’uovo della sinistra italiana) che inibire la crescita delle aziende oltre i 15 dipendenti vuol dire far partecipare il nostro sistema produttivo a una battaglia globale con i canotti, laddove gli altri paesi hanno le portaerei.

E poi c’è la riforma del fisco, inizialmente prevista per maggio, ma persasi anch’essa chissà dove. Renzi ha promesso la semplificazione fiscale. Chi l’ha vista? Intanto, nel 2015 ci arriverà il 730 precompilato, strumento straordinariamente illiberale, su cui non mi è parso di aver assistito a grandi grida di dolore da parte degli intellettuali liberali. E poi c’è la riforma della giustizia, anch’essa ferma alle buone intenzioni. E poi tanto altro ancora. Renzi ha affermato che è necessario togliere il paese dalle mani dei soliti noti, quelli che vanno in tutti i salotti buoni a concludere gli affari di un capitalismo di relazione ormai trito e ritrito. Capitalismo di relazione? E la politica che fa il nostro premier? Cos’altro è se non delle sue relazioni e del suo vicinato, visto che la maggior parte del tempo l’ha finora spesa a piazzare nei posti giusti amici e corregionali, con scelte molto spesso quantomeno di dubbio gusto. #Matteomafacciilpiacere…

E’ il sommerso l’ammortizzatore sociale del sud

E’ il sommerso l’ammortizzatore sociale del sud

Alfonso Ruffo – Il Sole 24 Ore

Come si spiega che in un territorio vasto e problematico, con il Pil procapite tra i più bassi d’Europa – ai livelli della Grecia quando andò in fiamme per le proteste dei cittadini stremati dalle privazioni – e una povertà relativa che colpisce oltre un quarto delle famiglie impedendo che in questi contesti si possa consumare un pasto decente almeno ogni due giorni, non scoppi la rivoluzione?
Com’è possibile che nel Mezzogiorno, dove si addensano tutte le città con la peggior qualità della vita e la minore possibilità di fare impresa, con tasse locali spinte al massimo per la cattiva gestione delle amministrazioni locali e l’indifferenza di più governi, con un’emigrazione giovanile che sale alle stelle per la mancanza endemica di occupazione, la gente non scenda per strada a fare la guerra civile?
All’indomani della visita lampo a Napoli Reggio Calabria e Palermo del capo del governo Matteo Renzi, impegnato a praticare un’indispensabile quanto difficile iniezione di fiducia a beneficio dei residenti e dell’occhiuta Europa, un’attenta lettura dei numeri che sorreggono l’economia di un terzo degli italiani che occupano il 40% del territorio nazionale producendo appena un quinto della ricchezza totale induce a serie riflessioni. E sì, perché speranze di riscatto a parte gli indicatori volgono tutti al peggio (si prevedono tra l’altro ancora due anni di decrescita con appesantimento dei conti generali) e a nulla valgono sul piano statistico le eccezioni che pure ci sono e cominciano a essere giustamente celebrate. Insomma, dati alla mano le regioni del Sud dovrebbero essere in subbuglio non potendo più sopportare il peso di un rigore che conduce alla fame.
La risposta purtroppo esiste ed è ben conosciuta. Se ne parla nei convegni e se ne discute in consessi ufficiali. Alla fine, però, il contrasto alle sue devastanti conseguenze è messo in coda alle priorità per mancanza di cure efficaci. Gli studiosi accennano con educazione all’Economia Non Osservata. Si riferiscono all’economia sommersa e a quella criminale che producono il doppio effetto di distribuire pronte risorse e d’infettare l’ambiente.
Il fenomeno non riguarda il solo Mezzogiorno ma è qui che si sviluppa con maggiore vigore per diventare una realtà visibile e palpabile. Una vera e propria economia parallela che soddisfa pezzi sempre più grandi di popolazione che altrimenti non avrebbero di come sbarcare il lunario. Il ventaglio delle tipologie è molto largo e va da ipotesi di nascondimento per cosiddetti motivi di sopravvivenza a vere e proprie pratiche illegali.
Il centro studi Srm calcola che sommando le due forme di reddito, il sommerso e il criminale, sfugga alla contabilità ufficiale del Sud ben il 40% della sua ricchezza. In soldoni si tratterebbe di oltre 130 miliardi che sommati ai 317 ufficiali sarebbero in grado di sollevare il reddito del Mezzogiorno all’onorevole livello dei 450 miliardi giustificando il piatto in tavola e la mancata sollevazione in piazza.
Volendo depurare il risultato dall’addendo particolarmente odioso dell’economia criminale (che vale circa l’11 per cento nel Mezzogiorno contro un dato non molto distante nel Centro Nord di quasi il 10 per cento), l’economia sommersa pesa al Sud per un consistente 27 per cento, e quindi molto più della media nazionale del 18 e della media europea del 16, funzionando da ammortizzatore sociale.
La linea di confine tra le due economie nascoste è molto labile. E chi s’immerge per necessità diventa subito un soggetto a sovranità limitata, debole e ricattabile, facilmente preda di appetiti robusti e inconfessabili. Lo Stato è un gendarme da cui guardarsi e il credito bancario un’illusione per mancanza di carte da poter esibire. L’usura è dietro l’angolo. È facile cadere nella rete della tentazione o del bisogno.
Senza parlare delle ripercussioni nefaste sul mercato legale con un effetto di spiazzamento che gli operatori onesti conoscono e cominciano a denunciare. Insomma, se da un lato l’economia non osservata offre risposte che l’economia ufficiale non ha, dall’altro mortifica gli imprenditori modello che rischiano di uscire di scena per concorrenza sleale e si rifiutano d’investire in un ambiente ostile. Questa rubrica non ha soluzioni da offrire (non è il suo mestiere) ma vorrebbe dare un consiglio semplice semplice che possa guidare la mente e la mano di chi ha il potere di cambiare le cose: rendere più facile, molto più facile, la vita di chi si comporta bene e più difficile, molto più difficile, la vita di chi si comporta male. Può sembrare banale ma l’esperienza insegna che accade esattamente il contrario.  

