il sole 24 ore

Partite Iva sostenute dalle società di capitali

Partite Iva sostenute dalle società di capitali

Adriano Moraglio – Il Sole 24 Ore

Nel mese di luglio sono state aperte 42.180 nuove partite Iva, l’1,1% in più rispetto allo stesso mese dello scorso anno, ma l’incremento è dipeso solo dalla spinta arrivata dalle società di capitali (+16,7%). Lo ha reso noto ieri il Dipartimento delle Finanze del ministero dell’Economia, sulla base dell’Osservatorio sulle partite Iva. Tutte le altre forme giuridiche hanno fatto segnare un calo, più marcato per le società di persone (-7,9%) e più contenuto per le persone fisiche (-2,3%).

Il Nord è l’area territoriale che conta la percentuale più alta di nuove aperture (42,1%), seguito da Sud e Isole (34,7%) e dal Centro (23,2). Su base regionale, gli incrementi più rilevanti hanno riguardato la Calabria (+13,5%), la Campania (+10,5%) e l’Abruzzo (+9,3%), mentre le flessioni più forti si sono avute in Valle d’Aosta (-24,7%) e nelle Province di Bolzano (-19%) e di Trento (-8%). Inoltre, è il commercio a confermarsi al primo posto per numero di aperture (il 24% del totale), seguito dalle attività professionali (12,8) e dalle costruzioni (9,2%).

Rispetto al luglio 2013, tra i settori principali si nota un rilevante aumento nella sanità (+44,1%) cui seguono, con valori meno eclatanti, gli incrementi nelle comunicazioni (+5,4%) e nella ristorazione (+4,9%). Le flessioni più consistenti hanno riguardato le attività finanziarie (-26%), quelle artistiche (-9,4%) e l`agricoltura (-7,9%). Relativamente alle persone fisiche, il 50,1% è rappresentato da giovani fino ai 35 anni e il 33,6% da soggetti nella fascia tra i 36 e i 50 anni. Rispetto a un anno fa, a luglio, tutte le classi di età hanno registrato cali.

Italia in chiaro e scuro, ma l’industria si muove

Italia in chiaro e scuro, ma l’industria si muove

Beda Romano – Il Sole 24 Ore

È un quadro sullo stato di salute della competitività dell’industria europea piuttosto negativo, ma ricco nonostante tutto di spunti positivi quello che la Commissione pubblicherà oggi a Bruxelles. La situazione italiana è peggiore di quella di molti altri stati membri. Eppure il paese sta mostrando una straordinaria capacità di adattarsi dinanzi alle difficoltà del momento, rese ancora più difficili da noti ostacoli normativi, istituzionali e sociali.

«I dati aggregati dimostrano una ripresa delle esportazioni e un aumento della produttività nella maggioranza dei paesi membri», si legge in un rapporto annuale che verrà presentato oggi dal commissario all’Industria, Ferdinando Nelli Feroci. «Tuttavia, i dati positivi a livello di Unione europea nascondono considerevoli differenze tra stati membri e tra settori in termini di risultati e politiche». Il rapporto, ieri ancora in lavorazione, offre uno spaccato interessante.

Sul fronte italiano è facile mettere l’accento sulle debolezze e sui ritardi. Molti dati sono noti, ma restano impressionanti. L’industria italiana ha perso oltre 500mila posti di lavoro tra il 2007 e il 2012. L’unico paese ad avere aumentato l’occupazione in questo settore è stata la Germania. L’Italia appartiene a un insieme di stati membri caratterizzati da una competitività elevata ma in stagnazione o in calo (allo stesso gruppo appartengono tra gli altri la Francia e la Gran Bretagna).

Il quadro italiano è in chiaroscuro. Dal 2007, il numero di imprese manifatturiere è sceso del 19%. La competitività dei costi è diminuita di due punti percentuali, aumentando il divario già cresciuto di 35 punti percentuali tra il 1997 e il 2007. «La bassa crescita della produttività – scrive la Commissione – è dovuta principalmente a una allocazione inefficiente delle risorse». Il paese registra un calo dell’efficienza del capitale, a parità di investimenti rispetto agli altri stati membri.

Secondo la Commissione, una delle ragioni è da ricercare in riforme del mercato del lavoro che hanno aumentato la flessibilità mantenendo tuttavia rigidità nei meccanismi salariali. La spiegazione è certamente convincente, ma chi conosce il paese sa anche che famiglie e imprese usano spesso il denaro a propria disposizione in forme più o meno eclatanti di clientelismo e familismo, e non solo in tangenti versate alle autorità nazionali e locali.

Al netto di questi dati negativi, segnati da un ambiente economico poco liberalizzato l’esecutivo comunitario nota aspetti positivi in un momento in cui l’Italia dibatte nervosamente della modernizzazione della sua economia. Sul fronte energetico, l’industria ha fatto molti progressi, riducendo il proprio impatto ambientale tra il 2007 e il 2012 del 3,5% all’anno. Sul versante dell’export, le imprese italiane si stanno concentrando sempre di più su mercati extra-europei e prodotti basati su tecnologia medio-alta.

«L’industria italiana sta aggredendo il problema della competitività dei costi cavalcando l’innovazione e la qualità in prodotti maturi», scrive la Commissione. Peraltro, la riforma del 2013 della funzione pubblica ha portato per le società a risparmi per 8,99 miliardi di euro in costi amministrativi. Tuttavia, secondo Bruxelles, gli sforzi sono ostacolati da un divisione poco chiara delle responsabilità tra stato e regioni e dall’uso di decreti-legge che non consentono misure mirate di semplificazione.

