libero

Bondage tributario

Bondage tributario

Davide Giacalone – Libero

Dal governo dicono: aboliamo il canone Rai. Bravi. Bravissimi. Applausi. Poi leggi con attenzione: hanno in animo di abolire la tassa per il possesso del televisore, ma introducono un obbligo di finanziamento della Rai, proporzionale al reddito e ai consumi, che grava su tutti i contribuenti, anche quelli che non possiedono il televisore. Meno bravi. Molto meno. Vabbe’, non lo aboliscono, ma lo riducono, facendolo passare dagli attuali 113.50 euro a una somma variabile fra 35 e 80 euro. Bravini. Però poi ci ragioni e ti accorgi che no, alla fine il prelievo fiscale aumenterà. E non solo perché sarà più facile colpire l’evasione, ma anche perché sarà lecito colpire le persone oneste. Che non è una bella cosa.

Come al solito, ci tocca ragionare sugli annunci. Costantemente divisi dai testi di legge da un congruo lasso di tempo. Questa volta l’attesa dovrebbe essere breve, dato che siamo alla fine di ottobre e sono prossimi alla stampa i bollettini da inviare agli italiani, in partenza a gennaio. Quei bollettini dovrebbero sparire e il corrispettivo dovrebbe essere pagato con il modello F24. Qui comincia la nebbia, perché dal governo dicono che ciascuna “famiglia” pagherà in ragione del reddito e dei consumi. Ma le famiglie non compilano dichiarazioni dei redditi e non pagano modelli F24, quelli sono i singoli contribuenti. Chi e come calcola il reddito e i consumi familiari? Ancora prima: cos’è una famiglia? Domanda pertinente, perché oggi la Rai non considera “famiglia” neanche marito e moglie, ove risiedano in case diverse, arrogandosi, una televisione di Stato, il diritto di stabilire che non basta un canone, ma ne devono pagare due. Una famiglia, due canoni. Del resto, pensate a tutte le unioni di fatto, etero od omosessuali: in attesa che si concluda l’ozioso dibattito su matrimoni, equiparazioni e diversità, fin qui era chiaro che se sto a casa mia (proprietà o affitto, non cambia) e pago il canone, ove ospiti, a scopo di lussuria o conversazione, un altro individuo, del mio sesso o di sesso diverso, quell’altro non è tenuto al pagamento del canone. Con la novità, invece, paghiamo tutti: quattro conviventi, quattro canoni.

Con la novità, del resto, paga il canone anche la badante del nonno. È stata assunta per assisterlo e conviverci, già oggi la Rai le manda il bollettino, trattandola da evasore senza che minimamente lo sia, ma domani non riceverà la missiva, non avrà casa propria, non possiederà un televisore, ma dovrà pagare. Diciamo che le stiamo fornendo una ragione in più per sposare il nonno. Sperando che il vegliardo sia ancora nelle condizioni di accorgersene e usufruirne, ma mettendo in conto che, in quel modo, ella s’appropria di una parte dell’eredità. Tirate le somme, si raggiunge una vetta d’illogicità ideologica: dopo avere sostenuto la bischerata che se pagassimo tutti pagheremmo meno, si realizza un sistema nel quale paghiamo tutti, paghiamo meno, ma ci costa di più. Segnalo la cosa perché, se riescono a farla, è degna dei manuali sulle perversioni fiscali. Una specie di bondage tributario.

Chiudo segnalando il reiterato imbroglio, dato che la Rai, nel succedersi di vertici politici, tecnici, professorali, al di sopra e al di sotto delle parti, continua a ripetere sempre la stessa solfa: il canone italiano è fra i più bassi d’Europa. È falso. Quel gettito copre il 50% del finanziamento Rai, ed essendo l’altra metà procurata da introiti pubblicitari, facilissimi da raggiungere perché con spazi illimitati, venduti anche a prezzi stracciati, in reti rette da soldi pubblici, ne deriva che ciò che lo Stato, con le sue leggi, garantisce alla Rai è il doppio del canone. Che, a quel punto, non è proprio per niente fra i più bassi d’Europa, ma il più alto. Si obietta: molti lo evadono. Sono dei cattivoni, perché non si evade. Ma hanno ragione, perché è un prelievo iniquo e insensato. Apposta sostengo che va abolito, cancellato, incenerito. Non camuffato e illegittimamente travestito da imposta progressiva sui redditi, quale con questa riforma diviene. E la Rai, come fa a campare? Vende, si ridimensiona. Magari prova anche a fare il servizio pubblico, sempre che si trovi qualcuno in grado di stabilire cosa sia.

Renzi tassa più di Letta

Renzi tassa più di Letta

Franco Bechis – Libero

Al momento la differenza è di 10 miliardi di euro, cifra che è sicuramente destinata a cambiare quando finalmente sarà rivelata la relazione tecnica alla legge di stabilità 2015. Ma fino a quel documento – che non incide sui conti del 2014 – la differenza fra il governo di Matteo Renzi e quello di Enrico Letta è esattamente quella: 10 miliardi. E non è poco, perché si tratta di tasse. Con i suoi provvedimenti fino ad oggi il governo Renzi ha segnato nelle relazioni tecniche che li accompagnavano 13 miliardi e 414 milioni di euro di nuove entrate fiscali. Durante tutto il governo di Enrico Letta, con la sola esclusione delle clausole di salvaguardia future (che vengono contabilizzate solo quando scattano), le nuove entrate nette furono di 3 miliardi e 436,5 milioni di euro (anche in questo caso la fonte è nelle relazioni tecniche dei provvedimenti che accompagnavano disegni di legge e decreti).

