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In edicola con Il Giornale “Le virtù della proprietà” di Carlo Lottieri

In edicola con Il Giornale “Le virtù della proprietà” di Carlo Lottieri

È in edicola con Il Giornale il libro “Le virtù della proprietà”, scritto da Carlo Lottieri e nato da una collaborazione tra il Centro studi ImpresaLavoro e Confedilizia. Il lavoro si inserisce nella collana “Fuori dal coro”, serie di approfondimenti e inchieste sui temi caldi dell’attualità. Libri agili ed essenziali che aiutano i lettori a orientarsi sulle questioni del mondo contemporaneo, si tratti di religione, politica, economia, ambiente o società.

In un mondo di idee sempre più omologate, questo appuntamento settimanale esclusivo vuole uscire dal quotidiano per rispondere alla voglia di capire dei lettori. Un punto di vista controcorrente, libero dal pensiero dominante.

“Le virtù della proprietà”, disponibile in edicola a soli € 2.50 (oltre al prezzo del quotidiano), è un viaggio appassionante in difesa della proprietà privata, un pilastro dell’economia e simbolo della libertà personale, ma nel mirino di fisco e leggi. Da Aristotele a Einaudi sono moltissimi i pensatori che hanno visto nella proprietà il requisito fondamentale per una società ordinata e funzionante.

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Il manuale per tagliare gli sprechi dello Stato

Il manuale per tagliare gli sprechi dello Stato

cop_pennisi_def2Gianfranco Fabi – Il Sussidiario

Si sente sempre più spesso ripetere, anche da parte di illustri esperti di economia, che l’attuale crisi economica è il frutto di un liberalismo senza limiti e di quello che viene chiamato il fallimento del capitalismo. Una tesi certamente affascinante anche basata su di una visione strettamente ideologica più che fattuale. Infatti, prima di accettare supinamente questa analisi, ci potremmo chiedere in primo luogo se l’Italia sia un Paese a economia di mercato e in secondo luogo se i capitali possono fare veramente il bello e il cattivo tempo. E allora si potrebbe osservare che la metà più uno (il 51%) del Pil italiano è puramente e semplicemente intermediato dallo Stato e che la moneta sia nella sua quantità, sia nel suo prezzo (il tasso di interesse) è totalmente controllata da una entità extra-nazionale come la Banca centrale europea.

Se quindi è certamente vero che una finanza fuori controllo ha innescato negli Stati Uniti quella progressiva sfiducia che ha bloccato le decisioni economiche, è altrettanto vero che in Italia il sistema finanziario ha tenuto testa alla crisi e ha trovato e trova la sue maggiori difficoltà non nella corsa ai derivati e ai titoli speculativi, ma nel rallentamento dell’economia reale. Sono state infatti le difficoltà e talvolta purtroppo i fallimenti delle imprese a far aumentare oltre il livello di guardia le sofferenze bancarie. In questa realtà allora il ruolo dello Stato appare fondamentale. In primo luogo, come regolatore, perché se i mercati non funzionano spesso è più colpa delle regole che non frenano gli abusi e non colpiscono gli speculatori. In secondo luogo, perché attraverso la spesa pubblica, come insegnava il grande Keynes, si può tentare di accelerare nei momenti di difficoltà attraverso la leva degli investimenti.

Se sulle regole bisogna tener conto che molto ormai dipende dalle esigenze di armonizzazione dell’Unione europea, sul fronte della spesa pubblica la responsabilità è quasi completamente nazionale. E qui l’Italia ha molte colpe da farsi perdonare. Sia per il livello della spesa, sempre più destinata alla copertura degli impegni correnti e sempre meno al finanziamento degli investimenti, sia per la qualità degli interventi, spesso decisi al di fuori da una razionale procedura di valutazione sulla loro valenza economica e sull’efficienza dal profilo del miglioramento della dotazione di infrastrutture del Paese.

