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L’insostenibile (quanto sproporzionata) pesantezza del Fisco

L’insostenibile (quanto sproporzionata) pesantezza del Fisco

Stefano Natoli – Il Sole 24 Ore blog

L’Italia ha uno dei sistemi fiscali più pesanti e inefficienti d’Europa: la pressione fiscale è elevata, soprattutto su lavoro e impresa. Durante la crisi la situazione è ulteriormente peggiorata per via dell’aumento della pressione fiscale reso necessario dall’impossibilità politica di tagliare la spesa pubblica. Lo evidenzia una ricerca del Centro Studi “ImpresaLavoro” che analizza la struttura delle entrate fiscali nel nostro Paese, la loro evoluzione nel tempo e le loro caratteristiche rispetto ai maggiori paesi europei: Germania, Francia, Gran Bretagna e Spagna. Considerando la pressione fiscale dal 1990 al 2012, si osserva come negli ultimi anni l’Italia – assieme alla Francia – abbia visto un forte aumento delle entrate fiscali (quattro punti di Pil) nonostante la gravissima crisi economica.
Da uno studio diffuso sempre oggi dalla Uil emerge, inoltre, che 7,2 milioni di contribuenti si sono ritrovati nel 2014 buste paga più leggere – in media di 58 euro – per “colpa” delle addizionali regionali. Nell’anno in corso sei Regioni (Piemonte, Liguria, Umbria, Lazio, Molise e Basilicata) hanno aumentato o rimodulato in alto le aliquote a fronte di due che le hanno diminuite (Provincia Autonoma di Bolzano e Abruzzo), mentre le restanti le hanno confermate. Il federalismo fiscale è anche questo.
Bruxelles, intanto, invita l’Italia ad accelerare decisamente nell’attuazione della legge delega di riforma fiscale entro marzo 2015, approvando i decreti che riformano il Catasto. Fra gli altri obiettivi: sviluppare ulteriormente il rispetto degli obblighi tributari, semplificare le procedure, migliorare il recupero dei debiti fiscali, modernizzare l’amministrazione fiscale. Fra le questioni calde resta la madre di tutte le battaglie, ovvero la lotta all’evasione fiscale. Se le tasse le pagassero tutti, avremmo infatti conti pubblici e privati più a posto e un welfare decisamente diverso.

Il fisco in Italia rispetto al resto d’Europa

Il fisco in Italia rispetto al resto d’Europa

Giuseppe Pennisi, presidente del board scientifico di ImpresaLavoro, è stato docente di Economia al Bologna Center della John Hopkins University e alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. È Consigliere del Cnel e insegna all’Università Europea di Roma.

Non sono uno specialista di scienza delle finanza o di diritto tributario. Tuttavia, in Italia il nodo centrale è l’oppressione fiscale più che la pressione fiscale. Ho vissuto 15 anni a Washington: di norma dedicavo una sera (dopo il lavoro) agli adempimenti nei confronti dell’imposta federale sul reddito e la sera successiva agli adempimenti relativi all’imposta sul reddito del Distretto di Columbia (dove risiedevo) e alla ‘real estate tax’ (ossia all’imposizione immobiliare e per i servizi comuni indivisibili). Di norma il credito d’imposta, che spesso vantavo, veniva liquidato entro due mesi dall’Agenzia delle Entrate (a Philadelphia) tramite l’invio di un assegno. Nell’arco di 15 anni la modulistica è cambiata solo due volte ed era molto chiara.
Quando nel giugno 1982, mi sono trasferito in Italia alle prime scadenze tributarie ho dovuto servirmi di un commercialista (che mi assiste ancora adesso) a ragione della molteplicità di adempimenti le cui procedure sembrano mutare di anno in anno. A una pressione fiscale tra le più alte al mondo (in termini di Pil e di reddito disponibile delle famiglie) si aggiunge un’oppressione fiscale che è, a mio avviso, una delle prime cause del fenomeno della evasione. Un fisco semplice e comprensivo delle difficoltà dei contribuenti (individui, famiglie, imprese) invita a collaborare. Un fisco ossessivo incoraggia invece a fuggire. È il vecchio teorema di Albert Hirschman su lealtà, protesta ed uscita che temo sia poco conosciuto da coloro che plasmano il sistema tributario italiano. Più un sistema tributario è complicato e in continuo movimento più si favoriscono elusione ed evasione.
È noto che numerose imprese stabiliscono la loro sede legale al di fuori dell’Italia proprio per potere essere soggetti di un sistema tributario più semplice e più ‘amichevole’. È anche noto che artisti e pure imprenditori di rango diventano, per questa ragione, soggetti fiscali stranieri. È meno nota la migrazione di pensionati, anche di pensionati che hanno servito lo Stato per 40 e più anni verso gli Stati Uniti e la stessa Francia che ha aliquote elevate ma non in un moto perpetuo al segno della incertezza. Questi sono esempi di legittima elusione. Ma un fisco oppressivo e ossessivo dopo i tentativi di assecondarlo e le proteste di fronte all’inutilità delle proposte spinge a trovare meccanismi illegali per scappare, quindi evadere.
Mi associo, quindi, alle osservazioni del prof. Zecchini ed all’analisi del dr. Monsurrò. Ma voglio porre l’accento su questo tema specifico nella speranza che le autorità ne tengano finalmente conto.
Il fisco in Italia rispetto al resto d’Europa

