lavoro

I conti non tornano

I conti non tornano

Giuseppe Turani – La Nazione

Se io prendo cento euro e li sposto dalla tasca sinistra a quella destra, non per questo divento più ricco. L’idea di mettere mezzo Tfr in busta paga subito, mese per mese, è un po’ la stessa cosa. Da una parte si dice che è urgente diminuire il costo del lavoro per le imprese, dall’altra lo si aumenta. La logica sarebbe quella di dare subito più soldi ai lavoratori, così i consumi ripartono. Il Tfr è un accantonamento che l’azienda deve fare. Di solito, come dice il nome, quando il lavoratore esce dall’azienda, gli viene consegnata una somma equivalente appunto a un mese di stipendio per ogni anno lavorato. L’idea, degna del mago Houdini, è questa: poiché quei soldi sono già del dipendente e poiché abbiamo bisogno di rilanciare l’economia, diamoglieli subito, così si compra un paio di scarpe nuove e l’economia riparte.

È un ragionamento che farebbe bocciare all’esame di economia in qualsiasi università (ma forse anche a ragioneria). Si tratta infatti di un aumento «artificiale» delle paghe, ottenuto non grazie a un miglior andamento dell’economia, ma grazie a una distribuzione immediata di quelli che sono i risparmi del lavoratore, custoditi dall’azienda. I soldi del Tfr, infatti, non sono depositati dall’imprenditore in un salvadanaio a forma di porcellino che viene rotto quando il dipendente se ne va (magari fra vent’anni). Anzi, quei soldi non esistono proprio.

L’imprenditore li segna in bilancio perché così va fatto, ma in realtà usa quei soldi per le necessità correnti dell’azienda. Poiché sa quando i suoi lavoratori lasceranno l’azienda, si organizza in modo da avere nel momento dell’uscita il Tfr per 10, 20, 30 lavoratori. L’anno dopo se ne andranno altri 10, e l’imprenditore verserà l’equivalente di 10 Tfr. Se ha 200 dipendenti e se ne vanno 20 all’anno, dovrà avere in contanti i soldi per questi 20 Tfr. Il resto rimane nell’azienda. Se si decide che invece almeno metà del Tfr va versato mese per mese si ottiene certo di aumentare la paga dei dipendenti (a carico dell’azienda), ma in compenso si aggrava il costo del lavoro (subito) di una mezza mensilità, che a quel punto va tirata fuori per tutti i dipendenti e non solo per quelli che se ne vanno. Abbiamo passato mesi a dire che era centrale far scendere i costi per le aziende, e adesso andiamo a aumentarli?

Tutti precari nell’azienda di Renzi

Tutti precari nell’azienda di Renzi

Bonifacio Borruso – Italia Oggi

Come Matteo Renzi ha annunciato di voler davvero riformare lo Statuto dei lavoratori, «per smettere di discriminare i non garanti», è scattata la corsa a usare le attività dei genitori per dimostrare l’incoerenza pratica del premier: nelle piccole aziende «renziane» non c’è tutta questa voglia di tutelare i giovani. Non c’entra qui l’inchiesta della procura di Genova che, a sei mesi dalla relazione di un perito del tribunale fallimentare, si è ricordata di indagare Tiziano Renzi, padre del segretario Pd, con l’ipotesi di bancarotta fraudolenta per un’azienda operante nel genovese: coincidenza singolare ma comunque coincidenza.
L’attacco s’è concentrato sulla tipologia dell’attività in questione nella società, la Chil, di cui peraltro Renzi è un dirigente in aspettativa, regolarizzato, si osserva, poco prima di diventare presidente della Provincia, così da trasferire l’onere dei contributi previdenziali all’ente pubblico.

Il Fatto quotidiano, domenica scorsa, ha titolato prontamente: «Tiziano Renzi, nella sua azienda tutti precari. Tranne il figlio Matteo». Davide Vecchi, l’autore dell’articolo, parla di un marchio di fabbrica, in quanto anche le due sorelle del premier, che lavorano in un’altra azienda di famiglia, la Eventi 6, sarebbero inquadrate come co.co.co., cioè come collaboratrici coordinate e continuative. Il giornalista del foglio padellarian-travaglian-gomeziano definisce ironicamente questa tipicità contrattuale come «Tiziano Act», che si contrappone, nei fatti e nel privato familiare di Renzi, al Jobs Act del premier. Un modo per dire che Renzi predica bene dal pulpito di Palazzo Chigi e razzola male negli uffici paterni di Rignano sull’Arno (Fi).

Eppure il pezzo di Vecchi cita, correttamente e nel dettaglio, che attività svolgessero e svolgano le società di Renzi senior, della mamma e delle sorelle: la diffusione di giornali, di volantini e di prodotti editoriali. Un’attività che, per definizione, deve svolgersi con contratti a termine. E infatti, come racconta il giornalista, a impegnarvisi erano soprattutto studenti universitari che arrivavano a mettere insieme 400 euro al mese. «Era faticoso perché ci svegliavamo all’alba», racconta al Fatto un ex-lavoratore Chil, dietro richiesta dell’anonimato (sic), «ma per il resto era il classico lavoro da studenti e ci ripagavamo sigarette e qualche uscita di sera». Il contratto «era atipico», insisteva l’intervistatore cercando l’indignazione postuma, e l’altro, di rimando: «Ma era regolare, cioè potevano farlo e fra l’altro devo dire che era onesto perché, oltre al fisso, ci riconosceva una percentuale, seppur minima, su ogni copia che riuscivamo a vendere».

