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Il peso della burocrazia per pagare le tasse: oltre 7500 euro ad azienda

Il peso della burocrazia per pagare le tasse: oltre 7500 euro ad azienda

Il Messaggero

L’Italia è un paese nel quale costa parecchio anche essere in regola con il fisco. Secondo i dati elaborati dal Centro Studi ImpresaLavoro, un’azienda media spende ogni anno 7.559 euro per disbrigare adempimenti burocratici relativi al pagamento delle imposte: una cifra che non ha eguali in Europa e che rappresenta una vera e propria tassa ulteriore e mascherata che le nostre imprese sono costrette a sostenere.

I numeri
Il numero è frutto dell’incrocio di due dati: quello reso noto dalla Banca Mondiale all’interno del rapporto Doing Business e relativo alle ore annue necessarie per svolgere adempimenti fiscali nonché quello relativo al costo orario medio del lavoro nel nostro paese così come sostenuto dalle aziende e rilevato da Eurostat. Un’azienda italiana, mediamente, deve infatti dedicare ogni anno 269 ore per preparare, compilare e pagare i moduli relativi alle imposte sul lavoro, sul valore aggiunto e sui redditi di impresa. Questo tempo comporta ovviamente un costo, che Eurostat stima mediamente in 28,1 euro l’ora. L’assorbimento di dipendenti dedicati a queste mansioni e quindi distolti dall’effettiva produzione costa così ogni anno alle aziende 7.559 euro.

Vincere in questa classifica è tutt’altro che prestigioso e per una volta riusciamo a battere anche la Germania che, nonostante un costo orario del lavoro più alto di 3 euro rispetto al nostro, con “solo” 218 ore necessarie a pagare le tasse chiede alle sue imprese uno sforzo di 736 euro inferiore al nostro. Superiamo anche la Francia che, pur avendo un sistema fiscale pesante come il nostro in termini quantitativi, richiede solo 137 ore all’anno per svolgere tutti gli adempimenti. È pur vero che in Europa vigono anche sistemi più complessi del nostro: ad esempio quello bulgaro, quello ungherese o quello della Repubblica Ceca. Il basso costo del lavoro rende però decisamente meno oneroso impiegare risorse in compiti burocratici.

«Quando analizziamo il total tax rate cui sono sottoposte le imprese italiane – commenta il presidente di ImpresaLavoro Massimo Blasoni – molto spesso ci dimentichiamo che le tasse emerse non rappresentano il totale del peso che le aziende devono sopportare. La burocrazia non è solo un laccio che blocca lo sviluppo e gli investimenti privati: è anche un costo. Per questo è sempre più necessario agire rapidamente per semplificare il nostro sistema, partendo da quello fiscale. Si tratta di una riforma urgente e che può essere realizzata a costo zero. Basta volerlo».