Il fisco in Italia rispetto al resto d’Europa

SINTESI DEL PAPER

L’Italia ha uno sistemi fiscali più pesanti e inefficienti d’Europa: la pressione fiscale è elevata, soprattutto su lavoro e impresa, e il sistema fiscale è amministrativamente oneroso. Durante la crisi la situazione è ulteriormente peggiorata per via dell’aumento della pressione fiscale reso necessario dall’impossibilità politica di tagliare la spesa pubblica. Lo evidenzia una ricerca del Centro Studi “ImpresaLavoro” che analizza la struttura delle entrate fiscali nel nostro Paese, la loro evoluzione nel tempo e le loro caratteristiche rispetto ai maggiori paesi europei: Germania, Francia, Gran Bretagna e Spagna.
Considerando la pressione fiscale dal 1990 al 2012, si osserva come negli ultimi anni l’Italia – assieme alla Francia – abbia visto un forte aumento delle entrate fiscali, di quattro punti di PIL, nonostante la gravissima crisi economica. Buona parte dell’aumento risale agli anni immediatamente precedenti la crisi, per controllare il debito pubblico la cui virtuosa riduzione si era arrestata negli anni precedenti, ma le entrate fiscali hanno continuato ad aumentare anche con la crisi. Si è infatti deciso di ridurre il deficit e rispondere alla crisi economica sul lato delle entrate anziché su quello delle uscite, che hanno continuato ad aumentare sia in termini nominali che di percentuale di PIL, anche se di poco. La classe dirigente italiana ha cioè preferito preservare l’ingente spesa pubblica anche a costo di danneggiare ulteriormente l’economia reale, contribuendo ad aggravare e prolungare la crisi. È da considerare che l’Italia è caratterizzata da un maggior peso dell’economia sommersa rispetto agli altri paesi europei considerati, e quindi a parità di pressione fiscale sul PIL complessivo (che include anche una stima del sommerso), la pressione fiscale effettiva in rapporto al PIL prodotto alla luce del sole è ancora maggiore che negli altri paesi.
Rispetto alla Germania, l’Italia nel 2012 aveva una pressione fiscale superiore di ben quattro punti di PIL, pari a circa 65 miliardi di euro. Si noti che, anche se la Gran Bretagna ha una pressione fiscale ancora minore, nel 2012 aveva un forte deficit (oltre il 6%), quindi i dati di pressione fiscale possono essere fuorvianti, non essendo un forte deficit compatibile con la stabilità finanziaria nel lungo termine: la Gran Bretagna dovrà o tagliare la spesa o aumentare le tasse in futuro, e parte del vantaggio rispetto all’Italia potrebbe ridursi. Anche l’Italia ha un deficit superiore a quello tedesco (le cui finanze erano in pareggio nel 2012), e dunque una riduzione della pressione fiscale agli stessi livelli tedeschi richiederebbe una riduzione ancora maggiore della spesa pubblica.
La ricerca di “ImpresaLavoro”, elaborata dal fellow dell’Istituto Bruno Leoni Pietro Monsurrò, prende in considerazione anche i dati annuali di Eurostat (disponibili dal 2000 al 2012) sui diversi indici del livello di tassazione implicito (ITR) nei vari paesi europei. L’ITR è infatti il rapporto tra le entrate fiscali e la base fiscale relativa (un ITR sul consumo del 20% significa cioè che il 20% della spesa in consumi se ne va in tasse, e lo stesso vale per gli altri ITR). Analizzando ad esempio l’ITR sul lavoro, si osserva come l’Italia sia abbondantemente sopra i maggiori paesi europei, 3 punti più