La dimostrazione sta tutta nel libro “La buona spesa, guida operativa dalle opere pubbliche alla spending review” di Giuseppe Pennisi e Stefano Maiolo (Ed. Centro studi ImpresaLavoro, pagg. 194). Pennisi, economista con una lunga esperienza all’estero e collaboratore, tra l’altro, de “Il Sussidiario” e Maiolo, anch’esso economista, docente a Tor Vergata, compiono un viaggio attraverso norme, procedure e regolamenti per mettere a fuoco una realtà disarmante: “Nel nostro Paese  – come si afferma nell’introduzione – imprese, lavoratori, cittadini sono penalizzati a ragione del pessimo stato delle infrastrutture e dalla mancanza d finanziamenti per realizzarle, nonché dalla carenza di strumenti operativi per valutarne effetti e redditività finanziaria e sociale”.

Il triste record tricolore: se ne va in tasse quasi mezzo stipendio

Il triste record tricolore: se ne va in tasse quasi mezzo stipendio

Antonio Signorini – Il Giornale

Costo del lavoro sempre più alto e sempre meno soldi in tasca ai lavoratori. Soprattutto per quelli con famiglia. L’anomalia italiana di un cuneo fiscale molto alto non è un ricordo del passato. Nonostante continui proclami dei governi di turno e i tanti richiami da parte degli osservatori internazionali, la differenza tra quanto i datori spendono e l’effettivo stipendio dei dipendenti continua ad aumentare. In totale controtendenza rispetto agli altri paesi occidentali.

Il Centro Studi ImpresaLavoro, presieduto dall’imprenditore Massimo Blasoni, rielaborando dati Ocse, ha calcolato che la somma delle imposte e dei contributi per un lavoratore dipendente single tra il 2007 e il 2015 è cresciuto negli ultimi anni del 2,57%. Il cuneo, cioè la differenza tra il lordo e il netto dello stipendio è arrivato al 48,96% del costo del lavoro.

Gli altri Paesi Ocse hanno imboccato da tempo un’altra strada. La media dei membri dell’organizzazione di Parigi è infatti in calo dello 0,11% rispetto al 2007 e dello 0,72% rispetto al 2000. I Paesi che hanno scelto di rendere il lavoro più conveniente sono economie vicine a quella italiana: la Germania (-2,36%), la Francia (-1,29%) e il Regno Unito (-3,29%). Il cuneo è aumentato anche in altri paesi, ma sempre in misura minore rispetto all’Italia. Negli Stati Uniti (+0,74%), in Australia (+0,65%), in Spagna (+0,57%) e in Canada (+0,36%). Tutti sotto il punto percentuale, osserva il centro Studi ImpresaLavoro.

Il dato peggiora se si prende un lavoratore con famiglia. Nelle coppie sposate con due figli in cui lavora solo uno dei due genitori, per esempio, il cuneo fiscale in Italia è cresciuto del 4,14% rispetto al 2007. Ancora una volta la performance peggiore. Dopo di noi, sempre tra i paesi dell’Ocse, seguono a distanza Giappone (+2,99%), Australia (+2,88%), Stati Uniti (+1,47%) e Spagna (+0/92%). Ancora una volta i partner europei più forti, dimostrano di puntare più di noi sulla competitività e sull’equità. La Germania registra un calo del cuneo per i lavoratori con famiglia del 1,49%, la Francia del 2,00% e il Regno Unito del 2,04%. Va un po’ meglio per le famiglie italiane sposate con due figli nelle quali lavorano entrambi i genitori, con un aumento del cuneo complessivo tra il 2007 e il 2015 che si ferma al 1,55%.

Dati che pongono al governo una sfida complessa. Da un lato quella, antica, che vorrebbe fare recuperare competitività al paese proprio agendo sul cuneo. Quindi tagli al peso del fisco sull’impresa. In realtà il governo ha intenzione di rinviare ulteriormente il taglio dell’Ires, imposta che grava sulle aziende, di un altro anno, per concentrarsi su misure immediatamente percepibili per le famiglie.

