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Sbaglia l’Erario? Paga il commercialista

Sbaglia l’Erario? Paga il commercialista

Franco Bechis – Libero

I commercialisti e gli intermediari autorizzati come i Caf pagheranno per gli errori dell’Agenzia delle Entrate. Nonostante le richieste di modifica avanzate dalle commissioni parlamentari e le promesse avanzate negli incontri con i professionisti, il governo non modificherà la sostanza più controversa del decreto legislativo sulla semplificazione fiscale, quello che stabilisce la messa a disposizione dal 2015 della dichiarazione dei redditi precompilata.

Il provvedimento è uno dei fiori all’occhiello del governo Renzi, che a inizio estate aveva inviato a Camera e Senato la prima bozza di decreto legislativo sulla «dichiarazione dei redditi a casa». Molti punti però non sono piaciuti alla maggioranza che aveva inserito nei pareri votati sia alla Camera che al Senato decine di richieste di modifica. Il governo le ha quasi tutte rigettate con una procedura che non ha molti precedenti e ha inviato il nuovo testo per un parere alle commissioni parlamentari. Scelta un po’ inutile, vista l’inefficacia dei pareri precedenti, ma la forma è salva. Il decreto bis del governo non modifica il suo impianto: la dichiarazione dei redditi precompilata verrà inviata «per via telematica» ai pensionati e ai lavoratori dipendenti, e probabilmente non tutti ne ricaveranno grande vantaggio, costretti anche solo per imperizia tecnologica a rivolgersi a un intermediario come il commercialista o il Caf.

Ottenuta quella dichiarazione dei redditi precompilata i contribuenti avranno due facoltà: accettarla così come è, presentandola senza correzioni. Oppure modificarla anche solo per inserire detrazioni o deduzioni a cui si ha diritto (ad esempio le spese mediche). In tale caso la dichiarazione andrà ricompilata come non fosse arrivata dalla Agenzia delle Entrate e ogni vantaggio pratico sparirà. Ma sia nel primo caso (si rimanda indietro la dichiarazione ricevuta), che nel secondo (la si cambia inserendo deduzioni e detrazioni), l’Agenzia delle Entrate potrà effettuare un controllo formale e contestare le cifre inserite. Non lo farà nei confronti del singolo contribuente, a meno che non ci sia dolo o colpa manifesta, ma sanzionerà il commercialista o il Caf che presenta la dichiarazione dei redditi apponendovi il visto di conformità.

L’intermediario quindi dovrà controllare anche la semplice dichiarazione precompilata dall’Agenzia delle Entrate, perché se lo Stato compie errori per il difetto di incrocio delle sue banche dati (che infatti funzionano non alla perfezione), scatteranno sanzioni a commercialisti e Caf. Camera e Senato avevano chiesto di fare sparire questa norma, che sembra illogica: se lo Stato non è in grado di compilare una dichiarazione dei redditi fedele, perché mai dovrebbe essere in grado di controllare meglio un commercialista? Ma il governo è stato irremovibile: gli intermediari sono pagati per il loro lavoro, per cui debbono accettare il rischio conseguente. L’unica cosa che si concede loro è un po’ di tempo (da luglio al 10 novembre) per rettificare i dati presentati pagando una sanzione ridotta di un ottavo del minimo previsto.

Le mani dei sindacati sul Tfr

Le mani dei sindacati sul Tfr

Sandro Iacometti – Libero

Un flusso annuo di 4,2 miliardi che va ad alimentare una massa di risorse gestite che si aggira sugli 85 miliardi di euro. È questo, sostanzialmente, il Tfr che interessa ai sindacati. E pure alla Confindustria. Quello per cui entrambi sono saliti senza esitazioni sulle barricate, accanto ad artigiani e piccoli imprenditori, per difendere la liquidazione dei lavoratori dal progetto di Matteo Renzi di metterne una parte subito in busta paga.

L’interesse vitale delle Pmi è chiaro e solare. Dei 22-23 miliardi che compongono la torta complessiva annua del Tfr circa 11 miliardi restano in azienda. Liquidità preziosa, che la mossa del governo potrebbe dimezzare da un giorno all’altro. Ma i sindacati, sempre così attenti al rilancio del potere d’acquisto dei lavoratori, perché si scaldano tanto? E perché sbraita anche Confindustria, la cui maggioranza delle aziende rappresentate (sopra i 50 dipendenti) già versa il Tfr al fondo di tesoreria istituito presso l’Inps (per un totale annuo di 6 miliardi)? La chiave di volta per comprendere tanta attenzione si chiama previdenza complementare. Di quei 22-23 miliardi di Tfr che ogni anno maturano i lavoratori italiani, infatti, 5,2 miliardi finiscono in pancia ai fondi pensione. Di questi, secondo gli ultimi dati della Covip, circa 800 milioni vanno ai fondi aperti e ai Pip (piani individuali pensionistici) gestiti solitamente da professionisti del settore (sgr, banche, assicurazioni), 2,7 miliardi vanno invece ai fondi chiusi o negoziali e altri 1,5 ai fondi preesistenti (nati prima della riforma del 1993).