della Francia, 5 più della Germania, e addirittura 9 e 18 rispetto a Spagna e Gran Bretagna. Inoltre c’è stato un notevole peggioramento, di circa il 2%, negli anni precedenti la crisi. Le cose non cambiano molto se si considera l’ITR sul capitale, con l’eccezione che l’Italia è superata dalla Francia, che ha aumentato molto la pressione fiscale relativa durante la crisi economica. Anche l’Italia mostra un notevole peggioramento, pari circa al 4%, successivo all’intensificarsi della crisi, superando la Gran Bretagna che nel frattempo ha invece notevolmente diminuito il carico fiscale sul capitale. Se si considera infine l’ITR sul reddito di impresa delle società individuali e dei lavoratori autonomi, l’Italia tallona la Francia ancora una volta e mostra un notevole peggioramento del livello di tassazione nell’ultimo anno, a fronte di un notevole miglioramento della Gran Bretagna. In definitiva, la pressione fiscale italiana è particolarmente concentrata sul lavoro e sul capitale, cioè sui fattori produttivi. Un dato che scoraggia l’occupazione e gli investimenti, con conseguenze sul mercato del lavoro, sulla competitività, e sulla crescita economica.
La ricerca di “ImpresaLavoro” si sofferma inoltre sui costi indiretti del sistema fiscale, ad esempio i tempi e le procedure amministrative necessari ai contribuenti per pagare le tasse. A riguardo il sistema italiano risulta particolarmente inefficiente, come evidenziato dalla classifica Doing Business 2014 della Banca Mondiale. Per trovare il nostro Paese occorre infatti scorrerla fino al 138° posto (con 15 procedure amministrative e 269 ore necessarie). Un dato pessimo, sopratutto se confronto con i nostri maggiori competitor europei: la Gran Bretagna si piazza al 14° posto (con 8 adempimenti burocratici e 110 ore necessarie), la Francia al 52° posto (con 7 adempimenti burocratici e 132 ore necessarie), la Spagna al 67° posto (con 8 adempimenti burocratici e 167 ore necessarie) e la Germania all’89° posto (con 9 adempimenti burocratici e 218 ore necessarie). A fronte quindi di un livello di imposizione fiscale elevato, il fisco italiano aggiunge l’ulteriore costo di compilare moduli, leggere regolamentazioni, chiedere consulenze, etc.
«Il carico e la struttura del sistema fiscale contribuiscono alla stagnazione del paese in vari modi: riducendone la competitività, costringendo a sprecare tempo e risorse in procedure burocratiche, e in definitiva riducendo gli incentivi a produrre, lavorare e risparmiare» osserva Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi “ImpresaLavoro”. «Sebbene la stagnazione negli ultimi decenni e la fragilità economica messa in luce dalla crisi abbiano molteplici cause, le imposte rappresentano un fattore rilevante per le insoddisfacenti performance economiche del paese. Resta dunque prioritario riformare il sistema fiscale riducendone la complessità a parità di entrate, spostare la tassazione dal lavoro e dalle imprese ai consumi, e ridurre la pressione fiscale complessiva tagliando al contempo la spesa».
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Per una tassazione competitiva

Per una tassazione competitiva

Salvatore Zecchini, membro del board scientifico di ImpresaLavoro, è docente di Politica Economica Internazionale all’Università Tor Vergata di Roma e presidente del Gruppo di Lavoro dell’OCSE su PMI e Imprenditoria.