In pratica, secondo il Fatto, babbo Renzi avrebbe dovuto assumere a tempo indeterminato torme di studenti universitari nelle città in cui lavorava. Un nuovo profilo professionale: gli strilloni-impiegati di concetto In questo, però, anche l’Editoriale Il Fatto Spa, di cui è presidente il direttore Antonio Padellaro, e nel cui consiglio di amministrazione siedono Marco Travaglio e Peter Gomez, potrebbe aprire una strada: assumendo a tempo indeterminato, ovunque siano e ovunque scrivano, carta o web, i collaboratori del giornale.

Non è un Paese per giovani

Non è un Paese per giovani

Elisabetta Gualmini – La Stampa

L’Italia non riesce a fare cose per i giovani. È un paese vecchio, fatto per i vecchi, e si compiace di esserlo. Il surreale dibattito sull’articolo 18 che si presenta puntuale ad ogni cambio di governo ne è l’ennesima dimostrazione. Sì certo, l’articolo 18 è già stato modificato due anni fa, e non saranno né la sua conservazione né il suo superamento (da soli) a spingere magicamente verso l’alto il tasso di occupazione italiano. Ma se la sua rimodulazione avviene dentro a una più ampia ipotesi di riforma che aumenti le probabilità di nuove assunzioni e ampli le tutele per la galassia da anni in espansione dei lavoratori precari, in gran parte giovani, non ci si può limitare a dire che i problemi sono «ben altri» o storcere il naso. Non si capisce perché dovremmo appassionarci vedendo erigere le solite barricate, da parte di chi protegge i già protetti.

Le riforme si fanno spesso grazie a compromessi tra le parti interessate. Il contratto a tutele crescenti che prevede maggiore flessibilità all’inizio della vita lavorativa (la sospensione dell’art. 18, esattamente come in Danimarca) in cambio di tutele che crescono nel tempo è una buona mediazione tra esigenze dei lavoratori e dell’impresa. Dovrebbe sostituire la lotteria delle controversie davanti ai giudici con vincoli stringenti ad assumere con contratti a tempo indeterminato, disincentivi economici a licenziare per gli imprenditori, risorse a vantaggio del lavoratore per l’eventuale ricerca di una nuova occupazione. Se questo compromesso serve a dimostrare all’Europa e agli investitori che le riforme si fanno, che il paese non è bloccato, che non è in mano ai conservatorismi, se serve a dare qualche garanzia in più a chi veleggia angosciato tra contratti intermittenti che ammazzano qualsiasi prospettiva di futuro, è bene andare avanti. Come ha peraltro suggerito – unico «giovane» tra vecchi e giovani-vecchi – il Capo dello Stato.

Non c’è dubbio che i giovani abbiano pagato più di tutti per la crisi degli ultimi 10 anni. Tra loro il tasso di disoccupazione è più che raddoppiato (dal 17% nel 2004 al 45% del 2014). I giovani e le molte donne senza un’occupazione stabile non sanno nemmeno cosa sia l’articolo 18, né gli passa per la mente di iscriversi al sindacato. Presumo assistano comprensibilmente disillusi all’arzigogolata discussione tra legulei sulle conseguenze e le virtù di uno «Statuto» pensato alla fine degli Anni Sessanta con l’intenzione di trasferire nel settore privato il modello (di allora) del «posto fisso» nel settore pubblico. Per loro sono discorsi che arrivano da un’altra epoca, scritti in caratteri sconosciuti. Indecifrabili. Insomma, di cosa stiamo parlando? Della nostalgia per un mondo che non c’è più?

Una riforma per i nuovi assunti può essere una risposta se tuttavia si verificano due condizioni. Primo se si vuole andare fino in fondo il contratto a tutele crescenti dovrebbe assorbire un bel po’ di contratti atipici, in modo da vincolare gli imprenditori ad assumere con il nuovo contratto a tempo indeterminato abbandonando via via tutte le forme di maggiore precarizzazione (false collaborazioni e partite Iva, lavoro accessorio, etc.). La sfida più grossa infatti nel nostro paese è quella di stabilizzare le carriere lavorative, essendo ampiamente dimostrato che chi entra nel mercato del lavoro con il piede sbagliato, e cioè con contratti non standard, ha davanti a sé un percorso di lavoro decisamente accidentato, da cui è difficile divincolarsi. Secondo, occorre giocare a carte scoperte sul tema delle risorse. A quali categorie verranno estesi gli ammortizzatori, al posto di quali indennità e con quali costi? Questo va chiarito prima e non dopo la riforma. L’erogazione universale dei sussidi non sembra verosimile in un contesto di risorse scarse. Non si può sentir dire dentro allo stesso partito che la riforma costa 2 miliardi, poi 10 e poi 20. La vaghezza con cui si parla della sostenibilità tecnica della riforma è sconcertante. E soprattutto da dove verranno le risorse? Chi se ne occupa e ce lo spiega?

