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Per dare ossigeno ai negozi servono incentivi ai consumi

Per dare ossigeno ai negozi servono incentivi ai consumi

Bruno Villois – Libero

La stagione più difficile per il commercio e i servizi non accenna a modificarsi, ogni azione messa in atto dai vari governi degli ultimi 2 anni, non ha prodotto nulla, anzi si sono innescare illusioni, come quella degli 80 euro che si sono sgonfiate in un batter d’occhio.

Il presidente di Confcommercio, Sangalli, ha lanciato continui inviti ad attivare iniziative pro consumi, che sono stati totalmente inascoltati dalla politica. Le piccole partite Iva sono oltre 5 milioni, commercio e servizi ne raccolgono poco meno della metà, insieme all’artigianato (che al suo interno ha anche la grande maggioranza degli edili) e all’agricoltura costituiscono oltre il 90% del totale. Numeri fondamentali per l’economia reale, che purtroppo, per il mondo politico, contano solo con l’approssimarsi delle scadenze elettorali, superate le quali, vengono totalmente dimenticati, mentre la grande industria, grazie al suo peso economico e al rapporto con i sindacati, ottiene dalla politica ben più attenzioni e sovente favori, le diminuzioni dell’Irap, e del costo dell’energia, sono prettamente di interesse della grande impresa e non certo del commercio, servizi e artigianato, nonostante che i tre settori, tra titolari e lavoratori, rappresentino un numero maggiore di cittadini di quelli espressi dall’industria. Il manifatturiero resta il perno della nostra economia, la grande maggioranza di tali produzioni è esclusivamente indirizzata al mercato interno, purtroppo i nostri consumi, di ogni tipo sono tornati ai livelli di trent’anni fa.

Industria e commercio sono collegati in maniera indissolubile, inutile favorirne la prima se non si sostiene il secondo. Da inizio crisi le chiusure di esercizi commerciali, artigianali e di servizi hanno sfiorato il 20% del totale, oltre 400 mila esercizi, altrettanti sono in sofferenza, in tutti i settori, ma soprattutto abbigliamento, arredi ed elettrodomestici ne sono le vittime principali. Discorso a parte merita l’alimentare, in cui piccoli esercizi hanno cominciato a scomparire, ben prima di inizio crisi e adesso sono rimaste solo vere boutique del cibo collocate nei centri delle grandi città. La grande distribuzione ha fatto piazza pulita, stessa situazione ha riguardato gli ambulanti dei mercati rionali.

A fronte di una così sconvolgente Caporetto del commercio e dei servizi, la politica non ha messo in atto nessuna vera azione a sostegno di un comparto essenziale sia per i cittadini che per i produttori. La pressione fiscale per le Pmi è cresciuta soprattutto a livello locale, con Imu, tassa rifiuti e acqua a tirare la volata, stessa cosa è avvenuta per i contributi previdenziali, in continuo aumento, mentre il lavoro nei migliori casi si è bloccato, nei tanti peggiori, è crollato.

Per ridare ossigeno al commercio servirebbe una incisiva azione a favore dei consumi, uno stimolo a spendere favorito da bonus fiscali concessi ad ogni contribuente sarebbe una manna del cielo. Oggi chi potrebbe fare acquisti, avendo reddito e certezza di occupazione, lo fa sempre meno, perché è disincentivato, grazie a strumenti come lo Spesometro, che fa scattare controlli fiscali a chi intende mettere mano al portafoglio. Una situazione che dovrebbe essere impensabile per uno stato dove il rapporto fiduciario tra cittadino e amministrazione dovrebbe essere alla base del sistema Paese, ma purtroppo così non è.

La deflazione è figlia del crollo dei consumi, il ricorso a continui sconti, saldi, 3×2, sono emergenze a cui ricorrono i commercianti per non essere sopraffatti dall’enormità delle incombenze, di ogni genere, a cui sono soggetti. Il governo per rianimare realisticamente i consumi, ed evitare il definitivo tracollo del commercio e dei servizi, ha solo più l’arma degli incentivi fiscali, un’arma che più passa il tempo e più diminuisce la fiducia per il futuro, rischia anch’essa di diventare spuntata. Agire subito è indispensabile, ogni ulteriore ritardo produrrà altri danni, forse irrecuperabili, al più bel paese del Mondo, che è il nostro.

Con la (vera) riforma può finire un’epoca

Con la (vera) riforma può finire un’epoca

Emanuele Massagli – Libero

Il 19 settembre la Commissione Lavoro del Senato ha approvato il testo modificato del disegno di legge delega in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino dei rapporti di lavoro. Appare scontato il passaggio a Palazzo Madama, meno quello alla Camera, dove Cesare Damiano, presidente della competente Commissione e portavoce dell’anima Pd contraria alla riforma, ha annunciato battaglia «senza se e senza ma».