In un mondo in cui da decenni sono caduti barriere commerciali e vincoli ai movimenti dei capitali l’Italia si trova ad essere sempre più stretta nella morsa della concorrenza tra sistemi economici nazionali. Non sono soltanto i prodotti italiani a doversi confrontare con la concorrenza estera, all’interno come all’estero, con in prima fila i partner comunitari, ma l’intero sistema economico e finanziario. Da anni si assiste a un progressivo disincanto verso il Paese come luogo di investimento e produzione (meno home bias), mentre si tende a investire in misura crescente là dove è più conveniente, indipendentemente dal paese. Il confronto con le convenienze offerte dai diversi paesi o regioni è quindi divenuto più pervadente e chiama in causa quasi tutti gli aspetti di sistema. La tassazione, in quanto parte inerente al sistema di produrre e finanziarsi, è assurta pertanto a terreno di contesa tra paesi per attrarre capitali, competenze, ingegni, imprenditori.
Come mostrano i dati comparativi dell’analisi di “ImpresaLavoro”, l’Italia non esce bene da questo confronto. Il riscontro si aveva da anni anche da altri dati, in particolare dagli investimenti diretti con l’estero, che mostrano dal 2000 un saldo tra i più modesti in Europa in termini sia di flussi, che di consistenze. Quali aspetti non vanno nella tassazione italiana nel confronto con i maggiori partner?
In breve, si può sostenere che il livello del prelievo, la sua distribuzione per classi di basi imponibili e tra soggetti (imprese, lavoratori, pensionati, altri percettori di reddito), la ripartizione tra consumi, investimenti reali e finanziari, e tariffe per servizi, la differenziazione tra regioni e la complessità del fisco e della sua amministrazione sono tutti punti deboli, che rendono poco attraente investire nel Paese. Da anni si richiede pertanto un radicale cambiamento di sistema, scevro da condizionamenti ideologici e diretto a rilanciare la competitività del Paese.
Una grande sfida, dato che queste scelte sono il vero specchio dei valori di uno Stato, una società, una democrazia. Sono scelte politiche dure, che non possono accontentare tutti per il fatto stesso che comportano scelte tra interessi contrapposti, ma che non hanno trovato un adeguato punto di ricomposizione nella politica. In realtà sono sfociate in una aggrovigliata ed oscura selva di norme e particolari esenzioni, senza giungere a una riforma di sistema.
In tale quadro non è nemmeno facile individuare come si distribuisce la tassazione. Il lavoro di IL è molto utile per gettare luce sull’intricata materia ed evidenziarne le differenze con altri paesi, ma restano punti interrogativi. Ad esempio, il rapporto col PIL, che è generalmente usato, non tiene conto che il peso sui contribuenti effettivi è maggiore di quanto mostra l’indicatore, perché gli evasori e gli esentati stanno all’interno della misurazione del PIL, ma non tra i colpiti dalla tassazione. I tributi locali complicano il confronto nella misura in cui si nascondono nelle forme di tariffe per servizi. Queste rappresentano una vera imposta se in contropartita non si danno servizi adeguati e si costringe il contribuente a dover pagare di nuovo per ottenere lo stesso servizio dal privato, come nel caso dei servizi idrici. Vi sono poi prelievi nascosti nei costi dell’energia, sotto voci di oneri di sistema, che peraltro non si applicano a tutti gli utenti, a causa delle esenzioni.
Anche l’attuale distribuzione del prelievo fiscale e contributivo pone difficili problemi di equità e di controversi effetti di incentivazione e disincentivazione di determinate attività. I troppi trattamenti pensionistici che superano di gran lunga le contribuzioni versate, costituiscono per chi lavora e deve coprirli un aggravio iniquo e non più tollerabile alla luce delle disparità di costo unitario del lavoro con i concorrenti e nel confronto intergenerazionale. Una tassazione crescente sui redditi da risparmio e da capitale scoraggia leve essenziali per la crescita economica. Lo stesso può dirsi per l’incremento di imposizione sui consumi, sebbene in questa area vi siano grandi sacche di evasione. Tassare i redditi d’impresa pesantemente scoraggia l’attività imprenditoriale, gli investimenti ed alimenta l’evasione.
La chiave di volta sarebbe un generalizzato arretramento della spesa pubblica a tutti i livelli e una sistemazione del macigno del debito pubblico accumulato. Ma si tratta di erodere diritti acquisiti anche se ingiustamente e di ridurre il welfare state, entrambi molto dolorosi.
Sono tutti dilemmi a cui si deve dare risposte appropriate al più presto. Si vedrà se la delega fiscale in approvazione al Parlamento saprà rispondere alla grande sfida per il meglio dell’economia e del Paese.
Quanto costa mettere il bollo al condominio

Quanto costa mettere il bollo al condominio

Raffaele Niri – Venerdì di Repubblica

E ti pareva che, nascosta tra mille codicilli, non saltasse fuori l’ennesima tassa? Parliamo dell’imposta di bollo dei condomini che passa da 34,20 euro a cento. Se poi andiamo a vedere l’intero ammontare (cioè moltiplichiamo l’aumento per il numero dei condomini, che in Italia sono 445 mila) ci accorgiamo che la cifra totale dell’aumento arriva a quota 29 milioni (la maggiore imposta di 65,80 euro moltiplicato i 445 mila caseggiati).