Aspettiamo risposte robuste. Gli slogan, le stilettate e gli attacchi alle tartine hanno francamente stufato. E se poi si riesce a rendere l’ambiente del mercato del lavoro meno ingessato e a offrire qualche brandello di protezione in più a chi non ne ha, è già molto. Per evitare che l’Italia continui a essere un bellissimo paese. Ma solo per i vecchi.

Una sfida ancora lunga

Una sfida ancora lunga

Stefano Folli – Il Sole 24 Ore

La bandiera dell’art. 18 e della riforma del lavoro sventola anche sull’altra sponda dell’Atlantico. Il premier Renzi l’ha mostrata al Council on Foreign Relations e il messaggio politico è stato chiaro per tutti. Per gli americani la determinazione dell’ospite italiano e il suo inedito dinamismo sono di certo una piacevole sorpresa. Per chi invece vede le cose dalla vecchia Europa la bandiera renziana non ha segreti da tempo. È un metodo con una logica precisa. L’articolo 18 da abolire è un simbolo che ovviamente il presidente del Consiglio non può né vuole ammainare. E la connessa riforma del lavoro è anche una grande operazione di “marketing” volta a imporre all’estero l’immagine della “nuova Italia”.

In Italia infuria il dibattito sulla reale consistenza del personaggio Renzi, sulla sua capacità di trasformare le declamazioni in fatti concreti, e l’editoriale del direttore del “Corriere della Sera” ha fatto clamore. Ma intanto lui, il diretto interessato, gioca un’altra partita e in America usa il linguaggio ed evoca gli scenari che i suoi interlocutori d’oltreoceano apprezzano di più. È un altro aspetto dell’arabesco che egli sta ricamando con l’opinione pubblica interna e internazionale. Di conseguenza i suoi oppositori nel Pd, quelli che frenano sull’articolo 18, sembrano muoversi in un universo parallelo. E un po’ è vero. A Roma c’è chi ragiona ancora di vecchi partiti e di sindacati, di emendamenti e mediazioni. Ma dagli Stati Uniti la risposta è perentoria: sul piano formale non vengono evocati scenari elettorali, tuttavia le minacce politiche sono implicite e provengono da un uomo che quando è sotto pressione rilancia con spavalderia.

Ora è chiaro che il «gruppo Bersani» non ha interesse a spezzare il ramo su cui tutti sono seduti. In altri termini, i “conservatori” non puntano oggi alla crisi di governo. Però anch’essi, come Renzi, hanno un obiettivo politico: dimostrare che il premier si è spostato a destra ed è prigioniero di Berlusconi. Quei sette emendamenti che la minoranza ha presentato e che il premier respingerà per non apparire sconfitto servono a dimostrare che in un segmento del Pd sopravvive una diversa identità e un’altra idea della sinistra. È possibile che sia solo un’operazione di palazzo e che nel paese non esista sufficiente consenso per queste posizioni. Ma gli anti-Renzi lavorano su tempi medi senza pensare a scissioni.

Intanto lasciano a Renzi la responsabilità di spaccare lui il Pd. Nemmeno questo avverrà: forse, lontano dalle telecamere, si troverà persino un compromesso su qualche aspetto non centrale della legge. Ma il prossimo passaggio della contesa riguarderà la riforma elettorale. Se Renzi otterrà l'”Italicum” in tempi brevi, avrà vinto la sua partita. Se non lo otterrà, dovrà continuare a governare, a meno di non rischiare le urne con la legge proporzionale scaturita dalla Consulta. Facile capire che la minoranza del Pd aspetta il premier al varco quando si tratterà di eleggere il nuovo capo dello Stato, forse nella prossima primavera. Se sarà questo Parlamento a caricarsi della delicata incombenza, le armi di Renzi potrebbero rivelarsi spuntate. I casi di Violante e Bruno sono lì a dimostrare come le attuali assemblee siano difficilmente gestibili e non c’è patto del Nazareno che tenga.

Se si voterà il successore di Napolitano con queste Camere, e non con le prossime, la minoranza Pd, quella che si mantiene prudente, è in grado di impedire il successo del candidato di Renzi, chiunque egli sia. Ed è qui la vera partita. A meno che il premier non riesca a rivolgersi prima al corpo elettorale, il che oggi non sembra probabile.

Il merito di una riforma

Il merito di una riforma

Gianluigi Pellegrino – La Repubblica

Ma di quale articolo 18 stiamo parlando? Di quello vigente o di quello ormai superato due anni or sono? Per fortuna ieri il Jobs act è entrato nel vivo del percorso parlamentare e con la presentazione degli emendamenti, comunque la si pensi, il confronto deve finalmente entrare nel merito. C’è infatti qualcosa di vagamente surreale nella tempesta di questi giorni. Stiamo discutendo della norma vigente o, come monadi impazzite, di quella che la precedeva e che quindi già oggi semplicemente non c’è più? E pure quasi si spacca il Partito del premier. L’intero paese si anima con governo e sindacati per primi che sembrano l’uno attaccare e gli altri difendere, non già l’articolo 18 come è oggi, ma come era prima della riforma approvata 24 mesi fa.