Non si torna a crescere senza una vera politica per la famiglia

Non si torna a crescere senza una vera politica per la famiglia

Giuseppe Pennisi* – Avvenire

Una politica per la famiglia è la leva essenziale perché l’Italia torni a crescere. È stato questo il punto centrale dell’audizione in Parlamento del Cnel sul Def, ma il concetto è stato sottolineato anche da Istat e Corte dei Conti. Altrimenti, ci si avviterebbe in un progressivo invecchiamento e riduzione di energie (sia imprenditoriali sia lavorative) per investire, produrre, consumare ed innovare.

La politica della famiglia non deve essere confusa con la lotta alla povertà delle famiglie indigenti. Ma deve includere in primo luogo una politica tributaria attiva per i nuclei e la loro prole, nonché misure che facilitino la conciliazione tra obblighi familiari e lavoro. Sul primo punto l’Italia non sta andando bene. Un’analisi del Centro Studi Impresa Lavoro su dati Ocse mostra che se prendiamo come indicatore il cosiddetto “cuneo fiscale” il fardello è cresciuto negli ultimi anni del 2,57%, arrivando nel 2015 al 48,96% del costo del lavoro. Un dato in controtendenza rispetto alla media dei Paesi dell’Ocse: nelle altre 34 economie internazionali, infatti, il cuneo fiscale-contributivo scende dello 0,11% rispetto al 2007 e dello 0,72% rispetto al 2000. Il sensibile balzo in avanti dell’Italia è un’eccezione: negli Stati Uniti (+0,74%), in Australia (+0,65%), in Spagna (+0,57%) e in Canada (+0,36%) la crescita del cuneo fiscale – pur superiore alla media Ocse – è contenuta in variazioni inferiori al punto percentuale. Mentre in Francia (-1,29%), Germania (-2,36%) e Regno Unito (-3,29%) si è registrata una decrescita..

Il carico è ancora più pesante per i nuclei. Tra le coppie sposate con due figli in cui lavora solo uno dei due genitori il cuneo in Italia è cresciuto del 4,14% dal 2007 al 2015, rispetto alla media Ocse dello 49%. Mentre in Canada (-0,90%), Germania (-1,49%), Francia (-2,00%) e Regno Unito (-2,04%) il carico fiscale è diminuito rispetto alla situazione pre-crisi. Così, per le coppie sposate con due figli in cui lavora solo uno dei due genitori, l’Italia ha un cuneo addirittura del 39,87%. Il nostro Paese, infine, è in terza posizione (sempre su 34) anche per quanto riguarda le coppie sposate con due figli in cui lavorano entrambi i genitori, peggio di noi, con un cuneo fiscale del 42,70% soltanto Belgio (48,13%) e Francia (43,08%).

Un osservatore straniero concluderebbe da questi dati che l’Italia ha risposto alla crisi iniziata nel 2007 in gran misura aumentando il cuneo fiscale sulle famiglie, danneggiandosi così tanto nel breve periodo (consumi) quanto nel medio e lungo (profilo demografico, produttività, innovazione). Tanto più che l’incremento si è sommato a un quadro di partenza già di per sé preoccupante. E così in Italia nel 2015 si rileva un cuneo fiscale tra i più alti al mondo. La strada per apportare correzioni il governo la conosce, ed è quella da percorrere esercitando la delega fiscale.

*Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro

Uno stato “minimo” dove trionfano efficienza e modernità

Uno stato “minimo” dove trionfano efficienza e modernità

Sandro Iacometti – Libero

Servizi funzionanti, tasse basse, burocrazia inesistente. Siamo a Liberrima, paradiso di modernità ed efficienza, dove trionfa l’ideale dello Stato minimo e si celebrano i diritti fondamentali dell’individuo. Un sogno, ovviamente, a cui Massimo Blasoni ha voluto dedicare l’ultimo capitolo del suo saggio Privatizziamo!, in questi giorni in libreria per i tipi di Rubettino Editore. Imprenditore del Nordest, alla guida del terzo gruppo italiano attivo nella costruzione di strutture socio-sanitarie e presidente del Centro Studi ImpresaLavoro, Blasoni maneggia con disinvoltura i grandi maestri della tradizione liberale e liberista, da Smith a Nozick, da Hayek a Friedman.

