lavoro

Tfr, tutto e subito

Tfr, tutto e subito

Davide Giacalone – Libero

Cancellare il Tfr, restituendolo ai lavoratori, è una riforma seria e strutturale. Renderne volontario l’incasso minimale e rateale, mantenendone l’obbligatorietà dell’accumulazione, è una via di mezzo insipida, che somiglia a un trucco contabile. Evitiamo di fare come con le pensioni, cui mettono mano tutti quelli che passano, meglio cambiamenti stabili.

L’allarme da noi lanciato la scorsa settimana, avvertendo che se il Trattamento di fine rapporto smette di essere un risparmio forzoso e un reddito differito entra a far parte del reddito attuale, quindi dell’imponibile, e entrandovi porta sia all’aumento delle tasse da pagare che alla perdita del bonus 80 euro, fu accolto con fastidio, ma era così fondato che ora sento i governativi sperticarsi a dire: non sappiamo ancora come si farà, perché dobbiamo ancora discutere i dettagli (alla faccia dei dettagli!) tecnici, ma il Tfr in busta paga non porterà né più tasse né alla perdita del bonus. Bravi, ci siate arrivati: il pericolo esiste. Aggiungo: le soluzioni che avete in mente sono barocchismi impraticabili.

Per ottenere quel risultato, infatti, si dovrebbe avere una busta paga in cui alcune parti del reddito non solo non contribuiscono a comporre l’imponibile (ai fini delle aliquote), ma manco il reddito (ai fini del bonus). Per essere partiti volendo semplificare, direi che non s’ebbe la fortuna di chi buscò ponente per il levante. Leggo che l’aliquota sul Tfr incassabile sarà del 23%, ovvero la più bassa. Non voglio crederci, perché sarebbe disperazione fiscale. L’aliquota che si paga, oggi, è una media di quella subita negli ultimi cinque anni, quindi il 23% è la più bassa. Oggi calcolata su un montante maggiore, perché il Tfr non solo si accumula, ma si rivaluta (l’agevolazione fiscale riguarda la base imponibile, discorso diverso). Cederlo oggi al 23% significa aver la fregola d’incassare subito il meno, non avendo il tempo di aspettare domani il più. Disperazione, appunto.

Girate la frittata, che è meglio. Primo passo: si abolisce il Tfr. Fine della trasmissione: ciascuno si trova i propri guadagni in busta paga e ne fa quello che gli pare, risparmiandone una parte o sbafandosi il tutto. Viva la libertà. Secondo passo: smaltire lo stock di Tfr accumulato, che sono soldi dei lavoratori. Vero, ma utilizzati dal depositario come fossero debiti a lunga scadenza, tali, quindi, che se devono essere restituiti subito provocano il crollo delle casse che li contengono. Come si fa? Mettendo a fuoco i tre problemi che si creano: a. nel pagamento della previdenza integrativa; b. nelle casse dell’Inps; c. nelle casse delle aziende sotto i 50 dipendenti. Il primo problema (che, detto fra parentesi, dimostra quanto la volontarietà in accoppiata con l’obbligatorietà non funzioni, infatti a quella destinazione s’è rivolta una minoranza di lavoratori, a meno che non si facciano le riforme nella speranza che falliscano) si affronta con una norma transitoria che consenta di riversare il capitale, o parte di esso, alle stesse condizioni di rivalutazione (o migliori) nel fondo privato. Quelli sono contratti privati, quindi serve una norma d’accompagnamento. Terzo passo: i buchi nei bilanci, invece, si coprono con garanzia della Cassa depositi e prestiti. Dicono dal governo: dovranno essere le banche a dare i soldi e in tal senso faremo una convenzione. Convenzionino quel che credono, ma le banche non vogliono e non possono dare soldi in compensazione di cassa bruciata. Basta farsi spiegare Basilea. Ridicono: ma la Bce ha messo a disposizione i soldi. No, sono finalizzati agli investimenti, non alle partite di giro per i regali governativi. Senza contare che gli interessi di mercato, pagati alle banche, sono superiori a quelli assicurati dal Tfr (1,5% più il 75% dell’inflazione, che non c’è). Se la Cdp garantisce il buco, invece, ci guadagna, perché pagherebbe il denaro meno di quel che le aziende e l’Inps sono già predisposte a retribuirlo.

Sono pronto a scommettere che alla Cdp storcono la bocca, perché pensano di usare i denari per crescere in potere e partecipazioni azionarie. S’appassionarono al romanzo: “Piccole Iri crescono”. Ergo, se il governo ha la forza di farsi valere, in effetti può assestare un colpo con il Tfr, restituendo ai lavoratori la libertà di consumare o risparmiare; se non ha questa forza, però, la pianti di pasticciare, perché fa la fine del gatto con il gomitolo: ruzza che è una bellezza, finché non rimane prigioniero della matassa. Il tutto ripetendo che bruciare risparmio per consumi, e non per investimenti, è un modo per diventare poveri.

Fuga da Belpaese, espatriano 94mila italiani in un anno

Fuga da Belpaese, espatriano 94mila italiani in un anno

Nadia Ferrigo – La Stampa

Che sia una buona notizia oppure no, è difficile a dirsi. Di sicuro, per un lavoratore straniero che arriva in Italia, almeno due italiani se ne vanno all’estero. Secondo i dati raccolti nell’ultimo «Rapporto Italiani nel Mondo», pubblicato dalla Fondazione Migrantes, lo scorso anno sono partiti 94.126 italiani, in aumento sul 2012 di circa il 16%. Un altro balzo in avanti che conferma una tendenza che va di pari passo con la crisi economica: nel 2011 gli «expat» nostrani erano più di 60mila, l`anno dopo sfioravano gli 80mila e oggi il saldo delle presenze è ancora positivo, con la soglia dei 100mila sempre più vicina. A cambiare e la classifica delle destinazioni preferite: al primo posto non c’e più la Germania, scivolata in seconda posizione, ma il Regno Unito, con 12.933 nuovi iscritti all’Aire, l’anagrafe italiana dei residenti all’estero. Al terzo posto la Svizzera (con 10.300 presenze, in aumento del 16%) e poi la Francia (8400, più 19%). A preparare le valigie sono più gli uomini delle donne, mentre la classe di età più rappresentata è quella che va dai 18 ai 34 anni (36,2%), a seguire si parte tra i 35 e i 49 (26,8%). Da dove arrivano? Il podio per quest’anno se lo aggiudicano Lombardia, Veneto e Lazio.