Ma andiamo con ordine. La legge 220/2014 ha stabilito l’obbligo del conto corrente sopra gli otto condomini, cioè quando l’amministratore è obbligatorio. In pratica, se una palazzina è composta da otto o più alloggi, non ci può essere più l’autogestione dei diretti interessati ma occorre un regolare amministratore e, di conseguenza, un regolare conto corrente intestato al condominio. E qui arriva la batosta: non solo il costo dell’imposta di bollo non è più di 34,20 euro ma di cento euro «perché i soggetti non sono persone fisiche», ma il disconoscimento della qualifica di persona fisica al condominio consente al sistema bancario di applicare commissioni sullo scoperto di conto corrente che invece non dovrebbero essere applicate.

Le interpretazioni, per la verità, sono diverse. La Corte di Cassazione ha a più riprese affermato la non riconducibilità del condominio alla stregua di persona giuridica. Ma per l’Agenzia delle Entrate il condominio non può certamente essere considerato una persona fisica. Per questo bisogna pagare i 100 euro. Senza sconti. Ad alzare la voce è l’Anaci, la maggiore organizzazione degli amministratori di condominio, che ricorda come anche la Commissione Finanze della Camera abbia protestato contro questo ennesimo «scippo».

Dal credito al fisco, un cambio di mood può contare quanto una riforma

Dal credito al fisco, un cambio di mood può contare quanto una riforma

Enrico Nuzzo – Il Foglio

Agguantare la crescita, uscire dall’attuale fase di stagnazione, superare la crisi, sono le formule, nei dibattiti a tutti i livelli, veicolate al popolo degli elettori. E su questi obiettivi si tarano interventi, compresi i tagli di spesa pubblica, sulla cui efficacia il cittadino non può che sperare, pur se non più con straboccante fiducia. È trascorso molto tempo dalle prime avvisaglie di segnali negativi del trend economico e ripetuti sono stati gli interventi di contrasto messi in campo dai vari governi, con magri risultati; robusti i sacrifici ripetutamente richiesti alla comunità, ancora in attesa dei segnali di uscita dalla situazione in cui il paese è precipitato. Moniti e consigli da parte delle stesse istituzioni internazionali sulle scelte, per invertire la rotta, sono di comune cognizione. Ineludibili, si sottolinea, per provare a invertire la descritta tendenza negativa, le riforme del mercato del lavoro, del fisco, della giustizia, e cosi via. Misure di politica monetaria, anche appropriate, intanto si mettono sul tavolo.

In sintesi, qualcosa si muove, pur se ancora non si intravede un piano organico di misure complessive da tradurre in azioni concrete, in un tempo necessariamente non breve. E non sempre ci si preoccupa di prestare attenzione al complesso universo dei lacci e ai lacciuoli all’opera, capaci di paralizzarne l’efficacia. Gli interventi per incidere sull’andamento del ciclo economico non raggiungono l’obiettivo per il semplice fatto di essere varati. È invece necessario che il comportamento degli operatori e dei cittadini siano tali da assecondare le finalità che li hanno ispirati, spazzando via – e si tratta di precondizioni ineliminabili – quanto costituisce vero e proprio fattore di decrescita. Degli esempi.

Non stimola la ripresa la semplice messa a disposizione di liquidità per rivitalizzare il mercato del credito, se poi drenata dalle banche che, per parte loro, continuano a ignorare le richieste di prestiti di imprese e famiglie. Le misure per immettere danaro in circolazione, convenzionali o meno che siano, vanno sostenute con consapevoli regole applicative (diverse da quella del tasso negativo sui depositi, perché non del tutto efficace, considerati gli attuali e non più stringenti vincoli tra Banca centrale e aziende di credito). E tanto per evitare che le stesse banche trovino modo per parcheggiare la liquidità ricevuta al loro interno e utilizzarla esclusivamente per loro convenienze e valutazioni. Come agire? Con un’azione coerente di vigilanza orientata a verificare, nello specifico, da subito e in itinere, se la suddetta liquidità viene concretamente fatta confluire nel circuito produttivo, in coerenza con le misure che ne hanno ispirata la messa a disposizione. In ipotesi di persistente disapplicazione delle quali misure (nel trimestre, e/o un altro lasso di tempo ritenuto idoneo), pare appropriato pretendere dall’istituto che non destina quelle somme all’erogazione di prestiti, almeno un tasso di interesse pari, ad esempio, a quello medio (spread compreso) praticato alla sua clientela, privandola, per questa via, del vantaggio conseguito dalla distrazione della liquidità allo scopo cui era destinata.