L’autore descrive, numeri alla mano, il declino dell’Italia, l’impoverimento delle famiglie, il tracollo dei conti pubblici. «Così non va», sintetizza, e una via d’uscita «è immaginabile solo rompendo gli schemi» del dibattito culturale e politico. La rottura non è il liberismo selvaggio. Quello che viene proposto è un cambio di prospettiva. Un mondo di regole e leggi (drasticamente ridotte) dove «lo Stato continua a garantire servizi, ma in modo diverso». Dove tutti, siano essi soggetti pubblici o privati, cercano sul mercato prestazioni che vengono fornite da «società in concorrenza che si sfidano su qualità, innovazione e costi».

Ma Privatizziamo! è molto più di un inno alla privatizzazione. È un appello alla rivoluzione liberale in ogni settore. Dal fisco, che ancor prima di essere più leggero dovrebbe essere semplice e trasparente, alla politica, che dovrebbe ridurre le sue competenze e i suoi rappresentanti, al lavoro, che malgrado le recenti novità del Jobs Act continua a proporre modelli di rigidità costosi e poco orientati ai bisogni di lavoratori e aziende.

Blasoni non si fa troppe illusioni sulla capacità della classe dirigente di raccogliere i suoi suggerimenti. Alla sinistra, spiega, «non si può chiedere di giocare un ruolo autenticamente riformatore in senso liberale». Quanto ai moderati, bisogna riconoscere «i troppi errori compiuti, i troppi tradimenti, le numerose timidezze». La soluzione è quella di ripartire da zero. Cominciando da un elettorato più consapevole, che abbia ben chiaro che «il mondo intorno a noi è competitivo, non solidale» e che «lo sviluppo del nostro Paese, con più libertà e meno Stato, così come il lavoro dei nostri figli non saranno frutto di casualità, ma la conseguenza della nostra capacità di decidere per il tempo a venire e creare le occasioni per concorrere. Senza compromessi».

Multe, il bancomat dei Comuni

Multe, il bancomat dei Comuni

Sandro Iacometti – Libero

Tartassati pure dai vigili. La differenza tra chi è strozzato dal fisco e chi viene sanzionato per un’infrazione del codice della strada è evidente e non in discussione. Eppure, i numeri strabordanti delle multe e la destinazione impropria dei proventi nei bilanci comunali permettono di individuare più di un’analogia. A partire dalla logica di fondo: spremere il cittadino. Una rilevazione del Centro

Studi e Ricerche Sociologiche “Antonella Di Benedetto” di Krls Network of Business Ethics per Contribuenti.it ci dice che a Milano e Napoli viene elevata una multa ogni 9-10 secondi. Segue Aosta con 11 secondi; Roma e Torino con 12 secondi; Genova, Venezia, Firenze e Bari con 13 secondi; Pescara, Caserta, Bologna, Ancona e Perugia con 14 secondi; Verona Salerno e Palermo con 18 secondi. Chiudono la classifica Potenza, Reggio Calabria, Cagliari e Campobasso con 24 secondi. Impressionante la dinamica tendenziale: negli ultimi tre anni le contravvenzioni in Italia sono aumentate del 956%. Nello stesso periodo, in Romania (seconda in classifica) l’incremento è stato del 126%, in Grecia del 103%, in Estonia del 98%, in Slovacchia del 94%. Più giù Francia (37%), Inghilterra (17%) e Germania (10%). Possibile che in Italia siano tutti pirati della strada? Per rispondere alla domanda bisogna considerare l’entità del flusso finanziario che ogni anno entra nelle casse dei Comuni alla voce contravvenzioni. Nel 2015 la somma complessiva del gettito delle sanzioni è stata di 1,257 miliardi. Un gruzzolo enorme, su cui i sindaci ogni anno fanno affidamento per far quadrare i bilanci in dissesto.

