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Insanità regionale

Insanità regionale

Davide Giacalone – Libero

Posto che la pressione fiscale generata dagli enti locali è aumentata dell’80 per cento in quattordici anni, senza che sia diminuita quella nazionale, posto, quindi, che da tre lustri gli italiani s’impoveriscono e perdono competitività anche per finanziare enti la cui utilità è nota più che altro a chi li abita, è facile capire il perché non si trovi divertente la polemica fra il governo e le regioni. Oltre tutto giocata usando il linguaggio della più sciatta demagogia: “spreconi”, da una parte, “affamatori”, dall’altra. I governatori regionali, abituati a batter cassa presso il governo, non s’aspettavano di trovarsi di fronte chi usa la cassa per battergliela in testa. Molti di loro sognarono il partito di “lotta e di governo”, eccoli serviti: salvo che usa la lotta demagogica contro di loro.

Piuttosto che l’opera dei pupi, però, si possono fare operazioni interessanti: chiudere la tragica storia della sanità regionalizzata, che con la riforma Bindi, del 1999, elevò a sistema la militarizzazione partitocratica dell’amministrazione, e con la riforma costituzionale del 2001 stese una pietra tombale sull’idea che la salute e la sanità fossero questioni di competenza nazionale. Due operazioni “Made in left”, così anche i newcomers capiscono. Contabilizzati i disastri è ora di farla finita.

Inutile continuare a polemizzare sul costo delle siringhe. Anche stucchevole e oltraggioso, perché sentendolo ripetere da anni, da governi e governanti di ogni colore, il cittadino si chiede: ma a chi lo stanno dicendo? Se il sistema fa così schifo, e lo fa, lo cambino. La soluzione non è che le tasse per coprire quei costi siano a cura degli enti locali anziché dello Stato, dato che a pagare sono i medesimi italiani. Semmai si deve avere il coraggio di spiegare perché il politico regionale nomina i capi dell’amministrazione sanitaria e perché l’organizzazione che presiede alla difesa della mia salute debba essere regionale. Non saprei spiegarlo, perché lo considero sbagliato.

Fin qui ci si è trastullati con le siringhe e i costi standard, che già di loro sono un non senso: se l’acquirente compra molto materiale sanitario e molti farmaci, bandendo una gara fra fornitori, è ovvio che riesce a spuntare un prezzo migliore rispetto a venti acquirenti che comprano un ventesimo e bandiscono centinaia di gare. Oggi le regioni ricevono un rimborso, dallo Stato, pari alla media dei tre migliori prezzi. A parte che il prezzo adottabile dovrebbe essere il più basso, non una media, quando comprano pagando più degli altri generano nuovo debito, che si somma a quello immenso, già esistente. Quando, sventuratamente, negli anni 70, si chiusero le mutue queste lasciarono un immenso patrimonio immobiliare, avendo fornito assistenza a tutti i mutuati. Oggi ci sono solo deficit e debiti. Cosa serve di più per capire che la regionalizzazione è una follia?

Senza mai dimenticare che la qualità media dell’assistenza sanitaria, in Italia, è ottima. Purtroppo con vergognose sperequazioni interne (ulteriore conferma della pessima regionalizzazione), ma mediamente fra le migliori al mondo. Il che dimostra, se ve ne fosse bisogno, che il nostro problema non sono i medici, ma gli amministratori. Ed è questo il lato positivo: per formare buoni medici ci vogliono anni, per mandare a casa cattivi amministratori, protettori di amministrativi nullafacenti, soci di sindacati corporativi, ci vogliono, a saperlo e volerlo fare, un paio di mesi. A patto di non perderli in battibecchi degradanti e di utilizzarli per fare vere e sane riforme.

L’Italia ha dato 60 miliardi ai fondi europei

L’Italia ha dato 60 miliardi ai fondi europei

Libero

L’Italia è contributore netto degli strumenti di stabilità finanziaria europei per ben 60 miliardi di euro. Lo rivela un’elaborazione del Centro Studi “ImpresaLavoro” su dati Bankitalia. Negli ultimi 4 anni, infatti, il nostro Paese ha contribuito con 60 miliardi di euro alla creazione e all’avvio dell’EFSF (European Financial Stabilty Facilty) e dell’ESM (European Stability Mechanism): tutte iniziative di cui l’Italia non ha mai usufruito, pur essendo uno dei principali soggetti contributori.

In termini concreti questo ha un impatto rilevante sui nostri conti pubblici: al netto di quei contributi, infatti, il nostro Paese avrebbe oggi un debito di 60 miliardi più basso, con ovvie conseguenze per la finanza pubblica. «Oggi l’Europa è chiamata a validare i nostri conti pubblici – osserva il presidente di “ImpresaLavoro” Massimo Blasoni – ma non si può ignorare il fatto che l’Italia stia contribuendo più che proporzionalmente rispetto alle sue possibilità a strumenti di solidarietà economica tra Paesi da cui non ricava nessun beneficio».