Il calo dei redditi gela i consumi

Il calo dei redditi gela i consumi

Marzio Bartoloni – Il Sole 24 Ore

Il miracolo non c’è stato. I consumi sono praticamente fermi: si spende meno e solo per il necessario con il reddito disponibile che è tornato quello di 30 anni fa. L’effetto Renzi con il bonus da 80 euro che si era sentito in primavera si è affievolito e non ha lasciato il segno. Anche perché gli italiani – che rinunciano sempre di più alle spese extra (dai viaggi al pasto fuori casa fino alla salute e all’abbigliamento) – ne subiscono uno nuovo: l’«effetto Tasi», il tributo che tra i tanti preoccupa di più per l’incertezza che lo contraddistingue.

L’ultimo bollettino di guerra sullo stato di salute dell’economia delle famiglie italiane è contenuto nella nota di aggiornamento del Rapporto consumi diffuso ieri da Confcommercio. Uno stillicidio di numeri negativi. L’anno scorso la spesa delle famiglie ha registrato una flessione del 2,5%, con una contrazione del 7,6% in otto anni, durante i quali il reddito disponibile reale pro capite è sceso del 13,1%, pari a un ammontare di 2.590 euro a testa. Quest’anno secondo la Confcommercio l’andamento sarà praticamente piatto: la chiusura dei consumi dovrebbe attestarsi su un fragile +0,2%, mentre il prossimo anno se si dovessero confermare le previsioni la crescita raggiungerà uno striminzito +0,7% (a fronte di +1% di Pil).

La fotografia attuale dei consumi oltre che a risentire della profonda crisi che ha investito il Paese negli ultimi anni ha radici anche più profone. In poco più di 20 anni i consumi degli italiani sono infattti cresciuti complessivamente soltanto del 12,3% e questa crescita è dovuta esclusivamente alla dinamica positiva dei servizi. Fenomeno che i commercianti indicano come «la terziarizzazione dei consumi», vale a dire che le famiglie sono costrette sempre di più a privilegiare i servizi rispetto ai beni. I primi, infatti, coprono ormai il 53% della spesa totale (dal 41,8% del 1992), mentre i secondi sono precipitati dal 58,2 al 47%. La prova più evidente di questo spostamento riguarda la fruizione a esempio di servizi come la telefonia cellulare o internet che hanno preso il posto di consumi una volta privilegiati come l’abbigliamento o l’alimentazione.

Non solo: secondo la nota di Confcommercio i consumi cosiddetti “obbligati” (dalla casa alla benzina, dall’assicurazione alla sanità) coprono ormai il 41% del totale: per la casa, spesa obbligata per antonomasia, si è passati dal 17,1% al 23,9% del totale. Alla fine quindi la cifra che ogni famiglia ha a disposizione per tutto il resto, e su cui ha pertanto libertà di scelta, si è ridotta: l’indice delle possibilità effettive di consumo è infatti crollato a 10.900 euro dai 14.300 del 1992. Un terremoto che ha cambiato il modo in cui apriamo e chiudiamo il portafogli. Nel 2013 gli italiani hanno rinunciato soprattutto ai pastifuori casa (-4,1%) e in particolare per l’alimentazione domestica (-4,6%), ai viaggi e alle vacanze (-3,8%), alla cura del sé e alla salute (-3,5%). Con un vero tracollo della spesa per l’abbigliamento e le calzature (-6,3%). E anche quest’anno, anche se più affievoliti, resteranno i segni meno.

Il dato di partenza resta quello della difficoltà di arrivare a fine mese: il reddito disponibile delle famiglie italiane è infatti fermo ai livelli di 30 anni fa. Nel 2014 il reddito è pari a 17.400 euro (come il 2013), mentre nel 1986 era a 17.200 euro. Su tutto poi pesa la fiducia dei consumatori schizzata in alto in primavera grazie all’avvento del Governo Renzi e ai suoi annunci culminati nel bonus 80 euro, ma che ora si è affievolita «producendo solo modesti effetti sui comportamenti di spesa tra aprile e luglio», sottolinea l’Uffico studi di Confcommercio. I consumatori sono infatti tornati a guardare al futuro con preoccupazione: troppe le incertezze, a cominciare da quelle relative alle tasse, Tasi in prima fila. Ora se agli annunci non seguiranno «azioni coerenti» questo clima di fiducia «non si consoliderà». Il presidente di Confcommercio Sangalli dà però ancora credito al premier: «La priorità assoluta in Italia resta la riduzione delle tasse. Sono convinto che Renzi ce la farà ad estendere il bonus degli 80 euro». 

La politica industriale non è un rebus senza soluzione

La politica industriale non è un rebus senza soluzione

Fabrizio Onida – Il Sole 24 Ore

Nel suo articolo del 4 settembre sul Sole, Il rebus della politica industriale, Franco Debenedetti allarga la sua (giusta) diffidenza verso le tentazioni dirigiste dei governi fino a condannare la politica industriale che si regge sul falso presupposto teorico «che il futuro dell’innovazione tecnologica sia conoscibile ex ante, che esista la ricetta per il successo» e dunque «presuppone una fiducia mistica nel processo di selezione democratica».

Ma non è su queste basi che sia la letteratura economica (Rodrik, Aghion, Nelson, Chang, Stiglitz e non solo), sia istituzioni come la Commissione europea (Horizon 2020) e l’Ocse hanno negli anni più recenti riproposto un ruolo autentico dello Stato facilitatore, coordinatore e partner degli attori di mercato, con una visione meno ideologica e più pragmatica della politica industriale.