Fisco: per pagare le tasse un’impresa italiana spende in media 7.559 euro l’anno

Fisco: per pagare le tasse un’impresa italiana spende in media 7.559 euro l’anno

Nota

L’Italia è un paese nel quale costa parecchio anche essere in regola con il fisco. Secondo i dati elaborati dal Centro Studi ImpresaLavoro, un’azienda di medie dimensioni spende in media ogni anno 7.559 euro per disbrigare adempimenti burocratici relativi al pagamento delle imposte: una cifra che non ha eguali in Europa e che rappresenta una vera e propria tassa ulteriore e mascherata che le nostre imprese sono costrette a sostenere.
Il numero è frutto dell’incrocio di due dati: quello reso noto dalla Banca Mondiale all’interno del rapporto Doing Business e relativo alle ore annue necessarie per svolgere adempimenti fiscali nonché quello relativo al costo orario medio del lavoro nel nostro paese così come sostenuto dalle aziende e rilevato da Eurostat. Un’azienda italiana, mediamente, deve infatti dedicare ogni anno 269 ore per preparare, compilare e pagare i moduli relativi alle imposte sul lavoro, sul valore aggiunto e sui redditi di impresa. Questo tempo comporta ovviamente un costo, che Eurostat stima mediamente in 28,1 euro l’ora. L’assorbimento di dipendenti dedicati a queste mansioni e quindi distolti dall’effettiva produzione costa così ogni anno alle aziende 7.559 euro.
Vincere in questa classifica è tutt’altro che prestigioso e per una volta riusciamo a battere anche la Germania che, nonostante un costo orario del lavoro più alto di 3 euro rispetto al nostro, con “solo” 218 ore necessarie a pagare le tasse chiede alle sue imprese uno sforzo di 736 euro inferiore al nostro. Superiamo anche la Francia che, pur avendo un sistema fiscale pesante come il nostro in termini quantitativi, richiede solo 137 ore all’anno per svolgere tutti gli adempimenti. È pur vero che in Europa vigono anche sistemi più complessi del nostro: ad esempio quello bulgaro, quello ungherese o quello della Repubblica Ceca. Il basso costo del lavoro rende però decisamente meno oneroso impiegare risorse in compiti burocratici.
«Quando analizziamo il total tax rate cui sono sottoposte le imprese italiane – commenta il presidente di ImpresaLavoro Massimo Blasoni – molto spesso ci dimentichiamo che le tasse emerse non rappresentano il totale del peso che le aziende devono sopportare. La burocrazia non è solo un laccio che blocca lo sviluppo e gli investimenti privati: è anche un costo. Per questo è sempre più necessario agire rapidamente per semplificare il nostro sistema, partendo da quello fiscale. Si tratta di una riforma urgente e che può essere realizzata a costo zero. Basta volerlo».

 

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Scacco ai burocrati

Scacco ai burocrati

Bruno Villois – La Nazione

Capita a tutti di dover avere bisogno di un elettricista, idraulico, meccanico e decine di altre figure indispensabili alla vita quotidiana di tutti noi. Ebbene, questi professionisti vi racconteranno che il loro impenetrabile e insuperabile nemico è la burocrazia. In media gli artigiani e i commercianti, dedicano un quinto della giornata a risolvere le infinite pastoie burocratiche, e altrettanto ne perdono per la parte contabile e fiscale. Su una media di 50 ore settimanali, 15-20 volano via per far fronte alla burocrazia, finora inossidabile e inattaccabile da ogni governo. Oltre al 30-40% del tempo per gli adempimenti, ci sono oneri finanziari, bolli, raccomandate, consulenti amministrativi e contabili. Eppure sono decenni che ogni politico, nazionale o locale, mette al primo posto il problema burocrazia per poi dimenticarsene in corso di mandato. Risolvere il problema con le ‘lenzuolate’ di liberalizzazioni o pseudo tali, non fa null’altro che aumentare il peso della burocrazia fissando, in nome e per conto delle liberalizzazioni, nuove astruse e complicate regole che nessuno è in grado di interpretare e che invece impongono più scartoffie e oneri consulenziali.

Il Governo pensa ad eliminare o a ridurre pesantemente il ruolo delle Camere di Commercio e dei corpi intermedi, che sono gli unici supporter dei piccoli imprenditori. Il loro indebolimento produrrà importanti problemi alle partite Iva, che vedranno ridursi i servizi, e rafforzerà la burocrazia. Chi rischia e lavora in proprio e dispone di risorse finanziarie limitate, da anni guadagna sempre meno e rischia sempre di più: togliergli i corpi intermedi significa abbandonarlo a se stesso. Renzi e il suo governo si dichiarano paladini della modernizzazione: se è vero, invece di abbattere i corpi intermedi, annientino la burocrazia. L ‘informatica e Internet sono un caposaldo per riuscirci; la riduzione del numero degli adempimenti e delle scadenze, da concentrarsi in un massimo di 2 o 3, è un secondo, punto fermo; l’abolizione dei doppioni, Stato, Regioni, Comuni, enti vari, che impongono, moltiplicandoli, gli stessi adempimenti, è il terzo perno. Così si modernizza il paese e si evita di far disperdere tempo e risorse a e piccole imprese.