Mai prima d’ora

Mai prima d’ora

Davide Giacalone – Libero

Va di moda il “non si era mai fatto prima”. Si è passati dal cronoprogramma sincopato alla più lunga maratona dei mille giorni, passo dopo passo. Il che potrebbe essere salutato come un approdo al realismo, se non fosse che ad ogni passo ci viene chiesto di credere che “non si era mai fatto prima”. E neanche mi preoccupa la pretesa, in sé infantile, ma che molti, specialmente fra i politici teleparlanti, mostrino di crederci. O addirittura ci credano. Perché questa non è semplice mancanza di memoria, ma ignoranza allo stato brado.

Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio, ebbe a dire che i suoi governi avevano realizzato più cose di tutti quelli precedenti, dalla nascita della Repubblica a quel momento. Boom! La sparata era talmente tonante che non sarebbe neanche stato necessario metterla in dubbio, eppure non passava giorno, anzi non passava ora senza che si sostenesse e facesse valere, su ogni mezzo di comunicazione, una corbelleria eguale e contraria: non ha fatto nulla e nulla sta facendo. Salvo gli affari suoi, naturalmente, perché questo voleva e vuole la vulgata luogocomunista. Insomma: Berlusconi non era certo immune dal dirle tonde, ma cadevano su un terreno vaccinato, se non prevenuto. Ora mi preoccupa una certa predisposizione al contagio della balloneria.

Mai prima d’ora si erano fatti sgravi fiscali. No, se ne sono fatti diversi. Se proprio serve indicarne uno: la cancellazione dell’Ici sulla prima casa, poi replicata con l’Imu, sotto il governo Letta. Ed era appena ieri. Solo che gli sgravi si sono fatti, ma la pressione fiscale continuava a crescere, come ora. Mai prima d’ora s’era messo mano alla Costituzione. No, lo si è fatto un sacco di volte. Purtroppo. Ma mai prima d’ora s’erano diminuiti i parlamentari. Certo che lo si è fatto, solo che il partito il cui segretario oggi crede d’essere il primo, il Pd, allora volle un referendum per cancellare la diminuzione. Lo stesso referendum che servì a far cadere la riforma della pessima riforma del Titolo quinto della Costituzione, che ora è condannata da chi la votò, mentre è reclamata la riforma da chi la affossò. Già, ma mai prima d’ora ci si era dedicati al bicameralismo paritario. Eccome, tanto che nella Costituzione del 1948 non c’era. Solo che a difenderlo era quella sinistra che ora crede d’essere la prima a detestarlo. Mai prima d’ora s’erano messi dei soldi nelle tasche degli italiani. Certo che lo si fece, ad esempio con la social card (osservo che la criticai per la stessa ragione per cui ho criticato gli 80 euro, il che dimostra che non solo non è la prima volta, ma facciamo le stesse cose da troppo tempo). Mai prima d’ora s’è pensato di rivoluzionare la scuola e la giustizia. Ci hanno pensato tutti, fin troppo spesso, solitamente con idee più chiare di quelle fin qui presentateci dai primatisti. Mai prima d’ora s’era messo in discussione l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Ne parliamo da quaranta d’anni ed è stato riformato due anni addietro, mentre la delega alla riforma è vuota.

Potrei continuare, ma temo di arrivare ad essere contagiato anch’io, concludendo che: mai prima d’ora si sono detti tanti sfondoni. Me lo risparmio, perché sarebbe una bella gara. Faccio solo osservare che le non raffinate menti di quelli che guardano alla sostanza, nonché i grossolani figuri della Commissione europea tendono ad attenersi alle regola di Totò: è la somma che fa il totale. E se fra di addendi ci si mette i proventi della lotta all’evasione fiscale, pretendendo che sia la prima volta nella storia, va a finire che si ricordano d’averla già sentita. Così che se si dice di voler diminuire i premi delle lotterie, va a finire che qualcuno s’accorge che trattasi di prelievo fiscale. E presto gli sovverrà che non è la prima volta, ma l’ennesima.

In compenso ora, per la prima volta, leggeremo il testo della legge di stabilità, non dovendola desumere da un fiume d’interviste contraddittorie. La studieremo senza prevenzione alcuna. Se conterrà cose mai viste prima, ne daremo atto. Se ci vedremo conti che tornano sopravvalutando le entrate e sottovalutando le uscite, rimandando tutto alla prima trimestrale di cassa, a tutto penseremo, tranne che alle novità.

Limbo-rating

Limbo-rating

Davide Giacalone – Libero

Siamo entrati nel limbo-rating, fra color che son sospesi. Venerdì doveva arrivare il giudizio di Moody’s sui conti italiani e la sostenibilità del debito, ma lo hanno rimandato. Ci si dorme lo stesso, ma un filo d’inquietudine m’ha preso quando ho sentito che il ministro dell’economia è tranquillo. Considerato che hanno declassato la Finlandia (da tre a due A), far spallucce non aiuta. L’inquietudine è cresciuta quando un rating è arrivato, accolto da un coro festoso: confermato il giudizio sull’Italia. Peccato sia una previsione negativa. L’agenzia canadese Dbrs è la più generosa con l’Italia, considerandoci ancora a livello A, sebbene “A-Low”, ma l’outlook, la previsione per il futuro è infausta. Dice che andremo peggio. La preoccupazione aumenta ancora una volta sentito il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan, che è sicuro del consenso che la Commissione europea accorderà alla nostra legge di stabilità. Potremmo star sereni, se non fosse che il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ci avverte che la legge italiana non può essere già stata bocciata, dato che non è ancora stata scritta. Tradotto: stiamo trattando. E pensare che qualche illuso, lasciatosi affascinare dal dinamismo apparente, gli aveva suggerito di anticiparla all’estate. Macché, ci stiamo attardando, fino all’ultimo istante. Chissà che non sia anche per questo che Moody’s rinvia.