La nuova versione del disegno di legge n. 1428 è differente dalla precedente in diversi passaggi. Non si tratta di modifiche sostanziali (in buona parte sono tentativi di dettaglio di principi di delega che rimangono ancora molto vaghi), eccetto che nel caso dell’articolo 4, quasi integralmente riscritto. Qui è formalizzato l’ormai noto «attacco diretto» all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Invero, più che di un assalto si dovrebbe parlare di aggiramento, non contenendo l’articolo 4 alcuna modifica alle norme sul licenziamento individuale, sebbene sia evidente a tutti l’intenzione degli estensori dell’emendamento che ha modificato il testo originario: superare la rigidità dell’articolo 18 ripensando interamente la disciplina del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. La lettera b) dell’articolo 4, infatti, dispone per le nuove assunzioni il «contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio». Si tratta di una formulazione molto più eloquente di quella precedente, che si limitava a prevedere l’introduzione «eventualmente in via sperimentale, di ulteriori tipologie contrattuali espressamente volte a favorire l’inserimento nel mondo del lavoro, con tutele crescenti per i lavoratori coinvolti». Questa definizione apriva le porte al contratto di inserimento come proposto negli anni anche dallo stesso Damiano: uno, due o tre anni di prova «lunga» con la sola tutela economica in caso di licenziamento. Tutto il resto della vita lavorativa con la tradizionale copertura dell’articolo 18. Al contrario, la nuova lettera b) mira al superamento definitivo della reintegra in caso di licenziamento, di cui non godranno i nuovi assunti, che saranno invece coperti dalle cosiddette tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, ovvero un indennizzo economico proporzionale agli anni di dipendenza dall’impresa.

Si può discutere a lungo sull’opportunità politica, tecnico-giuridica, economica, ma anche sociale e valoriale di questo intervento; presentare i dati sul contenzioso che riguarda la materia (circa 17.000 cause di primo grado, 71.000 complessive); ricordare le ricerche economiche che dimostrano tanto l’inutilità quanto l’efficacia degli interventi sulla cosiddetta disciplina di protezione dell’impiego per incoraggiare l’occupazione. Teorizzare benaltristicamente il grande numero di ulteriori interventi che sarebbero necessari per modernizzare il diritto del lavoro; usare la comparazione con Germania o Regno Unito (i benchmark non sono mai scelti a caso) per confutare o avallare la logica sottostante al decreto. Si può fare tutto questo sempre rimanendo sulla superficie del passaggio storico che l’archiviazione dell’articolo 18 individua: il definitivo abbandono dei porti sicuri, delle definizioni certe in materia di lavoro conosciute nel Novecento.

Il dibattito sulla reintegra interessa più la politica e i sindacati che il Paese reale, quello che spera di trovarlo un lavoro prima ancora di studiare come difenderlo, quello che fatica perché il lavoro di tutti i giorni sia sempre più «suo» e non una parentesi alienata nella giornata, quello caratterizzato da quasi tre milioni di giovani che non studiano e non lavorano. Per questa larga parte di Italia non esiste alcun articolo 18 da un bel pezzo, altro che dualismo insiders-outsiders. Il suo superamento è quindi un (tardivo) segnale di reale volontà di cambiamento, oltre i dogmatismi che ancora impregnano qualsiasi dibattito sui temi del lavoro. Si proceda allora.

Non si vive però di soli simboli: è necessario che dietro agli slogan che più interessano i media ci sia anche un disegno solido, cosciente e complessivo di riforma delle regole del lavoro in Italia. Un tentativo, quantomeno un’ipotesi, di lettura di un mercato del lavoro sempre più lontano dalle regole scritte sulla carta. È questo il contenuto degli altri cinque articoli della delega? Purtroppo no, ma di questo nessuno ne parla.

C’è la prova: zero soldi per il Jobs Act

C’è la prova: zero soldi per il Jobs Act

Franco Bechis – Libero

Ora è ufficiale: per la riforma del lavoro Matteo Renzi non ha nemmeno un euro a disposizione. Di più: se prima una legge particolare non stanzierà i fondi necessari, tutto quel che è scritto nel Jobs Act non entrerà mai in vigore. Nel Pd dunque si stanno scannando sul nulla, perché anche quella riforma dell’articolo 18 non vedrà la luce se prima non si troveranno i fondi necessari ad allargare la protezione sociale e sarà approvato definitivamente il provvedimento legislativo che li stanzierà.

Il sospetto albergava da qualche tempo anche all’interno del Pd. «Io non sono preoccupato della guerra di bandiere ideologiche sull’articolo 18», confessava ad esempio Beppe Fioroni, «ma ho il terrore che dopo avere alzato tanta polvere inutile si scopra che sotto c’è solo un bluff. Perché allora si gli italiani ci faranno un mazzo così…». Fioroni deve avere un sesto senso, perchè nello stesso testo del disegno di legge sul Jobs act è stata inserita in extremis una clausola finanziaria imposta dalla commissione Bilancio del Senato che rende impossibile l’immediata adozione di decreti delegati come avviene dopo l’approvazione di ogni disegno di legge di delega. Sembra una questione tecnica, di lana caprina, e invece è essenziale.

Nel testo governativo è infatti stata inserita una postilla al comma 3 dell’articolo 6 che disciplina «l’esercizio delle deleghe». Come avevano ricordato fin da giugno i tecnici del servizio Bilancio del Senato, anche i disegni di legge di delega debbono rispettare il nuovo articolo 81 della Costituzione, e quindi dovrebbero indicare subito i mezzi di copertura di eventuali nuove spese. Altrimenti i decreti delegati non possono essere adottati fino a quando non vengono stanziate definitivamente le risorse necessarie. La postilla inserita nel Jobs act stabilisce così che «qualora uno o più decreti attuativi determinino nuovi o maggiori oneri che non trovino compensazione al proprio interno, i decreti legislativi dai quali derivano nuovi o maggiori oneri sono emanati solo successivamente o contestualmente all’entrata in vigore dei provvedimenti legislativi che stanzino le occorrenti risorse finanziarie». Quindi prima di esercitare una delega che venga dal Jobs act debbono essere inserite in un decreto legge ad hoc le coperture necessarie, e se non si può adottare un decreto legge, bisogna affidarsi a un disegno di legge, attendendo però la sua pubblicazione definitiva sulla Gazzetta ufficiale dopo le rituali approvazioni nelle commissioni di merito e nelle aule di Camera e Senato.