Cittadini del mondo
Nel mondo sono 4.482.115 i cittadini italiani iscritti all’Aire, quasi 141 mila in più rispetto allo scorso anno. La maggior parte delle iscrizioni – circa 2 milioni e 300mila – sono per espatrio, seguite dalle nascite, circa un milione e 700mila. L’Argentina è il primo paese di residenza (725mila), seguita da Germania (665mila), Svizzera (570mila), Francia (378mila), Brasile (332mila), Regno Unito (223mila), Canada (136mila) e Australia (134mila). Da dove si parte? Poco più della meta degli italiani iscritti all’Aire è di origine meridionale – più di 1,5 milioni del Sud e circa 800 mila delle Isole – il resto si divide equamente tra Nord e Centro. Ma quali sono le regioni che possono contare sulle comunità più numerose? Domina la Sicilia con il 15 per cento sul totale, seguita da Campania e Lazio, agli ultimi posti Trentino Alto Adige, Umbria e Valle dAosta.

Sempre più i frontalieri
Sono sempre più anche i lavoratori che ogni giorno arrivano in Canton Ticino, una delle mete più ambite. I frontalieri tra il 2003 e il 2008 Sono passati da 33mila a 41mila, e oggi sono circa 59mila. Secondo il dossier della Fondazione Migrantes, anche la mobilità regionale è sempre più
significativa: nel 2012 circa l’85% dei cittadini veneti si è cancellato e reiscritto in un comune diverso della stessa regione. In Lombardia, Piemonte e Friuli Venezia Giulia le percentuali di mobilità sono tra l’80 e l’84%. E tra una regione e l’altra? Basilicata e Molise registrano frequenti spostamenti verso le confinanti, mentre Calabria e Puglia resistono con il più classico dei modelli, che riguarda quasi esclusivamente lo spostamento verso il Nord e il Centro. I poli di attrazione sono soprattutto Lombardia e Piemonte per il Nord Ovest, Veneto ed Emilia Romagna nel Nord Est, Lazio nel Centro.

Già pronti a partire?
Bella ma non ci vivrei. Secondo la ricerca di Coldiretti, realizzata in concomitanza con i risultati del dossier Migrantes, un giovane italiano su due assicura di essere pronto a trasferirsi all’estero per cercare il lavoro che in patria non spera nemmeno più di trovare. Le motivazioni ricorrenti tra chi ha già la valigia se non in mano, sotto il letto? L’Italia è un Paese «fermo», dove non si prendono mai decisioni, poi c’è il problema delle troppe tasse e la cronica mancanza di meritocrazia. I più intenzionati a lasciare mamma e papà sono i giovani tra i 18 e i 19 anni, la percentuale sale di pari passo con il grado di istruzione.

Con il Job-Italia 300mila posti di lavoro in più

Con il Job-Italia 300mila posti di lavoro in più

Luca Ricolfi – La Stampa

Ma Renzi li legge i documenti ufficiali del suo governo? A me vien da pensare di no, o che li consideri solo noiose scartoffie buone per tranquillizzare i burocrati europei. Altrimenti non farebbe le dichiarazioni che continua a fare da mesi, in totale contrasto con quello che il suo ministro dell’economia scrive nella «Nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza 2014».

Renzi dichiara che nel 2015 i tagli alla spesa pubblica non saranno «solo» di 17 bensì di 20 miliardi; nelle scartoffie, invece, la spesa pubblica diminuisce di appena 4 miliardi. Renzi annuncia una rivoluzione nel mercato del lavoro, per dare una speranza ai disoccupati e agli esclusi, ma nella «Nota di aggiornamento» si prevede che l’anno prossimo l’occupazione aumenterà di appena 20 mila unità, a fronte di più di 3 milioni di disoccupati. Renzi ci promette che fra 1000 giorni l’Italia sarà completamente cambiata grazie all’impatto delle sue riforme, ma nella «Nota di aggiornamento» del suo ministro dell’Economia si prevede che nel 2018, a fine legislatura, sempre che la congiuntura internazionale vada bene e che le famigerate riforme vengano fatte, il tasso di disoccupazione sarà dell’11.2%, anziché del 12.6% come oggi: in parole povere 2-300 mila disoccupati in meno (su 3 milioni), a fronte di 1 milione e mezzo di posti di lavoro persi durante la crisi. Se fossi un imprenditore sarei preoccupato, ma se fossi un sindacalista sarei imbufalito. Come si fa ad accettare che in un’intera legislatura il numero di disoccupati resti sostanzialmente invariato? È per questo, perché sa di non essere in grado di creare nuovi posti di lavoro, che il governo pone tanta enfasi sugli ammortizzatori sociali?