Non divinizzo certo i responsi delle agenzie, dopo avere collezionato dileggi per averne messo in luce conflitti d’interesse, scarsa credibilità e necessità di svincolare le decisioni sugli investimenti da quegli indici. Erano i mesi in cui ogni loro parola era considerata sentenza inappellabile e indicazione politica. Non dai (mitici) “mercati” o dalla speculazione: dalla sinistra. Che persi gli idoli ideologici s’era acconciata ai feticci mercanti. Non cambio giudizio, solo che i dubbi sul futuro sono quelli di cui qui scriviamo costantemente. Ci si trastulla con le parole, mentre i fatti marciano in altra direzione.

Sono mesi che si parla di tagli alla spesa pubblica, sostanza annunciata della legge di stabilità. Carlo Cottarelli ha preparato un piano, che non è stato neanche pubblicato. Il silenzio del commissario alla spending review ha accompagnato il suo ritorno al Fondo monetario internazionale, con una nomina voluta dal governo che gli chiedeva di tacere. Scambio occulto? Macché: baratto palese. Fin troppo. Alla fine, comunque, i tagli reali dovrebbero essere di 4 miliardi, altro che 10, o 20, come si vaneggiò nella calura.

Sono anni che si discute sul modello delle necessarie dismissioni per abbattere il debito pubblico, che intanto cresce per i fatti suoi, mentre i modelli sfilano ignudi di credibilità. Per passare ai fatti c’era il tempo conquistato dalle iniziative della Bce. Cosa siamo riusciti a fare? Abbiamo messo in difficoltà e attaccato la Bce. Ma non basta, perché il governo italiano stima il nostro debito pubblico al 131.6% del prodotto interno lordo, mentre il Fondo monetario internazionale lo colloca al 136.4, salvo correggersi e aggiornarlo al 136.7. Lavorano su dati diversi? Sarebbe davvero curioso.

Non siamo gli unici a fare i furbi con i conti, è che siamo fra i pochi a farlo da fessi. Il debito pubblico tedesco è all’80% del loro pil, ma fanno finta di non sapere che dovrebbero sommare anche quello della KfW (Kreditanstalt für Wiederaufbau), la Cassa depositi e prestiti di colà. E questo è niente, perché non un antipatizzante della Germania, bensì uno dei loro più validi industriali, Michael Mertin (Jenoptik), calcola che il debito pubblico “se si considera quello totale, includendo le pensioni, gli stipendi dei dipendenti pubblici e altre passività future del governo, sale al 285% del pil”. E se calcolassimo il debito aggregato, mettendo assieme quello pubblico e quello privato, sia industriale che familiare, in relazione al patrimonio finanziario, scopriremmo che i debiti italiani e quelli tedeschi non hanno significativa differenza di affidabilità. Salvo un dettaglio: la lucidità e continuità della classe dirigente. Politica e non solo.

Non siamo gli unici ad avere conti ballerini, ma proviamo gusto nel vestirli con il tutù e farli danzare al ritmo di discussioni sempre uguali e sempre oziose. Sono lustri che parliamo dell’articolo 18, lo abbiamo anche cambiato, nessuno se ne è accorto e replichiamo sempre la stessa scena. A stupire è che qualcuno ancora ci creda. Moody’s già ci colloca ai margini bassi dell’affidabilità (Baa2). Fra due settimane sarà il turno di Fitch. Prima di Natale arriverà Standard & Poor’s. La sostenibilità del debito è un problema dell’intera area dell’Euro, che si ostina a non federalizzarlo, rendendolo sicuro e meno costoso. Noi abbiamo un problema in più: credere che si possa continuare a perdere tempo.

Sciopero fiscale contro la tassa rifiuti

Sciopero fiscale contro la tassa rifiuti

Attilio Barbieri – Libero

A Cremona è scoppiata la guerra alla tassa rifiuti, la Tari. Sette imprese su dieci non hanno pagato la tassa più odiata dai piccoli imprenditori. Le categorie produttive avevano annunciato lo sciopero fiscale lo scorso mese di luglio, guadagnandosi anche aperture di pagina sui quotidiani nazionali. Ma in fondo in pochi credevano che commercianti e artigiani sarebbero andati fino in fondo. E invece, secondo un sondaggio condotto su un campione rappresentativo delle categorie coinvolte, il 70 per cento ha deciso di non presentare la dichiarazione Tari. Confcommercio, Confesercenti, Confartigianato, Cna, Asvicom: l’appello alla disobbedienza fiscale era partito un po’ da tutte le sigle che rappresentano il variegato universo del terziario commerciale. Ieri il quotidiano di Cremona, La Provincia, ha dato conto del sondaggio condotto in settimana fra gli iscritti. La percentuale di quanti hanno detto no alla Tari, è tale da lasciare pochi dubbi.