Il punto è rilevante perché le modifiche sono state sostanziali e non a caso agitarono anche allora la resistenza sindacale che infine decise di fare sforzo di buona volontà e di accettarle. E però basta un piccolo sondaggio domestico per verificare che la bufera di queste ore è percepita come se in ballo ci sia il reintegro automatico in caso di licenziamento, che invece la riforma del 2012 ha già ampiamente superato. Fermo il mostro del licenziamento discriminatorio (se vengo messo alla porta perché biondo, ebreo, donna che non è stata carina col capo) sul quale vogliamo essere certi che anche Renzi non abbia dubbi a garantire la massima tutela, negli altri casi, il ripristino del rapporto di lavoro è già oggi tutt’altro che scontato. Subordinato a mille condizioni e altrettante variabili, il reintegro è ormai da due anni ipotesi del tutto residuale e niente affatto automatica.

Peraltro al paradosso sul punto di partenza della discussione si è aggiunta sino a ieri la clamorosa distonia tra il merito, in sé niente affatto minaccioso, della proposta del governo e i toni radicali che invece l’hanno accompagnata sia da parte dell’esecutivo che da parte dei sindacati. E infatti nella norma proposta dal governo non sono affatto citati né l’articolo 18 né il sistema di reintegro. Ci si limita a richiedere che il Parlamento deleghi l’esecutivo a stabilire un sistema di “tutele crescenti secondo l’anzianità di servizio”. Tutto qui. Un concetto laconico e di per sé anche confortante. E però nelle reciproche dichiarazioni si annunciano palingenesi e si risponde con minacce di guerra.

Trattandosi di norma di legge, le parole scritte sono pietre. Quelle che ci sono e quelle che mancano. Allora delle due l’una. O la norma così come proposta non incide affatto sull’articolo 18 per come del resto già ampiamente riformato (ed allora non si capisce di cosa stiamo parlando) oppure si pretende una delega in bianco che però non è ammissibile né sul versante costituzionale né su quello politico. “Tutele crescenti” infatti vuol dire solo che non devono essere decrescenti, e ci mancherebbe altro. Per il resto ancora oggi non è chiaro quale sia la tutela minima, né quella massima che si propone. Tanto meno quale sia la relativa progressività. Anche un deciso allungamento del periodo di prova (portandolo sino a tre-cinque anni), con tutela reintegratoria solo a valle di questo, è un ragionevole sistema a “tutele crescenti” su cui sarebbe ampio il consenso (come dimostrano gli emendamenti presentati ieri) in una logica di giusto riformismo, senza calpestare diritti.

Peraltro non bisogna dimenticare che non parliamo della possibilità o meno di licenziare a buon titolo. L’articolo 18 nemmeno nella sua precedente versione lo impediva. Il tema oggi è del tutto diverso e cioè quale tutela l’ordinamento appresta in caso di abusivo licenziamento. Di questo si parla. Il che dovrebbe suggerire prudenza come sempre quando si mette in discussione il diritto di giustizia in favore di chi ha subito un torto. Se è del tutto legittima la pretesa riformatrice non si può pensare che il Parlamento la approvi in bianco e poi si vedrà. Quanto più la scelta vuole essere innovativa e persino rivoluzionaria, tanto più deve essere chiara, alla luce del sole. Clare loqui, quindi da parte di tutti. Vecchia e nuova guardia, governo e sindacati. Altrimenti sul campo restano solo vessilli, utilizzati obliquamente per rispettive pur legittime finalità che però rischiano di costare troppo al paese. Già in termine di confusione, di cui davvero non sentiamo il bisogno. Né in Italia né in Europa.

C’è la prova: zero soldi per il Jobs Act

C’è la prova: zero soldi per il Jobs Act

Franco Bechis – Libero

Ora è ufficiale: per la riforma del lavoro Matteo Renzi non ha nemmeno un euro a disposizione. Di più: se prima una legge particolare non stanzierà i fondi necessari, tutto quel che è scritto nel Jobs Act non entrerà mai in vigore. Nel Pd dunque si stanno scannando sul nulla, perché anche quella riforma dell’articolo 18 non vedrà la luce se prima non si troveranno i fondi necessari ad allargare la protezione sociale e sarà approvato definitivamente il provvedimento legislativo che li stanzierà.

Il sospetto albergava da qualche tempo anche all’interno del Pd. «Io non sono preoccupato della guerra di bandiere ideologiche sull’articolo 18», confessava ad esempio Beppe Fioroni, «ma ho il terrore che dopo avere alzato tanta polvere inutile si scopra che sotto c’è solo un bluff. Perché allora si gli italiani ci faranno un mazzo così…». Fioroni deve avere un sesto senso, perchè nello stesso testo del disegno di legge sul Jobs act è stata inserita in extremis una clausola finanziaria imposta dalla commissione Bilancio del Senato che rende impossibile l’immediata adozione di decreti delegati come avviene dopo l’approvazione di ogni disegno di legge di delega. Sembra una questione tecnica, di lana caprina, e invece è essenziale.