Le ultime due categorie di fondi, che ogni anno incamerano 4,2 miliardi dei nostri Tfr, hanno una caratteristica comune: sono gestiti per legge in forma paritetica da rappresentanti dei lavoratori e delle aziende. In altre parole, Confindustria e sindacati si spartiscono le poltrone nel cda. Gli incarichi sono solitamente retribuiti in maniera modesta, ma le somme amministrate sono spaventose. La riforma del 2007, che ha fatto schizzare le adesioni introducendo l’automatismo del conferimento del Tfr al fondo di categoria, non ha prodotto i risultati allora sperati dal governo, ma ha comunque fatto raddoppiare gli iscritti, con un colpo di acceleratore proprio dei fondi negoziali, che rappresentano il fortino della triplice sindacale. Metà di quelli preesistenti, infatti, appartiene al mondo della finanza, dove tengono banco le sigle autonome, mentre buona parte dell’altra metà è rappresentata da fondi dedicati ai quadri e ai dirigenti. Alla fine del 2013, secondo i dati Covip, gli iscritti complessivi ai fondi pensioni ammontano a 6,2 milioni. Di questi circa 2 milioni aderiscono ai fondi negoziali e 655mila a quelli preesistenti. I flussi annui di risorse (comprese quelle volontarie extra Tfr) hanno prodotto gruzzoli non indifferenti. I negoziali hanno in pancia 34,5 miliardi, i preesistenti (più vecchi) circa 50 miliardi. A gestire gli investimenti di queste risorse non ci sono manager esperti di finanza, ma vecchie volpi del sindacato che spesso collezionano più di un incarico.

Uno dei fondi negoziali più grande è quello dei metalmeccanici Cometa: masse amministrate 8,1 miliardi. Ebbene nel cda siedono Roberto Toigo, segretario nazionale Uilm e Francesco Sampietro, sempre della Uil. Giancarlo Zanoletti e Roberto Schiattarella, della FimCisl. Il sindacato autonomo Fismic ha invece nominato il broker assicurativo Luca Mangano, mentre la Cgil ha piazzato alla vicepresidenza il professor Felice Roberto Pizzuti, vicinissimo alla Fiom nonché candidato alle europee per Tsipras. Stessa solfa per Fonchim, altro colosso con 4,2 miliardi di risorse gestite. Anche qui la vicepresidenza è Cgil, con Roberto Arioli della Filctem. Poi ci sono Paolo Bicicchi e Mariano Ceccarelli della Femca Cisl, Salvatore Martinelli e Massimiliano Spadari ancora della Filctem, Eliseo Fiorin, segretario nazionale Ugl tessili e Fabio Ortolani, segretario confederale Uil.

Collocamento, il sistema deve reggersi senza intervento pubblico

Collocamento, il sistema deve reggersi senza intervento pubblico

Antonio Bonardo – Libero

Ora che il Pd ha fatto la scelta di campo netta in tema di protezione dei lavoratori nel mercato del lavoro, passando dal regime novecentesco della job property a quello europeo moderno della flexsecurity, si pone il problema di come realizzarlo in concreto. Perciò dobbiamo aver ben chiaro l’obiettivo. A nostro avviso occorre creare un sistema privato di ricollocazione, che stia in piedi senza intervento operativo né sostegno economico pubblico. Proviamo ad elencarne gli ingredienti principali.

a) Si rafforzi l’albo nazionale delle società autorizzate al servizio di ricollocazione, introducendo criteri di accesso consistenti, riferendosi a quanto fece l’allora ministro Tiziano Treu quando aprì il mercato italiano alle agenzie di lavoro interinale.
b) Il servizio di ricollocazione della persona licenziata sia pagato dall’impresa che licenzia, facendolo rientrare nel severance cost che l’impresa deve sostenere in caso di interruzione del rapporto di lavoro con il dipendente. Questo insieme all’indennità di licenziamento da corrispondere al lavoratore, che in Spagna è stata fissata in una mensilità lorda di stipendio per ogni anno di anzianità aziendale.
c) Con la fine del regime della mobilità e delle varie casse integrazioni prolungate nel tempo e il passaggio definitivo al sistema dell’Aspi, il sussidio universale, viene meno il problema della «condizionalità»›, la revoca dell’ammortizzatore in caso di rifiuto dell’offerta congrua: l’ammortizzatore attivo dura poco tempo ed è economicamente contenuto, rendendo i comportamenti opportunistici poco convenienti.
d) L’eventuale Aspi residua non corrisposta al lavoratore che si ricolloca anzitempo venga suddivisa al 50% tra il lavoratore stesso e l’azienda che lo ha licenziato. In tal modo il lavoratore ha tutto l’interesse a ritrovare un nuovo lavoro (subordinato o autonomo) il prima possibile. L’azienda sarà motivata a scegliere sul mercato le società di ricollocazione più performanti, in grado di aiutare le persone a ricollocarsi più rapidamente, potendosi finanziare il costo del servizio di ricollocazione con questo bonus.

Sarà importante che anche i fondi di formazione interprofessionali supportino la creazione di questo sistema di politiche attive, finanziando una quota parte del costo sostenuto dalle aziende per i servizi di outplacement, oltre a percorsi formativi di riqualificazione anche per persone espulse dal mercato del lavoro (purché legati a percorsi reali di reinserimento lavorativo, sotto l’egida della società di ricollocazione). In questa visione di strutturazione del servizio di supporto alla ricollocazione, imperniato sul settore privato, il ruolo del pubblico si dovrà concentrare nel realizzare il sistema di aiuto per l’enorme massa di disoccupati e inoccupati (giovani, donne, over 45, etc.) che si sono prodotti in questi anni di crisi. Fortunatamente non partiamo da zero, perché in Lombardia è stato sperimentato con successo un modello di eccellenza: la Dote unica lavoro, con la sua logica pay for result. Basterebbe un sano «copia e incolla» da parte delle altre Regioni e avremmo anche in Italia servizi per il lavoro di standard europeo!