Esempio pratico: il tema che fa tanto discutere il Pd – il cambiamento dell’art. 18 – è connesso al progetto di allargare la protezione sociale alle categorie che oggi non hanno quell’ombrello. Un’indennità di disoccupazione larga e decrescente che dovrebbe coprire ovviamente anche gli eventuali licenziati senza diritto al reintegro del nuovo articolo 18. Quindi il decreto delegato che dovrà cambiare lo Statuto dei lavoratori non potrà essere adottato se prima non sarà trovata la copertura finanziaria a quella nuova protezione sociale. Il governo vorrebbe inserire nella legge di stabilita un finanziamento extra di 1,5-2 miliardi di euro. Si tratterebbe però di una copertura parzialissima e quindi non sufficiente ad adottare nel 2015 il decreto delegato di riforma dell’articolo 18. Per farlo bisognerebbe spostare lì tutte le risorse di bilancio oggi utilizzate perla protezione sociale. E poi aggiungere almeno altri 5 miliardi ai due ipotizzati. Solo allora si potrà varare il decreto delegato in grado di attuare quello che sta oggi spaccando il Pd.

Il Pil degli agnelli

Il Pil degli agnelli

Davide Giacalone – Libero

Dicono sia difficile che gli agnelli s’entusiasmino per la pasqua. Beati loro, perché da noi ci sono quelli che si rallegrano per la rivalutazione del prodotto interno lordo, indotto dai nuovi criteri (Sec 2010) e comprendente varie attività criminali. Osservate la soddisfazione con cui si dice che migliora il deficit e riflettete su quanto si debbano invidiare i giovani ovini diffidenti.

Avevamo già avvertito (fine agosto) sui rischi di quel riconteggio. Che non riguardano i numeri, ma il modo in cui li si legge. Fummo facili profeti: quelli che parlano di diminuzione della pressione fiscale sul pil, che negli ultimi tre anni sarebbe di 0.9, 0.8 e 0.5%, meriterebbero un ricovero urgente. Il maggiore pil non porta un solo centesimo aggiuntivo di gettito fiscale, perché o si tratta di cose già diversamente contate (come la ricerca o gli investimenti militari), oppure di cose che fanno marameo al fisco. Siccome, però, l’aumento del pil porta un aumento dei contributi all’Unione europea, a essere precisi la pressione fiscale, per quanti pagano, aumenta. Già, ma diminuisce il deficit, quindi, evviva, siamo sotto il 3%! Manco per idea, perché ha un senso calcolare la percentuale di deficit (o di debito) rispetto al pil solo per misurare la sostenibilità fiscale del relativo costo. Se metti nel conto quel che non paga ti prendi in giro per i fatti tuoi. E ti prendi in giro anche sul crimine: 300 milioni di contrabbando di sigarette si fanno al confine est dell’Italia, mentre le stime fissano a quel livello il totale nazionale. Dite che da Napoli è sparito?

Fin qui, lo avevamo detto. Ma la cosa che non avevo immaginato, e che trovo drammaticamente spassosa, è che i nostri fratelli tedeschi si dimostrano assai più furbi, non pubblicando i criteri con cui stimano l’economia nera e la sottovalutano alla grande. Così ottengono di far crescere il loro pil più di quello altrui, in termini assoluti, ma meno in termini relativi, con il risultato di diminuire il distacco (con tutte le polemiche che quello comporta) e diminuire il peso percentuale dei loro contributi all’Ue. Noi dovremmo credere che il Paese in cui si può fare tutto in contante è anche quello che ha meno nero? Signori, siamo al capolavoro: farsi battere da un teutonico in organizzazione e disciplina, ci sta, ma farsi battere in estro e gioco delle tre carte, è un oltraggio.

I fratelli francesi, invece, adesso hanno due pil: uno per tenere i conti veri e l’altro per darlo alle autorità europee. Perché va bene fare finta di avere più ricchezza utilizzabile di quella fiscalizzabile, ma non è saggio raggirarsi da sé soli. Sicché tengono due conti.

Nell’ovile italico si festeggia: sfangati i conti di fine anno, senza manovre aggiuntive. Primo, aspettate a dirlo. Secondo, l’impegno era a star sotto il 2.6 non il 3%. Terzo, a parte le percentuali immaginarie, sarà bene ricordare che il debito pubblico ha continuato a crescere e, con il fiscal compact, l’impegno di rientro riguarda un ventesimo annuo del tutto. Quello è il muro verso cui si corre. Credo (spero proprio di no) di aver capito la ricetta governativa: prima dello schianto ci diamo malati. Diciamo che c’è la recessione, quindi non si può fare la cura e ci serve l’elasticità, già prevista dal trattato. Peccato che si sia rimasti i soli in recessione, quindi con colpe nostre e non solo congiunturali. E peccato che il nostro pil ricalcolato guadagni (insignificanti) posizioni rispetto a quello dei tedeschi. Con gli agnelli che si danno il cinque: e vai, che ora è pasqua.