Per avere un’idea di quanto queste cifre siano spropositate rispetto all’esigenza di far rispettare la legge e tenere in sicurezza le strade occorre, però, effettuare un’altra operazione. A questo proposito, abbiamo chiesto l’aiuto del Centro studi ImpresaLavoro, che è in grado di incrociare i dati sensibili di tutti i Comuni italiani. In questo caso, oltre ad individuare il gettito effettivo derivante dalle sanzioni per ogni singola amministrazione, il think tank creato dall’imprenditore Massimo Blasoni è riuscito anche a calcolare quale sia il peso pro capite delle multe considerando la platea dei soli automobilisti. Il quadro che ne emerge dimostra chiaramente che l’equivalenza tra contravvenzione e balzello è tutt’altro che azzardata. A Milano, ad esempio, che si è piazzata prima in questa classifica con 199 milioni complessivi intascati dalle contravvenzioni nel 2015 (+42% sul 2014), il sindaco per rimpinguare il bilancio ha potuto contare su un incasso di ben 249 euro per automobilista. Seguono Bologna, con 33,8 milioni complessivi e 141 euro a patentato e Firenze, con 26 milioni e 113 euro. Più in basso troviamo Torino, con un gettito complessivo di 47,9 milioni e una quota pro capite di 89 euro, Napoli, con 34,2 milioni e 68 euro, e Roma, con 83,4 milioni e 50 euro. Fanalini di coda Latina, con 1 milione e 14 euro, e Gorizia, con 153mila euro e solo 7 euro ad automobilista. Le cifre cambiano un po’, considerando la media triennale o prendendo in esame tutti i residenti sopra i 18 anni, ma la sostanza rimane la stessa. Nei principali capoluoghi italiani l’attività dei vigili urbani porta in dote per ogni contribuente una tassa annuale che oscilla dai 50 ai 200 euro. Versamenti che sono destinati a crescere. Un’indagine dell’Adnkronos sui bilanci di previsione di alcuni Comuni per il 2016 rileva incrementi “attesi” fino al 30%. A Roma addirittura ammontano a 325 milioni le entrate previste dalle multe, di cui 148 di arretrati (più 75 milioni sul 2014). Milano è in controtendenza: meno 50 milioni, ma il gettito stimato comprensivo di arretrati resta da record con 355 milioni.

Resta da capire dove finiscono tutti questi soldi. La legge è abbastanza chiara. Gli articoli 208 (proventi) e 142 (autovelox) del codice della strada prevedono che il 50% possa essere utilizzato a proprio piacimento e che l’altro 50% venga destinato a settori ben specifici, di cui il 12,5% obbligatoriamente per la segnaletica e il resto per la sicurezza stradale. Ma i continui scandali degli autovelox non a norma e dei semafori taroccati hanno suscitato più di un sospetto sul fatto che anche quella metà delle sanzioni torni in qualche modo ai contribuenti. Ne dubita fortemente, ad esempio, il vicepresidente della Camera, Simone Baldelli (FI), secondo cui «l’uso degli autovelox è diventato per alcuni enti locali uno strumento per garantirsi entrate supplementari con destinazioni non conformi alle previsioni di legge». Di qui la mozione, presentata dallo stesso Baldelli e approvata dalla Camera il 28 gennaio scorso, che impegna il governo a vigilare con più incisività e a presentare al Parlamento, entro il prossimo 30 settembre, un resoconto sullo stato di inadempienza dei Comuni. Segnatevi la data.