I nuovi 51 miliardi di tasse: pane, latte e ancora case

I nuovi 51 miliardi di tasse: pane, latte e ancora case

Franco Bechis – Libero

È un giochino che ormai procede da quattro anni buoni di finanza pubblica. Dall’ultimo anno del governo Berlusconi in poi: lo fece Giulio Tremonti nel 2011, l’ha ripetuto Mario Monti nel 2012 e visto che non c’è due senza tre, è toccato pure ad Enrico Letta nel 2013. Il giochino è questo: si scrive una super manovra dettata dall’Europa, ma non si ha voglia né coraggio di presentare ai propri elettori un salasso senza precedenti. Quindi per fare tornare i numeri si infilano molte norme in assoluta libertà, ben sapendo che in gran parte non daranno nessuna entrata o risparmio di spesa reale. Lo sanno bene i ministri dell’Economia italiani, ma ovviamente lo capiscono anche i super-controllori dell’Ue a cui bisogna chiedere il via libera per ogni manovra economica. Così come finisce il giochino? Con l’inserimento di una clausola di salvaguardia: a fronte di norme-fuffa si mette una copertura vera in caso di fallimento (pressoché certo) delle prime. Scattano sempre l’anno successivo, nella speranza di avere tempo nei 12 mesi di trovare altre soluzioni buone. Nelle ultime tre manovre era previsto in caso di fallimento delle previsioni che scattassero due aumenti delle aliquote Iva e nell’ultima versione il taglio lineare delle detrazioni e deduzioni fiscali.

Il giochino deve essere piaciuto anche a Matteo Renzi, perché ha infilato nella manovra che sta per presentare una superclausola di salvaguardia. Agli italiani presenterà in pompa magna le sue splendide supercazzole. Agli sceriffi della Ue invece dice: «Non state a perdere troppo tempo sul mio libro dei sogni. Perché se tanto non funziona ho una carta di riserva sicura che stangherà gli italiani con nuove tasse per 51,6 miliardi di euro in un triennio». L’avvertimento ai signori che contano è scritto nella nota di aggiornamento al Def appena presentata dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan: «Nella legge di Stabilità 2015 è ipotizzata una clausola sulle aliquote Iva e sulle altre imposte indirette per un ammontare di 12,4 miliardi nel 2016 17,8 miliardi nel 2017 e 21,4 miliardi nel 2018. Gli effetti di tale clausola, genererebbero una perdita di Pil pari a 0,7 punti percentuali a fine periodo dovuta da una contrazione complessiva dei consumi e degli investimenti per 1,3 punti percentuali e un aumento del deflattore del Pil di pari importo». Una botta pazzesca sulle tasche degli italiani. Su cui ovviamente il governo minimizza, come se la fuffa fosse quella scritta per gli sceriffi della Ue e la verità invece quella contenuta nelle norme che accarezzano la pancia all’elettorato. «Ma è così», assicura il viceministro dell’Economia, Luigi Casero, che su quella plancia di comando siede ormai da molti anni, attraversando i vari governi, «quando mai sono scattate davvero le clausole di salvaguardia? Qualcuno ha toccato le detrazioni, che per altro sono state sostituite proprio da questa formula che trovate nel Def?».

No, la clausola delle detrazioni non e scattata. Ma quella sull’Iva sì, almeno in parte. Un paio di aumentini sono stati rinviati di qualche mese, ma alla fine grazie al giochino ci troviamo con l’aliquota al 22% invece che al 20%. Questo dimostra che ci sono ottime probabilità che quella clausola di salvaguardia possa entrare in vigore, anche perché fin qui di previsioni economiche il governo Renzi non ne ha azzeccata nemmeno mezza, e il terreno è proprio il principale tallone di Achille dell’esecutivo. Che cosa colpirà quella possibile stangata da 51,6 miliardi di euro? Le aliquote Iva marginali, e cioè quelle al 4% e quelle al 10%, che sono le uniche in grado di fornire incassi notevoli. Rischiano così di rincarare sensibilmente quasi tutti i generi alimentari: latte e latticini, farina, riso, pasta, pane, olio, occhiali da vista, case assegnate dalle cooperative, mense scolastiche (tutti questi sono al 4% oggi), e poi ancora yogurt, birra, uova, miele, tè, spezie, bevande al bar, elettricità, biglietti di cinema, teatro, concerti, servizi di trasporto pubblico (hanno tutti l’Iva al 10%).

Oltre l’Iva, secondo quanto scritto nell’aggiornamento del Def, si rischia un aumento anche delle imposte indirette. Di che si tratta? Tolta l’Iva che è già citata a parte, le principali imposte indirette vanno a toccare tanto per cambiare il mercato della casa: sono le imposte di registro, quella ipotecaria e quella immobiliare. Nell’elenco ci sono pure le accise, che significa nuovo aumento della benzina. Scatteranno? Qualcuna sì di sicuro. Anche perché c’è un piccolo trucco appena perfezionato che consentirà a chi sta al governo (presumibilmente Renzi) di mettere nuove tasse e poi dire che la pressione fiscale con lui non è aumentata. Il trucco è quello del recente belletto ai conti pubblici fatto per calcolare nel Pil il fatturato delle belle di notte, delle spese in armamenti e dello spaccio di stupefacenti. Con quella manovra (ma nessuno se ne è accorto) sono state cambiate anche le poste dell’entrata e magicamente già nel 2014 (e per gli anni successivi) la pressione fiscale è scesa di 0,3 punti percentuali senza levare nemmeno una tassa…

Famolo à la francese

Famolo à la francese

Davide Giacalone – Libero

Famolo à la francese. È il ruggito che s’ode per ogni dove, da destra a sinistra, in un’Italia generosamente pronta a farsi del male con le proprie mani. L’annuncio governativo che conferma il perdurante sfondamento del deficit è, per i francesi, un segno di resa non di attacco, una sconfitta non un’orgogliosa impennata. Tagliano la spesa pubblica per 50 miliardi in tre anni e quella continua a crescergli. Un film dell’orrore.