Nuovi posti a costo zero?
Ed eccoci al dunque. Se la politica deve mestamente ammettere che «non ci sono le risorse», e quindi l’azione di governo di posti di lavoro aggiuntivi ne potrà creare pochissimi, forse è giunto il momento di cambiare la domanda. Anziché chiederci come trovare le risorse per creare nuovi posti di lavoro, dovremmo forse porci un interrogativo più radicale: si possono creare nuovi posti di lavoro, tanti nuovi posti di lavoro, a costo zero per le casse dello Stato? Ai primi di marzo, quando come quotidiano «La Stampa» e come «Fondazione David Hume» lanciammo l’idea del maxi-job, la riposta era: forse. Oggi è diventata: quasi certamente sì. L’idea del maxi-job era in sostanza questa: anziché distribuire a pioggia un’elemosina di cui nessuna impresa si accorgerebbe, perché non permettere alle imprese che già intendono creare nuova occupazione di crearne ancora di più? Più precisamente: permettere alle imprese che aumentano l’occupazione (e magari anche alle nuove imprese) di usare, limitatamente ai posti di lavoro addizionali e per un massimo di 4 anni, uno speciale contratto full time nel quale il lavoratore riceve in busta paga l’80% del costo aziendale (anziché il 50% come oggi), mentre il restante 20% affluisce allo Stato, sotto forma di Irpef e di contributi sociali. Si potrebbe pensare che un contratto del genere ridurrebbe il gettito della Pubblica Amministrazione, a causa dei minori contributi sociali. E in effetti così sarebbe se, pur in presenza del nuovo contratto, le imprese non creassero alcun posto di lavoro addizionale; se, in altre parole, lo sgravio contributivo si limitasse a rendere più economici posti di lavoro che sarebbero stati creati comunque. Se però si ammettesse che, con un costo del lavoro quasi dimezzato, alcune imprese creerebbero più posti di lavoro di quelli programmati, la questione degli effetti sul gettito diventerebbe assai più aperta. Bisogna considerare, infatti, che un posto di lavoro in più genera nuovo valore aggiunto, e una parte di tale valore aggiunto genera a sua volta gettito non solo sotto forma di contribuiti Inps e Inail, ma anche sotto forma di altre tasse, come Iva, Irpef, Irap, Ires, eccetera (e si noti che il gettito complessivo delle altre tasse è quasi il triplo di quello dei contributi sociali).

Il nodo del gettito
In breve, quel che la Pubblica Amministrazione deve chiedersi non è: quanto gettito perdo se i nuovi contratti di lavoro pagano meno contributi sociali? Ma semmai: le nuove tasse che riscuoto grazie a posti di lavoro che altrimenti non sarebbero mai nati bastano a compensare il gettito che perdo per i minori contributi sociali? Ebbene, quando un anno fa formulammo la proposta del maxi-job non eravamo in grado di rispondere a questa domanda, perché non avevamo la minima idea di quanti posti di lavoro in più si sarebbero potuti creare con il nuovo tipo di contratto. Non sapevamo, in altre parole, qual era la «reattività» delle imprese. O, se preferite, qual era il moltiplicatore occupazionale del nuovo contratto. Però una cosa eravamo in grado di dirla: esiste una soglia di reattività sotto la quale il gettito diminuisce e sopra la quale il gettito aumenta. Tale soglia è circa 1.4 e significa questo: se i nuovi posti di lavoro passano da 100 a 140 il nuovo contratto non costa nulla, perché il gettito della Pubblica amministrazione resta invariato; se passano da 100 a meno di 140 (ad esempio a 120), il nuovo contratto costa, perché fa diminuire il gettito; se passano da 100 a più di 140 (ad esempio a 180) il nuovo contratto non solo non costa, ma fa aumentare il gettito.

La ricerca
Ecco perché gli ultimi sei mesi li abbiamo passati a cercare di scoprire quale potrebbe essere la reattività delle imprese. In primavera, con l’aiuto della società Kkien e dell’Unione industriale, abbiamo condotto un’inchiesta su 50 imprese chiedendo direttamente quanti posti di lavoro in più avrebbero creato con il nuovo contratto. Il risultato è stato sorprendente: nelle imprese che pianificano di aumentare l’occupazione i nuovi posti di lavoro sarebbero balzati, in media, da 100 a 264: un moltiplicatore pari a 2.64. Avremmo voluto rendere pubblico questo risultato, ma ci sembrava eccessivamente ottimistico e basato su troppo pochi casi. Si è quindi deciso di aspettare. A giugno è intervenuto un elemento nuovo: l’Unione delle Camere di Commercio del Piemonte ci ha offerto di inserire il questionario sul maxi-job nella loro indagine di metà anno sulle imprese manifatturiere piemontesi, in modo da disporre di un numero molto maggiore di risposte (oltre 1000). Con nostra grande sorpresa il moltiplicatore è ancora salito un po’, portandosi a 2.64. È a questo punto che è nata l’idea di un nuovo contratto di lavoro, il job-Italia, che va molto oltre l’impianto del maxi-job. Altrettanto conveniente per le imprese, il job-Italia è molto più generoso con i lavoratori. In estrema sintesi funziona così:
1) la busta paga è compresa fra 10 e 20 mila euro annui;
2) il costo aziendale aggiuntivo rispetto alla busta paga è del 25%, anziché del 100% come oggi;
3) il job-Italia è riservato alle imprese che aumentano l’occupazione, e dura da 1 a 4 anni;
4) la differenza fra costo aziendale e busta paga viene usata per pagare l’Irpef dovuta dal lavoratore;
5) quel che avanza dopo il pagamento dell’Irpef viene conferito interamente agli enti previdenziali (Inps e Inail);
6) lo Stato aggiunge l’intera contribuzione mancante, assicurando al lavoratore una piena tutela (malattia, infortunio, disoccupazione, pensione, liquidazione).

Un sogno?

Le stime
In termini statistici, direi proprio di no. Se anche il moltiplicatore fosse solo 2 (anziché 2.64), se anche il nuovo valore aggiunto per addetto (quello dei posti «in più») fosse un po’ minore di quello medio, il job-Italia farebbe comunque incassare allo Stato molti più soldi di prima. Una stima prudente suggerisce che, senza job-Italia, le imprese che intendono aumentare l’occupazione creerebbero circa 300 mila nuovi posti di lavoro tradizionali, mentre sepotessero usufruirne creerebbero da 600 a 800 mila job-Italia, soprattutto nelle piccole imprese. Risultato: il gettito contributivo si riduce di 3 miliardi, ma quello delle altre imposte aumenta di almeno 6, il che basta a pagare i contributi di tutti i maxi-job attivati, e verosimilmente lascia ancora qualcosa nelle tasche dello Stato.