Nel testo governativo è infatti stata inserita una postilla al comma 3 dell’articolo 6 che disciplina «l’esercizio delle deleghe». Come avevano ricordato fin da giugno i tecnici del servizio Bilancio del Senato, anche i disegni di legge di delega debbono rispettare il nuovo articolo 81 della Costituzione, e quindi dovrebbero indicare subito i mezzi di copertura di eventuali nuove spese. Altrimenti i decreti delegati non possono essere adottati fino a quando non vengono stanziate definitivamente le risorse necessarie. La postilla inserita nel Jobs act stabilisce così che «qualora uno o più decreti attuativi determinino nuovi o maggiori oneri che non trovino compensazione al proprio interno, i decreti legislativi dai quali derivano nuovi o maggiori oneri sono emanati solo successivamente o contestualmente all’entrata in vigore dei provvedimenti legislativi che stanzino le occorrenti risorse finanziarie». Quindi prima di esercitare una delega che venga dal Jobs act debbono essere inserite in un decreto legge ad hoc le coperture necessarie, e se non si può adottare un decreto legge, bisogna affidarsi a un disegno di legge, attendendo però la sua pubblicazione definitiva sulla Gazzetta ufficiale dopo le rituali approvazioni nelle commissioni di merito e nelle aule di Camera e Senato.

Esempio pratico: il tema che fa tanto discutere il Pd – il cambiamento dell’art. 18 – è connesso al progetto di allargare la protezione sociale alle categorie che oggi non hanno quell’ombrello. Un’indennità di disoccupazione larga e decrescente che dovrebbe coprire ovviamente anche gli eventuali licenziati senza diritto al reintegro del nuovo articolo 18. Quindi il decreto delegato che dovrà cambiare lo Statuto dei lavoratori non potrà essere adottato se prima non sarà trovata la copertura finanziaria a quella nuova protezione sociale. Il governo vorrebbe inserire nella legge di stabilita un finanziamento extra di 1,5-2 miliardi di euro. Si tratterebbe però di una copertura parzialissima e quindi non sufficiente ad adottare nel 2015 il decreto delegato di riforma dell’articolo 18. Per farlo bisognerebbe spostare lì tutte le risorse di bilancio oggi utilizzate perla protezione sociale. E poi aggiungere almeno altri 5 miliardi ai due ipotizzati. Solo allora si potrà varare il decreto delegato in grado di attuare quello che sta oggi spaccando il Pd.

Articolo 18, l’atto di fede nelle virtù del licenziamento

Articolo 18, l’atto di fede nelle virtù del licenziamento

Stefano Feltri – Il Fatto Quotidiano

Il punto non è se è giusto abolire l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, ma come decidiamo se è giusto o sbagliato. Le imprese non assumono perché temono di non poter licenziare? Restano nane, sotto i 15 dipendenti, per evitare la soglia che fa scattare l’obbligo di reintegro del lavoratore cacciato senza giusta causa? Ha ragione Renzi o la Cgil?

Per rispondere bisognerebbe avere dei dati che permettano di fare una scelta motivata e non ideologica. In teoria questa volta dovremmo averli. Perché a gennaio è stato pubblicato il monitoraggio della riforma Fornero del 2012 che ha modificato, tra l’altro, l’articolo 18: la novità è che in caso di licenziamento disciplinare o per ragioni economiche giudicato illegittimo (ma non discriminatorio, che è nullo), il giudice può decidere se applicare il reintegro del lavoratore o un risarcimento tra le 12 e le 24 mensilità. Qualcosa è cambiato: l’indice Ocse che misura la difficoltà dei licenziamenti in Italia è passato dal 4,5 del 2008 al 3,5 del 2013 e, come sottolinea il ministero del Lavoro nel documento, è la prima volta che la flessibilità del mercato aumenta grazie alla maggiore facilità di licenziamento di chi ha un contratto a tempo indeterminato (anche se il 75 per cento dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo avviene nelle aziende con meno di 15 dipendenti, e dunque senza articolo 18). Le assunzioni sono aumentate grazie alla modifica dell’articolo 18? La risposta, semplicemente, è che non lo sappiamo. Questo nel rapporto del ministero non c’è scritto. Sappiamo solo che forse un po’ di super precari (tipo lavoro a chiamata) hanno brevi contratti a tempo determinato, leggero miglioramento. Ma cambiare la disciplina del mercato del lavoro in piena recessione non permette di misurarne bene gli effetti.

Qualche economista vi dirà che licenziamenti un po’ più facili rendono anche le assunzioni un po’ più facili, altri sosterranno che o si cancella il reintegro dalle sanzioni o niente cambia, altri ancora vi spiegheranno che è irrilevante l’articolo 18. Ma di solito si tratta di convinzioni personali, viene richiesto un atto di fede più che di comprensione. Tutti i precari italiani scambierebbero il loro co.co.co., co.co.pro. o partita Iva con un contratto a tempo indeterminato e a tutele crescenti. Perché la loro condizione di sicuro non peggiorerebbe. Se invece chiedete loro: “Volete essere facilmente licenziabili il giorno (lontano) che sarete assunti?”, saranno meno entusiasti. Eppure il dibattito sul lavoro parte sempre dalla facilità di licenziamento, anche se non vi è proprio alcuna prova numerica che sia la variabile decisiva.

La battaglia a sinistra e lo spettro del nemico

La battaglia a sinistra e lo spettro del nemico

Alessandro Campi – Il Messaggero

Ora o mai più. La minoranza di sinistra del Pd, che era rimasta come tramortita dalla trionfale vittoria riportata da Renzi alle elezioni europee, dopo un periodo di smarrimento e confusione ha trovato nella difesa dell’articolo 18 e nell’opposizione al Jobs Act proposto dal governo la sua ultima ed estrema frontiera di lotta. Se vince, tornerà ad essere condizionante e potrà prendersi la rivincita su chi ne aveva auspicato l’estinzione. Se perde, sarà per sempre e in Italia, bene o male che sia, si imporrà una sinistra diversa da quella conosciuta per decenni. La battaglia che essa ha deciso di combattere presenta una valenza duplice: strategica e tattica. Lo scontro sul lavoro è culturale in senso nobile e politico-parlamentare nel suo significato più contingente. L’esito, fallimentare o vincente, sarà il frutto convergente di queste due linee d’azione.