Leodori (Pd): “Occupazione, cantiere-lavoro stabile in Provincia di Roma”

Leodori (Pd): “Occupazione, cantiere-lavoro stabile in Provincia di Roma”

di Daniele Leodori*

La Provincia di Roma si è lasciata la crisi alle spalle. Adesso che le fondamenta sono stabili, il cantiere su lavoro e occupazione potrà crescere e consolidarsi. Dal 2014 al 2015 – comunica ImpresaLavoro nell’analisi dati Istat – l’occupazione nella provincia di Roma ha registrato un dato positivo, crescendo di oltre 4.500 unità. Ma, ancora più confortante, il saldo occupazionale dal 2007 al 2015 che è di 163.100 unità rispetto ai livelli pre-crisi, con un distacco evidente rispetto alla provincia di Milano, Monza e Brianza, ferma a oltre 31mila.

Nell’ultimo anno ottimi risultati anche per la provincia di Frosinone (+8.639 dal 2014-2015) in netta ripresa rispetto agli anni passati. Seppur con dei distinguo su cui è necessario riflettere e agire con politiche più incisive, il Lazio raccoglie sul territorio i frutti delle politiche attive sul fronte occupazione. Con il risanamento dei conti certificato dal ministro Padoan e la spending review applicata alle società regionali, l’economia regionale cambia marcia.

* Presidente del Consiglio regionale del Lazio

Nicolò (FI): “La ‘ripresina’ di Renzi è affetta da rachitismo cronico”

Nicolò (FI): “La ‘ripresina’ di Renzi è affetta da rachitismo cronico”

“La ‘ripresina’ tanto propagandata dal Governo Renzi è affetta da rachitismo cronico e a nulla, finora, sono serviti i tentativi di rilancio dell’economia nonostante le continue iniezioni di danaro deliberate dalla Bce”. Lo afferma in una nota il capogruppo di Forza Italia a Palazzo Campanella, Alessandro Nicolò.

“I dati del centro studi ‘Impresa-Lavoro’, elaborati con riferimento ai riscontri Istat – prosegue Nicolò – delineano un profilo invero inquietante per la Calabria. Nel periodo considerato, ovvero il 2014 ed il 2015, Catanzaro, Reggio Calabria, Crotone e Vibo Valentia, insieme, marcano un saldo negativo di posti di lavoro di quasi 19 mila unità! Un risultato – continua Alessandro Nicolò – che segna irreversibilmente il fallimento delle politiche di sviluppo del Governo Renzi e di questa Giunta regionale. Si tratta di una chiara certificazione di stato di coma dell’apparato produttivo calabrese, peraltro, seriamente indebolito dal calo delle esportazioni dovuto anche ai provvedimenti di embargo contro la Russia. Le ‘pezzuole’ congiunturali varati dalla Giunta Oliverio non riescono quindi a chiudere le ampie toppe risultanti dall’inclemenza di un dato che origina dall’assenza di provvedimenti speciali, di masterplan annunciati e di cui non si vede ombra, del Governo e dei suoi supporter calabresi. Simile al maglio di una gigantesca catena – prosegue il capogruppo di Forza Italia in Consiglio regionale – la crisi occupazionale nelle province calabresi si abbatte non solo sulle imprese che chiudono, ma sulle famiglie, sui giovani che scappano via, impoverendo ulteriormente il nostro territorio. Governo e Giunta regionale, quindi, devono necessariamente trovare un momento di confronto per mettere in campo le necessarie iniziative orientate a salvare quel che ancora rimane del tessuto produttivo calabrese, magari preconizzando interventi speciali, per frenare quel che appare come una vera e irreversibile tragedia, con aziende falcidiate e dipendenti licenziati”.

“E invece – asserisce Alessandro Nicolò – continuiamo a rimanere appesi alle decisioni dei vertici del Pd calabrese, alle croniche ‘notti dei lunghi coltelli’ dei vari colonnelli renziani, senza che un solo posto di lavoro sia, addirittura, salvato! “Il Consiglio regionale, alla luce di tali risultanze, deve ritornare ad essere il motore di ogni strategia di sviluppo. Abbiamo appena concluso un approfondito dibattito sulla sanità ed espresso liberamente le nostre opinioni, una iniziativa senza dubbio positiva. Adesso, con maggiore preoccupazione e senso di responsabilità, dobbiamo porre al Governo tutta la partita delle infrastrutture e dei tempi tecnici per realizzarle”.