Un Pil di troppo

Un Pil di troppo

Davide Giacalone – Libero

All’inizio se ne parlava con aria cospirativa: con i nuovi criteri per calcolare il prodotto interno lordo risolveremo lo sforamento del deficit. In realtà, come vedremo, il deficit lo allarghiamo. Poi si è passati alla versione criminale: il pil crescerà grazie a puttane e spacciatori. Il rischio è, se mi passate il paradosso, che la criminalità cattiva scacci la buona. Questa faccenda del ricalcolo è piena di trappole ed equivoci. Per capirlo se ne devono vedere tre aspetti: 1. i criteri; 2. le quantità stimabili; 3. gli effetti.

1. Il pil è una somma, diversi dei cui addendi sono stimati. Solitamente l’indice lo si legge in percentuale, intendendosi di crescita o decrescita rispetto al passato. È evidente che più la stima si attiene alla realtà e più quel numero non è campato in aria. È evidente una seconda cosa: se si mettono a paragone pil di diversi paesi, si dovrebbe misurarli tutti allo stesso modo. Invece non accade. Prendiamo la prostituzione (questo non è un dibattito nel merito, ma, giusto per non scantonare, sono favorevole alla sua legalizzazione, mentre sono contrario per quel che riguarda la droga): in Germania è legale, in Italia no; in Germania pagano le tasse, in Italia no. Quando paragoniamo i due pil, quindi, misuriamo cose diverse. Eurostat (l’Istat dell’Unione europea), giustamente, chiede l’introduzione di criteri omogenei, con il che entra nel conto quel che magari, in un determinato Paese, è illecito. Ma c’è un limite. Tanto per capirsi: l’estorsione non entra nel conto mai. Diciamo che l’idea è quella di contabilizzare quel che da qualche parte è consentito, sicché si tratta di criminalità accettata e consensuale (fra le due parti, chi paga e chi incassa). Ciò pone un problema per l’induzione in schiavitù, che è risolto dove la cosa è legalizzata, mentre resta oscuro dove non lo è. Attenzione: dove l’economia sommersa è fatta di fuga dal fisco, quindi di attività lecite, ma in evasione, queste, che hanno un dna sano, non entreranno nel conto. Per questo dico che la criminalità cattiva (droga) scaccia la buona (pescatore che vende sulla banchina, senza scontrino).