Sul versante fiscale non aiuta, di certo, a stimolare la ripresa la sbornia talvolta eccessiva dei controlli a tutto campo a cui il cittadino è assoggettato. Sono di dominio pubblico le diffuse richieste di informazioni “a tappeto” sui conti correnti dei singoli da parte dell’Agenzia delle entrate; insistente l’attenzione del fisco sulle spese sostenute all’uscita di un negozio, o a seguito della compera di un’abitazione, con conseguente timore di accertamento sintetico, eccetera. Controlli asfissianti e invasivi, che muovono da presunzione di evasione e articolati anche su impropri giochi di prova e di inversioni di oneri di prova, fanno crollare, da noi, la propensione alla spesa. Gruppi sempre più numerosi di persone, per acquisti voluttuari, prediligono altre mete europee (Londra, Parigi e via dicendo) ben liete di ospitare i consumatori italiani. Assolutamente non trascurabile il numero di coloro che, quando non li dirottano all’estero, preferiscono tenere “parcheggiati” i risparmi, per evitare problemi col fisco, piuttosto che investirli, a tanto contribuendo anche l’attuale scarsa remuneratività di mercato.

Come non ravvisare, allora, nella descritta condotta dei pubblici poteri, un fattore di decrescita? E non si discorra di controlli necessari per combattere l’evasione – che pure va fatta, senza aggettivi, e in maniera efficace – per giustificare il progressivo scivolamento del paese in stato di polizia fiscale che, a parte altre conseguenze, con siffatta condotta, paralizza i consumi e ostacola la crescita, con sistematicità e senza tregua. Non da meno è parte del mondo politico-istituzionale, a vari livelli. I recenti casi di trasferimenti all’estero, fatti o da farsi, di sede di società (Fiat, Lottomatica) e quelli più risalenti di aziende nella vicina Svizzera e/o nei paesi dell’est, dovrebbero avere aperto gli occhi sull’indifferibilità di alcune misure legislative da adottare.

La competizione fiscale tra stati, dell’Unione europea o meno, è una realtà con cui occorre misurarsi. La libertà delle imprese di scegliere paesi fiscalmente più ospitali è garantita, nello stesso spazio europeo, dal principio della libertà di stabilimento e da quello della libera circolazione dei capitali. Non è mantenendo gli attuali livelli di aliquota di tassazione di gruppi e di imprese che si frena la migrazione delle strutture produttive verso la piazza londinese o quella fiamminga. E non occorre avere antenne particolarmente sensibili per avvertire la propensione di altri a seguire gli esempi sopra ricordati. Allo stesso modo, non sono di certo i vincoli burocratici e le rigidità delle scelte di governo, centrale o locali che siano, a invogliare gli stranieri, che ancora ci credono, a investire in Italia. A un gruppo estero – è uno dei tanti casi – pronto a dar vita a un’importante iniziativa, con significative ricadute occupazionali, è stato fatto presente che doveva costruire a proprie spese anche le strade di collegamento dell’impianto con le principali arterie dei trasporti. Alla disponibilità dimostrata a sobbarcarsi siffatto ulteriore onere in cambio di benefici compensativi (riduzioni di imposte, eccetera) è stata opposta per lungo tempo l’impossibilità di aderirvi, per carenza di previsioni di leggi in proposito. L’investimento è stato realizzato. Non in Italia.

