Ora il bazooka è nelle riforme
Marco Onado – Il Sole 24 Ore
Il programma di acquisti di titoli privati, al centro delle decisioni di ieri della Bce, dovrebbe dare un ulteriore contributo alla strategia di politica monetaria contro un quadro deflattivo sempre più preoccupante. Ma non dobbiamo attenderci effetti immediati come dopo il famoso annuncio del luglio 2012 e tanto meno credere che la battaglia contro la Grande Depressione possa essere combattuta e vinta solo dai generali di Francoforte.
Sul primo punto, quello più strettamente attinente alla politica monetaria, Draghi sottolinea da tempo la complessità del quadro macroeconomico generale, caratterizzato dalla necessità di riassorbire gli squilibri strutturali accumulati dall’Europa negli anni precedenti la crisi e che nel 2012 rischiavano di far implodere l’unione monetaria. Allora, impegnandosi a fare «tutto il necessario», Draghi ottenne effetti quasi taumaturgici perché, una volta spezzate le aspettative pessimistiche, i mercati si riportarono velocemente verso condizioni di normalità e i tassi di interesse (spread inclusi) crollarono ai livelli attuali. Ma neppure nella città di San Gennaro si può pensare che dalla crisi deflattiva si possa uscire con una manovra analoga, anche se di proporzioni ancora maggiori.
Questo non deve portare a sottostimare l’impatto delle armi che la Bce sta mettendo in campo. Fin da questo scorcio di 2014, le operazioni a lungo termine finalizzate alla concessione di prestiti (Tltro) saranno affiancate da acquisti di titoli provenienti da securitisation di prestiti alle imprese (Abs) e da covered bonds. Considerati i vincoli tecnici e gli ostacoli politici che la Bce ha dovuto superare (ancora ieri sul Financial Times la vestale dell’ortodossia teutonica, Hans-Werner Sinn, tuonava contro gli acquisti di «titoli tossici») si tratta di un risultato estremamente importante. La Bce di Mario Draghi è riuscita a interpretare un mandato fin troppo restrittivo per adattare ai problemi di oggi il concetto del credito di ultima istanza teorizzato nell’Ottocento da Walter Bagehot e che ha portato sempre le banche centrali ad assumersi rischi provenienti dal settore reale dell’economia. Le operazioni Abs di oggi equivalgono al risconto di cambiali industriali di un tempo.
Ma c’è di più. Via via che la crisi si aggrava, la diagnosi si fa sempre più dettagliata e mostra che il problema non è riconducibile solo al fatto che le banche non concedono prestiti all’economia perché hanno accumulato squilibri profondi e perché non hanno abbastanza liquidità. Se così fosse, sarebbe davvero sufficiente imbottirle di fondi a basso prezzo fino a quando si decideranno a trasmetterle al sistema produttivo. Purtroppo non è così semplice.
Pochi giorni fa, un autorevole membro del direttivo della Bce, Benoît Coeuré, ha detto che esiste un circolo vizioso fatto di bassi investimenti, crescita deludente e credit crunch, che tocca tutti i soggetti. Gli investimenti privati sono crollati dopo la crisi non solo per mancanza di fondi e tanto meno di profitti lordi (i conti finanziari dicono che in Europa da tempo le imprese sono fornitrici nette di fondi al resto dell’economia), mentre per l’Italia i dati Mediobanca confermano che le grandi imprese hanno investito più in finanza che in impianti, e hanno oggi proventi finanziari superiori (e non di poco) al costo dei debiti. E per contro ci sono imprese che hanno accumulato debiti difficilmente sostenibili e che non troveranno certo in altre dosi di debito la soluzione ai loro problemi, tanto più che le loro prospettive di reddito peggiorano di giorno in giorno. In mezzo ci sono le imprese che sono riuscite a mantenere o addirittura a migliorare i livelli di attività e di vendite all’estero: è questa la fascia che, come dimostrano anche ricerche della Banca d’Italia è stata ingiustamente colpita dal credit crunch nei giorni peggiori della crisi. Ma gli ultimi dati e un recente documento del Financial Stability Board sembrano indicare che almeno in linea generale questo problema stia rientrando e che dunque il credit crunch sia oggi da attribuire più al peggioramento del quadro macroeconomico che aggrava i rischi per le banche che ad un’indiscriminata restrizione dell’offerta.
Proprio questo rinvia al secondo grande tema della strategia che la Bce sta ponendo in essere. La manovra monetaria da sola è insufficiente se non affiancata da politiche economiche adeguate e da riforme strutturali che diano nuovamente slancio all’economia e che facciano ripartire i meccanismi bloccati dell’investimento privato e pubblico. E anche nel campo della finanza d’impresa ci sono riforme strutturali urgenti, che non a caso si ritrovano nei documenti della Bce e nel discorso di Coeuré prima citato. Le imprese in Europa ma anche (e soprattutto) in Italia hanno bisogno di più capitale, non solo di più debiti e ciò comporta grandi trasformazioni che devono essere agevolate da politiche adeguate, che vanno da quelle per favorire la crescita dimensionale di un sistema produttivo come quello italiano caratterizzato da imprese troppo piccole rispetto alla globalizzazione di oggi, a quelle per ampliare i flussi di finanziamento alle imprese intermediati dal mercato finanziario, passando per quelle che consentano la ristrutturazione finanziaria (con immissione di capitali propri) delle imprese sane ma finanziariamente fragili.
È questo l’elenco dei “compiti a casa” che l’Europa, con la Bce in testa, attende per completare l’azione della politica monetaria. E qui Draghi non solo ha ricordato che il Patto di stabilità e crescita rimane «l’àncora della fiducia sulla sostenibilità del debito pubblico» (e a qualcuno in molte capitali europee sono fischiate le orecchie) ma ha anche ammonito che in alcuni Paesi il processo di riforma sembra decelerare rispetto agli annunci. E qui il sibilo è diventato boato.