2. Nell’immaginare quanto potrà crescere il pil, dati questi criteri, si entra nel cuore del problema. In Germania le prostitute non porteranno nulla, perché già portano, da noi sì. Ma è intuitivo che quel tipo di economia è maggiormente florida laddove c’è più ricchezza. Quindi, puttane a parte, il pil crescerà di più dove è già più alto. È difficile credere che il Paese senza limiti nella circolazione del denaro contante sia quello con meno economia sommersa, semmai il contrario. E quel Paese, con relativa evasione fiscale, è la Germania. Introdurre nel conteggio la spesa per ricerca è cosa buona, ma quella italiana sarà bassa, perché la gran parte, da noi, si fa nei capannoni e nei laboratori di piccole e medie imprese. Introdurre la spesa militare non significa che il pil aumenterà di quanto spendiamo nella difesa, perché, giusto per esempio, quel che paghiamo a Finmeccanica è già contabilizzato, dal lato dell’impresa italiana, quindi crescerà solo di quel che spendiamo comprando all’estero. Non è proprio il massimo e, comunque, non è molto. Alla fine, quindi, scopriremo che il nostro pil cresce meno di quelli con cui ci paragoniamo. Né vale la furbata, ad uso interno, di vendersi l’aumento come una conquista, dato che verranno ricontabilizzati anche gli anni precedenti.

3. Gli effetti sono da ridere. O da piangere. L’anno prossimo la pressione fiscale diminuirà, ma noi pagheremo quanto e più di prima. Magia? No, imbroglio: il pil cresce perché si contabilizza anche (in parte) quel che non è legale, quindi non paga tasse, ciò fa scendere l’indice della pressione sulla ricchezza prodotta, ma quelli che pagano non vedranno ridursi un accidente. C’è di più: i contributi che ciascuno Stato versa al bilancio Ue sono in proporzione al pil, quindi aumentano aumentandolo, ma siccome quel di più che si dovrà versare non sarà accompagnato da gettito fiscale, ne deriva che il deficit ne risente negativamente. L’illusione ottica dura qualche settimana.

Riassumendo: omogenizzare i criteri di contabilità è giusto, ma prima di trarne conclusioni su effetti miracolistica sarebbe bene studiare le carte. Se qualcuno pensava fosse, o si potesse farne una mandrakata, del cavallo più che la febbre ha la follia. Diverso sarebbe se (posto che la ricetta principale consiste nell’abbattimento del debito mediante dismissioni) usassimo il fisco per far emergere l’economia nera che abbiamo (un ipotetico 18%). Ma questo comporta abbassare drasticamente le pretese dello Stato e consentire, come fanno i tedeschi, che ciascuno faccia quel che vuole con i propri soldi (aumentando il gettito iva). Anche leccandosi il pollice. Qui, invece, vedo sguardi languidi verso le lucciole. Ma non per le ragioni tradizionali, quanto per tassare i proventi delle loro fatiche.

Il lavoro la priorità

Il lavoro la priorità

Fabrizio Forquet – Il Sole 24 Ore

Dopo giorni passati a strologare sui contenuti del dialogo Renzi-Draghi a Città della Pieve, ci ha pensato il presidente della Bce a dare qualche indizio in più: «La Bce – ha detto nel suo intervento a Jackson Hole – non può sostituirsi ai governi che devono fare le riforme». E la «riforma decisamente prioritaria è quella del mercato del lavoro». Non è dato sapere come il tema sia stato affrontato nel dettaglio nell’incontro con Renzi, ma questo è il Draghi-pensiero. Ed è difficile non condividerlo se si guarda alle differenti performance sull’occupazione nei vari Paesi europei interessati dalla crisi. Con gli Stati che hanno introdotto per tempo una maggiore flessibilità nel proprio mercato del lavoro che fanno registrare la risposta migliore in termini di tassi di disoccupazione.

Eppure è proprio sul lavoro che si registrano i ritardi maggiori del riformismo di Renzi. Impostata a gennaio, in piene vacanze natalizie e con al Governo ancora Enrico Letta, la delega sul Jobs act è ancora lontana dal via libera parlamentare. Doveva essere approvata a luglio dal Senato, poi la maggioranza ha deciso di farla slittare. Si riprenderà a settembre, ma le divisioni nella maggioranza sull’articolo 18 (e non solo) rendono più che concreto il rischio di un ulteriore rinvio. Si tratta, tra l’altro, di un disegno di legge delega, che rinvia di fatto gran parte della riforma ai successivi decreti delegati. E qui la lista d’attesa è lunga, come dimostra l’aggiornamento della periodica inchiesta di Rating 24 sui provvedimenti attuativi. Nuovi ritardi possono dunque assommarsi ai vecchi, lasciando il surreale dibattito agostano sull’articolo 18 come l’ennesima espressione dello sterile riformismo parolaio di cui si alimenta la parte peggiore della politica italiana.