Il fisco “pulisce” l’anagrafe tributaria

Il fisco “pulisce” l’anagrafe tributaria

Marco Mobili e Giovanni Parente – Il Sole 24 Ore

Il Fisco punta a “ripulire” l’Anagrafe tributaria. Meno duplicazioni e più qualità dei dati disponibili. E allo stesso tempo si studia una sorta di raggruppamento delle informazioni attraverso un progetto di «Vista unica del contribuente» utilizzabile sia dall’amministrazione e sia in futuro dagli stessi cittadini per controllare la propria posizione. Sono le indicazioni arrivate ieri dal direttore dell’agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi, nell’audizione davanti alla commissione bicamerale di vigilanza sull’Anagrafe tributaria.
Una ricetta che suona come una risposta ai problemi sollevati alla fine della scorsa legislatura dalla precedente commissione di vigilanza, soprattutto in relazione al proliferare delle richieste di informazioni e alla difficoltà di incrociarle perché spesso disallineate. Nel documento conclusivo dell’indagine svolta i parlamentari avevano segnalato come attualmente le banche dati disponibili da tutti gli organismi dell’amministrazione sono 128. Orlandi ha citato gli obiettivi da raggiungere per evitare duplicazioni e sovrapposizioni anche nei confronti di soggetti e categorie chiamate all’invio delle comunicazioni al Fisco. Nell’audizione, il neodirettore delle Entrate ha presentato il progetto di Anagrafe nazionale della popolazione residente (Anpr) che costituirà una sorta di base comune a tutte le pubbliche amministrazioni.

Le tappe per la precompilata
Un’operazione di “ripulitura” che viaggia in parallelo con il debutto della dichiarazione precompilata per la quale arriveranno le certificazioni dei redditi dai sostituti d’imposta e i dati su alcune spese che danno diritto a detrazioni e deduzioni. E proprio in vista del 730 a domicilio Agenzia e Sogei hanno definito un calendario serrato: entro ottobre saranno pronti i tracciati telematici che banche, assicurazioni e enti previdenziali dovranno utilizzare per trasmettere alle Entrate i dati su oneri detraibili e deducibili; entro novembre saranno definiti modello 730/2015 e modello di certificazione unica 2015 con relative istruzioni; entro i primi mesi del 2015 Sogei predisporrà i software per certificazioni dei sostituti d’imposta e dichiarazioni precompilate a dipendenti e pensionati, sostituti d’imposta e intermediari (Caf e professionisti). Orlandi ha ribadito che «eventuali interventi normativi di fine anno con effetti sul 2014 rischiano di compromettere il buon esito dell’intero progetto».

Sommerso e contanti
Oltre a questo, l’obiettivo di fondo è quello di aggredire la cifra «precoccupante» dell’economia sommersa in Italia che vale tra il 16,3% e il 17,5% del Pil, ossia tra i 255 e i 275 miliardi. Una delle strade per farlo è un maggior impulso alla tracciabilità dei pagamenti. «I tempi sono maturi – ha sottolineato il direttore – per l’utilizzo della moneta elettronica. La strumentazione a disposizione per l’estensione totale dei pagamenti elettronici a tutte le transazioni commerciali è già disponibile e in fase di grande diffusione sul mercato». Tuttavia il contante nel nostro Paese rappresenta ancora l’82% del numero e il 67% del valore totale delle transazioni. Tutto ciò ha anche un costo stimato in «4 miliardi l’anno per il settore bancario – ha detto Orlandi – e in 8 miliardi di euro per il sistema Paese».

Il ruolo dei Comuni
Un’altra leva su cui puntare nel contrasto al sommerso è l’alleanza con gli enti locali. Dal febbraio del 2009 allo scorso agosto – ha segnalato il direttore – sono state trasmesse all’agenzia delle Entrate più di 66mila segnalazioni da oltre 900 Comuni. Di queste circa 12mila sono state trasfuse in atti di contestazione con 226 milioni di maggior imposta accertata. Ogni segnalazione ha mediamente consentito di accertare più di 19mila euro di maggiori imposte. E quasi la metà delle segnalazioni ha riguardato fenomeni di evasione relativi agli immobili.

Tasi e imprese, aumenti in 4mila comuni

Tasi e imprese, aumenti in 4mila comuni

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Il dibattito sulla Tasi si è scaldato intorno alla sorte delle abitazioni principali, ma le rassegne delle scelte locali dopo che sono scaduti i termini per pubblicare le aliquote mostra che anche capannoni, uffici, alberghi e centri commerciali sentiranno nei prossimi mesi gli effetti del nuovo tributo. In breve, l’arrivo della Tasi aumenta il conto per gli immobili strumentali in 4.278 Comuni, cioè il 53% del totale. A livello nazionale, il nuovo quadro delle aliquote fa crescere la pressione sul mattone delle imprese di circa il 9%, ma quando si parla di imposte locali i valori medi non dicono tutto e l’esperienza reale dei singoli contribuenti andrà incontro anche ad aumenti assai più decisi. Anche nelle tante città – come Milano o Roma – dove l’Imu aveva già raggiunto i massimi nel 2013 e quindi non sembrava lasciar spazio ad altre tasse, il carico è cresciuto ancora “grazie” all’aliquota aggiuntiva dello 0,8 per mille, consentita per quest’anno allo scopo di finanziare gli sconti sull’abitazione principale. In qualche Comune l’ingresso della Tasi può essere stato compensato da una riduzione dell’Imu, ma si tratta di casi minoritari.