Trasformatore o trasformista?

Trasformatore o trasformista?

Davide Giacalone – Libero

Chissà se Susanna Camusso si è mai chiesta come mai tanti giovani italiani lavorino a Londra, mentre i giovani inglesi che lavorano a Roma sono delle rarità. I malpancisti sono divenuti tutti monetaristi immaginari, sicché credono che la formula vincente sia l’autonomia della valuta e la svalutazione. Peccato che quella sia la ricetta che ci ha portati alla perdizione, mentre furono le riforme di Margaret Thatcher a evitare che il Regno Unito scivolasse in un altrimenti inarrestabile declino. Fra quella sinistra (che non sta solo a sinistra) e Matteo Renzi, quindi, mille volte meglio il secondo. Ma c’è un ma. E neanche uno solo.
Tutto sta a capire se si tratta di un trasformatore o di un trasformista. Ce ne sono di buoni e cattivi. Le alleanze cavourriane, ad esempio, furono un bene, il trasformismo successivo un pantano. La parte virtuosa (allora come oggi) consiste nel trovare forze diverse che convergono nel rendere possibile quel che è necessario. La parte viziosa (sempre presente) s’incarna nel tentativo di rappresentare sentimenti e interessi fra loro inconciliabili. Dove va inquadrato Renzi? Non è un trastullo, perché dalla risposta dipende anche la possibile durata del governo in carica e, conseguentemente, della legislatura. Nata male e (fin qui) sopravvissuta malamente.

Comparve sulla scena nazionale come trasformatore della sinistra, talché qui applaudimmo. Non tutto quello che si diceva alla Leopolda era convincente, ma lì si trovava la rottura con gli ideologismi di una sinistra irrimediabilmente compromessa con una tara genetica: il comunismo. Lì c’era l’embrione della sinistra moderna, pragmatica, occidentale. Il primo sintomo negativo fu l’ossequio al centralismo democratico, secondo cui: fai la battaglia nel tuo partito, ma se la perdi ti allineai alle tesi dei vincitori. Sembra lealtà, ma è stalinismo. È l’idea che il partito conti più della collettività, che la fedeltà valga più della libertà. Non è un caso che oggi Renzi pretenda che a quel principio si attengano i suoi oppositori, ora in minoranza come lo fu lui.

Il primo atto qualificante del suo governo, e fin qui anche il più ricordato, il più citato, il più rivendicato, quindi, in buona sostanza, l’unico significativo, è stato la retrocessione fiscale di 80 euro mensili a un congruo gruppo di contribuenti (tutti fra i protetti). Un gesto in perfetto stile Carlo Donat Cattin. Prima sindacalista, poi capo della corrente democristiana Forze Nuove.(Considerandolo un errore grave, trovo curiosa la polemica sugli effetti, perché se hai la febbre a 40 e prendi la tachipirina, non pretendi che cali dopo pochi minuti, ma va anche detto che questo era ciò che si aspettavano al governo).

Come il vecchio ministro democristiano del lavoro, Renzi non teme di sfidare il sindacato di sinistra, la Cgil, ma lo scavalca a sinistra. Da qui le chiusure a Camusso e la corrispondenza d’amorosi sensi con Maurizio Landini. Amore ora infranto. La dottrina di Donat Cattin, certo non l’unico a sostenerla, accompagnato da tanti keynesiani capaci di far rivoltare nella tomba il grande di Cambridge, la sua idea che la politica possa togliere allo Stato per dare agli elettori, consumare oggi per lasciare al domani il compito di pagare, è alla radice del processo che ha trasformato una poderosa macchina produttiva in un trabiccolo indebitatissimo, con il motore ancora vivo e la carrozzeria miseramente sfasciata.

Chi scalò il Pd da destra s’è poi prodotto in uno scavalcamento a sinistra di Pier Luigi Bersani e compagni. E questo è trasformismo. Chi alla Leopolda evocò casi di malagiustizia, ricordando che un procedimento in corso non significa colpevolezza e non può comportare ostracismo, poi plaudì l’idea che i manager inquisiti dovessero essere allontanati, salvo affermare che un manager inquisito deve restare al suo posto, dopo avere stabilito che al loro posto rimangono i sottosegretari in quelle condizioni, mentre vanno in galera i parlamentari per i quali si chiede l’arresto, anche se solo indagati e non ricorrendo neanche uno dei motivi per cui un qualsiasi cittadino dovrebbe poter essere privato della libertà. Trasformismo. Anche confusionario.

Poi, però, annuncia la fine dello statuto dei lavoratori e da una spallata all’articolo 18. Trasformatore. Quali dei due? Lasciando da parte preferenze e tifoserie, puntiamo alla prova dei fatti. Renzi, come Berlusconi, dice di essere un bipolarista. Bene. Vuole una legge elettorale che stabilisca chi vince. Bene. La vuole subito, e questo è male. Male perché non ha senso: se si vota subito si vota anche per il Senato e quella legge non potrà mai funzionare. Ma lui dice: si vota nel 2018. Bene, facciamo finta. E come ci arriviamo, al 2018? Posto che la maggioranza di governo già oggi si regge con parlamentari eletti da elettori di destra, ci arriviamo con un connubio che tenga assieme i riformisti, che porti il Nazareno sui temi economici, come qui sostenuto fin dall’inizio. Questo è da trasformatori. Se si nega tale passaggio, enunciando riforme che poi non potranno farsi, degradandosi in vessilli vuoti, allora si è trasformisti. Il tempo costa e ne abbiamo già buttato parecchio. I video con Marta e Giuseppe sono solo propaganda. Ci vuole pure quella, come il sale sulla bistecca. Di solo sale, però, si crepa in fretta.