Sarete sorpresi dal Renzi tassatore. Il premier in carica sostiene infatti di avere fatto la più grande operazione di alleggerimento della pressione fiscale nella storia di Italia. E si riferisce al suo bonus 80 euro e alla riduzione Irap per le imprese. Gli 80 euro sono effettivamente arrivati in busta paga. Ma tecnicamente quelli erogati nel 2014 non hanno toccato nemmeno di un decimale di punto la pressione fiscale prevista. Era un bonus, una sorta di elargizione da parte dell’esecutivo in carica proprio alla vigilia delle elezioni europee (che infatti hanno premiato Renzi e il suo Pd più o meno come al- l’epoca la scarpa donata ai napoletani prima del voto aveva premiato Achille Lauro e la dc dell’epoca). È stato contabilizzato in aumento della spesa pubblica fra i trasferimenti alle famiglie, e così è stato inserito anche nei provvedimenti di finanza pubblica del governo. Non è andato quindi a diminuire la pressione fiscale complessiva, come invece ha fatto (per cifre molto inferiori) lo sconto Irap alle imprese che ora verrà completamente riassorbito nei 5 miliardi del 2015 previsti dalla nuova legge di stabilità.

Il cosiddetto decreto sugli 80 euro (che comprendeva anche l’Irap) aveva invece in relazione tecnica 10,8 miliardi di maggiori entrate tributarie, altri 4,7 miliardi di maggiori entrate extratributarie e 7,2 miliardi di minori entrate tributarie. La variazione netta che si è portata dietro era di 8,3 miliardi di maggiori tasse. Tre di queste erano state conteggiate per l’aumento di sei punti dell’aliquota di tassazione sulle rendite finanziarie, che è passata dal primo luglio scorso dal 20 al 26 per cento. Al governo Renzi spetta la firma anche sul decreto che fa entrate in vigore la Tasi: è stato il suo primo provvedimento, e poco importa che sia conseguente alle previsioni della legge di stabilità precedente. In quel decreto veniva di fatto riassorbita l’Imu sulla prima casa che il governo Letta aveva cancellato nel 2013: si tratta di 3,7 miliardi di tasse in più sulle famiglie. Ma la cifra è indirettamente aumentata, perché il governo precedente aveva approvato un fondo da 500 milioni per il 2014 da girare ai Comuni finalizzato per legge alla concessione delle detrazioni prima casa e figli per le famiglie con redditi più bassi (per loro la Tasi rappresenta una stangata imprevìsta, perchè di fatto con le detrazioni prima l’Imu non la pagavano).

Come suo primo atto Renzi ha incrementato di 125 milioni di euro quel fondo per i Comuni, ma ha abrogato la finalizzazione.Via le detrazioni, è come fosse aumentata la pressione fiscale sulla prima casa per 625 milioni di euro. Nei mesi scorsi con altri due provvedimenti Renzi ha aumentato la tassazione dei tabacchi di 163 milioni di euro l’anno e – per finanziare l’Ace – le accise sulla benzina di 435,4 milioni di euro in più anni futuri (ma già decisi con legge). Altre piccole tasse messe vanno da quelle inserite nel decreto sulla cultura, al nuovo contributo unificato previsto per i pignoramenti, alle maggiori entrate contributive obbligatorie previste dal primo decreto sul jobs act.

Anche Letta non ha scherzato con le nuove tasse, ma è riuscito ben più del suo successore a equilibrarle con la cancellazione di altri tributi. Ha tolto l’Imu e inserito le detrazioni sulla Tasi (poi cancellate da Renzi). Nella sua legge di stabilità ha messo nuove entrate da 8,5 miliardi di euro (in parte sulle banche), e previsto cali di tasse per quasi 3 miliardi di euro al netto delle clausole di salvaguardia. In tutto 5,6 miliardi in più. Ma ha tolto tasse sulla prima casa e anche su alcuni immobili produttivi per quasi 4,5 miliardi di euro. Ha aumentato la tassazione sui giochi e concesso sgravi contributivi più o meno per la stessa cifra. Ha costretto le imprese ad anticipi di imposta anche consistenti per 655 milioni di euro. Si è trovato di fronte a una clausola di salvaguardia messa da Mario Monti sull’Iva. È riuscito a rimandarla di tre mesi con uno sgravio di 1,05 miliardi di euro. Non è riuscito a farlo per gli ultimi tre mesi dall’anno, con un aggravio identico. Sul 2013 il risultato netto è stato nullo.

LA SCHEDA

Sgravi e aggravi
A fronte di sgravi Irap concessi alle imprese pari a 4,1 miliardi di euro la legge di Stabilità ha cancellato di fatto tutti i benefici sulla medesima Imposta introdotti dal governo Letta: 1,9 miliardi.

Clausola capestro
Qualora in corso d’anno (2015) le previsioni contenute nella finanziaria non fossero rispettate scatterebbe la clausola di salvaguardia che farebbe scattare nuove tasse, sotto forma di Iva e accise. Ben 18 miliardi nel 2016, 24 nel 2017 e addirittura 28 l’anno successivo.

Tagli lineari
Sia sui ministeri sia sulle amministrazioni centrali viene operato un taglio che complessivamente vale 6,1 miliardi. Il meccanismo è quello del taglio lineare applicato dall’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti e tanto criticato.

Regioni spremute
Altri 4 miliardi di risparmi dovrebbero arrivare da «efficientamenti» della spesa nelle Regioni. In questo caso, addirittura, l’esecutivo non fissa neppure le linee guida degli interventi. La scelta spetterebbe ai governatori. Palazzo Chigi non ha tenuto conto nemmeno del lavoro svolto al riguardo dall’ex commissario alla spending review Cottarelli.

L’origine della crisi è Mani pulite: troppe norme uccidono l’impresa

L’origine della crisi è Mani pulite: troppe norme uccidono l’impresa

Giorgio Oldoini – Libero

Nessuno ha il coraggio di ammettere che la perdita di competitività del Paese ha le sue radici nei primi anni Novanta. Da allora, tutte le leggi sono state concepite al solo scopo di «reprimere» il malaffare economico e tutti i cittadini sono diventati presunti colpevoli. Con un crescendo rossiniano inarrestabile: quando ci si accorgeva che nulla stava cambiando, si so- no aumentati i reati e inasprite le pene. I consigli di amministrazione delle società sono occupati da specialisti di diritto penale, mentre chi deve produrre ricchezza, è passato in seconda fila. Nessuna persona onesta e capace ha interesse a occuparsi della cosa pubblica, considerata la continua produzione di dossier e gli arresti facili. In questo modo abbiamo distrutto ciò che restava dell’autonomia individuale, il fattore di sviluppo più spontaneo, originale e utile a disposizione dei governi.