Inutile il tentativo dell’amministrazione comunale, guidata dal sindaco Gianluca Galimberti, eletto lo scorso giugno dalla coalizione di centrosinistra, di ammorbidire le posizioni dei piccoli imprenditori. Dal tavolo di confronto aperto quest’estate non è uscito nulla di significativo. Le categorie chiedevano di attutire l’effetto della nuova imposta sui rifiuti, ritoccando le tabelle in vigore. Lo «sconto» proposto da Galimberti è stato giudicato insufficiente se non addirittura irrilevante. La partita non è ancora chiusa. Mercoledì prossimo ci sarà un nuovo confronto, ma come hanno anticipato i rappresentanti di commercianti e artigiani «gli scudi restano alzati».

«La nostra posizione», hanno spiegato le associazioni del terziario, «resta quella di un mese fa, non possiamo lasciarci ammazzare da questa gabella iniqua e pensiamo che il Comune debba attutire l’impatto devastante con maggiore convinzione di quella dimostrata finora». In gioco ci sono cifre consistenti. Le attività coinvolte in provincia di Cremona, sono 1.100. «Abbiamo chiesto a Galimberti di conoscere nel dettaglio tutti i numeri: quanto pagavano i nostri associati di Tarsu, la vecchia tassa sui rifiuti e quanto devono versare ora di Tari», spiega a Libero il presidente di Confcormnercio Cremona, Claudio Pugnoli, «ma tenga conto che gli aumenti arrivano anche al 600%. Il Comune ci ha offerto uno sconto di 100mila euro: spalmandolo sugli associati fa poco più di 90 euro a testa. Vogliamo capire, numeri alla mano, quanto possa incidere. Per alcuni di noi il nuovo tributo comporta rincari nell’ordine delle migliaia di euro. Cifre improponibili, che si fa fatica a pagare».

In effetti l’entità della nuova tassa è tale da mettere in ginocchio intere categorie di operatori. Secondo un documentato studio prodotto a inizio anno proprio da Confcommercio, un negozio di fiori o una pizzeria al taglio, per i rifiuti prima pagavano 400 euro, ora ne devono sborsare più di 3mila, con un aumento del 650 per cento. E parliamo di attività che impegnano una superficie di 100 metri quadrati, non certo dei supermercati. Di poco inferiore l’aumento percentuale toccato a ristoranti e trattori, con una superficie di 200 metri quadri: il rincaro si limita (si fa per dire!) al 482%. Ben 4.675 euro contro gli 802 della Tarsu. Pesante anche la sorte che tocca a bar e pasticcerie (sempre con una superficie di 100 metri): anziché 401 euro ne dovranno sborsare 1.661 (+314%). Ma le sorprese non finiscono qui. Sempre a guardare le tabelle compilate da Confcommercio, si scopre che all’aumentare della superficie, e presumibilmente del giro d’affari, il rincaro percentuale si attenua. Il costo dei rifiuti per un piccolo supermercato così come un negozio di generi alimentari che impegnino 300 metri quadri, sale da 1.204 a 3.478 euro. L’onere cresce del 188 per cento.

Un albergo senza ristorante, con 200 metri di superficie calpestabile, deve versare 840 euro anziché 386, con un aumento che si ferma al 118 per cento. Va un po’ meglio a edicolanti, farmacisti e tabaccai: di Tarsu pagavano 103 euro, di Tari 183 (+77%). Anche se paragonare gli introiti di un’edicola a quelli di una farmacia, con la crisi nera dei giornali, è un paradosso nel paradosso. Resta il fatto che il nuovo tributo anziché essere progressivo è regressivo: decresce percentualmente all’aumentare della superficie e presumibilmente dei ricavi. Un meccanismo che finisce per punire i titolari delle piccole attività. Alla faccia della perequazione di cui si sono riempiti la bocca i governi negli ultimi cinquant’anni. Il caso di Cremona, comunque, non è l’unico. Anche a Siracusa e Nuoro commercianti e artigiani si preparano a restituire le cartelle Tari ai sindaci. Forse lo sciopero fiscale è soltanto all’inizio.

Per finta

Per finta

Davide Giacalone – Libero

Proteste immaginarie contro riforme immaginifiche. La piazza si agita per il sobbollire della voglia di protestare, mentre il legislatore s’arruffa per compensare la genericità nello svogliatamente proporre. Il risultato finale è il crescere della chiacchiera e lo scemare della sostanza. Gli studenti s’intestano il “no” alla riforma della scuola, ma di quale riforma parlano? Gli stessi giovani manifestano contro il cosiddetto Jobs Act, in realtà sfilando contro le suggestioni sventolate, mancanti di provvedimenti effettivi. Anzi, ed è singolare, protestano contro quello che non c’è, ma non contro quello che è già passato, ovvero il decreto Poletti che consente di assumere per tre anni senza contrarre alcun obbligo nei confronti del lavoratore. Conta l’immagine, insomma, non la realtà.