I francesi divorziano dalla dottrina del rigore e spezzano l’asse con i tedeschi? Scordatevelo. Pierre Moscovici, ex ministro delle finanze francesi e ora commissario europeo, ha annunciato l’avvio di una procedura d’infrazione, a carico del suo Paese (e non poteva fare diversamente), ma ha anche detto che per tutta la durata del mandato non si parlerà di eurobond. È questo è inaccettabile, oltre che la conferma del lato oscuro dell’asse Berlino-Parigi. La realtà è che il sistema francese è più in crisi di quello italiano, e mentre le nostre imprese manifatturiere ancora camminano le loro arrancano. Hanno un sistema più forte dal lato delle grandi imprese, molto protette dallo Stato, ma questo non li rende più elastici, bensì meno. Il governo francese rende noto che più di tanto non può fare senza cadere ed essere massacrato all’interno. Posto che potrebbe comunque accadere. È un segnale d’impotenza, non un’inversione di marcia.

Ciò avviene nel mentre le scelte della Banca centrale europea ottengono la discesa del valore dell’euro. A lungo reclamata e oggi non declamata. È la seconda volta che la Bce coglie nel segno, avendo già operato con successo per la discesa dei tassi d’interesse e la riduzione della voragine spread. Il fatto è che la Bce non può fare il resto, non può sostituirsi ai governi, non può e non deve usurpare la politica. È alla politica che spetta il compito di piantarla di vivere l’euro e l’Unione europea come vincoli, decidendosi a trasferirvi maggiore sovranità, quindi più politica e più democrazia. Avvertendone, altrimenti, l’insostenibilità. Se si praticasse seriamente la prima opzione (più saggia e promettente), si tratterebbe non di chiedere deroghe sui conti, non di avere spazi per far continuare una politica depressiva di sottrazione di ricchezza alla produzione e al consumo, per consegnarla alla fornace della spesa corrente improduttiva, ma di rifare i conti e rivalutare i pesi di ciascuno. Noi italiani siamo un pessimo esempio di gestione del debito pubblico, ma un buon esempio di debito aggregato (pubblico + privato) in relazione al patrimonio. Il nostro debito pubblico, così com’è, ci affonda. Il nostro debito aggregato è fra i meglio sostenibili, ben più di quello francese. Questo è far politica, questo è portare la politica nelle sedi decisionali, anche per evitare che il ragionierismo conceda ad altri vantaggi indebiti.

Ci sono in giro troppi keynesiani immaginari, magari pronti a citare l’esempio del 1929. Ma allora lo Stato era smilzo, ora è obeso. Allora era saggio praticare il deficit spending (spesa in deficit), mentre noi, da lustri, pratichiamo il deficit burning, nel senso che contraiamo debiti per bruciare denaro in spesa corrente. Certo che non bisogna rassegnarsi all’ottusa politica del rigore, ma questo deve significare grande rigore nelle politiche nazionali di bilancio e spinta allo sviluppo nelle politiche europee. Certo che non ci si deve piegare all’egemonismo teutonico, ma i tedeschi vanno battuti non strappando il non rispetto dei parametri (quindi suicidandosi), bensì nella federalizzazione della spesa per investimenti e del debito. Quella è la condizione cui subordinare la vita dell’euro, non l’opposto, ovvero la possibilità di allargare ciascuno i propri debiti, perché questo consegna tutto il potere ai tedeschi: senza la loro copertura e senza l’euro la Francia, che ha il 54% del debito pubblico collocato all’estero (noi circa il 40), si ritroverebbe massacrata dagli interessi passivi.

C’è anche evidenza empirica: nel 2003-2004 Francia e Germania sfondarono i deficit, i francesi per pagarsi la stabilità del governo e i tedeschi per pagare il costo sociale delle riforme. Guardate i risultati dieci anni dopo e chiedetevi se gli sfondamenti portano bene, quando praticati per salvare il passato anziché propiziare il futuro. Ogni volta che sento dire o leggo: “diciamolo all’Europa”, “ce lo impone l’Europa”, “lo abbiamo promesso all’Europa”, capisco che chi usa quel linguaggio non è cittadino europeo, ma subisce il vincolo di un regno ove è suddito. Supporre che i conti francesi portino forza all’ulteriormente scassare quelli italiani significa ancora di più: avere vocazione alla sudditanza.

Liquidazione in busta, critiche bipartisan

Liquidazione in busta, critiche bipartisan

Stefano Re – Libero

Sindacati, imprenditori, minoranza del Pd, Forza Italia: il fronte che si oppone all’idea del governo di far trovare ai lavoratori una parte di Tfr in busta paga per rilanciare i consumi è ampio e agguerrito. I sindacati sono in rivolta, con Susanna Camusso, segretaria Cgil, preoccupata che la nuova voce in busta paga finisca per essere tassata come le altre. «Nessuno dica che si stanno aumentando i salari dei lavoratori. Quelli sono soldi dei lavoratori, frutto dei contratti e delle contrattazioni e non una elargizione di nessun governo», avverte la leader del sindacato di Corso Italia. Luigi Angeletti è d’accordo: «Capisco l’intenzione di dire che bisogna avere più soldi in tasca», sostiene il capo della Uil, ma la strada giusta consiste nel «continuare a ridurre le tasse sul lavoro». Pure Pier Luigi Bersani, che pure ieri ha assicurato che non sarà da lui che arriveranno colpi bassi al governo, si dice contrario alla proposta. «Sono soldi dei lavoratori», sottolinea l’ex segretario, «e con i lavoratori il governo dovrà parlare se vorrà toccarli».