Fisco amaro: per pagare tutte le tasse servono 173 (lunghi) giorni di lavoro

Fisco amaro: per pagare tutte le tasse servono 173 (lunghi) giorni di lavoro

Massimo Fracaro e Andrea Vavolo – Corriere Economia

Nel 1990 Google non era ancora nata. Internet, in pratica, non esisteva. Uno dei primi «portatili» di Nokia pesava 800 grammi. consentiva di telefonare per poco tempo e costava migliaia di euro. Giuseppe Tornatore vinceva l’Oscar con «Nuovo cinema Paradiso». A capo del governo c’era Giulio Andreotti. Il rapporto debito pubblico/Pil era a una quota tranquillizzante: il 95%. Nostalgia per quei tempi? Sì e no, probabilmente. Ma se si guarda al fattore T, le tasse, la risposta non può che essere un sì convinto. Allora il Tax Freedom Day – il giorno della liberazione fiscale, vale a dire quello nel quale si finisce di lavorare per pagare tasse e contributi, dopo di che i guadagni sono destinati al proprio sostentamento – si festeggiava l’8 giugno. Nel 2015, invece, il contribuente tipo – un quadro con un reddito di 49.228 euro, una moglie e un figlio – dovrà lavorare, secondo l’elaborazione realizzata in collaborazione con l’Ufficio studi della Cgia di Mestre, 173 giorni per sfamare l’appetito del Fisco e degli enti locali. E si libererà dal giogo tributario solo il 23 giugno. In 25 anni – da quando il Corriere ha cominciato a determinare il Tax Freeedom Day – l’Erario si è divorato più di due settimane della nostra vita. E suscita davvero sconforto notare che nello stesso periodo, nonostante questo fortissimo aumento della pressione tributaria, il rapporto tra debito pubblico e Pil è salito dal 94,7% al 133,1%. Nel 1990 il debito ammontava a 663 miliardi. Ora supera i 2.000 miliardi.

Dal 2014 al 2015
Il giorno di liberazione fiscale resta invariato, anche se si e verificato un ulteriore, sia pure minimo, aumento della pressione tributaria: dal 47,3% al 47,5%. Va notato, però, che l’anno scorso. a gennaio 2014, avevamo stimato che sarebbero bastati 172 giorni per saldare il conto dell’Erario. Invece ne sono serviti 173 per colpa di imposte locali più salate del previsto. Il pareggio rispetto al 2014, quindi, e un po’ stentato. Va meglio. invece, all’altro contribuente – un operaio con moglie e figlio a carico e un reddito di 24.656 euro – che quest’anno si libererà dalla corvee fiscale con un giorno di anticipo: il 13 maggio invece del 14 e dopo 132 giorni di lavoro. La liberazione anticipata è dovuta al bonus Renzi, gli 80 euro in busta paga che spettano a chi ha un reddito non superiore a 24.000 euro. Il bonus quest’anno vale 960 euro, invece dei 640 del 2014 perché l’anno scorso è stato pagato solo da maggio in poi. Per entrambi i contribuenti un altro fattore positivo è dato dalla diminuzione delle accise sui carburanti. Mentre inciderà negativamente, soprattutto per il quadro, l’aumento dell’aliquota sulle rendite finanziarie, passata dal primo luglio 2014 dal 20% al 26% (con esclusione dei titoli di Stato, ancora tassati al 12,5%)

L’identikit
I contribuenti tipo utilizzati per i calcoli sono i medesimi degli anni precedenti: il reddito è stato incrementato dell’1,2% rispetto a quello del 2014 sulla base della variazione degli indici di rivalutazione contrattuali Istat. La stima dell’Iva a carico del contribuente si basa sul presupposto che questi, nelle sue abitudini di spesa, rifletta quelle medie delle famiglie italiane di tre componenti come rilevate dall’Istat nell’indagine annuale sui consumi. L’operaio, con moglie e un figlio a carico, abita in una casa di sua proprietà di 90 metri quadrati con rendita catastale di 446 euro. In conto corrente ha circa 6.000 euro. Stesso nucleo familiare per il quadro che abita in una casa di sua proprietà di 150 metri quadrati con rendita catastale di 1.100 euro. I suoi risparmi ammontano a 40.000 euro di cui 12.160 in conto corrente e 27.840 in titoli e fondi.