A me piacerebbe che la riforma della legislazione sul lavoro avesse la stessa ruvida chiarezza e univocità di quel decreto, nel qual caso non avrei difficoltà nello spiegare il perché le proteste sono sbagliate. Sarebbe bello poter dire a quei ragazzi: siete in errore e non capite che la difesa dell’esistente è quel che vi condanna alla marginalizzazione. Accendete i fumogeni, sventolate le bandiere palestinesi, impugnate il megafono in un giorno da ricordare, ma, se v’avanza tempo, pensate: il vostro interesse sta in direzione opposta. Dovreste chiedere di fare di più e di farlo più in fretta.

Della retorica della velocità, invece, s’è impadronito il governo. Peccato che la pratichi propiziando la lentezza. Peccato che si sollecitino sentimenti forti per poi dar luogo a risultati mosci. Prendete ad esempio la legge delega sul lavoro, sulla quale è stata e sarà ancora posta la fiducia, per fare alla svelta: il risultato consisterà in una brusca frenata per incostituzionalità. Con il testo passato al Senato non si va lontano, perché la delega è così generica da lasciare lo spazio, domani, ai ricorsi contro i decreti legislativi. Ricorsi innanzi ai quali la Corte costituzionale dovrà constatare l’estrema debolezza dell’indirizzo, quindi la potenziale illegittimità dell’attuazione. E non basta, perché il compromesso politico sul celeberrimo articolo 18 è a sua volta incostituzionale, perché distinguendo fra vecchi e nuovi assunti introduce una discriminazione inconciliabile con la Costituzione. Ci si dovrebbe, semmai, arrivare da un’altra parte: varando il contratto a tutele crescenti e considerando transitoriamente acquisito il tempo dei contratti in essere. Ma nella delega non c’è.

Il ministro del lavoro, al Senato, ha detto che si tende a esagerare, da una parte e dall’altra, circa gli effetti della riforma. Da una parte e dall’altra. Nel bene promesso e nel male temuto. Temo abbia ragione. Ma se ha ragione, vuol dire che l’effetto reale sarà un brodino. Per giunta non è soppressa la cassa integrazione, il che toglie risorse ai nuovi ammortizzatori sociali, che con 1,5 miliardi non ammortizzano un bel niente. Dicono i governativi: intanto cominciamo. Lasciamo perdere che partirono promettendo un approccio assai diverso, ma cominciare con così poco, mettendo nel conto uno stop costituzionale, equivale a dire: facciamo finta. E di tutto abbiamo bisogno, tranne che di far finta.

Deutschland uber alles

Deutschland uber alles

Davide Giacalone – Libero

Qualcuno crede che la Germania sia divenuta vittima della propria politica del rigore, imposta agli altri europei. Continua a crescere (mentre noi continuiamo a cadere), ma meno di quel che era previsto. Per forza, dicono i credenti nel boomerang, avendo impoverito gli europei che compravano i prodotti tedeschi ora ne pagano e conseguenze. Non è così, o, meglio, questo è solo un aspetto della realtà. La Germania governata da Angela Merkel persegue una politica di potenza continentale. Sovverte il disegno stesso dell’Unione europea e la logica politica che presiedé alla nascita della moneta unica, suscitando il netto dissenso dei governanti tedeschi che a quel disegno contribuirono. Suoi complici sono la debolezza e la confusione mentale delle classi dirigenti di altri paesi europei. Non solo non serve a nulla, ma è masochisticamente controproducente esaltare lo sfondamento dei parametri, mentre, all’opposto, si dovrebbe riportare i tedeschi al loro rispetto formale e sostanziale. Se non si vuole che quella logica tedesca diventi padrona d’Europa (sfasciandola per l’ennesima volta) si deve usare l’Ue per batterla.

Si vive troppo spiaccicati sul presente, perdendo visione generale e prospettiva storica. La geografia e la storia sono forze che muovono il mondo anche se i governanti le ignorano. L’euro è nato per contrastare il risorgere della tentazione egemonica tedesca. Per bilanciare la riunificazione, in cambio della quale dovettero abbandonare il marco. Ignoranti e smemorati sappiano che nel preparare quel passaggio l’Italia ebbe un ruolo fondamentale, perché fu la nostra scelta di schierare gli euromissili a trarre i tedeschi fuori da un dramma, avviando la fine della guerra fredda e, quindi, mettendo in marcia il processo che avrebbe portato alla riunificazione (ottime e informatissime le pagine di Sergio Berlinguer, nel suo “Ho visto uccidere la Prima Repubblica”). La frittata s’è girata perché molti capirono l’importanza di far partire l’euro, ma non che per restarci si doveva cambiare. Adeguarsi al nuovo, cavalcare e non subire la globalizzazione. Lì i tedeschi, che capirono e anticiparono i tempi, hanno preso un vantaggio. Poi, nella tempesta del 2010-2012, lo trasformarono in uno strumento di dominio.