Durante la fase delle grandi privatizzazioni degli anni 90, che chiudevano la storia di un modello di partecipazioni statali degenerato in patologica commistione di economia e sistema dei partiti, il «capitalismo senza capitali» ereditato dalle crisi degli anni 70 ha perso l’occasione per rilanciare le sorti della grande impresa in larga parte dei settori ad alta intensità di capitale fisico, capitale umano, innovazione tecnologica e organizzativa.

Tutti conosciamo e apprezziamo il vivace dinamismo delle micro e piccole imprese (dentro e fuori dai nostri distretti industriali), nonché il successo di un «quarto capitalismo» di medie e medio-piccole imprese private specializzate in nicchie di elevata qualità e dinamismo tecnologico, capaci di esportare e insediarsi con profitto in molte «catene globali del valore». Ma tutto ciò non è bastato e non basta – tanto più oggi nel prolungarsi della grande crisi – a mettere il paese nelle condizioni di sfruttare le proprie eccellenze scientifiche e i propri vantaggi competitivi, tornando ad alimentare la crescita di quella produttività totale dei fattori che ristagna da più di un decennio.

I governi non hanno certo la preveggenza di quali settori e prodotti potranno meglio contribuire allo sviluppo economico del paese: su questo ha perfettamente ragione Debenedetti, nessuno ha nostalgia degli ambiziosi e falliti «piani di settore», dalla chimica alla siderurgia, all’aeronautica. Ma oltre le ben note e urgenti riforme istituzionali, certamente cruciali per favorire un eco-sistema imprenditoriale decente e moderno (semplificazioni, giustizia, burocrazia, infrastrutture, scuola e apprendistato, lotta contro evasione e corruzione), lo Stato può e deve riscoprire il proprio ruolo di catalizzatore delle migliori energie imprenditoriali del paese.

Compete allo Stato indicare progetti di filiera e allestire strumenti di ricerche coordinate pre-competitive, coinvolgendo nella scelta imprese leader e il loro indotto, (incluse molte affiliate italiane di multinazionali estere che ancora scommettono sulle nostre capacità e competenze), identificate e monitorate con l’apporto essenziale di esperti indipendenti. Come insegna il fallimento di «Industria 2015», è cruciale prevenire i formalismi giuridico-amministrativi, sottrarsi alle ingerenze di burocrazie ministeriali autoreferenziali, imporre tappe forzate di valutazione dei risultati e riservarsi di abbandonare quei progetti che nel tempo si rivelano inadeguati e perdenti nello scenario mondiale (filosofia del pick the loser).

Del resto è quello che vanno praticando da tempo altri paesi a noi vicini (valga l’esempio dei Catapult Centers britannici, dei distretti tecnologici tedeschi, dei pôles de competitivité francesi). Solo così si può valorizzare un patrimonio tecnologico e imprenditoriale altrimenti disperso, promuovere crescita di produttività totale dei fattori, interconnessioni e reti lunghe di imprese innovative, ridurre l’ancora persistente divario fra ricerca accademico-scientifica e innovazione (industria e servizi), dare concrete prospettive di lavoro non precario ai giovani dotati di istruzione elevata e riconosciuti talenti, attrarre investitori nazionali ed esteri. Politiche industriali e politiche per l’innovazione tecnologica e organizzativa sono due facce della stessa medaglia. Anche così si può combattere la cultura paralizzante della rassegnazione a un inarrestabile declino di un paese che merita invece di risalire la china.

Competitività anima della crescita

Competitività anima della crescita

Ferdinando Nelli Feroci – Il Sole 24 Ore

Nell’ambito del cruciale dibattito in corso sul rilancio della crescita e dell’occupazione in Europa, il rafforzamento della competitività delle nostre imprese ha assunto un ruolo decisivo. L’industria, infatti, contribuisce per circa l’80% delle esportazioni europee e per un ammontare simile per quanto riguarda la capacità innovativa del nostro sistema. Senza una forte base industriale è difficile rilanciare la crescita e riassorbire l’elevata disoccupazione. Purtroppo, dal 2008 abbiamo perso circa 3,5 milioni di posti di lavoro nel manifatturiero e la quota sul Pil Ue generata dall’industria è scesa al 15,1%.

È prioritario invertire il declino. Rimettere in moto la crescita significa trovare ricette giuste per rendere le aziende attori dinamici sui mercati globali. I rapporti sulla Competitività degli stati membri e sulla Competitività dell’industria europea, appena pubblicati, presentano un quadro di luci e ombre. Se da un lato abbiamo Stati membri con elevata competitività di sistema, dall’altra abbiamo paesi che arrancano e che vedono ridursi sempre più la loro presenza sui mercati mondiali. Discorso analogo per i vari comparti produttivi europei, dove a fronte di punti di forza, come il farmaceutico, la chimica, la meccanica, l’industria automobilistica e l’alta gamma, esistono settori in sofferenza e piccole e medie imprese (Pmi) sempre più in difficoltà.