Jobs Joke

Jobs Joke

Davide Giacalone – Libero

Sul tema del lavoro è in scena una commedia degli equivoci. Che spera d’essere presa sul serio. Matteo Renzi non ha scelto a cuor leggero di aprire un conflitto dentro il suo partito, non ha sfidato per sfizio l’armamentario luogocomunista della sinistra, lo ha fatto per necessità. Il tentativo è quello di far somigliare l’Italia del 2014 alla Germania del 2003. Allora i tedeschi sfondarono il tetto del deficit per pagare i costi di riforme profonde, mercato del lavoro compreso, che avrebbero dato i loro frutti nel futuro. E li diedero. Noi, oggi, manchiamo la promessa di tenere il deficit sotto il 2,6% del prodotto interno lordo, ed è già difficile tenerlo sotto al 3, senza avere fatto un accidente. Da qui la trovata: diciamo di cambiare le regole del lavoro e proviamo a dare un significato ai conti che non tornano.

Può darsi che la Commissione europea abbocchi. Non perché siano allocchi, ma perché commissariare l’Italia è difficile. È troppo grossa. In ogni caso è escluso che creda alla serietà dell’operazione. Faremmo bene a diffidarne anche noi, perché qui non siamo a uno dei dibattiti della Leopolda, nel qual caso avrei applaudito, come applaudii allora, qui si tratta del governo. E le chiacchiere stanno a zero. Anzi, a meno di zero, visto che già su quelle il partito di governo si spappola. La gande novità consisterebbe nel contratto a tutele crescenti. Altra formula che più la ripeti e meno significa, perché si tratta di sapere quali, quando scattano e cosa escludono. Lo sapremo non appiccicando i manifesti della legge delega, ma leggendo il testo dei decreti legislativi. Che sono assai di là da venire. Sarà bene ricordare, difatti, che la radicale semplificazione delle regole sul mercato del lavoro era promessa e contenuta nei documenti e nel decreto “Destinazione Italia”, risalenti al settembre 2013. Scelte poi confermate in “Impegno Italia”, del febbraio 2014. Quindi, a parte la fantasia perversa di dare nomignoli all’attività di governo, investitori e osservatori internazionali sanno già qual è il valore concreto di quelle tonitruanti affermazioni: nullo. Servono i fatti, che non ci sono.

Relazionando in Parlamento Renzi ha detto di volere cancellare la dualità del mercato del lavoro italiano, con troppe garanzie in capo a pochi e poche (o nessuna) in capo a troppi. Sante parole, ma solo parole. Non è lo stesso governo che ha varato il decreto Poletti, nel quale si escludono garanzie per i nuovi contratti, nei primi tre anni? Decreto che trovo giusto, ma pur sempre l’opposto del ridurre la dualità. Per aggredirla occorre rivedere le troppe garanzie, cosa che provoca l’opposizione degli stessi che approvarono i due citati provvedimenti, governante Enrico Letta. Come si vede, la coerenza è una merce rara. Per rendersi conto di quanto non basti dire e serva, invece, fare, propongo a tutti, e in particolare al presidente Renzi, un piccolo gioco: condividete o meno, le seguenti affermazioni? “Per dare un’immagine plastica della condizione attuale, bisogna dire che la nostra società si divide in due vaste zone. Nell’una, ci sono coloro che hanno un patrimonio, un reddito, un lavoro, e che sembrano voler difendere con ogni mezzo e con energico spirito corporativo quello che hanno. Alla porta di tale zona si affolla l’altra, costituita da disoccupati, giovani e adulti, da categorie debolissime, da abitanti di zone depresse. Se le forze politiche e sociali continuano a occuparsi soltanto della prima zona, secondo i propri interessi politici, di classe o di ceto, trascurando la seconda, non usciremo dal problema”. Vado a capo, per dare il tempo di rispondere. Sono parole di Ugo La Malfa, risalenti al 1977. Da allora ad oggi siamo andati in direzione opposta al necessario, blaterando di diritti acquisiti e perdendo competitività. Spero sia chiaro il perché servono fatti non annunci. Le sole parole belle rischiano d’essere balle. Il jobs act un jobs joke.