Perché Merkel non fa crescere il suo mercato interno, perché ha così a lungo resistito alla crescita dei salari? In fondo gli elettori tedeschi sono come quelli del resto del mondo: votano volentieri chi gli farcisce la busta paga. In fondo nei centri Tafel si distribuiscono pasti a tedeschi,a famiglie, che non hanno i soldi per mangiare a sufficienza. Non lo ha fatto perché accumulava un vantaggio sugli altri europei. E’ stata una scelta coerente con la politica di potenza, non un errore tecnico. I francesi sfondano il deficit? Che lo facciano pure: da Berlino giungerà un richiamo, ma si fregano le mani. Gli italiani non riescono a cambiar nulla, polemizzando giorno e notte sul niente? Che si divertano: a Berlino faranno mostra di umore torvo, ma se la ridono. Nelle diverse lingue d’Europa si attende il parere della Merkel, la quale gira e va a dire: continuate così, bravi. Perché in questo momento, e da tempo, i tedeschi si finanziano a tasso negativo. È come se i mercati dessero soldi ai tedeschi in cambio della loro cortesia nell’accettarli in prestito. E lo fanno perché vedono una potenza reale, che i soldi non li distribuisce agli elettori. Se questa divaricazione continua, se da una parte c’è credito a tasso negativo e dall’altra deficit e spese pubbliche fuori controllo, in nome di una plebea rivolta contro i parametri, l’effetto sarà che la Germania potrà comprare quel che di succulento c’è in Francia e in Italia. E chi venderà sarà felice di far cassa, prima di giungere allo scasso.

La Banca centrale europea è la sola istituzione dell’Unione che resiste a questa logica. Sicché è da dementi che francesi e italiani si dilettino a indebolire la Bce, con la loro cattiva condotta. Due cose, oggi, si dovrebbero chiedere. Una alla Merkel: per favorire la riunificazione e varare l’euro il governo tedesco mandò a stendere la Bundesbank, che era contraria, faccia altrettanto, in fretta, e neutralizzi la sua Corte costituzionale, che è suo affare interno, perché noi siamo europei, non tedeschi. La seconda alla Commissione europea: giuste le procedure d’infrazione per chi sfonda i parametri, sicché parta la procedura verso la Germania, che non rispetta da anni quello sul surplus commerciale. Se queste armi le si lascia solo alla Merkel (che ha torti, ma anche ragioni), ce le troveremo puntate alla tempia, o altrove.

La Cassazione ribalta le sentenze ragionevoli sulle tasse non pagate

La Cassazione ribalta le sentenze ragionevoli sulle tasse non pagate

Matteo Mion – Libero

La Cassazione penale non molla la presa. Il nuovo orientamento della giurisdizione di ultima istanza è ormai feroce nel sanzionare penalmente le inadempienze tributarie. La Suprema Corte sta pian piano chiudendo i varchi aperti dalle sentenze dei tribunali che si erano permessi di non condannare gli imprenditori rei di aver omesso il versamento di tributi a causa della crisi o del fallimento della propria azienda. In molti casi, infatti, i giudici di prime cure avevano ritenuto dovuta l’imposta, ma avevano chiuso un occhio sull’aspetto penalistico. Così il tribunale di Pescara con ordinanza del 29 ottobre 2013 non aveva attribuito rilevanza penale all’omesso versamento di Iva da parte del titolare di una ditta individuale che, come emergeva dalle scritture contabili, non aveva incassato l’imposta da due aziende, poiché una era fallita, l’altra era in procedura concordataria: un provvedimento logico e scritto con la penna del buon padre di famiglia. Hai fatturato l’Iva, ma non l’hai mai incassata: pagala, perché sei un pirla a non adeguare la contabilità, ma non ti condanno penalmente, perché non sei un delinquente.

Niente da fare, perché la Cassazione penale Sezione Terza con sentenza 863/2014 accoglie il ricorso presentato dalla Procura della repubblica di Pescara con la seguente motivazione: «il reato contestato non si realizza allorché l’imprenditore trattiene presso di sé le somme che egli ha ricevuto a titolo di Iva dai suoi aventi causa, ma allorché egli ometta di versare le somme quali risultanti dalla dichiarazione Iva da lui presentata, prescindendosi dalla effettiva percezione di esse da parte del contribuente che è pertanto tenuto a pagare l’imposta». Nessuna pietà contro gli imprenditori, nemmeno qualora sia provata la loro buona fede. Ci sarebbe molto da discutere sulla condotta di uno stato che esige l’Iva non percepita da un’azienda che non abbia adeguato la dichiarazione contabile, ma è senza dubbio canaglia lo stato che si accanisce penalmente contro un imprenditore, reo di non pagare le tasse sugli insoluti che lui stesso ha subito. Siamo alla follia gabelliera, alla polizia fiscale.