Motivazioni
Ma perché il giorno di liberazione fiscale si sposta sempre più in avanti? Lo slittamento è inevitabile in un sistema fortemente progressivo come il nostro. Soprattutto se si considera che gli scaglioni Irpef sono invariati dal 2007 e non hanno tenuto il passo con l’inflazione. In questo periodo sono state aumentate solo le detrazioni a favore dei redditi più bassi. Ad esempio: il nostro quadro vede crescere il suo reddito imponibile da 48.644 a 49.228 euro, ma di questi 584 incassati in più, ben 321 svaniscono tra Irpef, contributi e addizionali locali. E l’appetito del Fisco di periferia continua a crescere: nel 2015 presenterà un conto di 1.836 euro. Solo due anni fa si accontentava di 1.501 euro. E ora servono 18 minuti al giorno di lavoro per saldare il conto. E proprio qui si annidano le maggiori insidie per i contribuenti. Nei nostri calcoli sono state riproposte le aliquote utilizzate per il 2014, mancando al momento informazioni più complete. È vero che per la Tasi è stata prevista una clausola di salvaguardia, ma molti Comuni hanno ancora margini di manovra, anche sul fronte dell’addizionale Irpef. Stesso discorso può essere fatto per le Regioni. Insomma, accontentiamoci di non faticare un giorno in più per pagare le tasse. E incrociamo le dita.

Selezionare gli obiettivi per combattere la burocrazia

Selezionare gli obiettivi per combattere la burocrazia

Carmine Fotina – Il Sole 24 Ore

Poche idee ma chiare. Spesso, per quanto apparentemente banale, questa può rivelarsi la formula di maggior successo nelle policy per il supporto all’economia reale. E mai come su un argomento come quello degli investimenti esteri questa regola aurea torna limpidamente attuale. In questo campo abbiamo assistito a più di qualche errore e a un difetto generale di scarso coordinamento: troppi attori in campo e spesso tra loro concorrenti nelle decisioni. Come non pensare, a questo proposito, a grandi investimenti coccolati da membri del governo – senza distinzione tra esecutivi o schieramenti politici – nella fase di negoziazione e sgambettati nella fase decisiva da un veto locale o, peggio ancora, da un repentino cambiamento delle normative statali.

I marchi di British Gas, Ikea, Decathlon sono solo alcuni che potremmo consultare nel catalogo dei grandi investimenti bloccati, frenati o comunque rallentati dalle brutte sorprese che si sono via via manifestate nella disavventura con la burocrazia made in Italy. A tutt’altro catalogo – quello delle opportunità da presentare ai grandi fondi stranieri – si lavora ora tra Palazzo Chigi, ministero dell’Economia, ministero dello Sviluppo e ministero degli Affari esteri. La prima mossa sembra essere quella di tutelare le regole che hanno determinato la scelta dell’Italia per un grande investimento. In altre parole minimizzare i rischi regolatori che, secondo uno studio condotto dalla Camera di commercio italo-americana, frenano soprattutto gli investimenti nell’industria chimica e farmaceutica, nel settore energetico e nei servizi finanziari.

Numeri alla mano, a prescindere dalla graduatoria che scegliamo di analizzare, l’Italia è chiamata a un recupero molto impegnativo. Al 65esimo posto per il Doing Business, al 146esimo secondo il World economic forum che analizza il peso della regolamentazione assumendo come benchmark Singapore. Troppo spesso, per un Paese ad alta capacità manifatturiera e turistica, nell’ipertroia regolatoria a restare incastrati sono capitali di provenienza estera. Secondo uno studio I-Com, su oltre 33 miliardi di grandi investimenti sul territorio italiano oltre la metà è a carico di investitori stranieri, ma il 21% (quasi 7 miliardi di euro) risulta attualmente completamente arenato per ragioni amministrative. Tutti dati ed elementi ben noti a Renzi e ai suoi collaboratori, ora dall’analisi si dovrà passare ai risultati concreti.

Pochi vantaggi, tanta burocrazia: l’apprendistato rischia di sparire

Pochi vantaggi, tanta burocrazia: l’apprendistato rischia di sparire

Walter Passerini – La Stampa

Ha sessant’anni e li dimostra tutti. L’apprendistato, che trae le origini della sua attuale sistemazione normativa nella legge 25 del 1955, è l’unica forma di contratto di lavoro a fini formativi. Nato nelle botteghe artigiane rinascimentali, l’istituto ha subito diverse modifiche nel tempo, per arrivare al Testo unico del 2011, che così lo definisce: un contratto di lavoro a tempo indeterminato finalizzato alla formazione ed all’occupazione dei giovani. L’apprendistato è un contratto a causa mista, nel quale accanto alla causa di scambio (lavoro contro retribuzione), tipica del contratto di lavoro dipendente, si aggiunge la finalità formativa (D.Lgs. 14 settembre 2011, n.167). L’ultima modifica è il Decreto Poletti (D.l. 20 marzo 2014, n. 34, convertito in Legge 16 maggio 2014, n. 78).