Chi frena?
Ma allora perché non si fa? Una possibile risposta è che ci sia qualche fallacia nel mio ragionamento, o nelle stime della reattività delle imprese, o nella valutazione della lungimiranza della Ragioneria dello Stato, ancora molto legata a una visione statica dei conti pubblici: non posso certo escludere queste eventualità, la mia è solo una «modesta proposta», per dirla con Swift. L’altra risposta possibile è che la politica ha le sue regole, e che per gli equilibri del Palazzo (o per quelli dell’Europa?) sia più sicuro battere strade più convenzionali. Il problema, però, è che sulla via dei piccoli aggiustamenti siamo da anni, e i risultati sono terrificanti.

Sul Jobs Act Renzi ha dimostrato di essere un politico navigato

Sul Jobs Act Renzi ha dimostrato di essere un politico navigato

Sergio Soave – Italia Oggi

L’iniziativa messa in atto da Matteo Renzi sulla riforma del lavoro sembrava destinata a infrangersi sugli scogli delle intransigenze filosindacali di una parte consistente del gruppo democratico e delle simmetriche rigidità del Nuovo centrodestra, che ha bisogno di dimostrare di essere influente sulle scelte più delicate. Per giunta la materia è abbastanza scivolosa, perché per esempio basta allargare i casi discriminatori coperti dal reintegro obbligatorio a una fascia ampia di licenziamenti disciplinari, e si torna di fatto alla situazione precedente, mentre, dall’altra parte, la definizione degli incentivi per le assunzioni dei giovani se non sono ben calibrati rischiano di mortificare strumenti che sono risultati assai utili altrove, come l’apprendistato, senza compensazioni adeguate. La scelta di una delega ampia è lo strumento adeguato, ma perché non venga appesantita da emendamenti che ne delimitano troppo le potenzialità, è indispensabile imporre una disciplina di voto alla maggioranza con una richiesta di fiducia che ha due effetti coincidenti, imporre alla minoranza democratica che non è orientata a una scissione un voto favorevole e evitare un vistoso appoggio determinante di Forza Italia, che farebbe apparire irrilevante il contributo di Ncd. Renzi è riuscito a manovrare abilmente e sembra che alla fine otterrà proprio questo risultato, rinviando poi alla stesura delle norme delegate la discussione vera sugli aspetti più complessi della riforma del lavoro.

Questo fatto conferma che il premier sa utilizzare con consumata maestria gli strumenti politici di partito per poi trasferirne gli effetti nel confronto parlamentare, che non è affatto rozzo o inesperto come viene dipinto (e ama egli stesso farsi dipingere). La vera debolezza risiede nella capacità di affrontare nel merito i nodi che imbrigliano l’economia e la società italiane, e sarebbe utile che chi ha le competenze necessarie le impiegasse per aiutare non il governo ma il Paese che oramai sembra boccheggiare in attesa di qualche innovazione reale che ristabilisca un minimo di fiducia. Se le rappresentanze delle parti sociali, i tecnici dell’economia e del diritto, i commentatori capaci di incidere sull’opinione pubblica, perderanno questa occasione di essere utili, anche con richiami critici naturalmente purché attinenti alle difficoltà reali, rischiano di finire anch’essi nell’irrilevanza. Da questo punto di vista l’atteggiamento rissaiolo della Cgil, isolata dagli altri sindacati del lavoro e dell’impresa che cercano punti di contatto e di dialogo, è un gran brutto segno per la sinistra sindacale.

La ventunesima prova di forza

La ventunesima prova di forza

Alfonso Celotto – Il Tempo

Con il Jobs act siamo arrivati a 21 voti di fiducia, sono così tanti che non ci facciamo più caso. Il secondo governo Prodi ha avuto una media di una fiducia al mese, in tutto 28. Il successivo esecutivo, guidato da Berlusconi, riuscì addirittura a fare «meglio», con una media di 1,2 al mese (53 in tutto). Record per Mario Monti con un governo che fece ricorso a 51 voti di fiducia, una media di 3 al mese. A seguire l’allora premier Enrico Letta ne ha previsti «solo» 9, in media 0,9 al mese. E arriviamo ai giorni nostri. In poco più di 6 mesi il governo Renzi ha accumulato 21 voti di fiducia. Sul piano statistico siamo tornati ai tempi dell’esecutivo tecnico di Monti allorché si gridò alla morte della democrazia. Eppure la questione della «fiducia» resta un forte strappo alle regole costituzionali di esame e approvazione delle leggi.

Quando il governo ricorre a questa pratica produce due effetti: fa cadere tutti gli emendamenti presentati dai parlamentari, a cui impone di votare sul suo testo, e fa sì che la scelta avvenga per appello nominale, in maniera da evitare possibili «franchi tiratori». Insomma, la questione di fiducia è una «bacchetta magica» (o una clava) in mano al governo. L’hanno usata a destra e a sinistra. Ora tocca a un governo che dovrebbe essere il più forte degli ultimi anni: ha un leader carismatico e una grande prospettiva di crescita. Eppure Renzi ricorre continuamente alla fiducia. Segno di forza, di debolezza o di assenza di democrazia?

Meno bamboccioni, ma “partire” resta un tabù

Meno bamboccioni, ma “partire” resta un tabù

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

La retorica dei «bamboccioni» (o come li chiamava l’ex sottosegretario Michel Martone «sfigati») non è più trendy come un tempo. Eppure la statistica continua a confermare una realtà sotto gli occhi di tutti: ancora molti ragazzi italiani non sono disposti a spostarsi all’estero per ottenere migliori condizioni di lavoro. È quanto emerge dal Global Talent Survey, una ricerca su un campione di oltre 200mila intervistati in tutto il mondo (circa 6mila in Italia) condotta dalla società di consulenza The Boston Consulting Group e da The Network, associazione che riunisce le principali aziende di selezione del personale.