Le banche rifiutano il denaro di Draghi: l’economia è ferma

Le banche rifiutano il denaro di Draghi: l’economia è ferma

Ugo Bertone – Libero

«Una batosta per Draghi». Non ha usato mezzi termini il sito del Financial Times per giudicare a caldo l’esito della prima asta Tltro, cioè i prestiti della Bce alle banche perché finanzino l’economia reale dell’Eurozona a secco di capitali. I numeri sono impietosi: a fronte di una previsione di 133 miliardi, ne sono stati richiesti 82,6. Su 382 istituti europei che avevano diritto a partecipare alla distribuzione dei fondi, ben 127 sono rimasti alla finestra. Le banche italiane, per la verità, sono state le più attive, avanzando richieste per 23 miliardi. In particolare Unicredit ha avanzato richieste per 7,7 miliardi, seguita da Intesa (4 miliardi), Mps (3 miliardi) e da Iccrea (2,24 miliardi per conto di 190 banche cooperative). Si sono fatti avanti anche Bper (2 miliardi), Banco Popolare e Credito Valtellinese (1 miliardo a testa), Credem e Carige (attorno a 750 milioni), più Mediobanca (570 milioni). Un elenco che potrebbe salire e non di poco con la prossima offerta di dicembre. Ma anche così il risultato è inferiore alle attese. Alla vigilia il ministro Pier Carlo Padoan aveva, infatti, definito credibile una richiesta di 37 miliardi.

Di questo passo, se il flop si ripeterà a dicembre e nelle successive sei operazioni previste da Francoforte, andranno deluse le speranze del governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, che da questi prestiti si aspetta, di qui al 2016, 200 miliardi da mettere a disposizione delle imprese con un contributo al Pil di almeno un punto percentuale, ovvero una preziosa boccata d’ossigeno anti-recessione. Ancora una volta, come capita ormai troppo spesso, le previsioni e le speranze dei tecnici si sono rivelate troppo ottimistiche. Senza dimenticare poi che una fetta molto consistente dei nuovi prestiti servirà a ripagare nel prossimo febbraio i debiti con Francoforte legati al primo Ltro.

Ma perché? Per quale motivo le banche sono così restie ad attingere a prestiti allo 0,05% per la durata di quattro anni? La risposta più convincente arriva da Paolo Guida, vicepresidente dell’Aiaf, l’associazione degli analisti finanziari: «Il problema – dice – sta, soprattutto in Italia, più nella domanda che nell’offerta di credito. Le condizioni dell’economia, infatti, non giustificano investimenti da parte delle imprese o l’ulteriore indebitamento delle famiglie». Insomma, il sistema sembra ormai precipitato nella trappola della liquidità descritta da Keynes: non si prendono a prestito quattrini oggi perché, di fronte al crollo dei prezzi, le cose costeranno di meno domani. Ovvero, come recita il proverbio, si può portare il cavallo in riva al fiume ma non lo può costringere a bere. E i cavalli, ovvero le aziende tricolori, sono davvero stremati. Inoltre, a frenare il credito non è tanto la mancanza di liquidità bensì la combinazione tra i vincoli patrimoniali imposti dall’Aqr e il rischio legato agli impieghi.

In questa situazione la Bce paga il prezzo per essersi mossa con eccessivo ritardo. I prestiti Tltro avrebbero avuto ben altro effetto se messi in pratica prima che la situazione si deteriorasse in maniera così tragica. Ma Draghi ha dovuto (e deve) affrontare l’opposizione irriducibile dei falchi tedeschi che si ostinano ad invocare nuova austerità, con il pretesto che ogni allentamento della stretta sia usato come pretesto per non fare le riforme. In questa cornice, però, la relativa sconfitta subìta ieri dalla strategia di Draghi può tradursi in un’occasione di riscossa. Il flop dimostra soprattutto che i mali dell’Europa sono così gravi che non si possono curare con l’aspirina dei Tltro. Ci vuole una terapia più forte: senz’altro è necessario che la Bce possa procedere presto all’acquisto degli Abs (Asset backed securities), ovvero prodotti in cui le banche potranno impacchettare prestiti poco redditizi o comunque “scomodi” come ha potuto fare la Federal Reserve, rivitalizzando il mercato del credito per l’acquisto dell’auto. Ma, soprattutto, super Mario dovrà lanciare il “quantitative easing” europeo, ovvero l’acquisto di titoli di Stato ed azioni in quantità sufficiente per smuovere l’economia. Quanto ci vorrà? Forse non saranno sufficienti nemmeno i mille miliardi di cui ha già parlato Draghi. Ma non è il caso di esitare. Come ha detto lo stesso banchiere romano, di questi tempi «il rischio di non fare è molto più alto di quello di fare».

Salvò un’azienda dal crac, la burocrazia lo punisce

Salvò un’azienda dal crac, la burocrazia lo punisce

Fausto Carioti – Libero

L’aula di Montecitorio, dove ieri Matteo Renzi ha promesso «una politica economica espansiva che rialimenti la fiducia tra imprese e cittadini», vista da qui è davvero dall’altra parte della Luna. Siamo a Noventa di Piave, in provincia di Venezia. Una settantina di dipendenti diretti e altrettanti nell’indotto, fatturato che dopo un periodo diflìcile è cresciuto sino a quota 20 milioni, commesse importanti all’estero, un curriculum che vanta edifici come il ponte di Calatrava, il Lingotto di Torino firmato da Renzo Piano e l’hotel Vela a Barcellona: i numeri per andare avanti ci sono, ma dinanzi un lucernario non a norma di legge valgono poco. La Simco Tecnocovering rischia di finire nel lungo elenco delle vittime dell’ottusità della burocrazia.