I due rapporti cercano di individuare i punti di forza e di debolezza del panorama industriale Ue e mirano a ispirare le politiche della competitività a livello Ue e dei singoli Stati. I maggiori problemi che abbiamo identificato riguardano la debolezza della domanda interna, la mancanza d’investimenti, alti prezzi dell’energia e un contesto amministrativo-regolamentare talvolta eccessivamente oneroso per le imprese. La chiave del nostro rilancio economico risiede nella ripresa della domanda interna. Al di là del rilancio dei consumi, la crescita della domanda passa attraverso l’aumento degli investimenti, sia pubblici che privati, tra l’altro tra i più colpiti dalla crisi. La ripresa di questi ultimi consentirebbe di innescare il circolo virtuoso della crescita che alimenterebbe sia la domanda che la competitività di tutto il sistema. In questo clima di ritrovata fiducia, anche i privati riprenderebbero ad investire.

Perché questo possa avvenire, è importante garantire un adeguato accesso al credito alle aziende. Senza sufficiente liquidità per investire e innovare, le imprese europee rischiano di perdere non solo la sfida globale ma anche di compromettere la sfida in casa, a fronte di prodotti stranieri più economici e innovativi. Il sistema finanziario deve essere messo nelle condizioni di canalizzare verso le imprese la liquidità di cui dispone. Confido che il lavoro sull’Unione bancaria porti i sui frutti quanto prima su questo fronte così come le recenti iniziative intraprese dalla Banca centrale europea. Dobbiamo anche lavorare per migliorare il rapporto banche-imprese, colmando il deficit informativo delle banche verso le Pmi e viceversa, e rafforzare nuovi canali di finanziamento alternativi, come le obbligazioni per le pmi e un ricorso più strutturato al venture capital e al crowdfunding.

Il rilancio della competitività necessita di un contesto amministrativo più favorevole alle imprese. È fondamentale ridurre le tasse sul lavoro e sui fattori produttivi, ma anche sprechi ed inefficienze. Una Pubblica Amministrazione efficiente è strumentale alla crescita delle aziende, sia in termini economici che occupazionali. Dobbiamo ridurre i tempi di concessione delle licenze, rendere più efficiente il sistema giudiziario e ridurre il fardello burocratico che pesa sui nostri imprenditori.

Inoltre, la bolletta energetica è sempre più cara in Europa, soprattutto se paragonata a quella dei nostri competitor nel mondo. Nella stessa Ue, i prezzi variano notevolmente da un Paese all’altro, riflettendo le differenze nella produzione, nella tassazione e nella ripartizione delle sovvenzioni per le energie rinnovabili. Nonostante un generale aumento dell’efficienza energetica in molti settori industriali, l’aumento dei prezzi di elettricità e gas ha influenzato negativamente i costi di produzione e la competitività delle nostre imprese, specialmente nei settori ad alta intensità energetica.

Oltre a queste difficoltà, esistono fortunatamente segnali positivi. Il nostro sistema industriale ha ancora vantaggi competitivi in numerosi settori ad alta e medio-alta tecnologia con una forza lavoro mediamente più qualificata che altrove. Dobbiamo quindi insistere sui punti di forza e allo stesso tempo investire nella formazione dei nostri giovani, nell’innovazione, nelle infrastrutture e nell’internazionalizzazione. Sono queste le ricette per guadagnare competitività e aumentare la nostra presenza sui mercati mondiali, dove si concentrerà gran parte della crescita nei prossimi anni. In conclusione, per ritornare a crescere.

La strada obbligata per ritrovare la crescita

La strada obbligata per ritrovare la crescita

Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

Il Governo Italiano è impegnato su molti, difficili fronti, in Europa e in Italia. Sappiamo anche che il presidente del Consiglio Renzi, la cui energia è davvero tanta, vuole gestire in prima persona tutto. Sono quindi legittime le preoccupazioni che questo impegno sia eccessivo e che si impongano scelte e deleghe più chiare. Sulle riforme economiche necessarie, per evitare confusione, partiamo dalle raccomandazioni delle istituzioni europee all’Italia per passare poi ad una conclusione. E cioè che la spinta (sia pure limitata, senza quella europea) alla nostra crescita ed occupazione passa dal rilancio degli investimenti con le risorse recuperate dalla spending review e dall’evasione, con la riduzione del carico fiscale ed in particolare dell’Irap (solo simbolicamente ridotta in primavera), con un efficace partenariato pubblico-privato, con l’occupazione promossa da politiche attive e retributive nuove anche nel pubblico impiego.

Le raccomandazioni europee. Sono quelle espresse nel giugno scorso dal Consiglio della Ue e dalla Commissione europea, sul Programma nazionale di riforma e su quello di stabilità presentati dal governo. Purtroppo sono raccomandazioni che si ripetono da anni e sul cui adempimento l’Italia ha fatto poco. Eppure le stesse sono difficilmente contestabili anche se possono apparire semplificanti ed eccessive. Esse si riferiscono 1) alle politiche di bilancio; 2) all’alleggerimento del carico fiscale sui fattori produttivi; 3) all’efficienza della pubblica amministrazione; 4) al rafforzamento del settore bancario; 5) alle riforme del mercato del lavoro; 6) alle riforme del sistema di istruzione; 7) alla semplificazione normativa; 8) alla politica dei trasporti e delle infrastrutture. Il governo ha risposto a queste raccomandazioni evidenziando che le riforme richieste sono in cantiere anche se la realtà è (molto) più contenuta.Anche perché non sono chiare le nostre priorità e questo preoccupa perché l’economia reale italiana continua a peggiorare, pur con tutta l’ Eurozona.