“Le dorsali tirreniche ed adriatiche si stanno adeguatamente attrezzando per l’alta capacità e l’alta velocità di merci e persone; da Salerno e da Taranto si impiega quasi lo stesso tempo per raggiungere i confini del Paese, e Genova e Trieste si ripropongono come le arterie più di punta per il trasferimento da e per il nordeuropea delle merci. Il Governo ci dica allora cosa se ne vuol fare del porto di Gioia Tauro, di questa immensa infrastruttura a cui lentamente, ma progressivamente, vengono erosi volumi di traffico! La Calabria, e meno che mai la provincia di Reggio, possono sopportare ulteriori perdite di posti di lavoro! Governo e Regione parlino chiaro, dicano ai calabresi come immaginano il futuro di questa regione; ci spieghino cosa si intende fare con i fondi dell’Agenda 2014/2020. Non chiediamo altro se non portare il nostro contributo di programma e di proposte in Consiglio regionale, che rimane l’unico riferimento istituzionale per tutto il popolo calabrese. Ecco perché Forza Italia chiede, senza indugiare una seduta dell’Assemblea sulle politiche di sviluppo e sul lavoro. Lì verificheremo le reali volontà di Renzi e del centrosinistra per il rilancio della Calabria”.

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La morsa del fisco che penalizza le pensioni dei giovani

La morsa del fisco che penalizza le pensioni dei giovani

Andrea Giacobino – Avvenire

Si aprirà il prossimo 5 aprile a Milano il “Salone del risparmio”, un’importante manifestazione organizzata da Assogestioni, che raggruppa per tre giorni nello spazio fieristico del Mico tutti i principali attori del mondo degli investimenti, a cominciare dai fondi comuni. Il “Salone” è diventato in questi anni un vero e proprio punto di riferimento anche per gli interlocutori della politica e così non stupisce che il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan sia ospite della conferenza inaugurale intitolata «Risparmio al centro. Demografia, liquidità, sviluppo» mentre il viceministro Enrico Zanetti tirerà le fila di un dibattito sul futuro della previdenza. L’hashtag scelto per simboleggiare lo spirito del Salone è #risparmioalcentro. Ma c’è da chiedersi se davvero il risparmio degli italiani sia al centro delle scelte della politica.

Dal 2011 allo scorso anno le tasse sul risparmio hanno registrato un incremento progressivo del 130%, pari a 9 miliardi di euro. A tanto, infatti, ammonta l’aumento del prelievo complessivo dello Stato sulle attività finanziarie, passato da 6,9 miliardi nel 2011 ai 15,9 del 2015, stando a una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro basata su dati e indici Banca d’Italia, Abi, Mef e Fideuram. Tale cifra si deve per 4,7 miliardi all’aumento delle aliquote sui rendimenti, per 4 miliardi all’introduzione dell’imposta di bollo proporzionale e per solo 0,3 miliardi alla Tobin Tax.

Lo studio rileva come, secondo i più recenti dati di Bankitalia, il totale delle attività finanziarie detenute dalle famiglie supera i 3.800 miliardi di euro. Su questa massa di attivi si è registrato, a partire dalla fine del 2011, un «progressivo e repentino inasprimento fiscale». Questo incremento nella tassazione del risparmio appare vertiginoso anche in considerazione del drastico calo della redditività dei titoli di Stato e dei depositi bancari. A inasprire la situazione dall’inizio del 2015 è entrato in vigore un “giro di vite fiscale” anche sulla rivalutazione di fondi pensione, casse previdenziali, e Tfr. Lo studio mostra che l’incremento delle aliquote sui fondi pensione al 20% ridurrà il montante contributivo atteso dei giovani lavoratori di una percentuale compresa tra il 5% e l’8,6%.