Cari «difensori dell’etica» rinchiusi in polverose stanze, nulla si muove senza l’iniziativa degli imprenditori e lo spirito d’iniziativa è un fattore altamente personale e dinamico, che si basa sugli «incentivi». Il più grande incentivo all’economia è convincere masse d’individui a lasciare il posto fisso e diventare imprenditori. Sarebbe questa l’azione opposta a quella svolta dai governi negli ultimi trent’anni. Occorrono incentivi potenti perché gli individui si decidano ad abbandonare posizioni sicure e per indurre il risparmiatore a rischiare i propri capitali nello sfruttamento di nuovi prodotti.

La prima rivoluzione è di natura culturale: il profitto d’impresa rappresenta un «valore», al pari del lavoro, perché senza il primo non c’è il secondo. La vera sicurezza sociale esiste solo con un alto livello di produzione e un’economia di espansione. Per molti italiani sicurezza significa certezza di conseguire un salario senza troppi sacrifici. Si tratta di una pericolosa illusione perché il mondo è in continuo mutamento e la sicurezza per certi gruppi accresce l’incertezza degli altri. Perché un individuo dotato di normale buon senso s’impegni nella vita d’impresa, è necessario che le possibilità di guadagno superino quelle di perdita. Queste prospettive devono essere chiare e attraenti in modo da stimolare le energie nuove: certezza del diritto, riduzione del costo dello stato sociale e della fiscalità allargata, eliminazione delle burocrazie oppressive, rivoluzione copernicana nelle scuole.

In una democrazia, la principale funzione dell’istruzione è quella d’unire piuttosto che dividere e di diffondere la tolleranza e il mutuo rispetto. È necessario insegnare ai giovanissimi alcuni principi fondamentali dell’economia. Bisogna dimostrare la relazione tra produzione e consumo e che gli elevati salari dipendono dalla produttività dei singoli lavoratori. Si può spiegare in che modo i vari fattori della produzione sono interdipendenti e che i problemi economici del Paese non consistono nel conflitto di classe. Più difficile sarà impedire a un magistrato di motivare una sentenza in funzione dei grandi «principi», costringendolo al semplice richiamo alla legge. Per questo bisognerà attendere un cambio generazionale e un mutamento dell’organo di autogoverno, che punisca i protagonismi diffusi e la tendenza alla giurisprudenza «creativa».

Bisogna insegnare ai giovani che il peggior governo è sempre stato quello del burocrate: esso complica a furia di teorizzare anche le cose più semplici, pensa in termini di regolamenti e di leggi, desidera costruire una socie- tà che abbia una regolarità geometrica e non si rende conto che in questo modo distrugge la libertà esistente e l’attività dei singoli. L’uomo semplice che govema un’impresa, che conosce per esperienza professionale il piacere e l’efficacia del lavoro concepito e compiuto in libertà, è meno pericoloso quando è al potere perché non c’è bisogno di dirgli che la legge è una cosa pericolosa, che può distruggerlo invece di aiutarlo.

Danno e beffa ai pensionati, la stangata è pure retroattiva

Danno e beffa ai pensionati, la stangata è pure retroattiva

Antonio Castro – Libero

Non solo Matteo Renzi vuole aumentare le tasse sui rendimenti degli investimenti dei fondi pensione dei professionisti privati (dal 20 al 26%), e innalzare quelle sui guadagni realizzati con l’accumulo dei versamenti delle polizze integrative (dall’11,5 al 20%), ma intende anche farlo retroattivamente partendo dal 1˚ gennaio 2014, ovvero quando a Palazzo Chigi c’era ancora il suo predecessore Enrico Letta.

Spulciando tra le bozze (non bollinate) della legge di Stabilità 2015 è saltato fuori, infatti, che il balzello non si applicherà solo dal 2015, ma è addirittura retroattivo al gennaio scorso, in barba allo Statuto dei contribuenti e al buon senso. Casse private e fondi integrativi saranno sottoposti a un prelievo straordinario che, tirando le somme, supererà complessivamente i 500 milioni di euro. Prelievo che metterà in difficoltà le casse e che azzererà qualsiasi welfare di categoria (sussidi ai disoccupati, prestiti, case di riposo, ecc). Con un patrimonio di oltre 61 miliardi (di cui 8 investiti in titoli di Stato), le 19 casse previdenziali dei professionisti rappresentano del resto un tesoretto che fa gola a qualsiasi governo, ma che mai era stato così violentemente intaccato.

Da qualche anno, ai fini statistici Istat e Eurostat, il patrimonio privato delle Casse viene computato nelle voci in attivo dello Stato, come se si trattasse di asset pubblici. Ma si tratta solo di un giochino contabile (ideato dall’ex ministro Giulio Tremonti), per dimostrare a Bruxelles che i conti dell’Italia non sono/erano poi così disastrosi. In verità gli enti pensionistici rientrano nel «perimetro dello Stato», solo perché gestiscono un servizio pubblico (la previdenza), sono sottoposti al controllo dei ministeri vigilanti (Lavoro e Tesoro), ma neanche un euro di questi soldi viene dalle casse pubbliche. La privatizzazioni degli enti, e l’autonomia di gestione e investimento, è stata barattata decenni addietro (1995) dimostrando la sostenibilità attuariale dei conti previdenziali e garantendo così che la fiscalità pubblica non sarà costretta a coprire eventuali disavanzi. Di più: con la famosa ministra Elsa Fornero alle casse venne chiesto uno sforzo ulteriore: dimostrare la sostenibilità previdenziale e finanziaria a 50 anni.