Le valutazioni sul 2014. Infatti le previsioni (ci riferiremo a quelle di Prometeia sia pure con nostre valutazioni) danno troppi segni negativi: il Pil scende dello 0,2%; gli investimenti (macchinari, attrezzature, mezzi di trasporto) scendono dello 0,4%; gli investimenti in costruzioni del 2,3%; la domanda totale interna dello 0,2%; la disoccupazione ormai si avvia al 13%. Non compensano questi dati negativi l’aumento della spesa delle famiglia dello 0,2% e un saldo dell’interscambio merci sull’estero al 2,8% del Pil. Due altri fatti (uno negativo e l’altro positivo) sono noti ma è bene ricordarli. L’inflazione (al netto di energia e alimentari, che sono componenti più volatili) è scesa in agosto allo 0,5%, che è il nostro minimo storico anche perché mai prima eravamo andati sotto quelle di Francia e Germania. In positivo vi è il calo dei tassi sui titoli di Stato con il conseguente risparmio di interessi passivi che contribuirà a tenere il deficit sul Pil sotto il 3%. In sintesi: i segnali moderatamente fiduciosi di una ripresa sono stati archiviati dai dati del secondo trimestre.

Priorità e risorse. Bisogna allora individuare tra le Raccomandazioni europee le più urgenti, proseguendo nel frattempo con le riforme ad effetto strutturale sul medio termine dei 1.000 giorni prefigurati dal governo. La priorità è quella di rilanciare gli investimenti, l’innovazione e l’occupazione, soprattutto quella giovanile. Perché da questa dipende la fiducia nel futuro che a sua volta contribuisce ad un aumento (vero) nella spesa delle famiglie. Per fare questa operazione vanno trovate le risorse e selezionati gli impieghi. Il reperimento delle risorse deve imperniarsi (ma non esaurirsi) sulla spending review (compresa la ristrutturazione delle aziende partecipate dagli enti locali). Poiché i quasi 60 miliardi di risparmi (al lordo delle minori entrate) del triennio 2014-2016 sono ben documentati dal Programma Cottarelli (che tra l’altro indica prudentemente entità minori di quelle prefigurate da altri nel 2012), bisogna dare esecuzione alla stesso senza esitazione. Inoltre va riequilibrato il carico fiscale recuperando l’evasione. Perché la nostra pressione fiscale apparente è al 44% ma quella effettiva (sui contribuenti leali) è al 54%.

Investimenti e lavoro. Con le risorse che si liberano bisogna spingere gli investimenti, l’innovazione, la tecnoscienza, l’industria, le infrastrutture che, oltre ai noti effetti moltiplicativi, devono anche sostenere la competitività del sistema Paese. Queste misure passano sia attraverso una riduzione del carico fiscale sulle imprese, e in particolare sugli investimenti, sia attraverso iniziative di partenariato pubblico-privato dove nuovi strumenti di finanza per le infrastrutture e l’industria servono molto. Non meno importante è l’intervento sul lavoro e l’occupazione dove il ministro Poletti sta operando bene. Bisogna arrivare alla semplificazione dei contratti, a migliori politiche attive, a contratti a tempo indeterminato ma a protezioni crescenti, a rivalutare l’apprendistato e l’alternanza scuola-lavoro, a rivedere i sussidi di disoccupazione e la cassa integrazione anche per prevenire forme che disincentivano il lavoro stesso. Poi ci vuole una radicale riduzione e ristrutturazione del pubblico impiego premiando solo il merito. Sappiamo che il Governo ha già adottato vari provvedimenti in queste direzioni. Siamo anche convinti che solo un successo pieno al proposito darà una (prima) spinta alla competitività italiana e aumenterà la nostra forza in Europa.

Una conclusione. Tutto ciò è per noi necessario ma non sarà sufficiente se le istituzioni europee non spingeranno gli investimenti infrastrutturali (materiali e immateriali) e una forte reindustrializzazione sostenibile anche con strumenti finanziari nuovi, come gli EuroUnionBond. Perché la politica monetaria della Bce per quanto espansiva (e non priva di rischi per bolle speculative) non può supplire una politica per l’economia reale.

Attrattività, l’Italia resta in coda

Attrattività, l’Italia resta in coda

Enrico Netti – Il Sole 24 Ore

Regno Unito, Germania e Francia saldamente sul podio dei Paesi che riescono ad attirare il maggio numero di investitori esteri. L’Italia resta nella parte bassa della classifica, preceduta da Spagna e Olanda. Il nostro Paese, la seconda potenza manifatturiera del continente, soffre di un deficit di attrattività e non regge il confronto con quanto offrono altre nazioni altrettanto provate dalla crisi come quelle della penisola iberica, ma che hanno già imboccato la via delle riforme. In Italia, dal luglio 2009 al luglio 2014, gli investitori esteri hanno avviato 583 progetti greenfield, che hanno portato alla creazione di poco più di 4.700 posti di lavoro. Il tutto ha richiesto finanziamenti per 7 miliardi di dollari. È quanto emerge dal report «fDi Markets» sui trend degli investimenti esteri. Sono stati analizzati oltre 15mila progetti effettuati in 21 nazioni: una partita da 146,2 miliardi di dollari di investimenti, che hanno portato alla creazione di quasi 288mila nuovi posti di lavoro.