Negli ultimi anni il contratto di apprendistato è stato definito il canale privilegiato per l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, ma il suo successo nel frattempo ò colato a picco. Negli anni d’oro è arrivato a superare una media di oltre 600mila contratti l’anno. Tra il 2010 e il 2012 è passato da 528.183 contratti a 469.855, per crollare subito dopo l’entrata in vigore del Testo unico ai suoi minimi: nel 2013 ci sono stati 240mila contratti di apprendistato, nel 2014 meno di 200 mila nei primi nove mesi, che dovrebbero portare il numero finale di quest’anno sotto quota 300 mila.

Come mai questo dimezzamento di contratti mentre la normativa e la politiche del lavoro tendono a sostenerlo? Ci sono tante ragioni. La presenza di un pacchetto di ore di formazione ha sempre ottenuto tiepidi consensi da parte delle imprese, quando non vere opposizioni: il decreto Poletti di quest’anno ha alleggerito il problema, ma non basta. I vantaggi economici per le imprese sono tanti: decontribuzione totale per tre anni per le imprese sotto i nove dipendenti; al 10% per le altre. Anche il vincolo di stabilizzazione è stato abbassato dal decreto Poletti: la quota di stabilizzazioni prima di assumere altri apprendisti è passata dal 50% al 20%. Ma anche questo evidentemente non è sufficiente. Nelle ultime settimane sembra poi che le aziende intenzionate ad assumere giovani si siano fermate, in attesa dei nuovi provvedimenti previsti dal Jobs Act.

Una delle ragioni del rovinoso cammino del contratto di apprendistato consiste proprio nella concorrenza spietata che altre formule di assunzione gli fanno, essendo ritenute più convenienti da parte delle aziende (contratto a termine, in primis). Infine, l’attesa dell’arrivo del nuovo contratto a tutele crescenti ha eroso ulteriore fascino all’apprendistato, e assomiglia a un’eutanasia: strano un contratto a tempo indeterminato che può avere una scadenza, come è l’apprendistato. Non si può escludere che le complessità burocratiche abbiano giocato in ruolo. E forse anche la scarsa conoscenza, per non dire confusione, sulle tre tipologie: apprendistato per la qualifica, professionalizzante o di mestiere, in alta formazione e ricerca. A cui se ne aggiunge una quarta, destinata ai lavoratori in mobilità. È soprattutto la terza tipologia a soffrire: sembra proprio che usare uno stesso nome (apprendistato) per riunire garzoni di officina, impiegati di banca e laureati, masterizzati o dottori di ricerca non sia molto efficace; anche se per realizzare il miracolo di una nuova vita dell’apprendistato non basterà certo un semplice cambio di nome.

Fisco, la fabbrica delle complicazioni

Fisco, la fabbrica delle complicazioni

Paolo Baroni – La Stampa

La fabbrica delle regole e delle complicazioni non si ferma mai. Nonostante gli sforzi del governo, che finalmente iniziano a dare i primi frutti, soprattutto grazie all’operazione del 730 precompilato a domicilio, la pressione burocratica sulle imprese non accenna a scendere. È una vera tela di Penelope: dal 2008 ad oggi, per una norma che semplifica ne sono state emanate 4,3 che complicano la gestione degli adempimenti tributari. È vero che nel 2014 il ritmo delle complicazioni fiscali è rallentato, ma la strada si presenta ancora tutta in salita. Anche perché l’attuazione della delega fiscale, a nove mesi dalla sua approvazione, è in fortissimo ritardo.

I primi 272 giorni di Renzi
Fino ad oggi il governo Renzi, esclusa la legge di Stabilità ancora in fase di costruzione, ha emanato 8 provvedimenti con 87 norme di carattere fiscale di cui 26 (29,9% del totale) semplificano, 12 (13,8%) sono neutre e ben 49 (56,3%) hanno impatto burocratico sulle imprese. II saldo rimane così ancora una volta positivo anche se diminuisce rispetto al passato. Le norme che semplificano sono pressoché interamente concentrate (25 su 26) nel decreto legislativo sulle dichiarazioni precompilate. Negli ultimi 6 anni, il 61% delle 703 nuove norme ha aumentato i costi burocratici. In pratica il fisco si è complicato alla velocità di 1 norma alla settimana.