Come detto, il nostro Paese si colloca nei bassifondi della classifica: poco più del 50% del campione ha risposto affermativamente. A farle compagnia ci sono altri Paesi a forte connotazione familistica della società come Argentina, Grecia e Spagna. La situazione macroeconomica, infatti, non è un fattore discriminante: se è vero che in Germania, Usa e Gran Bretagna c’è ancora minore propensione a spostarsi rispetto all’Italia, è altrettanto vero che in il 94% dei francesi e degli olandesi sarebbe felicissimo di lavorare all’estero se ciò comportasse un reddito migliore. Eppure a Parigi e Amsterdam non si sta certamente peggio di Roma. Lo stesso discorso vale per i cittadini degli Emirati Arabi Uniti, nazione tra le più ricche al mondo.

La vicinanza a casa è comunque una condizione necessaria anche per gli italiani che sarebbero disposti a emigrare. A differenza della maggior parte dei Paesi sviluppati, non è l’America la terra promessa dove cercare fortuna, ma la meno distante Gran Bretagna. Gli Stati Uniti vengono solo al secondo posto. In terza e in quarta posizione ci sono la Germania e la Francia. Le economie emergenti come Russia, Brasile, Cina e India sono agli ultimi posti. Fanno eccezione l’Australia (quinta posizione) e il Giappone (settimo). Forse la spiegazione sociologica della minore propensione a lasciare casa risiede nel fatto che per gli italiani un compenso attraente non è tra i fattori principali di scelta. Ciò che conta di più è che il proprio lavoro sia apprezzato, che ci siano possibilità di fare carriera e che si possano avere buoni rapporti con i superiori. Obiettivi non facilmente raggiungibili altrove per una popolazione in età lavorativa che, in media, ha una vera idiosincrasia per le lingue straniere.

La ricerca di The Boston Consulting Group sorprende anche dal lato inverso. Nonostante la crisi economica perenne, infatti, l’Italia continua a essere una delle destinazioni lavorative più apprezzate nel mondo. Si piazza, infatti, al nono posto con il 25% delle citazioni dietro la Spagna (26%) e prima della Svezia. Il nostro Paese si classifica quasi sempre come sesta o settima meta preferita tra i lavoratori delle altre nazioni industrializzate, eccezion fatta per gli statunitensi che la vedono come quarta migliore nazione dove avere un’esperienza lavorativa. Analogamente, tra le città ideali dei lavoratori, al decimo posto, figura Roma (3,5%). Lontanissima dalle prime tre (Londra, New York e Parigi), ma prima di Los Angeles, Tokyo e San Francisco che offrono sicuramente più potenziale di business. Certo, la Capitale piace in tutto il mondo e poi che ne sanno all’estero dell’esistenza di un tal Ignazio Marino?

Scuole belle, l’inganno del governo Renzi per dare lavoro ai lavoratori socialmente utili

Scuole belle, l’inganno del governo Renzi per dare lavoro ai lavoratori socialmente utili

Lorenzo Vendemiale – Il Fatto Quotidiano

“Non siamo partiti dall’edilizia, ma dall’annoso problema dei lavoratori socialmente utili e della gara per i servizi di pulizia”. A svelare il bluff dell’operazione “Scuole belle” sono gli stessi vertici del ministero dell’Istruzione. L’obiettivo non erano le scuole: i soldi, 450 milioni di euro in totale, sono stati in realtà stanziati per risolvere il problema degli ‘ex Lsu’, migliaia di lavoratori che svolgono le opere di pulizia nelle strutture scolastiche del Paese, messi in difficoltà dal ribasso dell’ultima convenzione Consip. Il progetto di manutenzione è solo il modo di garantire a questi dipendenti la continuità occupazionale perduta. Così gli istituti scivolano in secondo piano: fondi distribuiti a pioggia, senza considerare gli interventi realmente necessari; importi, in alcuni casi di decine di migliaia di euro, spesi per operazioni marginali, perché solo queste rientravano nelle competenze dei lavoratori da occupare.

“Scuole Belle” insomma si trasforma, diventa la storia un’iniziativa che riguarda sì la scuola italiana, ma non è stata calibrata sulle esigenze della scuola italiana. Non più il grande progetto annunciato in pompa magna dal presidente del Consiglio, ma i classici due piccioni con una fava. Anche i presidi ne sono consapevoli. “Il progetto non è come l’hanno presentato: pensavamo di poter gestire quelle risorse, con certe cifre avremmo potuto fare cose importanti. In realtà c’è solo da scegliere tra alcune opzioni di lavori possibili. È tutto incanalato perché quei soldi servono a dare da mangiare ai lavoratori socialmente utili, le scuole vengono dopo”, spiega Fernando Iurlaro, dirigente dell’Istituto comprensivo Copertino, in provincia di Lecce.

I soldi dove ci sono più lavoratori

La riprova sta proprio nel processo con cui l’esecutivo ha elaborato la graduatoria e quantificato gli importi. I 150 milioni per il 2014, che diventeranno 450 milioni fino ai primi mesi del 2016, sono esattamente quanto serve a colmare il gap aperto dall’ultimo bandoConsip. E i fondi sono stati distribuiti tra le varie province del Paese non sulla base delle richieste delle scuole ma sul numero dei lavoratori. Tanto che su 450 milioni totali 330 finiscono al Meridione – la Campania da sola ne prende 171, la Puglia 68 – solo perché la maggior parte degli Lsu si trova in queste regioni. Non certo perché le strutture del Sud siano messe peggio di quelle del Nord.