L’impresa progetta e applica quelle facciate di vetro e metallo diventate, grazie agli archistar, il simbolo della modernità. Il gruppo cui apparteneva, la Lorenzon Techmec System, si era trovato sul baratro quattro anni fa. Ma aveva commesse e contatti sparsi per il mondo e un know how di tutto rispetto. Così l’azienda di Noventa fu acquistata dalla Simco Tecnocovering, consociata del gruppo che fa capo al friulano Marco Simeon. Da allora ha lavorato per costruire le facciate del ministero della Difesa francese a Parigi, della torre di Telecom Maroc a Rabat, della nuova sede del Credit Agricole a Nantes e del palazzo Trebel a Bruxelles, destinato al Parlamento europeo, e in molti altri cantieri. Insomma, il lavoro non manca e i tempi brutti sembrano alle spalle.

Se non fosse per quel lucernario, di cui ha scritto ieri il Corriere del Veneto, e tutto quello che esso rappresenta. Tre anni fa Simeon aveva acquistato la sede dell’azienda dal tribunale. Decide di cambiare la distribuzione degli spazi e presenta un progetto in sanatoria. Tutto bene, tranne il torrino in alluminio e vetro che sporge di quattro metri. Si scopre che il massimo previsto dal progetto originario è ottanta centimetri. È un abuso ereditato dalla vecchia proprietà, ma alla burocrazia non interessa. Siccome il permesso di costruire dura tre anni, Simeon chiede tempo per trovare una soluzione. La risposta è un’ordinanza del Comune datata 24 aprile, in cui si obbliga alla demolizione del lucernario entro 90 giorni. Copia dell’ordinanza è inviata alla procura e «comunicata agli uffici competenti per l’eventuale cessazione delle forniture e dei servizi pubblici». Così ora l’azienda rischia di trovarsi senza acqua né elettricità e con un procedimento penale in più.

«Non manderò mai a casa i miei dipendenti», assicura Simeon parlando con Libero. «Smonterò il torrino, perché sono costretto a farlo dalla burocrazia, e andrò avanti con la mia attività». Ma questa storia è una metafora: se la racconta, spiega, e solo perché è un esempio di ciò che accade a tante altre imprese. «Stiamo parlando di una società che ha salvato il personale di quella che era fallita, ne ha acquistato i beni, è andata in giro per il mondo a vendere il suo prodotto nonostante i problemi creati dalla burocrazia, ha portato i quattrini fatti all’estero in Italia, li ha riversati sul territorio, e qui trovo chi mi intima di smontare un torrino che ho comprato dal tribunale».

Simeon comincia a capire chi va via. «I grossi gruppi come Fiat hanno iniziato a mettere le loro società fuori da questo sistema, ma sono in tanti che ci stanno pensando. Io in questo momento non ho intenzione di farlo, ma se dal punto vista fiscale e burocratico si va avanti così una simile scelta diventerà inevitabile per la sopravvivenza del nostro sistema imprenditoriale».

Spariti i 40 milioni per le partite Iva

Spariti i 40 milioni per le partite Iva

Claudio Antonelli – Libero

Ad agosto, poco meno di un mese e mezzo fa, il governo dopo interpellanza scritta fa una promessa: troveremo i 35-40 milioni di copertura necessari per la piccola mobilità e per evitare che le partite Iva, che nel 2012 hanno fatto assunzioni agevolate fidandosi degli incentivi promessi da Monti, debbano restituire il denaro all’Inps. La data di scadenza della promessa era ieri e i soldi sono spariti. Anzi il ministero a voce dice di averli trovati. Chiede all’Inps di aspettare a mandare gli avvisi di riscossione ad artigiani, commercianti e liberi professionisti. L’Inps senza garanzia scritta di copertura deve fare rispettare le leggi. Anche se in contraddizione con leggi precedenti. E ora il rischio concreto è che per meno di 40 milioni molte partite Iva si trovino in grossa difficoltà. In un cul de sac, degna conclusione di una vicenda paradossale.

Nel 2012 il governo Monti aveva annunciato sgravi biennali per la piccola mobilità. Le mini aziende, che avessero assunto dipendenti rimasti a spasso per giustificato motivo nell’ambito di attività artigianali, avrebbero usufruito di interessanti sgravi contributivi. Un costo del 10% contro il 30 normalmente previsto. A ottobre del 2013 viene emessa una circolare che in sostanza chiarisce come non sia più possibile riconoscere le agevolazioni per le assunzioni, effettuate nel 2013, di lavoratori licenziati nel 2013. «In via cautelare», si evince dalla direttiva, «deve ritenersi anticipata al 31 dicembre 2012 la scadenza dei benefici connessi». In sostanza sparisce la copertura per una norma che per legge della Repubblica avrebbe dovuto essere garantita per almeno due anni e scatta la retroattività. Non solo stop per i circa 300 euro mensili di agevolazioni. Ma ora il rischio della batosta: la restituzione di una somma che può arrivare anche a 5mila euro.