Il Jobs act è stato ed è l’atto originario del rifomismo renziano. E il pressing delle imprese ha portato all’importante primo risultato della revisione per decreto della legge Fornero sui contratti a termine. Ma poi le priorità della maggioranza sono inopinatamente diventate altre. Alla ripresa dei lavori parlamentari è bene che i fari tornino ad accendersi sulla riforma delle riforme. Non perché lo dice Draghi. Ma perché lo dicono i numeri dei Paesi che hanno riformato il loro mercato del lavoro.

I numeri, certamente, della Germania del pacchetto Hartz che – attraverso i mini-lavori, le politiche attive, la flessibilità degli orari e la moderazione salariale – ha conosciuto il più basso tasso di disoccupazione dalla riunificazione con il 5,5% nel 2012. Ma anche gli esempi, ancor più significativi, di alcuni dei Paesi che più hanno risentito della crisi, come l’Irlanda e la Spagna.

Dublino, dopo aver molto sofferto sul piano occupazionale la prima fase della crisi, quella legata ai crack finanziari, ha risposto molto meglio nella seconda (debiti sovrani) grazie all’approvazione di un pacchetto di riforme del lavoro sotto il programma Ue-Fmi a partire dal novembre 2010. Madrid, invece, con il suo rigido dualismo del mercato del lavoro, ha duramente sofferto fino alla riforma del 2012, che ha segnato un’inversione di tendenza e una riduzione dei disoccupati da 5 a 4,4 milioni.

I numeri certamente non dicono tutto. E si può discutere della qualità dei posti di lavoro creati. Ma intanto quei numeri dicono con certezza che chi ha riformato il proprio mercato del lavoro, rendendolo più flessibile e adattabile ai cambiamenti di questi ultimi anni, ha riportato i risultati migliori sul fronte occupazionale. Sarebbe un paradosso che Renzi e la sua maggioranza non ne tenessero conto con una decisa spinta riformista in questo senso.

Del lavoro fa parte anche la questione scuola. L’occupazione in Europa tornerà a crescere solo se, come ha detto Draghi a Jackson Hole, aumenterà «the skill intensity of the workforce». Più formazione, dunque, più education. Renzi ha indicato proprio la riforma della scuola come una sua grande priorità per il Consiglio dei ministri del 29 agosto: «Presenteremo – ha detto – una riforma complessiva che intende andare in direzione dei ragazzi, delle famiglie e del personale docente». Speriamo che vada soprattutto nella direzione degli studenti e della loro capacità/possibilità di trovare/crearsi un lavoro. La verifica sarà facile: se si darà finalmente all’insegnamento della lingua inglese lo spazio che merita, sarà una buona riforma. Altrimenti no. Tenere sui banchi di scuola i nostri ragazzi per 13 anni e non garantirgli uno strumento oggi indispensabile per costruirsi un percorso lavorativo è un delitto. Soprattutto per una sinistra che vuole fare dell’eguaglianza delle opportunità la sua bandiera.

La conoscenza o meno delle lingue è il primo fattore di diseguaglianza, perché si acquisisce proprio nella prima fase della competizione sociale. Se si darà a tutti, non solo ai figli dei ricchi, la possibilità di comunicare in inglese alla fine del percorso scolastico si sarà fatta la più utile riforma della scuola che si possa fare. E forse anche un piccolo pezzo di riforma del lavoro. A volte il riformismo è più semplice di quello che si possa pensare. Sindacati permettendo, ovviamente.

I rischi dell’economia illegale nel Pil

I rischi dell’economia illegale nel Pil

Letizia Moratti – Corriere della Sera

La decisione di aggregare al calcolo del Pil (Prodotto interno lordo) una parte dell’economia illegale mette ancor più in evidenza l’inadeguatezza di questo strumento nella definizione del benessere dei cittadini di uno Stato. E’ ormai assodato che né il valore assoluto del Pil né la sua crescita permettano una valutazione efficace di tale benessere e proprio per questo, dagli anni ’90, l’Onu, le Istituzioni Europee, l’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) e diversi Paesi singolarmente hanno promosso strumenti e indicatori alternativi che superassero l’egemonia del Pil e tenessero in considerazione anche aspetti sociali e ambientali della vita in un sistema economico nazionale. La ricchezza di un Paese è infatti data anche dai progetti educativi e di istruzione, dall’attenzione verso il patrimonio artistico e culturale, dalla capacità di promuovere modelli di welfare sostenibili. Una consapevolezza che Robert Kennedy aveva espresso già nel 1968 evidenziando come il Pil misurasse “tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta”.