La lunga crisi ha ridotto lo stock di investitori che guardano all’Europa occidentale e dopo i picchi del 2011 il trend ha imboccato la parabola discendente. «Negli ultimi anni l`Europa vede un calo degli Fdi – commenta Courtney Fingar, editor-in-chief di “fDi Magazine” e responsabile dei contenuti di fDi Intelligence, divisione del Financial Times -. L’Italia ha diverse criticità con gli investitori esteri, esasperati dai problemi economici, da una certa confusione nella strategia di promozione e dalla mancanza di coordinamento tra i diversi enti pubblici che affermano di avere un mandato per la promozione del Paese». Per l’Italia il bilancio poteva essere ben diverso con la realizzazione di un solo progetto in più: quello del rigassificatore di Brindisi, grande infrastruttura che avrebbe portato alla creazione di un migliaio di posti di lavoro e oltre un miliardo di dollari di investimenti. Dopo undici anni di “difficoltà” e una spesa di oltre 250 milioni British Gasnel 2012 ha gettato la spugna.

Chi decide di investire in Italia punta ai servizi per le imprese con l’obiettivo di presidiare il mercato. Tra i settori spicca quello delle tlc, su cui si sono riversati oltre 2 miliardi di dollari di investimenti, mentre il comparto trasporti e logistica ha creato il maggior numero di nuovi posti (650) e precede le tlc (300) e l’elettronica. La top ten delle multinazionali che hanno varato progetti vede nomi come Fed Ex, Vodafone, Ceva, Amazon, oltre al gruppo filippino Itkc e colossi dell’energia come Rwe ed Électricité de France. «Segnano il passo i grandi progetti greenfield nell’energia e nelle infrastrutture, ovvero quelli di cui il Paese ha assoluto bisogno, mentre vanno meglio gli investimenti in acquisizioni – osserva Donato Iacovone, a.d. di EY Italia -. Servono riforme, e più che le idee ciò che è veramente mancato è stato il coraggio di attuarle. Lo stesso coraggio che oggi l’Europa si aspetta per riconoscere credibilità al decreto “sblocca Italia”». Aggiunge Fingar: «Il governo Renzi ha annunciato alcuni cambiamenti, ma le implicazioni restano per il momento poco chiare».

Non c’è solo un deticit di attrattività, ma anche di competitività. A dirlo è la classifica del World economic forum (Wef) che per il secondo anno consecutivo mette l’Italia al 49° posto. Ci precedono Spagna, Portogallo, le repubbliche del Baltico e Malta. Come fermare il declino? Una possibile cura la suggerisce Francesco Saviozzi, direttore del Master in Imprenditorialità e strategia aziendale della Sda Bocconi, che insieme a Paola Dubini ha curato la parte italiana della ricerca del Wef. «Si dovrebbe trarre ispirazione dal pacchetto di semplificazioni e agevolazioni varato per le startup che dimostra che si possono creare condizioni attrattive per fare impresa – spiega Saviozzi -. Si deve soprattutto fare in fretta per dimostrare all’estero che si riesce a supportare veramente le imprese». I settori da valorizzare sono quelli delle scienze della vita, il biotech e il digitale con pacchetti di norme ad hoc e creando i presupposti per far ritornare i talenti fuggiti all’estero.

«È necessaria anche una vera e seria strategia per attirare gli investitori, con un modello proattivo e coordinato – conclude Fingar -. Sono molti i punti di attrattività offerti dall’Italia, dalle scienze alle tecnologie, senza dimenticare le Pmi con i loro elevati livelli di competenze. Ma questi plus non vengono ottimizzati e comunicati al meglio ai mercati internazionali».

Una finanza locale in cortocircuito

Una finanza locale in cortocircuito

Salvatore Padula – Il Sole 24 Ore

Il tormentone della Tasi si avvicina all’ennesima (ma non ultima) scadenza confermando e, anzi, rendendo ancor più evidenti i timori sull’effettivo peso del nuovo tributo sui servizi indivisibili dei Comuni. Le delibere, almeno quelle già approvate in oltre 4mila città (per le scelte sulla Tasi c’è tempo ancora fino a mercoledì), dimostrano senza ombra di dubbio che i sindaci continuano a considerare l’imposizione immobiliare come la via più semplice, anche se affatto indolore per i cittadini-proprietari, per far quadrare bilanci che da anni scontano pesanti tagli ai trasferimenti statali, regole più rigide sul Patto di stabilità interno, nuovi vincoli dettati dalla spending review.

Se è vero, come ricorda spesso Piero Fassino, presidente dell’Anci, che i Comuni tra il 2008 e il 2013 hanno avuto una riduzione di risorse pari a 17 miliardi, tra minori trasferimenti e «contributi al Patto di stabilità interno», allora non è difficile cogliere il senso delle scelte con cui molte città si sono misurate o si stanno misurando. A ciò va aggiunto che la spesa dei municipi – pur con un andamento più virtuoso rispetto a quello di altre amministrazioni – non ha davvero invertito la direzione di marcia: secondo i dati del Siope (uscite per cassa), nel 2013 le spese correnti hanno toccato i 55 miliardi, contro i 48 del 2008, mentre le spese in conto capitale sono scese l’anno scorso a 13 miliardi dai 20 del 2008. Le spese correnti tra il 2008 e il 2013 sono quindi cresciute del 14,5% rispetto a un’inflazione nel periodo dell’11 per cento. Certo, non va scordato che le uscite dei Comuni scontano nel 2013 l’effetto positivo dei piani per i pagamenti dei debiti alle imprese, ma non tutto il differenziale è (purtroppo) finito in quella direzione.