Considerazioni simili a quelle che fanno molti forzisti. Per Maurizio Gasparri «Renzi finge di non capire che solo abbassando le tasse si rilancia l’economia. Gli 80 euro in busta paga dati ad alcuni non sono serviti a nulla. Lo stesso varrebbe per il Tfr, che anzi rischia di essere tassato come lo stipendio». Maria Stella Gelmini sottolinea invece che le Pmi «vedrebbero ulteriormente stressata la loro liquidità, a fronte di un accesso al credito bancario bloccato». Anche Beppe Grillo, leader del M55, punta il dito sui costi che il provvedimento avrebbe perle aziende: «Togliere il Tfr alle imprese vuol dire metterle in mutande e costringerle a rivolgersi al credito bancario per finanziarsi», scrive sul proprio blog. Ed è proprio sul rapporto con gli istituti di credito che si concentra l’attenzione delle imprese.

Secondo il centro studi Impresalavoro, la manovra sul Tfr prospettata da Renzi colpirebbe oltre 4 milioni di aziende, quelle da 1 a 49 dipendenti, costando loro la cifra complessiva di 876 milioni di euro sotto forma di interessi passivi per l’anticipazione in banca delle risorse necessarie. A meno che, s’intende, non intervenga un eventuale accordo tra governo e Abi, la cui percorribilità però «è ancora tutta da dimostrare». I conti sono presto fatti: i dati Banca d’Italia, spiega il centro studi, dicono che il tasso effettivo globale medio per il quarto tiirnestre 2014 per operazioni relative al finanziamento di capitale circolante è pari all’8,94% annuo. Questo significa che, se il sistema delle Pmi fosse costretto a recuperare risorse per 9,8 miliardi di euro, cioè la cifra complessiva dei Tfr attualmente accantonati in queste aziende, le imprese finirebbero per sostenere oneri finanziari pari a 876 milioni di euro su base annua. Vi è inoltre da considerare, aggiunge Impresalavoro, il caso delle aziende che, per motivi diversi, possono ritrovarsi ad avere uno scoperto di conto corrente senza afidamento, ovvero senza l’autorizzazione della banca. In questi casi, decisamente più gravi, il costo del finanziamento sarebbe nettamente superiore.

Preoccupato anche il presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli, per il quale «l’ipotesi di mettere il 50% del Tfr in busta paga, almeno per come sembra formulata sulla base delle indiscrezioni circolate, finirebbe per indebolire ulteriormente il nostro sistema produttivo, accentuando il processo di riduzione occupazionale».

Il governo pare spiazzato dinanzi a queste obiezioni. Il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, assicura che non saranno presi provvedimenti vincolanti nei confronti delle banche, e questo ovviamente non può tranquillizzare le aziende. «Siamo pienamente consapevoli del fatto che le imprese, in particolare le piccole, soffrono dal punto di vista della liquidità», ha detto il ministro intervistato da Porta ci Porta. «Non possiamo obbligare le banche», ha avvisato, «ma lavoriamo a fronte del fatto che anche nelle banche, come in tutti gli operatori e gli italiani, ci sia l’interesse a rendere dinamica l’economia italiana». L’esecutivo pare insomma intenzionato a esercitare una sorta di moral suasíon nei confronti delle banche, la cui efficacia è tutta da dimostrare.

Raggiro Tfr

Raggiro Tfr

Davide Giacalone – Libero

Tutti a guardare il valzer del 18, distraendosi dalla tarantella del Tfr. Il 18, dopo annunci, rinculi e ripartenze somiglia sputato a quello che è in vigore. Ma mentre quella danza rischia di produrre ben poco, un elefante entra in cristalleria e nessuno se ne cura. Mi riferisco all’idea di mettere il Tfr (trattamento di fine rapporto) in busta paga. Idee di questo tipo possono venire solo a chi vuol far crescere il gettito fiscale avendo l’aria di far regali e diminuire le tasse.

Un paio di nozioni, per ancorare le parole ai fatti. Per il lavoratore il Tfr è un risparmio forzoso che da luogo a un reddito differito. Sono soldi suoi, ma li avrà alla fine. Punto essenziale: sono tassati in maniera agevolata, meno del reddito, che non concorrono a definire nella sua base imponibile. Per il datore di lavoro il Tfr si iscrive al passivo nello stato patrimoniale e in dare nel conto economico. Un accantonamento contabile. Sono uscite solo i Tfr effettivamente pagati. Con la riforma del 2005 il dipendente può scegliere di destinare il proprio Tfr alla previdenza complementare: continua a non prenderlo, ma lo accantona da un’altra parte. Con la finanziaria del 2007 si è stabilito che tutte le aziende sopra i 50 dipendenti devono versare il resto del Tfr, quello non optato per diversa destinazione dai lavoratori, in un fondo complementare dell’Inps.