Partiamo dal primo aspetto. All’inizio quella di Renzi è parsa una propaganda tutta giocata sul tema del ricambio generazionale fine a se stesso: dentro i giovani, fuori i politici di lungo corso. Ma presto si è capito che erano in ballo altre prospettive e tematiche. La rottura renziana rispetto alla sinistra che governava il Pd, di matrice post-comunista e post-democristiana, riguardava anche il linguaggio, l’estetica e la visione della società. Renzi è un rappresentante dell’era televiso-digitale, ha introiettato i valori dell’individualismo, vive la politica come scontro tra leadership, non sente il peso delle appartenenze ideologiche. Renzi è intellettualmente un semplificatore, ha una cultura di governo che inclina al pragmatismo, non considera la società come una realtà da disciplinare o da indirizzare secondo modelli pedagogici dall’alto, nutre un’istintiva insofferenza per tutto ciò che è apparato o burocrazia, coltiva il mito giovanilistico della velocità e dell’immediatezza. Tutto ciò lo ha messo in urto con la sinistra storica italiana, le sue strutture organizzative, i suoi schemi mentali e i suoi valori di riferimento: il partito come luogo di discussione e confronto tra anime, correnti e gruppi, ma anche come “casa comune” alla quale subordinare la propria personalità; l’ideologia di appartenenza come fattore identitario e strumento privilegiato di analisi della realtà; una tradizione culturale intrisa di pauperismo e avversione per la ricchezza; la subordinazione dell’individuo (e delle sue aspirazioni) alla dimensione collettiva del vivere associato; il moralismo portato al limite dell’intransigenza nel rapporto con gli avversari; una visione socialmente statica e stratificata della società; una relazione sentimentale-emotiva con la propria base elettorale di riferimento vissuta come strutturalmente stabile; la complessità dei ragionamenti e delle analisi sino a sconfinare nell’intellettualismo e nell’astrattezza.

Quella di Renzi, proprio per queste differenze, è stata spesso definita dai suoi critici interni una sinistra, per così dire, troppo di destra, aliena rispetto alla visione convenzionale che si ha di una politica orientata in senso progressista e riformistico. Ma a spazzare i dubbi sull’autenticità e, al tempo stesso, sulla novità della sua proposta ci hanno pensato prima i militanti dello stesso Pd, che lo hanno incoronato segretario attraverso le primarie, poi gli elettori, che gli hanno consegnato percentuali di consenso mai toccate prima da quel mondo e dai suoi rappresentanti. Ma sul nodo del lavoro – che rappresenta in effetti il dna storico-ideologico della sinistra in tutto il mondo, sin dalle origini – si è pensato di poter nuovamente riproporre l’idea che Renzi, con la sua ansia innovatrice, sia in realtà prigioniero di pregiudizi ideologici e di una visione dei rapporti sociali che lo imparenterebbero addirittura con la signora Thatcher, l’esponente del liberismo più nerboruto e aggressivo. Bloccare il Jobs Act, in Parlamento o addirittura ricorrendo ad un referendum tra gli iscritti al partito, è diventato a questo punto un modo – l’ultimo e definitivo – per dimostrare l’eccentricità di Renzi rispetto alla tradizione della sinistra su una tematica che per quest’ultima riveste un valore simbolico prima che politico. Facile vantarsi di essere riformisti quando si combattono gli sprechi della pubblica amministrazione. Ma il bluff ideologico viene a galla quando si tolgono ai lavoratori i loro diritti costituzionali.

Oltre quella identitaria e ideale, c’è poi la battaglia tattica e strumentale. Renzi pensava, dopo essersi impossessato del partito, di poter indirizzare anche il voto dei gruppi parlamentari: scelti quanto Bersani era segretario, ma tenuti per disciplina ad un atteggiamento di lealtà verso il nuovo leader. Si è scoperto che così non è. Per aver gruppi politicamente disciplinati e culturalmente allineati, Renzi dovrà aspettare le prossime elezioni. Nel frattempo deve accettare una guerriglia parlamentare che – alla luce di ciò che è successo ieri: quaranta senatori del Pd hanno firmato gli emendamenti che puntano a bloccare la riforma dell’articolo 18 – potrebbe costringerlo, se vuole tirare dritto sul suo progetto di riforma, ad accettare i voti in aula di Forza Italia. Nascerebbe a quel punto una nuova maggioranza de facto. Ciò autorizzerebbe i suoi avversari interni – che alle pulsioni antiberlusconiane non hanno mai rinunciato, essendosi politicamente formati col mito negativo del Cavaliere nero – a trarne le ovvie conseguenze: una crisi di governo che nei loro piani non dovrebbe però preludere ad elezioni anticipate (del resto esclude dallo stesso Capo dello Stato). L’obiettivo è quello di liberarsi di Renzi, da sostituire magari con l’ennesimo tecnico, non offrirgli l’occasione per un referendum sulla sua persona che, anche senza cambiare l’attuale legge elettorale, vincerebbe a mani basse.