Insomma, sono stati fatti i calcoli e applicati interventi e riforme per non far esaurire il patrimonio e garantire così, per il prossimo mezzo secolo, l’erogazione delle pensioni. Le casse hanno tutte (tranne una), superato questo stress test previdenziale, ottenendo dal ministero del Welfare il sigillo della sostenibilità. Se ora però si cambiano le regole e si raddoppia quasi la tassa sui rendimenti degli investimenti (unico caso in Europa di doppia imposta), c’è il rischio che alcuni enti non riescano a far quadrare i conti. E senza la sostenibilità futura potrebbe scattare il commissariamento da parte del Welfare e quindi l’assorbimento (patrimonio incluso) nel SuperInps, che nell’immediato avrebbe solo da guadagnarci dall’ingoiare i patrimoni dei professionisti. Solo che dopo questa annessione le pensioni accumulate (e i relativi contributi e rendimenti) verrebbero regolate dall’Inps, quindi dal governo. Domani, 23 ottobre, i presidenti delle Casse riuniti nell’Adepp, decideranno le contromisure. E hanno già minacciato di vendere in blocco gli investimenti in titoli della Repubblica italiana (8 miliardi circa).

E che dire del salasso sulla previdenza integrativa? Per decenni (dal 1993 all’altro ieri), governi ed esperti previdenziali ci hanno fato venire il mal di testa ripetendoci che dovevamo mettere da parte qualcosa in più per la vecchiaia, perché con il sistema contributivo meno generoso del retributivo sarebbero statiti guai. Ora la legge di stabilità consente di dilapidare il trattamento di fine rapporto (Tfr) per campare oggi da cicale, fregandosene del futuro di povertà. L’aumento della tassazione dei proventi percepiti dai fondi pensione integrativi (patrimonio 2013 110 miliardi), passa infatti dall’11,5% (era l’11% fino ad aprile, primo scippo targato Renzi), al 20%, e avrà efficacia retroattiva dal 1˚ gennaio 2014. C’è di buono che per chi avesse già incassato al momento della pubblicazione della legge (fine dicembre 2014?) il tesoretto personale messo da parte (per i vecchi iscritti è possibile infatti chiedere la liquidazione di tutto quanto accumulato invece di incassare una rendita mensile), dovrebbe scattare una parziale compensazione, ovvero il fisco non reclamerà le maggiori tasse sui riscatti avvenuti nell’anno. Anche per gli enti non commerciali e le fondazioni bancarie aumenterà retroattivamente l’imposta. In tutto Renzi è a caccia di 3,6 miliardi. Nero su bianco, sulle slide della scorsa settimana.

Legge di stabilirà

Legge di stabilirà

Davide Giacalone – Libero

Più che una legge di stabilità si avvia a essere una legge di stabilirà. Nel senso che si modella e adatta con il passare delle ore. Il tempo passato dall’annunciazione alla presentazione è servito anche per far tesoro dello sgomento suscitato nel sentir dire alcune cose. Per esempio: la decontribuzione annunciata, sulle assunzioni a tempo determinato, era di 6200 euro, ma trattavasi di un errore, perché già ci sono aziende che avrebbero diritto a una decontribuzione superiore, sicché nel testo che sarà presentato in Parlamento (dove ancora neanche c’è) quel limite sarà alzato a 8060. Vedremo cosa combineranno con il Tfr, i cui errori sono stati qui illustrati per tempo.

Originale la teoria illustrata da Yoram Gutgeld, consigliere economico di Matteo Renzi: se le norme esistenti si dimostrassero più convenienti di quelle che stiamo preparando, il contribuente potrà attenersi a quelle che preferisce. Lui si riferisce alle agevolazioni per le partite Iva, ma, certo, ha tutta l’aria d’essere un bislacco principio generale: noi ideiamo agevolazioni, che annunciamo a raffica, ma se, eventualmente, la legge preesistente fosse migliore di quella da noi magnificata, niente paura, potrete continuare a usarla. In espansione, se non altro, c’è la fantasia.

Direi che dalla scuola alla giustizia la nouvelle vague governativa s’è l’asciata un po’ prendere la mano dall’ebrezza della consultazione popolare: noi annunciamo una cosa, stilando un menù che non comporta scelte, e voi siete liberi ciascuno di dire la propria. Tanto nessuno sta a sentire. In campo fiscale sembra ci sia un salto di qualità: mettiamo in parallelo un paio di sistemi e voi scegliete quello in cui vivere. La legge di stabilirà. Intanto, per non rendere noiosa la vita, continua la serrata campagna degli annunci. Immagino che al Quirinale si siano domandati: ma se ci hanno appena consegnato il testo della legge di stabilità, perché l’idea degli 80 euro alle mamme non c’è e sono andati a illustrarla in un salotto televisivo? Non so cosa si siano risposti. Di certo, un tempo erano più arcigni e meno comprensivi.

Una cosa buona, comunque. O no? No, non lo è. È una roba demagogica e controproducente. Lasciando da parte la fissazione per il numero 80, che non si capisce per quale logica quantifica i regali governativi, è bene rendersi conto che questa perversione laurina comporta una concezione della società come fossimo tutti minorenni, pronti a gioire per le mance temporanee. In una società maggiorenne le famiglie hanno bisogno dei servizi che le affianchino nella gestione dei bambini, a cominciare dagli asili nido. In una società maggiorenne la fiducia nel futuro discende dalla crescita economica, quindi dalla ragionevole certezza che lavorando si possa giovarsene. Mentre è tipico di una società minorenne il supporre che si possa dare e prendere senza che questo sia legato al produrre. Certo che 80 euro, al mese, tornano utili quando si affrontano le spese per un bambino, e certo che prendere gli applausi è cosa piuttosto semplice, annunciandoli, ma il bambino sopravvive ai tre anni e se non ci sono asili a sufficienza si perde partecipazione al lavoro degli adulti. Poi supera i sei anni, e se nelle scuole trova gli stabilizzati anziani avrà un’istruzione carente. E se lo mandiamo in scuole analogiche, con testi stampati e senza digitalizzazione non solo gli rubiamo capacità, ma rubiamo soldi alle loro famiglie, come capita anche quest’anno. Poi supera i diciotto, e se si trova in università chiuse alla concorrenza e autoreferenziali nell’assegnazione delle cattedre diventerà un analfabeta laureato. Ci sono toghe che non compitano nell’italico idioma. A quel punto che gli diamo, il contributo per disadattamento al lavoro e al mondo?