A ricostruire l’iter è Sabrina Bono, capo dipartimento Miur per le risorse finanziarie: “Quella dei lavoratori socialmente utili è un’emergenza che nasce dalla gara per i servizi di pulizia: l’esternalizzazione, se da un lato ha razionalizzato i costi, dall’altro ha generato una pressante questione sociale. Per affrontarla, il nuovo governo ha pensato ad una soluzione che non fosse il solito ricorso agli ammortizzatori sociali. E visto che sul tavolo c’era già il tema dell’edilizia scolastica, si è deciso di inaugurare un filone riguardante la piccola manutenzione”. Questo genere di lavori, infatti, ricade proprio all’interno della convenzione Consip che riguarda gli “ex Lsu”. Così sono stati messi in cantiere un tot di opere in base al fabbisogno di questi lavoratori, non delle scuole. Legittimo. Anche lodevole, a sentire alcuni protagonisti come i sindacati o i vertici del ministero, soddisfatti di aver raggiunto un duplice obiettivo: “Per noi è una bella iniziativa, fino all’anno scorso in alcune scuole si facevano collette fra i genitori per riverniciare le aule. Abbiamo ricevuto tante lettere di ringraziamento”, afferma la Bono. Sicuramente, però, non è quello che aveva raccontato il premier Renzi, che negli ultimi mesi aveva più volte sbandierato l’intenzione di mettere la scuola al centro dei piani del governo. Mentre le cose sono andate diversamente.

Gli effetti negativi sui lavori

La particolare genesi del progetto, infatti, ha comportato alcune storture nella destinazione dei fondi alle scuole e nel loro impiego. La prima, la più macroscopica, è che il principale criterio di ripartizione è stato il numero di lavoratori presenti nella provincia: i soldi, insomma, non sono andati alle scuole che ne avevano più bisogno. Del resto, non c’è stato alcun bando a cui gli istituti potevano partecipare, nessun censimento specifico per monitorare gli interventi da effettuare (se non la consueta comunicazione che all’inizio di ogni anno i presidi fanno ai Comuni di appartenenza). Così nelle province più “munificate” dal progetto (come ad esempio Napoli con 37 milioni di euro, o Lecce con 10 milioni) è capitato che alcune scuole, le più grandi, si vedessero assegnati fino 200mila euro. Cifre ben lontane dai 7mila euro fissati come importo minimo dal Miur, o dalla media di 20mila euroscarsi per plesso. Sempre, però, per fare interventi “di cacciavite”. La lista delle operazioni possibili, poi, è abbastanza ristretta: verniciatura delle pareti e cancellazioni di scritte; riparazioni degli infissi; rimozione e riallocazione delle strutture didattiche (praticamente montare o spostare mensole, armadi, lavagne); piccoli interventi all’impianto idrico-sanitario (caldaie escluse, però); rifacimento e manutenzione del giardino.

È possibile spendere decine, a volte centinaia di migliaia di euro solo in questo tipo di lavori? Evidentemente sì. Si doveva farlo, del resto. Al massimo è stata concessa la possibilità di destinare fondi avanzati per pagare a canone servizi di pulizia e giardinaggio per i prossimi mesi. E pazienza che in alcuni casi gli stessi presidi abbiano avanzato dei dubbi. “A me alcuni costi sono sembrati spropositati. Ad esempio, il 15% secco solo per pulizie di fine cantiere (altra voce della circolare, ndr) mi è sembrato esagerato”, spiega Tonino Bacca, dirigente scolastico del circolo “Livio Tempesta” a Lecce. La sua direzione didattica si è vista assegnare 166mila euro, di cui 25mila circa se ne andranno solo per smontare i cantieri. “A casa mia non avrei mai fatto quei lavori a quelle cifre”, conclude. “Se avessi potuto decidere, avrei speso solo una parte dei fondi in manutenzione e il resto li avrei destinati a migliore la qualità delle attrezzature e dell’offerta formativa”. Discorso simile in un’altra scuola della provincia: qui la preside (che ha preferito rimanere anonima) ha speso circa 50mila euro per riverniciare 16 aule; ma pochi mesi prima la ritinteggiatura di 10 aule, a spese del Comune, era costata solo 17mila euro; in proporzione, meno della metà. È il genere di inconvenienti che si verifica con i finanziamenti a pioggia. Il risultato, alla fine della giostra, è una “mano di fresco” ai 7.751 plessi interessati, che ha lasciato parzialmente soddisfatti i presidi: da una parte felici di aver migliorato le condizioni delle loro strutture, dall’altra convinti che con le stesse cifre si sarebbe potuto fare di più e di meglio. Tutti contenti, invece, i lavoratori impiegati dal progetto, i veri beneficiari dell’iniziativa.

Lsu: chi e quanti sono

Per capire di chi si tratta e da dove nasce questa esigenza bisogna fare un passo indietro. In totale parliamo di circa 21mila uomini e donne in tutta Italia, concentrati per oltre il 50% nelle regioni del Sud. Alcuni provengono dai cosiddetti “appalti storici”, impiegati in questo settore sin dagli anni Ottanta. Altri, la maggior parte, sono appunto gli ex “lavoratori socialmente utili” (Lsu): disoccupati o cassaintegrati che nel 2001 il governo Prodi decise di stabilizzare all’interno delle scuole per i lavori di pulizia, impegnandosi a stanziare ogni anno le risorse necessarie per mantenerli. La loro situazione si è però complicata nel corso degli anni: le opere di pulizia sono state prima sottratte agli enti locali nel 2007, poi esternalizzate. E l’ultima gara Consip del 2011 ha visto dei ribassi tali (in alcuni casi anche del 30-50%) da indurre le ditte a presentare un piano di riduzione consistente dell’orario di lavoro. Si tratta della Dussmann in Puglia e Toscana; della Manutencoop in Emilia-Romagna, Veneto, Friuli Venezia-Giulia, Lombardia e Trentino Alto-Adige; e del consorzio Rti in Sardegna, Lazio, Umbria, Marche, Abruzzo Molise, Valle D’Aosta, Piemonte e Liguria (nelle altre regioni la gara non è stata completata).