Da un lato, sottraendogli in Parlamento i voti del suo partito, si vuole spingere Renzi tra le braccia di Berlusconi. Dall’altro – come sembra mostrare la vicenda delle votazioni a vuoto sui giudici costituzionali – si vuole fare saltare l’accordo politico tra i due, che la sinistra interna non ha mai digerito ritenendolo innaturale. Sembrano prospettive contrastanti, si tratta in realtà di due strade finalizzate allo stesso traguardo: porre fine al disegno egemonico di Renzi, impedire che un fenomeno politico-culturale che gode di largo credito nel Paese ma ancora in via di strutturazione possa radicarsi alla stregua di un progetto organico. Resta naturalmente da chiedersi quanto in questo disegno demolitore, che unisce spinte ideali a un manifesto cinismo, risponda ad un calcolo politico razionale, che gli elettori progressisti, una volta uscito Renzi di scena, potranno persino apprezzare, o più semplicemente ad una pulsione fratricida, suicida e nichilista, che è la vocazione più autentica della sinistra italiana.

L’articolo 18 sul piatto della bilancia

L’articolo 18 sul piatto della bilancia

Tiziano Treu – Europa

È da anni (troppi) che ci interroghiamo sulle regole del mercato del lavoro. Ho sempre sostenuto, che l’obiettivo da raggiungere, e indicato dall’Europa è una vera flexicurity. Quella attuata nei paesi più virtuosi implica, da una parte, una maggiore flessibilità nel lavoro per rispondere alle nuove realtà delle imprese e alle nuove esigenze delle persone, e dall’altra parte una maggiore sicurezza nel mercato del lavoro, per gestire le sue continue trasformazioni. Servono entrambe. Purtroppo in Italia si sono introdotte negli ultimi anni nuove flessibilità, sia in entrata, da ultimo facilitando il ricorso al contratto a termine, sia in uscita riducendo le rigidità delle regole sul licenziamento. Ma non si è prevista una adeguata rete di sicurezza.

Nonostante le modifiche da ultimo della legge 92/2012 sono ancora quasi un milione i dipendenti che sono privi di indennità di disoccupazione. Ne sono privi tutti i collaboratori e partite Iva, che inoltre non hanno quasi nessuna tutela propria dei lavoratori dipendenti. Anche le Cig e le Cigs lasciano fuori oggi oltre 5 milioni di lavoratori, che potrebbero scendere a 2,5 se ci fosse un grande sviluppo dei fondi di solidarietà (non facile). Questi ammortizzatori sono non solo squilibrati per entità e durata, ma anche privi di strumenti di sostegno e accompagnamento per disoccupati e cassaintegrati. Cosicché si traducono in misure assistenziali, costose e poco utili all’occupazione. Sono queste le vere e proprie ingiustizie che vanno corrette. Esse sono state troppo a lungo tollerate anche dai sindacati, preoccupati soprattutto di proteggere gli insider, cioè i lavoratori “storici”. È su questo che insiste Renzi, per cambiare.

È un impegno difficile, perché estendere gli ammortizzatori costa. Anche senza pensare di emulare quelli danesi o tedeschi servono almeno 2 miliardi secondo le stime iniziali. Inoltre, per correggere l’assistenzialismo degli ammortizzatori tradizionali, occorre uno sforzo organizzativo capace di far migliorare i servizi all’impiego pubblici e privati, mettendoli in concorrenza e dando ai lavoratori la possibilità di scegliere da chi farsi aiutare. A questo mira la delega, con indicazioni abbastanza chiare, se si vogliono prendere sul serio.

Mi auguro che sia la volta buona e che su tale fronte si impegnino tutti, con indicazioni abbastanza chiare, dai parlamentari che devono votarle, alle regioni, che finora sono andate troppo in ordine sparso, agli operatori dei servizi che vanno motivati e qualificati professionalmente e aumentati di numero (anche qui senza pensare di emulare i 110.000 addetti della Germania). Realizzare un sistema universale di sicurezze e di aiuti effettivi sul mercato del lavoro ed estendere le tutele a chi non ce le ha, compresi i lavoratori atipici, dovrebbe sdrammatizzare la questione dell’articolo 18 e dei rimedi contro i licenziamenti ingiusti, come avviene nei paesi della vera flexicurity. Sostengo questa tesi da anni, ma senza esito, anche perché è mancata la verifica, cioè una vera sicurezza sul mercato del lavoro, nonché una crescita sufficiente a sostenere l’occupazione.

L’offerta del governo di attuare finalmente un sistema di sicurezze sul mercato del lavoro è importante. Può servire a milioni di giovani e di lavoratori disoccupati e inattivi. E questo va messo sul piatto della bilancia nel valutare le proposte di modifica dell’art. 18 (che riguarderebbero peraltro solo i nuovi assunti) e nel ridimensionarne la portata. Le modifiche della legge Fornero, pur avendo modificato l’art. 18, con l’intento di ridurre l’ambito della possibile reintegra, non hanno dato certezze perché scritte in modo troppo complicato, aperto a interpretazioni diverse da parte dei giudici. La mancanza di certezze circa la decisione del giudice continua a pesare non solo su questo aspetto del nostro mercato del lavoro.