Quando i soldi sono troppi può capitare di contrarre i vizi dell’agio e dell’improduttività. Ma ora i soldi sono pochi e spenderli fuori dal rilancio di istruzione e produzione è un delitto. Salvo prendere applausi, per la legge che solo poi stabilirà

Speso 1 miliardo per tenere le miniere aperte

Speso 1 miliardo per tenere le miniere aperte

Libero

Servirebbe uno storico, più che un contabile, per mettere in colonna i costi per mantenere in vita le miniere sarde. Dal 1971 ad oggi (anzi fino al 2027, data in cui è prevista la messa in sicurezza e la bonifica delle 7 miniere sarde), si stima (per difetto) che gli italiani abbiano sborsato oltre 1 miliardo di euro. Chi ci prova a fare di conto – considerando anche un cambio di valuta, dalle lire all’euro – stima che siano stati spesi 930 miliardi di lire dal 1971 al 1996 (l’anno in cui la Regione Sardegna si è accollata gestione e debiti delle 7 miniere sarde del Sulcis). Poi però – ma è sempre una stima per difetto – per le miniere finite sotto il controllo pubblico, sono stati spesi almeno altri 600 milioni di euro.

“Spannometricamente” si può tranquillamente ipotizzare che le miniere sarde – che dovranno definitivamente chiudere entro il dicembre 2018 – siano costate ad oggi circa 1,1 miliardi di euro. E senza tener conto che negli ultimi anni sono stati assunti altri addetti (soprattutto ingegneri). Nei prossimi 4 anni andranno in pensione (probabilmente con lo scivolo per i “lavori usuranti”), circa 470 dipendenti. Resterebbero da ricollocare un centinaio di addetti che probabilmente verranno accompagnati alla pensione con sussidi e interventi reiterati anno dopo anno. Costa denaro pubblico mantenerle aperte ma ancora di più chiuderle. Altri quattrini arrivano anche per riconvertirle ad attrazione turistica. Lo scorso agosto, sempre la Regione Sardegna ha stanziato un discreto malloppo (Assessorato all’Industria), per il recupero «di aree interessate da attività estrattive». Il bando è scaduto il 4 agosto: stanziamento massimo 250mila euro a Comune. Scusate se è poco…

Sanità, gli sprechi sui ricoveri: mensa, rifiuti, bucato

Sanità, gli sprechi sui ricoveri: mensa, rifiuti, bucato

Claudio Antonelli – Libero

La sanità non smette mai di stupire. Ieri abbiamo spulciato le enormi differenze di costo per prestazione che separano il Veneto dalla Campania e Bolzano da Aosta. Andando a setacciare le spese non sanitarie (per un pasto o per la lavanderia dei pazienti) si scopre che anche all’interno della stessa Regione ci sono Asl o strutture ospedaliere che spendono per lo stesso servizio anche 8 volte tanto. Con una forbice abissale e ingiustificata. Prendiamo la spesa media per nutrire un degente (valore calcolato per singolo paziente sulla media dei giorni di degenza nell’anno 2006) negli ospedali del Lazio. La media si avvicina ai 140 euro, ma ci sono strutture che ne spendono 200 e altre 24. Senza uscire dai confini della regione. Il Piemonte viaggia sulla stessa onda spendendo da un minimo di 55 euro a un massimo di 200. L’Emilia Romagna stringe di poco la forbice: da 49 a 175. Il Veneto per lo stesso servizio spende una media di 70 euro con picchi compresi tra i 25 e i 100. La Regione più virtuosa nel fare economia di scala per l’alimentazione dei degenti è in assoluto la Basilicata. Spesa media 45 euro e pochissima fluttuazione: non più di 50 euro e non meno di 37. Prendendo tutti i valori di spesa e facendo una semplice media nazionale il risultato sarebbe un bel 96 euro, ma il compito dei costi standard è ben diverso. Si tratta di far emergere comportamenti come quelli della Basilicata e spezzare le dinamiche della Campania che pur avendo sbalzi inferiori al Lazio chiude la classifica con una media di poco inferiore ai 150 euro.

Se il nutrimento dei pazienti vi ha stupito, le differenze di costi per lo smaltimento dei rifiuti appaiono stratosferiche tanto da lasciare senza parole. Le Asl in Valle d’Aosta sborsano (valore calcolato per singolo cittadino residente in un anno) sei euro e mezzo, quelle lombarde circa 20 centesimi. Entrambe le Regioni non hanno picchi. Al contrario dell’Abruzzo che non solo si piazza con una spesa elevata media (quasi 4 euro) ma anche con sbalzi che viaggiano tra i 2,3 euro e i 7,5. Se prendiamo la stessa tipologia di spesa ma applicata agli ospedali (valore calcolato per singolo paziente sulla media dei giorni di degenza nell’anno 2006), Milano smette di essere la più virtuosa (media di circa 20 euro e picchi compresi tra gli 8 e i 45 euro) e lascia il podio alla Sardegna che si attesta su una media di 8 euro e un massimo inferiore ai 20. Se invece si torna a valutare le Asl, quelle sarde spendono di media 2 euro (valore calcolato per singolo cittadino residente in un anno). Esattamente dieci volte tanto quello che spendono le Asl lombarde.

Non da meno appare il capitolo pulizia e lavanderia. Per le strutture ospedaliere (valore calcolato per singolo paziente sulla media dei giorni di degenza nell’anno 2006) è possibile identificare un valore di riferimento su base nazionale di circa 196 euro. Ma è quasi teoria. A Napoli la media è di 250 euro. In alcune strutture se ne spendono 50 e in altre addirittura 550. Il Friuli Venezia Giulia e il Veneto spendono invece 200 e 220 euro senza picchi. Il Lazio risulta sostenere i costi più elevati nella media con massimi fino a 450 euro. La Puglia ha una media di 140 euro e una forbice compresa tra 130 e 150.