Il Burofisco Index
Per misurare l’impatto della burocrazia fiscale Confartigianato ha inaugurato il Burofisco Index che sintetizza il saldo tra le norme che semplificano e quelle che complicano la vita degli imprenditori. Nel 2014 l’indice di impatto burocratico ha registrato il calo più vistoso dal 2009, posizionandosi a quota +24, con una diminuzione drastica rispetto al +93 del 2013. «Le nostre rilevazioni – commenta Giorgio Merletti, presidente di Confartigianato – indicano qualche miglioramento, ma siamo ben lontani da un fisco a burocrazia zero per le imprese». «La delega fiscale è inattuata per l’80-90% – spiega Daniele Capezzone (Fi), presidente della Commissione finanze della Camera -. I1 governo, tranne eccezioni individuali, non ne ha affatto compreso il valore strategico. Possibile che nell’attuazione della delega creda di più il rappresentante dell’opposizione, cioè io, che ne sono stato l’estensore ed il relatore, piuttosto che il governo che l’ha ricevuta in regalo?». Secondo Merletti «la strada è ancora lunga. Oltre a snellire gli adempimenti, occorre anche riordinare i regimi contabili semplificati, come previsto dalla delega». Ciò significherebbe incidere sulle modalità di tenuta della contabilità di ben 2.200.000 aziende, tra ditte individuali e società di persone, pari all’80% del totale. Il restante 20% di imprese ò interessato dall’applicazione della nuova Iri (Imposta Reddito Imprenditoriale) anch’essa prevista dalla delega fiscale. «Un primo passo è stato compiuto nella legge di stabilità con il nuovo regime forfettario. Ma è insufficiente – insiste Merletti – perché pur semplificando gli adempimenti, l’esiguo tetto dei ricavi previsti rischia di vanificare l’impianto complessivo della norma». Intanto però a marzo la delega scade, col rischio di invalidare la riforma. Per evitare il peggio Capezzone annuncia di aver «già presentato una proposta di legge per prorogare di 8 mesi la scadenza».

Sempre più complicazioni
La tendenza alla crescita della pressione burocratica sulle imprese in Italia resta sempre molto alta. Secondo l’analisi effettuata dalla Direzione politiche fiscali di Confartigianato sui 47 provvedimenti emanati nell’arco dei 2.397 giorni che intercorrono nell’arco delle ultime due legislature, scaturiscono 703 norme fiscali: di queste ben 427 complicano e appena 98 semplificano. In prati- ca nell’arco degli oltre sei anni il Fisco si complica alla velocità di 1 norma alla settimana (7,3 giorni).

A passo di gambero
Il problema è dato dalla relativa scarsità delle norme di reale semplificazione: appena 96 su 691 (il 13,9% del totale) nei 6 anni esaminati. Di qui l’effetto tela di Penelope. Dei 47 provvedimenti esaminati solo 15 (31,9%) contengono almeno una norma di semplificazione, ma solo in 2 casi c’è un intervento di alleggerimento pieno: si tratta del decreto legislativo sulle dichiarazioni precompilate (saldo impatto burocratico -22) e il Dl70 del 2011 (-19). Risultato: gli imprenditori italiani impiegano 269 ore l’anno per pagare le tasse, il 53,3% in più rispetto alla media del PaEsi dell’Ocse. Il nostro Paese, secondo il Doing business 2015 della Banca Mondiale, si colloca al 122° posto nella classifica di 189 nazioni del mondo. Una impresa in Regno Unito ne impiega invece 159 in meno, il “vantaggio burocratico” è di 132 ore in Francia, di 102 ore in Spagna e di 51 ore in Germania. E anche questo dovrebbe essere uno spread che bisognerebbe puntare a ridurre.