Esistono quindi strumenti che permettono oggi di definire la salute economica di uno Stato attraverso parametri positivi che tengano conto della qualità della vita reale dei cittadini in una forma meno aggregata e vincolante del Pil. Introdurre i proventi dell’economia illegale è una scelta che non solo va nella direzione opposta a questi modelli innovativi di valutazione, ma pone anche di fronte ad una serie di riflessioni e problematiche. In primo luogo, certamente, un tema etico ascrivibile alla necessaria moralità nell’economia che già il Papa emerito Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate aveva ribadito. E’ importante riaffermare l’importanza dei comportamenti virtuosi che le istituzioni sono chiamate ad avere nelle scelte economiche che impattano la vita reale delle persone.

Gli effetti di scelte sbagliate possono essere estremamente negativi, basti pensare all’abrogazione del Glass-Steagall Act americano e la costituzione di gruppi bancari in grado di esercitare sia l’attività tradizionale sia l’attività di investment banking. Una scelta, in verità poi rivista dalle istituzioni Usa, che ha favorito la diffusione di una finanza speculativa i cui effetti si sono visti con la crisi del 2008. Esistono però anche altri rischi legati alla scelta di includere l’economia illegale nel Pil. Tra questi, il più evidente e relativo ai perimetri di inclusione – oggi droga, prostituzione e contrabbando, ma domani magari tratta delle donne, contrabbando di organi, sfruttamento del lavoro minorile. Non è chiaro dove sia il limite e se questa scelta possa rappresentare una forma paradossale di incentivo all’economia criminale. Infatti per esempio la Francia (l’lnsee, Istituto nazionale di statistica e studi economici) rifiuta di incorporare nel calcolo del Pil le attività “esercitate sotto costrizione”.

Il Movimento per l’economia positiva fondato da Jacques Attali, di cui faccio parte, è nato dal desiderio di trasformare la crisi attuale in opportunità, modificando la nostra economia e mettendo in discussione i nostri modelli di governo, di produzione e di consumo. Nel Forum internazionale tenutosi in Italia lo scorso giugno, il Movimento ha promosso dieci azioni per una nuova economia positiva nel nostro Paese e tra queste quella per misurare il contributo del Terzo settore al Pil e inserire nella effettiva misura e in modo esaustivo il valore aggiunto del volontariato nel calcolo del Pil che fonti autorevoli stimano in un incremento di 20 miliardi di euro, appena superiore ad un punto percentuale di Pil. Una voce sicuramente più opportuna e virtuosa di quella dell’economia illegale, ma anche un segnale da parte delle Istituzioni, in particolare nei confronti dei giovani che potrebbero dirigersi verso una forma di economia più positiva e socialmente utile di quella proveniente da droga, contrabbando e prostituzione.