In altri paesi non è così, sia in quelli in cui la reintegra non è prevista dalla legge, (Spagna, Portogallo, UK, ma anche Danimarca), sia dove è prevista, ma di fatto è usata come extrema ratio (salvo naturalmente i casi di discriminazione). Anche per questo in tali paesi il problema non è stato oggetto di discussioni così estremizzate come da noi, e si è potuto risolvere con soluzioni condivise, più semplici e con maggiore discrezionalità dei giudici. Io stesso avevo proposto nel 2001 un ddl con indicazioni simili; che sono state scartate per un contesto politico e sindacale ostile.

Si poteva non arrivare a questo punto? Forse. Ma occorreva un’altra lungimiranza riformatrice, da parte di tutti, partiti e sindacati. Al punto in cui siamo l’incertezza non può continuare. Anche per questo Renzi ha chiesto di voltare pagina. Ma la nuova pagina va letta tutta. Può essere più europea e più equa, anche cambiando l’art. 18, purché si attui tutto il disegno della legge delega e si varino efficaci misure per la crescita e per l’occupazione, anche forzando l’Europa.

Allargare i diritti, ma quali?

Allargare i diritti, ma quali?

Domenico Cacopardo – Italia Oggi

Non c’è stato nessuno, nei media, che abbia chiesto a qualche esponente della minoranza del Pd: «Quali diritti intendeste allargare? Sostenete che invece di toccare l’art. 18 dobbiamo allargare l’area dei diritti dei lavoratori, spiegateci in cosa consiste la vostra proposta». Secondo me, l’interpellato farfuglierebbe qualche parola in puro politichese. Infatti, si tratta di una bugia bella e buona, annunciata con aria pensosa, proprio per confondere le acque di una discussione che, in realtà, è abbastanza semplice e riguarda l’allentamento delle rigidità dello statuto dei lavoratori, che impediscono all’imprenditore di avere fiducia e di assumere.

I diritti dei lavoratori sono diritti di libertà (sindacale e politica), di sicurezza sociale (assenze pagate), di retribuzione. Tutti, proprio tutti comportano costi per le aziende. «Allargare i diritti dei lavoratori», quindi, significa aggravare i costi del lavoro. Punto. Basterebbe questa constatazione per tappare la bocca ai confusi esponenti delle varie minoranze del Pd, in concorrenza tra loro, pronte, in alcuni casi, a ingrossare le file del vincitore. Alle loro spalle c’è il colosso d’argilla, l’organizzazione che da condizionata dal partito, ne è diventata la condizionatrice: la Cigl. Essa, è il riferimento politico e organizzativo di gran parte della minoranza del Pd, legata mani e piedi al sindacato e alla congerie di soggetti che fanno capo a esso, compresa la cooperazione. Come dimostra la posizione del «riformista d’un mese» Giuliano Poletti, ministro del lavoro e delle politiche sociali.

L’allargamento dei diritti, in un periodo di drammatica crisi come l’attuale, allontanerebbe ogni idea di ripresa, a meno che, scartellando da ogni impegno europeo lo Stato non si desse ad assumere, caricando, ulteriormente, sulla collettività i costi del disastro. Del resto, lo stolido Cofferati si dichiara in questi giorni neokeynesiano e propone un vasto piano di investimenti per recuperare posti di lavoro e rilanciare l’economia. Non lo sfiora il dubbio che i soldi non ci sono; se ci fossero mancano i progetti; e se tutto fosse pronto e disponibile dovremmo muoverci negli angusti spazi concessici dall’Unione europea.

A nessuno al mondo che abbia avuto esperienze produttive, in qualsiasi posizione, verrebbe in mente di rendere ancora più problematiche le assunzioni, lasciando a spasso, senza speranze, per le nostre piazze i giovani, poco qualificati dalla scuola, che vi soggiornano. A nessuno, sano di mente, verrebbe in mente di allargare il ruolo dell’autorità giudiziaria (che è il garante dei diritti) dandole ulteriori facoltà di intervenire nelle gestioni aziendali. Se, quindi, è così intuitivo che «allargare i diritti» è una formula senza costrutto, una follia comunicazionale, perché gente che, per altri versi, conosciamo come ragionevole e posata, la adotta come una bandiera?

Pensiamo a Bersani, solido, spietato burocrate dell’ex Pci, dotato di una naturale bonarietà. Pensiamo al raziocinante Cuperlo, prezioso consigliere alla presidenza del consiglio in anni non lontani, e a tanti altri che si prodigano su questo terreno dichiarando a destra e a manca che il problema non è l’abolizione dell’art. 18, ma, appunto, l’allargamento dei diritti. Se questo accade, non accade per caso. Dalle parti della sinistra Pd, si è capito che quella sull’art. 18 è la madre di tutte le battaglie del renzismo. La sua vittoria determinerebbe la fine di quel poco o tanto di potere che la Cgil esercita ancora nelle aziende, e, per li rami, le possibili influenze che gli eredi di quella che fu una grande armata, il Pci, riescono ancora ad avere sul mondo produttivo nazionale. Probabilmente, lo sa anche la massa dei disoccupati che l’«allargamento dei diritti» è una bugia che può solo prolungare il loro tragico stato rendendolo permanente. Meglio spazzarla via dalla scena il prima possibile.