La combinazione di questi fattori spiega – ma non giustifica – il perché di un ricorso così spregiudicato all’utilizzo della leva tributaria. L’anno scorso i sindaci hanno incassato solo per Imu e addizionale Irpef quasi 20 miliardi (rispettivamente, 15,7 e 3,9), ai quali vanno aggiunti i 4,5 ottenuti dallo Stato come “rimborso” per l’Imu non pagata sulla prima casa. Nel 2008 si era ben distanti: 12,6 miliardi tra Ici e addizionale Irpef, più 3,3 di rimborsi Ici prima casa.

Viste le cifre in gioco, l’equazione è presto scritta: meno finanziamenti dallo Stato, spesa difficilmente contenibile, uguale pressione fiscale ai livelli massimi. Anzi, vien da pensare che quest’ultima finisca per diventare la “variabile dipendente”, determinata meccanicamente dall’andamento delle altre due voci. Ed è questa la spirale viziosa che va spezzata. Il rischio che a una riduzione dei trasferimenti e a maggiori vincoli sul Patto di stabilità i Comuni facessero fronte non con politiche di contenimento della spesa ma agendo sull’aumento delle tasse non era così imprevedibile (e anzi era stato ampiamente previsto).

La verità è che è giunto il momento di guardare avanti e uscire dalla vecchia disputa su chi pesa di più tra Imu e Tasi. C’è un sistema di prelievo sugli immobili da ripensare, cogliendo l’occasione della riforma del Catasto, che è importante ma che da sola non rimetterà tutto a posto ed eliminerà solo in parte le storture del prelievo attuale. Allo stesso modo, occorre immaginare meccanismi in grado di correggere la logica per cui lo Stato taglia e riduce, ma scarica sugli enti la responsabilità di trovare nuove risorse, cosa che i sindaci fanno puntualmente agendo sulle tasse. Serve, cioè, un progetto organico di finanza locale, non estemporaneo, capace di definire con chiarezza i rapporti tra centro e periferia. Ma capace anche di incidere realmente sulla spending review, di agire sugli sprechi e di restituire efficienza agli enti locali.

Pagamenti PA a quota 30 miliardi

Pagamenti PA a quota 30 miliardi

Carmine Fotina – Il Sole 24 Ore

Due settimane esatte al giorno di San Matteo. Si avvicina la scadenza fissata da Matteo Renzi, il 21 settembre, per smaltire la totalità dei debiti della Pa, un impegno assunto dal premier come una “scommessa” personale sei mesi fa nel corso di una puntata di Porta a Porta. Conclusa la pausa estiva, si può ora fare un bilancio generale in vista dell’ambizioso obiettivo: sia lo stato dell’arte dei pagamenti sia quello delle norme applicative risultano ancora incompleti e occorrerebbe un formidabile sforzo da sprinter per chiudere in tempo tutte le partite aperte. Al ministero dell’Economia non si fanno drammi, però, anche perché, si sottolinea, tutti i meccanismi messi in campo sono ormai funzionanti e le richieste di certificazione avanzate dalle imprese per cedere i crediti alle banche si stanno mantenendo anche al di sotto delle disponibilità. Entro due settimane si farà di nuovo il punto con tutte le parti che hanno sottoscritto a luglio un protocollo di impegni – enti debitori, banche, imprese, Cdp – e in quella sede si conta di dare una sterzata decisiva per superare l’attuale risultato: siamo intorno ai 30 miliardi già pagati ai creditori.

Le risorse pagate
Dai 90 miliardi di debiti commerciali stimati da Banca d’Italia a fine 2012 si è passati ai 75 miliardi dell’ultima relazione di via Nazionale, cifra che tuttavia includerebbe anche debiti non ancora scaduti e un’ampia zona grigia costituita dai debiti fuori bilancio e da quelli oggetto di contenzioso. Più realisticamente, secondo le valutazioni del Tesoro, la cifra da “aggredire” si avvicina ai 60 miliardi. Sommando i tre decreti che hanno stanziato risorse per i pagamenti, complessivamente sono stati messi a disposizione 56,8 miliardi dei quali 6,5 destinati a rimborsi di imposta. In attesa del prossimo dato ufficiale, l’ammontare dei debiti pagati era, al 21 luglio scorso, pari a 26,1 miliardi a fronte di 30,1 miliardi già distribuiti alle Pa perché paghino i loro debiti. La maggioranza dei crediti incassati riguarda spese di parte corrente, 7,5 miliardi sono andati invece a coprire debiti di parte capitale (spese per investimenti) e 2,5 miliardi sono stati impiegati per i rimborsi di imposta. Nel frattempo, però, secondo prime valutazioni dei tecnici, gli enti debitori avrebbero girato quasi tutte le risorse e alle imprese dunque sarebbero già affluiti circa 30 miliardi.

La cessione dei crediti
Con il recente Dl 66/2014 sono state varate misure per facilitare la cessione dei crediti certificati (solo di parte corrente) mediante la garanzia dello Stato. La Cdp, che può intervenire in ultima istanza rilevando a sua volta i crediti dalle banche, ha messo a disposizione un plafond di 10 miliardi e, al 4 settembre, con un trend in rallentamento negli ultimi 10 giorni, sono state presentate 55.684 istanze di certificazione da parte delle imprese per circa 6 miliardi. Per trasmettere la domanda di certificazione, le imprese che non lo hanno ancora fatto hanno tempo fino al 31 ottobre 2014, dunque in ogni caso oltre la scadenza del 21 settembre. E ad ogni modo, l’invio delle istanze non esaurisce l’iter in quanto le Pa debitrici hanno a loro volta ulteriori 30 giorni di tempo per certificare o fornire, in alternativa, un rifiuto accompagnato da «puntuale motivazione». Secondo prime indicazioni raccolte sul campo, non sarebbero pochi i casi di amministrazioni che stanno opponendo un diniego, più o meno ben motivato, alle imprese richiedenti. Resta intanto irrisolta la questione delle spese in conto capitale. Il pagamento di spese per investimenti (ulteriore rispetto ai 7,5 miliardi già liquidati) è infatti frenato dall’impatto che determinerebbe sul deficit e molto probabilmente bisognerà aspettare la legge di stabilità per verificare possibili coperture.