Legge magnaccia

Legge magnaccia

Davide Giacalone – Libero

Nello stato di diritto tutti siamo subordinati alla legge e nessun potere può essere esercitato con arbitrio. La legge può essere modificata, naturalmente, ma finché vige va rispettata. Nello stato storto, il nostro, la legge è irrilevante e solo i fessi vi sottostanno. Cambiare le leggi può essere divertente, ma inutile, perché si fa prima a interpretarle a proprio piacimento. Questa grottesca e inquietante storia romana, che riempie le cronache e svuota gli animi, ha due facce della medaglia, entrambe intitolate all’irrilevanza della legge: a. per concorrere agli appalti pubblici le aziende per bene producono montagne di carte, come la legge prevede, ma poi lavori e soldi possono essere affidati a cooperative di malfattori; b. una legge proibisce di ritrarre cittadini in manette, così che si è inventato il pallino bianco da mettere su fotografie e filmati, in compenso si può vedere in rete il cinema di persone arrestate con i mitra spianati sul muso. Questa è la medaglia di un Paese che non ha orrore di sé.

Quando provi a divenire fornitore della pubblica amministrazione devi presentare un numero impressionante di documenti, attestanti l’onestà tua e dei tuoi familiari, nonché progetti e/o programmi che spieghino come intendi utilizzare il denaro che riceverai. Che poi nemmeno lo ricevi, perché il verbo continua a essere coniugato al futuro. È capitato che gare per importi rilevantissimi, assegnate regolarmente, siano poi state invalidate perché si scopre che l’affidatario ha una cartella esattoriale non pagata, magari per importo ridicolo, magari avendo anche ragione e, comunque, neanche sapendolo al momento in cui presentò la documentazione. Tanta maniacalità burocratica ha tratti di follia, ma, almeno, speri che serva ad evitare che i soldi pubblici finiscano in mani sbagliate. Poi scopri che una cooperativa può ricevere soldi pubblici pur essendo comporta da assassini, terroristi e criminali di varia caratura. Che i soldi che prendono li spendono solo in parte minimale per il servizio, mentre il resto s’imbuca altrove. Che la grana arriva in anticipo ed aumenta a saldo. Che a Castel Romano ha 986 dipendenti per servire 1400 nomadi (che non sono nomadi, dato stanno lì), un addetto e mezzo a testa. Concorrendo con Buckingham Palace, salvo il fatto che domina il degrado (è un discorso diverso, ma quei 1400 potrebbero anche lavorare …). Insomma, scopri che le regole ferree cui devono attenersi gli onesti diventano lattee con i disonesti.

Già, si potrà obiettare, ma quella era proprio una cooperativa di ex detenuti, quindi è ovvio che sia composta da chi fu ospitato, con una qualche ragione, nelle patrie galere. Un momento: conosco il lavoro della solidarietà e lo sforzo per favorire il reinserimento di chi ha vissuto esperienze negative, ma non consiste mica nel ciucciare denari pubblici, bensì nell’imparare a fare qualche cosa e metterci serietà e impegno di cui non si è stati capaci nel passato. Altrimenti, anziché reinserire gli ex galeotti, varrebbe la pena andare tutti in galera, così ti danno appalti a botte di tre milioni. Inoltre: non ha senso che il riassorbimento della devianza sia praticato nell’assistenza alla devianza, perché non ci vuol molto a immaginare quali possono essere le conseguenze.

Né sembra avere un gran valore neanche il dettato costituzionale, ove si legge che si è innocenti fino a sentenza definitiva. Non faccio che ascoltare intercettazioni, oramai corredate da immagini, tratte da indagini neanche ancora completate. Poi arriva la ciliegina dell’arresto in armi. Tutti documenti utili per riunire il tribunale del popolo ed emettere sentenza al bar. Con il che, però, il diritto è morto. Leggo che uno degli intercettati avrebbe detto: “meno male che è finita bene, sennò chissà come andava a finire”. Ci vedo il reato di lesa lingua italiana, ma mi preoccupo per il giornalismo che sugge questo nettare e per il procuratore che glielo segnala. E il cielo non voglia che le risultanze processuali, fra qualche lustro (è in partenza il processo per il sangue infetto, risalente a ventuno anni fa), dimostrino che l’accusa d’associazione mafiosa era un tantino esagerata (intanto ci vedo il reato d’offesa alla cultura sicula), perché non vorrei dover pagare, con i soldi presi dalle mie tasse, un qualche risarcimento alla compagnia dei magnaccioni.