La magistratura dei palazzi romani è completamente distaccata dalla drammatica realtà economica del paese. Dopo un lauto banchetto e un sontuoso convegno, seduti sugli scranni fregiati della Suprema Corte capitolina, con stipendio sicuro e senza essere responsabili del loro operato, cinque giudici di massimo rango stabiliscono che D.P. è evasore per il reato penale di cui all’art. 10 ter D.lgs. 74/2000 e cioè l’omesso versamento d’imposte. D.P. invece non è un ladro, ma un italiano come tanti che fatica a tenere in piedi la baracca a causa della crisi e di una magistratura come questa.

Tfr, tutto e subito

Tfr, tutto e subito

Davide Giacalone – Libero

Cancellare il Tfr, restituendolo ai lavoratori, è una riforma seria e strutturale. Renderne volontario l’incasso minimale e rateale, mantenendone l’obbligatorietà dell’accumulazione, è una via di mezzo insipida, che somiglia a un trucco contabile. Evitiamo di fare come con le pensioni, cui mettono mano tutti quelli che passano, meglio cambiamenti stabili.

L’allarme da noi lanciato la scorsa settimana, avvertendo che se il Trattamento di fine rapporto smette di essere un risparmio forzoso e un reddito differito entra a far parte del reddito attuale, quindi dell’imponibile, e entrandovi porta sia all’aumento delle tasse da pagare che alla perdita del bonus 80 euro, fu accolto con fastidio, ma era così fondato che ora sento i governativi sperticarsi a dire: non sappiamo ancora come si farà, perché dobbiamo ancora discutere i dettagli (alla faccia dei dettagli!) tecnici, ma il Tfr in busta paga non porterà né più tasse né alla perdita del bonus. Bravi, ci siate arrivati: il pericolo esiste. Aggiungo: le soluzioni che avete in mente sono barocchismi impraticabili.

Per ottenere quel risultato, infatti, si dovrebbe avere una busta paga in cui alcune parti del reddito non solo non contribuiscono a comporre l’imponibile (ai fini delle aliquote), ma manco il reddito (ai fini del bonus). Per essere partiti volendo semplificare, direi che non s’ebbe la fortuna di chi buscò ponente per il levante. Leggo che l’aliquota sul Tfr incassabile sarà del 23%, ovvero la più bassa. Non voglio crederci, perché sarebbe disperazione fiscale. L’aliquota che si paga, oggi, è una media di quella subita negli ultimi cinque anni, quindi il 23% è la più bassa. Oggi calcolata su un montante maggiore, perché il Tfr non solo si accumula, ma si rivaluta (l’agevolazione fiscale riguarda la base imponibile, discorso diverso). Cederlo oggi al 23% significa aver la fregola d’incassare subito il meno, non avendo il tempo di aspettare domani il più. Disperazione, appunto.

Girate la frittata, che è meglio. Primo passo: si abolisce il Tfr. Fine della trasmissione: ciascuno si trova i propri guadagni in busta paga e ne fa quello che gli pare, risparmiandone una parte o sbafandosi il tutto. Viva la libertà. Secondo passo: smaltire lo stock di Tfr accumulato, che sono soldi dei lavoratori. Vero, ma utilizzati dal depositario come fossero debiti a lunga scadenza, tali, quindi, che se devono essere restituiti subito provocano il crollo delle casse che li contengono. Come si fa? Mettendo a fuoco i tre problemi che si creano: a. nel pagamento della previdenza integrativa; b. nelle casse dell’Inps; c. nelle casse delle aziende sotto i 50 dipendenti. Il primo problema (che, detto fra parentesi, dimostra quanto la volontarietà in accoppiata con l’obbligatorietà non funzioni, infatti a quella destinazione s’è rivolta una minoranza di lavoratori, a meno che non si facciano le riforme nella speranza che falliscano) si affronta con una norma transitoria che consenta di riversare il capitale, o parte di esso, alle stesse condizioni di rivalutazione (o migliori) nel fondo privato. Quelli sono contratti privati, quindi serve una norma d’accompagnamento. Terzo passo: i buchi nei bilanci, invece, si coprono con garanzia della Cassa depositi e prestiti. Dicono dal governo: dovranno essere le banche a dare i soldi e in tal senso faremo una convenzione. Convenzionino quel che credono, ma le banche non vogliono e non possono dare soldi in compensazione di cassa bruciata. Basta farsi spiegare Basilea. Ridicono: ma la Bce ha messo a disposizione i soldi. No, sono finalizzati agli investimenti, non alle partite di giro per i regali governativi. Senza contare che gli interessi di mercato, pagati alle banche, sono superiori a quelli assicurati dal Tfr (1,5% più il 75% dell’inflazione, che non c’è). Se la Cdp garantisce il buco, invece, ci guadagna, perché pagherebbe il denaro meno di quel che le aziende e l’Inps sono già predisposte a retribuirlo.

Sono pronto a scommettere che alla Cdp storcono la bocca, perché pensano di usare i denari per crescere in potere e partecipazioni azionarie. S’appassionarono al romanzo: “Piccole Iri crescono”. Ergo, se il governo ha la forza di farsi valere, in effetti può assestare un colpo con il Tfr, restituendo ai lavoratori la libertà di consumare o risparmiare; se non ha questa forza, però, la pianti di pasticciare, perché fa la fine del gatto con il gomitolo: ruzza che è una bellezza, finché non rimane prigioniero della matassa. Il tutto ripetendo che bruciare risparmio per consumi, e non per investimenti, è un modo per diventare poveri.