Viste alla luce della situazione di oggi, le promesse di abbattere il carico fiscale sugli immobili d’impresa che erano fìorite intorno alla scorsa legge di stabilità appaiono lontanissime: laTasi, introdotta proprio dalla legge di stabilità per quest’anno, gonfia ancora una volta il peso del fisco immobiliare sulle imprese e annulla gli effetti della “mini-deducibilità” Imu scritta nella stessa legge. Gli incrementi di quest’anno, nei Comuni in cui la Tasi si applica anche agli immobili strumentali, oscillano tra il 9 c l’11,5 per cento, ma rispetto ai tempi dell’Ici le imposte si sono impennate, dall’80% registrato in tante città fino al 170% di Milano, dove la vecchia imposta comunale sugli immobili era più bassa della media.

A spingere le tasse “locali” (ma bisogna ricordare che su questi immobili l’Imu ad aliquota standard del 7,6 per mille finisce allo Stato), secondo la rassegna delle aliquote realizzata dal Caf Acli sono 3.649 Comuni. L’elenco, però, cresce ancora, a causa dei 652 Comuni, soprattutto medio-piccoli, che non hanno pubblicato delibere entro il 18 settembre. In questi casi, scatta per tutti l’aliquota all’1 per mille, che si aggiunge alle normali richieste avanzate dall’Imu; le uniche eccezioni arrivano quando il Comune ha già stabilito il massimo per l`imposta municipale, togliendo quindi ogni spazio alla Tasi, ma dal momento che gli enti senza delibera sono medio-piccoli questa eventualità non dovrebbe essere frequente.

Nelle città, l’evoluzione del carico fiscale sulle imprese dipende ovviamente dall’evoluzione delle singole aliquote, ma le dinamiche complessive sono simili fra loro. Facciamo i conti per un capannone da 700mila euro di valore catastale: per esempio a Milano e Roma, dove l’Imu era già al massimo e la «super-Tasi» è stata introdotta per finanziare gli sconti sulle abitazioni principali, si arriva a 7.232 euro di imposta da pagare, contro i 6.638 dello scorso anno, mentre a Cagliari, dove l’aliquota dell’1 per mille si aggiunge ad un’aliquota Imu del 9,6 per mille, la richiesta è di 6.858 euro invece dei 6.157 dell’anno scorso. Sul peso complessivo delle imposte sul mattone incide anche la deducibilità, cioè la possibilità di sottrarre al reddito d’impresa le somme pagate come tributi locali. Nell’Imu la deducibilità è parziale (20% da quest’anno, 30% nel 2013), mentre nella Tasi è totale, nel senso che l’intero tributo pagato viene “tolto” dall’imponibile dell’Ires. A conti fatti, però, si tratta di dettagli, come mostra per esempio il caso di Verona: la città ha abbassato l’Imu all’8,9 per mille e fissato la Tasi al 2,5 per mille, con il risultato di arrivare a un’aliquota massima uguale a quella di Milano e Roma (dove al 10,6 per mille di Imu si aggiunge lo 0,8 per mille di Tasi), ma di produrre un carico fiscale leggermente inferiore grazie al fatto che tutto il tributo sui servizi indivisibili è deducibile. Naturalmente, però, la deducibilità non scatta per le imprese in perdita, che per questa via maturano solo un “credito” spendibile quando ritorneranno utili da tassare.

Un altro effetto collaterale della Tasi riguarda i “fabbricati-merce”, cioè gli immobili che le imprese costruttrici non riescono a vendere. Dal 1 luglio scorso sono stati esentati dall’Imu, ma paradossalmente proprio questa mossa ha aperto le porte alla Tasi: quest’anno, come accade per l’abitazione principale, può arrivare al 2,5 per mille (e non mancano i Comuni che l’hanno applicata), ma senza correttivi nel 2015 la richiesta può volare rino a quota 10,6 per mille. Proprio come l’Imu da cui questi immobili erano stati appena esentati.