In Parlamento si era mosso il M55. La deputata veneta Gessica Rostellato ha presentato un’interpellanza in Aula sollecitando il govemo a dare risposte. «Avevamo chiesto», commenta Rostellato, «di preservare migliaia di aziende da un esborso incomprensibile, data la piena violazione del principio di irretroattività di una serie di provvedimenti talmente chiari da non lasciare dubbi. Abbiamo poi depositato una risoluzione perché il governo non obblighi molte aziende a trovarsi nella condizione di non poter ottemperare a una richiesta assurda. E poi trovarsi fuori legge – basti pensare al Durc – e rischiare addirittura il ko». Ma non finisce qui. «Adesso regna la totale incertezza. Potrebbe anche accadere che le lettere firmate dall’Inps partano ugualmente», prosegue Rostellato, «e poi se dovessero saltare fuori le coperture, gli importi non verrebbero riscossi. Creando un clima di terrore e confusione». Gli artigiani sono furibondi. «Esistono licenziati di seria A e di serie B», commenta Mario Pozza delegato alla semplíficazione di Confartigianato, «e ancora una volta vediamo che il governo tratta i piccoli come dipendenti di serie B. Basta sciacquarsi la bocca con le Pmi. Ce ne ricorderemo quando si tratterà di votare». Ora Renzi ha al massimo due giorni per risolvere l’indegno pasticcio.

Emozioni scolastiche

Emozioni scolastiche

Davide Giacalone – Libero

La scuola sia luogo di studio e formazione, non solo di socialità e svago. Lo dico agli studenti, ma anche ai governanti. L’anno scolastico inizia anche senza la sfilata inutile e le parole terribilmente ripetitive. Vale per tutti i governi. Per tutti i ministri che vanno a dare il cinque, per tutti quelli che fanno gli spiritosi, per quelli affetti da complesso materno o paterno. La serietà, forse, potrebbe essere un esempio apprezzato.
Oltre al rito stanco e sempre uguale, quest’anno s’è vissuta qualche emozione. La spesa pubblica per la scuola se ne va quasi tutta, per non dire tutta, nel pagamento di chi nella scuola lavora e delle spese fisse relative a organizzazione e immobili. Brutta roba. Non contenti di ciò, come si sa, il governo ha avviato l’assunzione di 190 mila insegnanti: 150 mila dalle graduatorie a esaurimento e 40 mila con un concorso, che non c’è e, magari, manco ci sarà. Ieri Matteo Renzi ha detto: assumere quei precari è un obbligo. Cerchiamo di essere più precisi: è una capitolazione. E’ la dimostrazione che, negli anni, lo Stato ha barato, mantenendo in condizioni d’incertezza quanti aveva poi in animo di assumere e stabilizzare. Ha barato sui corsi abilitativi, sulle graduatorie, sul presunto obbligo costituzionale di assumere solo per concorso. Ma è anche la dimostrazione che tutte quelle sul merito e sulla valutazione sono chiacchiere, perché si assume chi c’è di già, facendo fuori i giovani che volessero dedicarsi all’insegnamento. Capitolazione, è la definizione adatta.

Un brivido ce lo ha regalato anche il ministro dell’istruzione, la professoressa onorevole Stefania Giannini. La quale non è specializzata in materie giuridiche e pensa che la politica sia farsi fotografare. Ella, difatti, è riuscita a dire che non solo intende cambiare gli esami di maturità (una mania di tutti quelli che s’appoggiano una stagione a viale Trastevere), ma è fermo proposito del governo inserire tale riforma in un decreto legge, già programmato per il mese di gennaio, talché possa valere per l’anno scolastico 2015-2016. Vale a dire il prossimo, non quello iniziato. Ultimamente capita di sovente, direi puntualmente e sempre, quindi anche questa volta aspetto che palazzo Chigi la smentisca. A tutto c’è un limite.
Perché mai si dovrebbe usare un decreto legge, vale a dire uno strumento legislativo d’urgenza, che entra immediatamente in vigore, per scrivere una riforma che riguarda l’anno scolastico che comincerà nel settembre 2015 e finirà nel giugno del 2016? Potrebbe replicare, la professoressa onorevole, che già ci sono esempi di cose simili, ad esempio nel settore giustizia. Vero. Ma se consentono di reiterare l’obbrobrio vuol dire che al Quirinale hanno chiuso l’ufficio legislativo. Il che potrebbe anche andare bene, se solo se ne vedesse il riscontro nel taglio delle spese.

Nel merito, il ministro vorrebbe esami di maturità con tesina e commissione interna, tranne un membro esterno a far da garante. Chi glielo dice che sono cose già viste? Chi glielo dice che la tesina la portai già io, nel secolo scorso? Ma, soprattutto, chi le ricorda a che servono gli esami di maturità? Sono funzionali al valore legale del titolo di studio. Se lo ha dimenticato, o mai saputo, fatele la fatale rivelazione. Perché basterebbe mettere mano a quel totem muffuto e insulso per risolversi un sacco di problemi. Con il che, naturalmente, non verrebbero meno i test finali, in grado di dare il senso della qualità raggiunta, nel corso degli studi, è che si potrebbero fare in modo più serio, più pulito, più efficiente, infinitamente meno costoso, e senza commissione, che serve per il citato totem. Si potrebbe farli come si fanno in tanti sistemi istruttivi europei: on line. Con valutazioni comparabili. Dove il garante è l’onestà del sistema, non il commissario esterno, che si spera sia onesto. Ma di speranza non si campa.

Qualcuno di buona volontà, provi a farlo sapere a quelli del ministero. Approfitti del fatto che, da ieri, è aperta la mitica consultazione pubblica. Che durerà due mesi. A proposito, questa è l’ultima perla della giornata: ha detto il ministro che una consultazione pubblica come questa, aperta a tutti quelli che vogliono scrivere, non si è fatta in nessun Paese europeo. Si esalti: non l’anno fatta da nessuna parte in questo mondo. Provi a chiedersene il perché.