Veniamo al dunque: cosa succede se il Tfr lo si trova in busta paga? Per rispondere si dovrebbe sapere cosa esattamente il governo intende dire, il che, al momento, è materia da cartomanti. Ma, comunque la si giri, le sorprese saranno sgradevoli. Intanto, se il Tfr lo si paga ogni mese è come dire che è stato abolito. Un reddito differito che non è più differito è solo un reddito. A che aliquota viene tassato? Perché se rimane la tassazione agevolata, pur venendone meno il presupposto, ne deriva che il reddito è tassato in modo diverso a seconda delle sue componenti. Che non solo non è una semplificazione fiscale, ma una complicazione mortale. Se, invece, come sembrerebbe logico, è tutto tassato secondo le aliquote Irpef, allora vuol dire che si aumenta il prelievo fiscale. Ma non basta, perché entrando il Tfr in busta paga tutti quelli che si trovavano poco sotto ai margini della soglia per avere gli 80 euro (26mila euro) si vedranno togliere il bonus. Tirate le somme, non solo pagheranno più tasse, ma perderanno la restituzione di una loro parte. Detto in modo ruvido: riceveranno soldi loro e perderanno il regalo governativo. Per non dire di quelli che saliranno di scaglione Irpef, candidati a subire una grattugiata fiscale. Per evitare un simile flagello, che si tradurrebbe in minore reddito disponibile nonostante il falò del risparmio forzato, occorre una normativa specifica. Di cui non solo nessuno ha parlato (non rientra fra gli annunci che fanno tendenza), ma che è complicatissima da scrivere e applicare. Ove mai ci si riuscisse, resterebbero alcune altre, macroscopiche ingiustizie.

Intanto sembra escluso che i lavoratori pubblici trovino il Tfr in busta paga, perché questo aumenterebbe il deficit statale. Così, però, non solo non si eliminano i lavoratori di serie A e B (che non spariscono neanche per il 18, visto che la mediazione sembra consistere nel conservarlo per chi già lo ha), ma si creano altre differenziazioni. Così come si penalizzano quanti hanno destinato il Tfr a fondi complementari, perché incassarlo, quindi saltare il versamento, equivale a violare un accordo contrattuale, il che crea danni. Puoi proteggere quelli del fondo Inps, tanto oramai è dato per scontato che lo Stato ne ripiani i buchi, ma non lo puoi fare per gli altri. Così come non puoi proteggere le imprese che si vedrebbero portar via l’accantonamento con il quale, spesso, garantiscono i prestiti destinati agli investimenti. Dice Renzi che si devono fare accordi con le banche, ma egli vive in un mondo fantasioso, dimentico dei vincoli che sulle stesse banche gravano: se prestano soldi per compensare cassa bruciata impattano direttamente nei limiti previsti da Basilea 3 e si chiede loro maggiore patrimonializzazione. Chi ce li mette, quei soldi?

Morale della favola: non solo i contorni della faccenda sono a dir poco nebbiosi, non solo c’è il forte rischio che si traduca in un autogol, per i presunti beneficiari, ma se anche le cose andassero per il meglio il risultato sarebbe quello di aumentare il reddito indirizzato ai consumi (in gran parte bollette, che, difatti, possono permettersi di aumentare) diminuendo il capitale destinabile agli investimenti. L’esatto contrario di quel che si dovrebbe fare. Il tutto per evitare quella che sarebbe la giusta dottrina: diminuire le tasse sul lavoro, per diminuirne il costo e aumentarne il valore, non prendere i soldi accantonati e passarli subito al tritacarne fiscale.

Poteri mosci

Poteri mosci

Davide Giacalone – Libero

Tutti conoscono il gioco chiamato mosca cieca: si benda una persona e la si sfida a toccare gli altri, che ci vedono e si spostano liberamente. Provate a immaginare una variante del gioco: si bendano tutti e brancolano a braccia tese. Un caos inconcludente. Quel gioco sciocco è divenuto trastullo collettivo, nella scena pubblica, incrudelito da manate a casaccio e da un linguaggio sempre più greve.

Quali interessi ha scosso Matteo Renzi? Quali fili scoperti ha toccato, per provocare la risentita reazione di poteri forti, dentro e fuori dalle blasonate redazioni? Sono giorni che domande di questo tipo si rincorrono, rimbalzando per ogni dove ci sia gente che si dice informata ed è per lo più sfaccendata. Ciascuno elabora la propria risposta, naturalmente retta da informazioni riservate e sussurrate. A me pare, invece, che sia in pieno svolgimento il gioco del tutti bendati. I poteri forti non ci sono più, tanto è vero che provano a sentirsi tali usando parole e toni che vorrebbero apparire forti. Tanto è vero che ciascuno pensa di farsi il partito proprio, perché sono a malpartito. Dopo avere predicato la competenza si pratica giulivi la dilettanza. Quella che si dimena è l’Italia dei poteri mosci e degli impotenti turgidi. Ciò che provoca scatti di rabbia non sono gli interessi minacciati, ma la minaccia che non si possa continuare a vivere sognando che il passato sia una garanzia per il presente e una promessa per il futuro.

Esisteva il potere forte del capitalismo statale. Aveva aspetti ragguardevoli e riprovevoli, ma esisteva. Per rendervi conto di quanto sia divenuto moscio, quel potere, basterà osservare che mentre il presidente del Consiglio si trovava negli Stati Uniti, a dispetto degli accordi industriali, politici e militari di cui era portatore, la Camera dei Deputati, su proposta del Partito democratico, il di lui partito, è riuscita a votare un ordine del giorno che stabilisce la rimessa in discussione dell’acquisto degli F35, assieme ad altri ordini del giorno, incuranti della coerenza. Voto che è stato subito così letto: ne acquisteremo la metà, o meno. Omessa ogni altra considerazione, a cominciare dal fatto che con la metà di quegli aerei puoi farci la guerra solo se ad aggredirti è il Principato di Monaco, la scena dimostra che non ci sono poteri, né forti né fiacchi, che esercitano alcun controllo e coordinamento fra i calendari istituzionali, gli interessi economici e le prudenze politiche. Si va a naso, ma senza olfatto. Pensare che il disfacimento di quei poteri possa essere compensato dal crescere delle partecipazioni azionarie della Cassa depositi e prestiti è come credere che si possa partecipare alla formula uno della competizione globale con un go kart. Ed è sempre possibile che una qualche procura della Repubblica ti metta sotto inchiesta per eccesso di velocità.