Se poi si passa alle Asl (valore calcolato per singolo cittadino residente in un anno) la classifica cambia di nuovo. La Puglia scende a metà graduatoria. Spende 15 euro di media per residente, 25 come punta massima e 8 come cifra minima. Le Asl lombarde, le più virtuose, battono tutte le altre con 2 euro per residente, senza alcun particolare sbalzo. Spendendo di fatto addirittura 68 euro in meno rispetto all’Asl di Bolzano che paga di più per smaltire i rifiuti. Evidentemente in Lombardia si fa economia di scala, a Bolzano tutte le Asl in ordine sparso. Uno spreco assurdo.  Che secondo uno studio di due anni fa (su dati del 2006) dal titolo “Analisi del Trend delle spesa sanitaria” redatto dalla Cattolica di Roma e dall’Università di Tor Vergata vale complessivamente circa 900 milioni di euro all’anno. Intervenendo con una spending review sulle sette micro aree di spese prese in considerazione (dalle pulizie al costo dei pasti) che pesano non più del 4,5% del budget sanitario totale si potrebbe risparmiare tra il 27% e il 33% dei costi messi a budget.

Stando ai numeri dello stesso studio dagli sprechi sembra salvarsi solo la spesa per i farmaci. Calcolando il costo delle strutture ospedaliere per paziente (valore calcolato per singolo paziente sulla media dei giorni di degenza nell’anno 2006) il valore nazionale è di 500 euro. E gli sbalzi sono contenuti, a parte il Friuli che ha dei picchi di 3.500 euro. Mantenendo però una media ponderata di circa 550 euro. Di altra natura la tabella che può essere considerata riassuntiva. Per l’acquisto di beni e servizi da parte delle Asl (valore calcolato per giornata di degenza pesata sulla media della popolazione residente) la Regione Lazio spende mediamente 400 euro, il Veneto 350 e la Basilicata 470. E anche qui l’anomalia è nei picchi. Il Lazio spazia da un minimo di 150 a un massimo di ben 1000 euro, il 150% in più della media regionale. Lo stesso la Basilicata, che viaggia tra i 320 e i 600 euro. La Lombardia si attesta su una media di 320 euro, ma con oscillazioni tra i 200 e i 500. Comunque poco se si considera che tra il massimo lombardo e quello laziale c’è esattamente il 100% in più.

Non è dunque difficile capire che con una gestione oculata dei prezzi in poco tempo si risparmierebbero l’equivalente di mezze leggi Finanziarie. Il vantaggio é ancora più evidente se si considera che la spesa complessiva (e non solo quella delle micro aree analizzate dallo studio) delle Asl alla voce “servizi non sanitari” ammonta a 4 miliardi e 436 milioni in un anno. Ogni giorno di degenza (giornata di degenza pesata) comporta per un’Asl una spesa di oltre 800 euro a paziente. Su questa somma i servizi non sanitari – dati forniti da Altroconsumo – incidono mediamente per 63 euro al giorno. Ma in media. In Lombardia tale spesa si limita a 22 euro e in Umbria è quattro volte tanto (92 euro). Alla Ulss di Pieve di Soligo (Treviso) le utenze telefoniche costano 580.000 euro all’anno, pari a 3,27 euro per giorno di degenza. All’Asl H di Roma la stessa bolletta pesa per quasi 2 milioni di euro all’anno, pari a 5,91 euro per ogni giorno di degenza. Applicando lo stesso sistema di calcolo dello studio della Cattolica e di Tor Vergata, il risparmio complessivo solo nelle Asl sarebbe di circa 1,2 miliardi. Ma non è finita. Se tutte le strutture regionali fossero allineate ai costi standard – ha spiegato uno studio del Cerm del 2010) nel 2009 avremmo potuto risparmiare ben 4,3 miliardi di euro.

La sinistra fa condoni ma gli cambia nome

La sinistra fa condoni ma gli cambia nome

Maurizio Belpietro – Libero

Basta la parola, diceva Tino Scotti in un famoso spot di Carosello quando la tv era ancora in bianco e nero. Eh, si, basta la parola. O meglio, basta cambiare la parola e tutto diventa più accettabile. Da losco e brutto che era, con una parola diversa il provvedimento di un governo può diventare infatti ineccepibile e perfino bello. Ecco, si cancelli dunque il termine condono e lo si sostituisca con sanatoria, che derivando da sanare, cioè rendere sano, non fa lo stesso effetto di condono, che già da solo fa intravedere un dono. Anzi, meglio, chiamiamo la all’inglese voluntary disclosure, rivelazione volontaria, manco fosse l’annunciazione. E così, il tanto esecrato condono fiscale, ossia la madre di tutti gli orrori che a detta della sinistra favoriscono l’evasione fiscale, cambia nome e con il governo del cambiamento di verso diventa sanatoria fiscale.

A darne notizia ieri era la gazzetta dei compagni, ossia il giornale che ha tenuto a battesimo l’ascesa del presidente del Consiglio e di tutti i leader progressisti negli ultimi anni. Sulla Repubblica di Carlo De Benedetti, editore che ama a tal punto l’Italia da aver trasferito la sua residenza in Svizzera, si poteva infatti apprendere del prossimo arrivo di una sanatoria da 6 miliardi e mezzo. «Con il rientro dei capitali», titolava il quotidiano diretto da Ezio Mauro, «sconti a chi ha evaso in Italia». Magari ai lettori di Repubblica sarà saltata la mosca al naso a leggere che alla fine anche il governo del rottamatore rottama la lotta a chi ha portato i soldi all’estero, tuttavia per tranquillizzare chi aveva avuto il buon cuore di acquistarne una copia, il giornale di piazza Indipendenza precisava che sì, per i furbi ci sarebbero state sanzioni ridotte e reati cancellati – tranne che per chi ha emesso fatture false e si è macchiato di reati di mafia – ma la legge avrebbe imposto di dichiarare il nome del possessore di patrimoni non denunciati e il pagamento delle imposte.