In tale contesto il futuro della previdenza italiana è tutto in salita. E bene fa il Salone a mettere al centro dell’attenzione i Pepp, acronimo scelto dalla Commissione Europea per i Pan european personal pensions, piani di pensione individuali pan-europei che dovrebbero introdurre nei paesi dell’Unione quel “terzo pilastro” previdenziale volto a coprire il gap che ancora caratterizza molte nazioni. Ma a questi prodotti, per decollare davvero, serviranno benefici fiscali: e anche questo tocca è responsabilità della politica.

Inps, sui conti pesano i crediti non riscossi

Inps, sui conti pesano i crediti non riscossi

Raffaella Cantone – L’Occidentale

Brutte notizie per INPS. Secondo uno studio di ImpresaLavoro, la perdita di bilancio di INPS dal 2012 ammonterebbe a oltre 11 miliardi l’anno, da quando cioè l’istituto ha incorporato l’Enpals e Inpdap, perdita che secondo le stime dovrebbe registrarsi anche al termine del 2016. Il patrimonio netto di INPS, che cinque anni fa misurava oltre 40 miliardi di euro, si sta quindi erodendo progressivamente, compresi i 21 miliardi di euro incassati tramite un intervento straordinario di ripianamento delle perdite fatto negli anni scorsi.

Secondo il Centro studi ImpresaLavoro, a fine 2016 i conti dell’Istituto potrebbero essere ancora peggiori: negli esercizi 2015 e 2016 il disavanzo è ancora una previsione, e, sempre secondo gli esperti di ImpresaLavoro, in passato i consuntivi hanno fatto registrare delle perdite ben più ampie di quelle inizialmente preventivate. Il patrimonio netto fotografato al 31 dicembre 2016 non andrebbe oltre gli 1,8 miliardi, comportando quindi un nuovo intervento di ripiano da parte dello Stato. Un costo che INPS continuerebbe a sottostimare è quello della svalutazione dei crediti, quella parte dei contributi che l’ente previdenziale si attende inizialmente di riscuotere ma che nei fatti viene persa.

Non si tratta solo di evasione, ma anche di debitori falliti o liquidati oppure deceduti senza eredi, o ancora crediti caduti in prescrizione o per i quali ne viene accertata l’insussistenza. La massa dei contributi non incassati, secondo le stime, dovrebbe superare a fine anno per la prima volta la quota dei 100 miliardi, crescendo al ritmo medio di 740 milioni di euro al mese. Al momento i crediti non incassati corrisponderebbero a 104 miliardi, di cui oltre la metà (56,3) sottoposti a svalutazione. Due i parametri su cui si calcolano questi crediti, l’anno di riferimento e la gestione specifica a cui si riferisce.

ImpresaLavoro ha scoperto che proprio negli ultimi bilanci questi criteri sono stati rivisti al ribasso. Quelli risalenti fino al 2009, vengono svalutati al 99%, riconoscendone quindi la sostanziale irrecuperabilità salvo episodi del tutto sporadici. Per il triennio successivo la svalutazione è del 55% per le gestioni dei lavoratori dipendenti e gli agricoli, mentre è del 30% per gli artigiani e i commercianti e si limita al 10% per la gestione separata. Sui crediti relativi all’ultimo triennio è proposta una svalutazione media del 10%.

Secondo ImpresaLavoro le gestioni che mostrano le più basse probabilità di recupero sono quelle più rilevanti: 56,7 miliardi di crediti non incassati (il 54,3% del totale) si riferiscono alle gestioni dei lavoratori dipendenti (incluso le prestazioni temporanee) mentre in minoranza troviamo quelle dei commercianti (20,7%) e artigiani (15,3%). Solo per il 2,3% dei mancati incassi (e con anzianità dei crediti piuttosto bassa) pesa la gestione separata di parasubordinati e autonomi.

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