L’attuazione
Fin qui i freddi numeri. Passando all’attuazione normativa, in base alla tabella pubblicata sul sito del ministero, al momento è stato concluso l’iter di 8 provvedimenti su 14 previsti dal Dl 66. Il fondamentale decreto con le modalità per far scattare la garanzia statale sui crediti ceduti risulta «in registrazione alla Corte dei Conti». Nel frattempo, al Mef si studiano nuovi meccanismi di controllo dei tempi medi dei nuovi pagamenti, per evitare che – smaltiti gli arretrati storici – se ne formino di nuovi: in arrivo sanzioni severe per gli enti ritardatari.  

Politica fiscale per battere la depressione

Politica fiscale per battere la depressione

Guido Tabellini – Il Sole 24 Ore

La decisione della Bce, di far scendere ancora i tassi di interesse e soprattutto di avviare l’acquisto di titoli emessi dalle banche, è una svolta importante. Ma perché la Bce ha aspettato così tanto e non si è mossa prima? E saranno sufficienti i provvedimenti annunciati per scongiurare la deflazione e sostenere la crescita nell’Eurozona? La risposta ufficiale alla prima domanda l’ha data il presidente Mario Draghi in conferenza stampa. La politica monetaria ha reagito a due eventi: un peggioramento congiunturale di tutta l’area Euro che è diventato particolarmente evidente durante l’estate; e una tendenza al ribasso delle aspettative di inflazione di medio periodo, anche questa accentuatasi di recente.

La risposta non è molto convincente, tuttavia. Come ben sanno i banchieri centrali, la politica monetaria ha effetti dilazionati nel tempo. Aspettare di osservare variazioni congiunturali nei dati di contabilità nazionale o di produzione è una sicura ricetta per essere in ritardo. E le aspettative di inflazione devono essere guidate dalla politica monetaria, e non viceversa. È diversi trimestri che osserviamo una continua contrazione della base monetaria e dell’offerta di credito e il progressivo rallentamento dei prezzi. La capacità inutilizzata nell’Eurozona rimane elevata, sia nell’industria che nei servizi, ed è circa un anno che ha praticamente smesso di ridursi. Da fine 2013 gli indicatori di fiducia delle imprese hanno invertito direzione. Ignorare per tanti mesi tutti questi segnali è stato un azzardo, e non solo con il senno di poi.

Meglio tardi che mai, comunque? Non è detto. Purtroppo è poco probabile che questi interventi, per quanto significativi, siano sufficienti a risollevare la domanda aggregata, soprattutto nel Sud Europa. Oltre all’effetto sul tasso di cambio, i provvedimenti vogliono spingere l’offerta di credito bancario. Ma l’obiettivo sarebbe stato più facilmente raggiungibile uno o due anni fa, quando il deleveraging delle banche non era così avanzato. Ora la depressione ha affossato l’economia reale e riempito i bilanci delle banche del Sud Europa di crediti deteriorati. Per quanto l’acquisto diretto di titoli di credito possa parzialmente allentare il vincolo di capitale sulle banche, e i finanziamenti del sistema bancario siano a costo zero, non è detto che ciò sia sufficiente, soprattutto se è assente la domanda di nuovo credito. Inoltre, è ancora incerto se le dimensioni del mercato consentiranno alla Bce di acquistare una quantità davvero rilevante di titoli di credito.

L’esperienza di Stati Uniti, Inghilterra e Giappone suggerisce che, per uscire da una crisi così profonda, la politica monetaria da sola è insufficiente, ed è necessaria una combinazione di politica monetaria e fiscale. In questi paesi la creazione di moneta è avvenuta soprattutto tramite ingenti acquisti di debito pubblico ed è stata accompagnata da maggiori disavanzi: di fatto un’espansione fiscale finanziata dalla banca centrale. L’uso di entrambi gli strumenti è cruciale: l’espansione fiscale sostiene direttamente la domanda aggregata, e il finanziamento monetario evita l’aumento del debito pubblico e dei tassi di interesse. Da questo punto di vista, c’è una differenza importante tra l’acquisto diretto di titoli di credito emessi dalle banche e l’acquisto di titoli di stato. Soprattutto nel secondo caso, più che nel primo, la banca centrale allenta direttamente il vincolo di bilancio del governo.

Nell’area Euro questo non si può fare, naturalmente. Ma non è escluso che ci si arrivi comunque, anche se in ritardo e in maniera meno esplicita e molto meno rilevante. Se i provvedimenti annunciati non riusciranno a evitare la deflazione nell’area Euro, prima o poi la Bce potrebbe essere costretta ad acquistare anche i titoli di Stato. E lo stesso presidente Draghi ha sottolineato l’importanza del coordinamento tra politica monetaria e fiscale (oltre alle riforme strutturali) per uscire dalla crisi. Nel frattempo, non illudiamoci che possa essere la politica monetaria da sola a fare uscire il Sud Europa dalla depressione.