Non è più tempo di alibi

Non è più tempo di alibi

Massimo Gaggi – Corriere della Sera

Il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, non parla di «bazooka», di armi monetarie straordinarie per evitare la deflazione e battere le tendenze recessive che riemergono anche nelle economie europee più solide. Non lo fa perché non è una parola del suo vocabolario, ma, soprattutto, perché un’arma simile non esiste. Ci fosse, sarebbe il momento di usarla perché la situazione è veramente difficile. E la Banca centrale europea promette che, per quello che potrà fare, non si tirerà indietro: stretta tra crescente disoccupazione strutturale, economie che non crescono e vincoli di bilancio, l’Europa ha bisogno di interventi simultanei e massicci sia dal lato del sostegno alla domanda da attivare con le politiche monetarie e fiscali, sia da quello delle riforme strutturali.
È il momento di fare: in fretta e rischiando anche molto. È questo il cuore del messaggio che il capo della Bce trasmette ai colleghi banchieri centrali che lo ascoltano al simposio annuale di Jackson Hole, sulle Montagne Rocciose, ma anche ai policymakers europei e ai mercati: «Il rischio di fare troppo è ormai nettamente inferiore a quello di fare troppo poco». Fare di più esponendo maggiormente la Bce, ma anche attuando politiche fiscali più coraggiose, coi governi chiamati a investire il loro capitale politico in strategie di riduzione delle tasse (soprattutto il cuneo fiscale) e della spesa pubblica, ma anche in riforme radicali del mercato del lavoro nei Paesi che oggi soffrono di maggiore rigidità: Draghi non cita mai l’Italia ma il riferimento è implicito, visto che l’esempio sul quale si sofferma è un confronto tra Spagna e Irlanda, con quest’ultima che si è ripresa più rapidamente dalla crisi anche grazie all’elevata flessibilità della manodopera che ha consentito alle imprese, nei momenti più difficili, di risparmiare sul costo del lavoro. La Spagna, rimasta troppo a lungo rigida, ha pagato l’incomprimibilità delle retribuzioni con un forte taglio degli occupati. Fino al 2012, quando Madrid ha cambiato rotta: oggi sta cogliendo i primi frutti della maggiore flessibilità.
L’Italia no. Draghi non lo dice e non solo per evitare nuove polemiche a Roma: a Jackson Hole è andato per parlare delle difficoltà di un’area, l’Europa, che rappresenta il più grande mercato mondiale e che fatica a difendere un modello sociale tanto prezioso quanto fragile. Il capo della Bce era atteso al varco anche da analisti non del tutto benevoli che imputano alla Bce alcuni errori di previsione e l’adozione di misure monetarie meno efficaci di quelle messe in campo dalla Federal Reserve.
Secondo questi critici proprio il confronto ravvicinato con Janet Yellen, l’economista succeduta pochi mesi fa a Ben Bernanke alla guida della Fed (ha parlato a Jackson Hole qualche ora prima di Draghi), avrebbe dovuto far emergere il contrasto stridente tra le due situazioni: l’America in ripresa e con l’occupazione in crescita ormai da cinque anni consecutivi che sta per azzerare i sostegni straordinari offerti all’economia sotto forma di acquisto di titoli pubblici e obbligazioni private sul mercato. E che si prepara ad aumentare, nel 2015, il costo del denaro, pressoché azzerato ormai da sei anni.
In realtà la Yellen, pur confermando le scelte di fondo della Banca centrale Usa e riconoscendo che i numeri ufficiali del mercato del lavoro cominciano a muoversi verso uno scenario di piena occupazione, ha dato un’interpretazione della realtà economica americana molto più problematica e allarmata: i 19 indicatori sui quali la Fed basa le sue valutazioni dicono che il calo della disoccupazione è sovrastimato e che il mercato del lavoro è ancora molto problematico. Chi si aspettava che la Fed potesse accelerare il percorso verso l’aumento del costo del denaro è rimasto deluso. La Yellen non intende anticipare gli interventi in questo campo: se ne parlerà, pare di capire, a metà dell’anno prossimo, non prima.
Da un punto di vista strettamente monetario la cosa non è molto positiva per la Ue visto che potrebbe attenuare la corsa al rafforzamento del dollaro che indebolisce l’euro e rende le nostre merci più competitive. Ma con la sua analisi la Yellen ha anche dimostrato che, pur essendosi mossa meglio, l’America si dibatte tuttora negli stessi problemi che affliggono l’Europa. Niente mal comune mezzo gaudio, ma in questo contesto è più facile per Draghi spiegare perché in Europa tutto è stato molto più difficile: dalle impostazioni divergenti dei vari governi al fatto che il primo choc, quello del sistema creditizio nel 2008, è stato seguito da un secondo trauma, quello dei debiti sovrani dei Paesi più deboli, che ha «gelato» di nuovo l’occupazione europea quando ormai quella Usa era in pieno recupero. Ma, soprattutto, è stato più facile per Draghi concentrarsi sul pesante carnet delle cose da fare.
Il capo della Bce ha parlato molto più di politiche fiscali e del lavoro che di interventi monetari: un’occasione ghiotta per chi vuole alimentare polemiche fini a se stesse. In realtà Draghi ha ribadito quello che per anni Bernanke ha ripetuto davanti al Congresso di Washington: la politica monetaria può fare molto, ma non può sostituire gli interventi dei governi e le riforme strutturali indispensabili per affrontare le sfide di un mondo completamente cambiato sia per quanto riguarda la dislocazione geografica del reddito e delle capacità produttive, sia per il cambiamento di prodotti e tecnologie. La Bce farà la sua parte, ha promesso Draghi senza entrare in dettagli (acquistare obbligazioni sul mercato, ad esempio, è più difficile per l’Eurotower che per la Fed alla quale nessuno ha mai chiesto di non sottoscrivere troppi titoli della California o del Kansas). E l’indebolimento dell’euro indica che i primi risultati di questa politica già ci sono. Ma se si vuole davvero aggredire una disoccupazione strutturale che può diventare irreversibile dobbiamo tutti rischiare molto di più: governi, parlamenti, sindacalisti. E, inevitabilmente, anche noi cittadini.