Esisteva il potere forte del capitalismo privato. No, non esistevano grandi capitalisti. Non li abbiamo avuti. Qualche personaggio con corte, qualche arrampicatore prensile, tanto contorno. Il cuore di quel potere, quando esisteva, era Mediobanca. Per essere più precisi, era Enrico Cuccia: idee chiare, disegno strategico, competenza indiscussa, legami internazionali. Quel cuore riuscì a far contare un mondo che di quattrini veramente investiti ne contava pochi. Ma era debole già prima di fermarsi, perché concepito dentro un mondo che già non esisteva più. Da lì in poi troppi avventurieri arraffatori, tanti parlatori disinvolti (quasi non si conobbe la voce di Cuccia), che per considerarli poteri forti occorre spiccata propensione all’esagerazione. La ciliegia sulla torta è un Quirinale che mette nero su bianco di non avere nulla da testimoniare e viene trascinato sul banco dei testimoni. Icona di un’Italia ove il potere è vaniloquio oscillante fra il supplice e l’arrogante.

L’Italia diversa c’è. Eccome. Se ne colgono i numeri in un prodotto interno lordo e in esportazioni che ancora la rendono forte e ricca. Imprenditori e operai che non sentite parlare, perché sono a lavorare. Ma non sono poteri forti, anzi, sono debolissimi. Anzi: non contano nulla. Ci reggono in piedi, ma li trattiamo come estremità dolenti e odorose. Da usare, ma da non esibire. Da tassare, non da ascoltare. Allora: perché tante voci si destano, contro Renzi? Quali interessi sono stati toccati? Magari fosse così! La scena è animata da caratteristi che provano a collocar sé medesimi, per avere ancora un pezzetto di rendita. Poi s’è fatta una certa ed è subito cena.

Con questa sinistra la ripresa è passiva

Con questa sinistra la ripresa è passiva

Carlo Pelanda – Libero

Molti lettori, inquieti per un deludente 2014, chiedono quale sia tendenza economica più probabile per il 2015-16: recessione, stagnazione o crescita? Risponderò alla fine, prima è utile descrivere il fenomeno della “ripresa passiva”, lentissima, che è in atto, come inquadrata dal mio gruppo di ricerca. Fino a poco fa la maggioranza delle famiglie italiane temeva catastrofi. Per tale motivo ha massimizzato, chi poteva, il risparmio, riducendo i consumi. La perdita della fiducia, insieme alla restrizione del credito ed all’aumento del drenaggio fiscale, è stata, ed è, la causa principale della recessione del mercato interno a partire da metà 2011. Da qualche mese un numero crescente di famiglie sta realizzando che la catastrofe non si è attualizzata e comincia a valutare, pur ancora con prudenza, più decisioni di spesa. Da metà 2013 la recessione ha iniziato ad attutirsi non grazie ad azioni stimolative di politica economica o monetaria, ma grazie alla riduzione della paura. Per questo si può definire “ripresa passiva”. Se così, allora è probabile che, pur senza interventi stimolativi di politica economica e monetaria, il Pil italiano resti stagnante, ma non più recessivo. Questo scenario ne illumina un altro: se senza stimolazioni anticrisi il sistema economico italiano riesce a riemergere per sua robustezza intrinseca, basterebbero poche politiche giuste e mirate per metterlo su una linea di crescita forte e rapida.

Possiamo sperare che questo govemo ne sia capace? Vediamo quello che dovrebbe fare: (a) “operazione patrimonio contro debito” per ridurre il secondo di almeno 300-400 miliardi; (b) in 2 o 3 anni taglio di 100 miliardi di spesa ed almeno 70 di tasse, lasciando un margine di 30 per rispettare i vincoli di pareggio di bilancio, dando così un superstimolo all’economia, in particolare agli investimenti; (c) alleggerire i carichi fiscali del settore immobiliare e delle costruzioni che è il motore principale della crescita nel mercato interno italiano; (d) detassare i fondi di investimento per aumentare il finanziamento non-bancario delle imprese e gli investimenti esteri veicolati via fondi italiani; (e) fare un megafondo di garanzia statale per ripatrimonializzare le imprese destabilizzate dalla crisi, ma ancora vive, e dare loro accesso al credito; (f) liberalizzare il mercato del lavoro.

Tali politiche certamente porterebbero il mercato interno in forte crescita prolungata, anche considerando eventuali turbolenze globali con impatto sull’export e sulle Borse: l’Italia diventerebbe locomotiva europea, la disoccupazione sarebbe riassorbila in un triennio, il pareggio di bilancio sarebbe rispettato ed il rapporto debito/Pil scenderebbe rapidamente verso un più rassicurante 100%, forse sotto, dal 130% circa di oggi. Ma il governo Renzi farà persino fatica a flessibilizzare un po’ le norme sul lavoro e non ha nemmeno in programma le cose dette nella misura utile a dar loro efficacia stimolativa.

Non voglio essere ingiusto, ma un governo che stimola la domanda (gli 80 euro) quando la domanda stessa è depressa per mancanza di fiducia, invece di tentare stimolazioni tiscali sul lato dell’offerta per ricostruire la fiducia stessa, dimostra o incompetenza oppure un ancoraggio all’irrealismo della cultura economica di sinistra, o propensione alla demagogia, che non può far sperare troppo. Anzi fa ridere, amaramente, per tanta incompetenza.