Già negli scorsi anni erano state varate delle operazioni straordinarie di pulizia, per far fronte all’emergenza. Quindi, nel febbraio 2014, il lancio di “Scuole belle”, per dare una svolta alla questione. Con i soldi del progetto, infatti, i lavoratori dovrebbero essere a posto almeno per due anni. Poi alcuni di loro dovrebbero andare in pensione, il bacino cominciare a svuotarsi. E il “bubbone” sgonfiarsi. Con piena soddisfazione del governo. Un po’ meno delle scuole, che per essere pulite meglio dovrebbero sperare in una disoccupazione maggiore.

La scommessa (sul futuro) del trf in busta paga

La scommessa (sul futuro) del trf in busta paga

Roberto Sommella – Europa

C’è una fiducia molto più importante di quella posta al senato dal governo per la riforma del lavoro: è la sicurezza del futuro che milioni di italiani chiedono dopo anni di crisi.I lavoratori sono davvero pronti a trasformarsi in cicale dopo essere passati alla storia come laboriose formiche, capaci di mettere da parte ancora oggi ben 8.000 miliardi di euro? Sta tutto nella soluzione di questo rebus il senso della mossa dell’esecutivo di Matteo Renzi di mettere in busta paga il Tfr. Una scelta che, previo assenso dei protagonisti, ha il sapore della scommessa.

Come sempre in questi casi, vanno calcolati i costi per le imprese e le famiglie e i benefici per l’economia italiana. Tenendo presente però almeno tre elementi che stanno trasformando la nostra società: l’abbattimento della propensione ai consumi, il calo del Pil che comporta minori pensioni future e di conseguenza maggiori tutele integrative, e il costante aumento dei depositi. Proprio quest’ultimo punto, fotografato di recente, è quello che maggiormente sorprende: il cavallo non solo non beve ma sembra diventato un cammello. Nonostante i tentativi della Bce (che si è detta favorevole all’operazione Tfr in busta paga) i 23 miliardi di euro andati alle banche italiane dall’ultima iniezione di liquidità di Francoforte non si stanno tramutando in maggiori prestiti. Tutt’altro. I nostri concittadini, evidentemente chi può, tengono a mantenersi molto liquidi, in banca o addirittura a casa.

Prova ne è che dal 2007 ad oggi l’ammontare complessivo dei depositi bancari e dei contanti sia aumentato del 9,2% per un totale di 234 miliardi di euro. Una montagna, se paragonata alle cifre che potrebbero essere mobilitate dallo sblocco parziale del Trattamento di fine rapporto, che quest’anno ammonterà in 26,9 miliardi di euro (9,8 parcheggiati presso le imprese, 11,8 nelle casse dell’Inps a titolo pubblico e privato, 5,3 confluiti verso i fondi pensione). Il governo – sempre se le piccole e medie imprese saranno d’accordo, visto che sono quelle che avrebbero più da rimetterci perdendo il capitale costituito dal salario differito dei propri dipendenti – spera in un effetto benefico di circa 100 euro medi in busta paga al mese. E se così non fosse? Qui si tratta della vita delle persone, non solo di utilizzare un bonus come gli 80 euro. Hanno più paura del presente o del futuro? Alcuni dati vanno analizzati con grande attenzione.

A fronte di una crescente incertezza, la tentazione di preferire i risparmi ai consumi è sempre più alta. Per il 2014 il coefficiente di rivalutazione del Tfr si è attestato da gennaio ad agosto all’1,28% per cui sarà poco sopra l’1,5% a dicembre, a causa della deflazione. Con questo rendimento deve quindi confrontarsi chi vuole usare il Tfr per fare un altro tipo d’investimento. C’è qualcosa che può rendere di più, rinunciando alla pensione integrativa o alla liquidazione finale? Dall’inizio del 2001, ha calcolato Milano Finanza, da quando i comparti di previdenza complementare hanno cominciato a prendere piede in Italia, alla fine del 2013 i fondi negoziali hanno offerto un rendimento medio netto del 45%, superando la rivalutazione netta del Tfr mantenuto in azienda, che nello stesso arco temporale è stata pari al 41,1%. Ma nonostante questo le adesioni non sono mai decollate e oggi solo un quarto degli occupati è iscritto a un fondo pensione. Gli aderenti sono pochi, soprattutto tra i giovani e le donne, proprio quelli più bisognosi di un’integrazione e più colpiti da disoccupazione e precarietà. Di una copertura privata ci sarà sempre più bisogno, visto che quella pubblica è destinata a restringersi. E il perché è presto detto.

L’attuale sistema pensionistico si poggia su previsioni statistiche che calcolano l’assegno previdenziale in base anche al coefficiente di rivalutazione del Pil. Se quest’ultimo arranca o addirittura cala, come in questi anni, si avrà una rendita minore. Qualche esempio: lavoratori trentenni, dipendenti ed autonomi, che lasceranno l’attività a 68 anni e 9 mesi, avranno una pensione pari, rispettivamente al 64% e al 46% dell’ultimo stipendio se il Pil crescerà dell’1,5%; percentuale che si ridurrà bruscamente al 53% e al 38% dell’ultima busta paga se il Pil si fermerà al +0,5% (più o meno quanto viene stimato nel 2015). Non solo. Con più soldi in busta scenderanno, per chi li ha, anche le pensioni di scorta fino al 20% in meno se l’operazione durerà tre anni, perché i contributi cesseranno.

La fotografia dell’Italia di oggi è questa: meno crescita, meno consumi, meno pensioni future. La risposta, con un mese di stipendio in più a disposizione, sarà più spese famigliari o più previdenza integrativa? È una scelta, anche patriottica, quella che gli italiani si troverebbero a dover fare se andrà in porto, con tutte le precauzioni e le garanzie bancarie per le Pmi, il progetto Tfr: destinare al proprio benessere e quindi all’Italia una quota del salario, facendo ripartire l’economia, oppure richiudersi ancora di più nel formicaio in attesa di tempi migliori. Questi calcoli, che sembrano complicati, gli italiani sanno farli molto bene. Il governo ha avuto coraggio, bisogna vedere se l’avranno anche i governati.