Eh, già, ma quali imposte? n provvedimento vidimato alla Camera e ora in discussione al Senato dovrebbe imporre un’aliquota media del 37 per cento nel caso i soldi siano del tutto sconosciuti al fisco, mentre quelli su cui non si sono pagate le cedole potrebbe essere tassato con un’aliquota media del 6,75 per cinque anni. Insomma, un bei risparmio per gente che fino a ieri rischiava di vedersi requisito il patrimonio. Oggi invece con la nuova normativa in corso di approvazione, il contribuente infedele potrà tenersi il malloppo versando un po’ di soldi all’erario e senza alcun rischio penale. Considerato poi che le sanzioni applicate per il rientro di capitali all’estero che non erano stati dichiarati sono ridotte della metà e alla fine si pagherà l’1,5 per cento se le somme erano detenute in paesi appartenenti alla white list (e cioè non considerati paradisi fiscali) e del 3 per cento se invece sono depositati in banche che risiedono nei luoghi della black list (tipo quelle svizzere, dove sta l’80 per cento dei capitali all’estero) si capisce che la cosiddetta “voluntary disclosure”, ossia collaborazione volontaria dell’evasore, è assai conveniente. condono – pardon, la sanatoria consente di tenersi i soldi, versando le tasse non pagate a rate e con un’aliquota media comunque assai più conveniente di quella che si sarebbe stati costretti a pagare se si fosse dichiarato tutto al Fisco. Anche perché l’aliquota media per certi redditi (sopra i 300 mila) è pari al 45 per cento, mentre per certe aziende va oltre il 50. Insomma, se – pur con i ritocchini linguistici e i giochi di parole del politically correct – la sinistra è arrivata a varare un condono fiscale, significa che il governo sta proprio raschiando il barile nella speranza di trovare quei miliardi che gli servono per varare la legge di stabilità.

Del resto la sanatoria con l’erario non è l’unica notizia che fa intendere come il governo sia con l’acqua alla gola. È di ieri l’annuncio che dopo aver tassato i fondi pensione e introdotto la tassazione ordinaria (cioè meno favorevole per il contribuente) per il Trattamento di fine rapporto, l’esecutivo si appresta a far slittare di dieci giorni il pagamento delle pensioni, spostando la scadenza di erogazione dei vitalizi dalla fine del mese al dieci del mese successivo. La novità – che verrà introdotta a partire da gennaio – consentirà all’Inps – e dunque a Palazzo Chigi che ne ripiana le perdite – di guadagnare una decina di giorni sull’erogazione delle somme a chi si è ritirato dal lavoro, un ritardo che permetterà allo Stato di risparmiare un po’ di quattrini. In genere questi trucchi li fanno le banche, che sulla valuta di pochi giorni costruiscono parte dei loro guadagni. Adesso il gioco lo fa anche il Tesoro, il quale si abbassa al livello dei caimani dello sportello. A quando dunque l’introduzione di altre gabelle tipo quelle che gli istituti di credito sono soliti infilare nei loro estratti conto? Di questo passo per incassare la pensione presto si dovrà pagare.

Trappola fiscale a ripetizione

Trappola fiscale a ripetizione

Davide Giacalone – Libero

Il Tfr era il Trattamento di fine rapporto, ora diventa una Trappola fiscale a ripetizione. Avevamo avvertito che metterlo in busta paga avrebbe comportato un aggravio fiscale, sulle spalle del lavoratore. Ci era stato risposto che giammai sarebbe accaduto e che ci sarebbe stata una contabilità separata, mantenendo le aliquote agevolate. Non solo la nostra previsione s’è dimostrata esatta, ma si è andati assai oltre la più turpe fantasia: il Tfr è maggiormente tassato sia che se ne accetti una parte mensilmente, sia che lo si lasci accantonato. A questo punto, se non cambiano tale demoniaca architettura, il provvedimento si caratterizza per: a. sottrazione di soldi al lavoratore; b. vantaggio solo per il fisco; c. Incostituzionalità.

Andiamo con ordine. Il nostro ragionamento era: il Tfr è un risparmio forzoso che genera un reddito differito, tassato alla media delle aliquote pagate dal lavoratore negli ultimi cinque anni; dal momento che non viene più forzato e differito, resta un reddito; essendo un reddito è tassato all’aliquota marginale. Non accadrà, dissero. E’ accaduto. Ma non vorrei sfuggisse il satanismo che ciò porta con sé: non solo si pagano più tasse, ma se quei soldi in più fanno scattare uno scaglione fiscale superiore si pagano più tasse di quel che si incassa. L’aliquota marginale, inoltre, è superiore anche a quella attualmente prevista per chi decida, come stabilisce la legge, di attingere anticipatamente al Tfr, quindi la raspa fiscale agisce anche lì. Il tutto senza contare che aumenta l’assurdità degli 80 euro di restituzione fiscale a chi ha un reddito lordo inferiore a 26mila euro. Cosa succede se con il Tfr lo supera? Nulla, dicono i governativi. Li perde, dico io. E mi dispiacerebbe avere ragione per la seconda volta. Ma temo sia così.

Vabbe’, ma non è mica obbligato a prenderli. Il lavoratore fa i suoi conti e decide di non accettarli, lasciandoli all’accantonamento. Sembra non fare una piega, ma solo per chi non sa far di conto. Perché, contemporaneamente, aumenta la tassazione sul risparmio, che per ragioni di mera propaganda è ribattezzato “rendita finanziaria”. Che fa tanto ciccione capitalista profittatore. Invece colpisce i lavoratori, passando dall’11,5% al 17 per chi lascia i soldi in azienda, dall’11,5 al 20 per chi li ha messi in un fondo pensione, e dal 20 al 26 per le casse autonome dei liberi professionisti. Quindi c’è un incentivo a prenderli, dato dal fatto che se li accantoni paghi di più. Ma se li prendi paghi, ugualmente di più. Dal che discendono due follie: a. è considerata accumulazione di ricchezza l’accantonamento obbligatorio; b. lo Stato ha invogliato i lavoratori a scegliere la previdenza privata, salvo punire chi gli ha dato retta.