Sui soldi alle imprese Renzi è peggio di Letta

Sui soldi alle imprese Renzi è peggio di Letta

Franco Bechis – Libero

Quei poverelli delle piccole e medie imprese italiane ce l’hanno ancora lì che campeggia sul loro portale web: facciona di Matteo Renzi e titolo «Debiti PA, Renzi shock: 60 miliardi in 15 giorni». La data era quella del 26 febbraio scorso. Le povere imprese che da lunghi mesi attendevano dallo Stato i pagamenti loro dovuti, ci avevano creduto. E si capisce: il nuovo presidente del Consiglio nel suo discorso per ottenere la fiducia alle Camere aveva detto: «Il primo impegno è lo sblocco totale dei debiti della pubblica amministrazione». Poi era apparso a Ballarò, intervistato all’epoca da Giovanni Floris, e lì aveva annunciato il famoso intervento shock: «La Spagna l’ha fatto da 50 miliardi di euro. Io penso di più: 60». In quanto tempo? «Il tempo di preparare un emendamento: Diciamo due settimane».

Non è andata così, e lo sanno bene i creditori dello Stato. Quella promessa resterà la più famosa, anche perché è la prima e più clamorosa tradita da Renzi premier. In corsa ha tentato di correggere la rotta, e da Bruno Vespa aveva allungato i termini di quelle due settimane, spostate al «21 settembre giorno di San Matteo. Se mantengo la promes-sa, lei Vespa che è scettico andrà a piedi in pellegrinaggio da Firenze a Monte Senario. Se non la mantengo, so dove mi mandano gli italiani». La promessa non è stata mantenuta, ma il 21 settembre Renzi ha sostenuto il contrario, poggiandosi sulla lentezza dei conteggi della pubblica amministrazione, che erano fermi a metà luglio. Ora sono usciti i dati aggiomati al 22 settembre scorso, e il bluff del premier è stato tragicamente svelato a chiunque voglia andarselo a leggere sul sito Internet del ministero dell’Economia e delle Finanze. Con una possibilità in più: i dati sono relativi ai primi otto mesi esatti del govemo Renzi. E sono perfettamente comparabili con quelli degli ultimi otto mesi del governo guidato da Enrico Letta, perché è proprio in quel periodo che sono iniziati i primi pagamenti della pubblica amministrazione alle imprese. E il raffronto che Libero oggi è in grado di offrire ai suoi lettori è impietoso per il governo attuale. Perché Letta è stato due volte e mezzo più veloce e più efficace di
Renzi.

Ecco i numeri. Ad oggi nel bilancio dello Stato – grazie all’emissione di nuovi titoli di Stato dedicati – sono stati stanziati per pagare i crediti delle imprese con la pubblica amministrazione 56,839 miliardi di euro. Una cifra comunque inferiore ai 60 miliardi promessi da Renzi, ma non di molto. Solo che l’83,63% di questa somma, pari a 47,539 miliardi di euro, era già stata stanziata da Enrico Letta prima del ribaltone a palazzo Chigi. Quei soldi erano già tutti quando Renzi ha fatto le sue promesse in Parlamento e a Ballarò. Quindi non potevano fare parte dei 60 miliardi promessi, che avrebbero dovuto essere nuovi pagamenti. In otto mesi Renzi ha stanziato invece solo 9,3 miliardi di euro, pari al 16,37% dello stanziamento totale. Avere stanziato soldi non basta, però. Oltre a metterli in bilancio aumentando il debito pubblico italiano, bisogna anche metterli a disposizione di ministeri ed enti locali che sono poi quelli che materialmente debbono saldare i debiti che hanno con le imprese italiane per le commesse ricevute in passato. Di quei 56,839 miliardi stanziati solo 38,4 miliardi sono stati messi a disposizione degli enti pubblici che dovevano pagare entro il 22 settembre scorso.

Ma anche questa cifra racconta solo in parte. Perché i debiti effettivamente saldati sono ancora meno: a quella data, dopo 16 mesi (8 di Letta e 8 di Renzi) i pagamenti effettivamente avvenuti ammontavano a 31,3 miliardi di euro. Di questi Letta ne ha effettuati durante il suo governo 22,430 miliardi, e cioè il 71,67% (quasi i tre quarti) dei pagamenti totali avvenuti. In otto mesi i soldi arrivati alle imprese grazie a Renzi sono appena 8,87 miliardi di euro, pari al 28,33% dei pagamenti totali. In media il governo Letta ha pagato debiti alle imprese per 2,8 miliardi al mese. Il governo Renzi per 1,1 miliardi al mese, quindi a velocità due volte e mezza inferiore al predecessore. Dei due è Matteo il premier lumaca, Letta al suo confronto sembrava Usain Bolt, il primatista mondiale dei 100 e 200 metri…