Lavoro, tutte le nuove misure (senza articolo 18)

Lavoro, tutte le nuove misure (senza articolo 18)

Lorenzo Salvia – Corriere della Sera

Quello a tempo indeterminato e a tutele crescenti sarà il tipo di contratto «privilegiato in termini di oneri diretti e indiretti». Per questo sarà possibile incentivarlo, sotto forma di taglio dei contributi o dell’Irap da quantificare successivamente con le norme attuative, in modo da renderlo più vantaggioso rispetto ai contratti a termine che altrimenti non avrebbero rivali, specie dopo la liberalizzazione di pochi mesi fa. E con l’obiettivo finale di arrivare al «superamento delle tipologie contrattuali più precarizzanti». Nell’emendamento al Jobs act , il disegno di legge delega per la riforma del lavoro sul quale oggi il Senato dovrà votare la fiducia, il governo fa qualche altro passo verso la minoranza del Pd, che però resta critica.

Licenziamenti
Dal pacchetto, otto pagine che ieri sera hanno avuto la bollinatura della Ragioneria generale dello Stato e stamattina saranno depositate formalmente in Senato, resta però fuori ogni riferimento alle nuove regole sui licenziamenti e all’articolo 18. La questione sarà confinata ad un semplice discorso che il ministro del Lavoro Giuliano Poletti farà in Aula. Dichiarazioni spontanee, nessuna votazione a seguire. Come indicato nel documento votato nella direzione del Pd, il ministro si impegnerà a mantenere il reintegro nel posto di lavoro per i licenziamenti disciplinari, quelli addebitati al comportamento del dipendente, che dovessero essere giudicati ingiustificati dalla magistratura. Ma solo in alcuni casi limite e comunque rimandando i dettagli al 2015, quando il Jobs act sarà stato approvato anche alla Camera e il governo scriverà i decreti attuativi.

La tipizzazione
A quel punto, ma solo a quel punto, il governo procederà ad una tipizzazione più stretta dei licenziamenti disciplinari ingiustificati, in modo da ridurre il margine di discrezionalità dei magistrati. E lascerà aperta la possibilità per l’azienda di scegliere comunque l’indennizzo, ma più caro, anche quando il magistrato dispone il reintegro. I decreti attuativi passeranno in Parlamento solo per un parere non vincolante, e il governo avrà gioco più facile rispetto al difficile compromesso che deve cercare adesso. Una semplice dichiarazione del ministro non è una garanzia sufficiente per la minoranza Pd, che con Cesare Damiano avverte: «La battaglia per migliorare la delega continuerà alla Camera». Ma potrebbe funzionare da scudo in futuro, se le norme attuative dovessero essere impugnate davanti alla Corte costituzionale perché vanno al di là della delega, visto che nel Jobs act manca un riferimento proprio all’articolo 18.

Mansioni e voucher
Nell’emendamento ci sono altri due passi verso la minoranza Pd. Il primo è sul demansionamento, cioè la possibilità di assegnare al lavoratore mansioni inferiori a quelle della categoria di appartenenza. L’operazione sarà possibile rispettando le «condizioni di vita ed economiche del lavoratore», il che non vuol dire necessariamente conservando lo stesso salario ma quasi. Mentre sui voucher, i buoni lavoro utilizzati per le prestazioni occasionali, resta fermo il principio di un tetto massimo al loro utilizzo, che però sarà definito sempre con le norme attuative.

Scioperi e referendum
Non ci saranno invece, salvo sorprese, le norme sulla rappresentanza, sulla contrattazione aziendale e sul salario minimo, delle quali aveva parlato lo stesso Matteo Renzi nel corso dell’incontro con i sindacati avuto in mattinata. L’obiettivo è quello di impedire scioperi e referendum quando un accordo viene firmato dal 50% più uno dei rappresentanti sindacali, limitando il diritto di veto delle sigle più piccole (leggi Fiom). Mentre il salario minimo potrebbe sostituire in parte i contratti nazionali, indebolendo anche i sindacati più grandi. Il progetto resta in piedi ma con tempi più lunghi.

Quanto ci costa la fuga di quei ragazzi che abbiamo formato

Quanto ci costa la fuga di quei ragazzi che abbiamo formato

Gianna Fregonara – Corriere della Sera

È come se l’intera città di Alessandria o se tutta Lecce si fossero trasferite all’estero nel corso del 2013. Sono partiti quasi in centomila. Non è solo segno di una crescente mobilità degli italiani: sono soprattutto le regioni del Nord, con la Lombardia in testa, e il Lazio quelle da cui se ne vanno i nostri connazionali, che in maggioranza peraltro si spostano dentro i confini dell’Europa: Gran Bretagna, Germania e Svizzera.

Scorrendo i dati e l’identikit che «Migrantes» ha fatto del nuovi emigrati italiani risulta che si tratta soprattutto di giovani (circa 35 mila hanno tra i 18 e i 24 anni), con diploma di scuola superiore o laurea. Due su tre sono diretti in Inghilterra, chi per studiare, chi per lavorare e insieme imparare l’inglese, chi per restare. Si sa che con il 44,2 per cento di disoccupazione giovanile accertato e con il miraggio di uno stipendio più alto all’estero dove la laurea – dati dell’Isfol – può valere fino al 50 per cento di retribuzione in più, la spinta all’emigrazione aumenta. E del resto se si considera la tendenza degli ultimi anni, i dati non sono così stupefacenti: nel 2012 era partito il 30 per cento in più dell’anno prima. Tra i nuovi emigrati di questi anni ci sono sempre di più ricercatori, studenti, talenti vari, «cervelli» in cerca di occupazione.

Il vero problema diventa che molti, forse quasi tutti, non riescono più a rientrare in Italia o non lo trovano conveniente, e finora i tentativi di richiamarli con sconti fiscali e opportunità varie non hanno funzionato a sufficienza. Ma crescere un cittadino educato e col diploma costa, contando i tredici anni di scuola dalle elementari alle superiori, circa 130 mila euro. E il conto presentato ieri da «Migrantes» così non torna.