Da qui si giunge al capolavoro, l’incostituzionalità. Lo ha rilevato anche Matteo Richetti, parlamentare del Partito democratico e matteiano di sicura fede, sia per ragioni personali che di corrente: se ai lavoratori pubblici si nega la possibilità di scegliere, prevista per quelli privati, si introduce una distinzione che non è compatibile con la Costituzione. Aggiungo che sono esclusi anche altri lavoratori privati, come quelli agricoli o i collaboratori domestici. Il che non solo non cancella le diversità, ma le moltiplica. Richetti, però, individua correttamente un aspetto d’incostituzionalità, ma gli sfugge l’altro: “La Repubblica italiana incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme”, articolo 47. Alla faccia, qui si munge anche il risparmio che mi avete obbligato a fare.

Sul Tfr un’operazione seria è possibile: abolirlo, restituendo l’intero capitale accumulato e tassandolo come previsto prima di questa pazzotica innovazione. Il problema si crea nelle aziende sotto i 50 dipendenti, che possono essere accompagnate con crediti a pari scadenza, garantiti dalla Cassa depositi e prestiti, il cui tasso sia pari alla prevista remunerazione del Tfr. Fuori da questo c’è solo il sabba fiscale, con la liquidità residua che viene assorbita dagli aumenti delle tariffe amministrate. Con tanti saluti alla ripresa dei consumi.

Col Tfr in busta pensioni giù fino al 22%

Col Tfr in busta pensioni giù fino al 22%

Fosca Bincher – Libero

Cedere alla proposta di Matteo Renzi e aderire alla proposta sul “Tfr nello stipendio” potrebbe mettere a rischio e non di poco quella pensione integrativa che faticosamente si è tentato di fare mettere da parte in questi anni. La certezza di vedere diminuire l’assegno c’è per tutti: alla fine dei conteggi mancheranno quei versamenti a cui si rinuncia ora per incassare subito (facendosi per altro tassare di più quella somma). Ma il taglio sarà tanto maggiore quanto più vicini alla pensione si è ora. A segnalarlo, una simulazione ancora una volta assai preziosa fatta dalla Fondazione studi dei Consulenti del Lavoro: farsi ingolosire dalla sirena di Renzi potrebbe costare fra l’8 e il 22% dell’assegno mensile di previdenza integrativa che si percepirà quando si potrà andare in pensione.

Proprio la percentuale più alta chiarisce bene un punto chiave: quella possibilità di ottenere il Tfr in busta paga non è un dono fatto dal governo ai contribuenti italiani, ma la proposta di un prestito dietro cessione di un quinto dello stipendio e con grande lucro da parte dello Stato, che incassa un bell’interesse sull’operazione attraverso la maggiore imposizione fiscale. Per il contribuente italiano è più svantaggioso però di un normale prestito ottenuto da qualsiasi banca o finanziaria: perché in quel caso la cessione del quinto dello stipendio sarà limitata al raggiungimento della somma chiesta in anticipo più i relativi interessi. Nel caso proposto da Renzi sul Tfr la cessione del quinto (o del decimo nei casi più lievi) della pensione integrativa futura varrà tutta la vita, e quasi sempre supererà ampiamente il vantaggio economico che ora si percepisce.

Sono tre le simulazioni fatte dalla Fondazione studi dei consulenti del lavoro: quella di un giovane di 33 anni entrato nel mondo del lavoro nel 2007, aderendo fin dal primo giorno al sistema di previdenza integrativa con accantonamento del proprio Tfr. Il secondo caso è invece quello di un lavoratore di 43 anni assunto nel 1997 che versa il proprio Tfr alla pensione integrativa dal 2007. Terzo caso, quello di un lavoratore sessantenne, più vicino all’età della pensione: assunto la prima volta nel 1980, versa anche lui il Tfr alla pensione integrativa dal 2007. Aderendo alla proposta Renzi tutti e tre avranno tagliato per i mancati versamenti fra il 2015 e il 2018 la propria pensione integrativa.

Sarà un escalation: quel lavoratore assunto nel 2007 perderà il giorno in cui andrà in pensione l’8% del proprio assegno di pensione integrativa. E lo perderà dal giorno in cui lo percepirà fino al giorno in cui chiederà gli occhi. Quindi per 20-30 anni a seconda della lunghezza della propria vita. In valore assoluto ovviamente l’erosione dell’assegno futuro dipenderà dalla retribuzione oggi percepita: il danno va da 481,12 euro su 17 mila lordi di stipendio a 2.886,73 euro circa su 100 mila euro di stipendio.

Secondo caso: età 43 anni e ingresso nel mondo del lavoro datato 1997. Aderendo oggi alla proposta Renzi sul Tfr, l’assegno di pensione integrativa verrà tagliato dell’11% per tutta la vita. Anche in questo caso sono state ipotizzate tre fasce di reddito attuale, e in valore assoluto la diminuzione della pensione integrativa andrà da 386,95 a 2.321,69 euro l’anno (con fasce di reddito fra 17 e 100 mila euro lordi annui).

Terzo caso, quello del sessantenne che ha iniziato a lavorare nel 1980. Per lui scegliendo proprio alla vigilia della pensione il Tfr in busta paga, la perdita percentuale sull’assegno di pensione integrativa sarà la più alta: -22% dell’importo. In valore assoluto si oscilla sugli stessi redditi ipotizzati per gli altri fra 242 e 1.452 euro (in valore assoluto più si è anziani più si abbassa l’importo di pensione integrativa a cui si ha diritto, perché i versamenti sono iniziati solo a fine carriera, nel 2007).

I danni sono dunque rilevanti, ed è giusto che la scelta venga fatta con tutti i calcoli su vantaggi e svantaggi. Anche se è chiaro fin da ora che chiunque aderisca alla proposta Renzi perderà comunque soldi. Ne perderanno rispetto ad ora ovviamente anche le gestioni dei fondi pensione (che però recupereranno in futuro i danni sul vitalizio del lavoratore), mentre il solo ad avere vantaggi economici sarà lo Stato, che con questa proposta incasserà più tasse di prima. E non poche. Il solo vantaggio del lavoratore è avere a disposizione un po’ di liquidità in più che pagherà molto cara. Se proprio c’è bisogno di quei soldi, forse è più conveniente un prestito tradizionale in banca.