Pertanto non è probabile che nel 2015-16 si avveri quella crescita fortissima che sarebbe teoricamente possibile liberando la forza intrinseca del sistema. Ma proprio questa forza ci permette di sperare in un effetto maggiore della svalutazione competitiva dell’euro ora pilotata dalla Bce, unica vera stimolazione, pur non tra le migliori, in atto nell’Eurozona. Pertanto scommetterei su una ripresa ancora lentissima nel 2015, ma più robusta nel 2016, sopra l’1%, in grado di almeno far galleggiare l’Italia nonostante un governo ed un personale politico-tecnico incapaci di guidare una “ripresa attiva”. Non aspettiamoci dalla sinistra cose che non può fare, concentriamoci invece sulla ricostruzione e riqualificazione del centrodestra per sostituire la sinistra stessa il prima possibile e tentare la liberazione del gigante Italia incatenato. Ma nel frattempo non affonderemo, motivo di fiducia.

Reti e scalate

Reti e scalate

Davide Giacalone – Libero

La storia di Telecom Italia può essere raccontata come metafora del disfacimento industriale e della degradazione italiana. Una storia che comincia durante il fascismo, con il primo grande errore dei miopi capitalisti nostrani, i quali comprarono volentieri la gestione del traffico locale, ma non vollero quello di lunga distanza, considerato poco profittevole. Fu poi quello più ricco. Proseguì con passaggi eroici e commoventi, come i cavi transatlantici posati a cura di una società, Italcable, finanziata con i risparmi dei nostri emigranti. Venne poi il capitolo della ricostruzione e dell’ammodernamento, con un salto tecnologico epocale, a cura di società facenti capo all’Iri, quindi allo Stato. Amministrate dai così detti “boiardi”, accusati di gestioni anche clientelari, ma che lasciarono società forti, evolute e ricche. Quindi si passò alla distruzione, con la peggiore privatizzazione immaginabile. Ai corsari che scaricarono sui gioielli le scorie organiche dei loro debiti, capaci d’impiombare i conti della società. Quindi l’intervento delle banche e l’ingresso del socio spagnolo. Ora gli spagnoli si sono rotti l’anima e le banche sono in fuga, mentre si annuncia l’ipotesi di una nuova scalata, dall’estero. A parte conoscere la storia e comprenderne le miserie, qual è, oggi, l’interesse collettivo? Come si può farlo valere?

L’interesse dell’Italia, oramai, non è quello di discutere la nazionalità degli azionisti. Purtroppo, finita l’era dell’Iri, sia detto con molteplice dolore, gli italiani si sono dimostrati i peggiori. Almeno fin qui. Il nostro interesse è che le telecomunicazioni siano sviluppate e tecnologicamente aggiornate, senza che altri soldi dei contribuenti (e dei clienti) siano trasferiti nelle tasche degli avventurieri e dei predatori. Sulla rete esiste ancora un diritto pubblico, incarnato nella goldenshare, nascente non solo dalla rilevanza nazionale di quell’infrastruttura, ma anche da fatto di essere stata realizzata con soldi pubblici. Quel diritto va esercitato non per decidere chi deve essere l’azionista, ma per costringere la società a non indebolire l’Italia fornendo un servizio al di sotto degli standard europei. Va esercitato non per limitare la concorrenza, ma per renderla più libera e forte. Poteva andare diversamente, ma oramai è andata.

Le scalate possono destare l’interesse di un pubblico che le segue come fossero avventure di cavalieri erranti, o di chi, legittimamente, spera di trarne un profitto in Borsa. A noi interessa altro: che chi controlla e amministra la società lo faccia sì per trarne profitto, ma da perseguirsi non succhiando ricchezza dagli abbonati, ma investendola per offrire loro servizi al passo con i tempi. E non ci siamo. Lo Stato non deve tornare a fare l’azionista. Non per ragioni ideologiche, ma perché il mondo è cambiato. Lo Stato deve cominciare a fare bene il suo mestiere: dettare le regole e farle rispettare. Facendosi rispettare nella sede in cui gran parte delle regole sono dettate: l’Unione europea. Il che significa evitare di credere che per assicurarsi un futuro si debba tornare al passato, con i soldi della Cassa depositi e prestiti, che sono soldi degli italiani, usati per ricomprare quel che è stato fatto con i soldi degli italiani, ovvero la rete. Tanto più che nella sua società delle reti la Cdp ha preso non soci finanziari, ma soci industriali che sono potenziali concorrenti delle reti italiane. Né serve a nulla dire che la governance rimane in mani italiane, o ci rimane la maggioranza delle azioni, perché nel mercato contano i soldi e la capacità di farli fruttare, il che scatena forze non certo arginabili con qualche nominato cui è già stata data abbastanza ricchezza perché possa andarsene a goderne i frutti.

Dal male può venire il bene, se non ci si ostina a far confusione fra i due. Meglio un mercato libero di crescere e uno Stato libero di controllarlo e sanzionarlo, piuttosto che la melassosa commistione di un mercato impastoiato con la politica e uno Stato prigioniero degli interessi che dovrebbe sovrastare. Anziché fare dichiarazioni spiritose o giocare al piccolo ministro, il personale di governo farebbe bene a dedicarsi alla sola cosa utile che può essere fatta: chiarire a tutti i tempi e le modalità in cui ciascuno deve investire nelle reti e nei servizi, in modo da rendere reale l’evoluzione digitale del nostro mercato, avvertendo che chi non rispetterà gli impegni pagherà pegno.