Matteo Renzi

La paralisi delle riforme, mancano all’appello 700 decreti attuativi

La paralisi delle riforme, mancano all’appello 700 decreti attuativi

Valentina Conte e Roberto Mania – La Repubblica

Si fa presto a dire riforme: solo per attuare quella della pubblica amministrazione del ministro Marianna Madia ci vorranno almeno 77 decreti attuativi. Ventisei – ha calcolato la Cgil – per applicare, entro dodici-diciotto mesi, il decreto convertito in legge e pubblicato già sulla Gazzetta ufficiale (quello sulla mobilità degli statali, per capirci) e ben 51 per il disegno di legge delega (il “cuore” della riforma) che deve ancora cominciare il suo iter parlamentare. Tempi lunghi, insomma, al di là della promessa, e degli sforzi, della Madia di rendere totalmente operativo il decreto entro la fine di quest’anno. Anche per il Jobs Act di Giuliano Poletti serviranno per ciascuno dei cinque articoli di cui è composta la legge delega «uno o più decreti legislativi». Dunque almeno cinque. Senza pensare che tra sessanta giorni, altri due decreti legge – giustizia sui processi civili e Sblocca Italia – saranno leggi bisognose di attuazione. E dunque di regolamenti ministeriali. Passo dopo passo, la montagna si è stratificata a tal punto che per dare compimento a tutti i provvedimenti dei governi della Grande Crisi – Monti-Letta-Renzi – servono ancora 699 decreti attuativi, come confermato ieri dallo stesso Renzi e da Maria Elena Boschi, ministro (appunto) per l’Attuazione del programma.

Il passaggio delle riforme dalla carta all’attuazione pratica non è mai lineare e soprattutto non è mai veloce: le Province, per dire, sono ancora vive e vegete. La legge Delrio le avrebbe cancellate, ma senza i relativi decreti attuativi è come se le norme fossero scritte sulla sabbia. I decreti per la loro abolizione dovevano arrivare a luglio, ora tutto è slittato a questo mese. Vedremo. Ma questo è il nostro sistema di produzione legislativa nel quale solo una parte del compito spetta a Parlamento e governo mentre tutta la parte applicativa viene delegata ai “potenti” uffici ministeriali. L’ha scritto Sabino Cassese, uno dei maggiori studiosi italiani del diritto amministrativo: «Ma chi è il legislatore? Formalmente il Parlamento, nei fatti le burocrazie operanti sotto il comando del governo. Per lunghi periodi della storia italiana, attribuzione di pieni poteri al governo, controllo dei governi sul Parlamento, deleghe del Parlamento all’esecutivo hanno consentito alle burocrazie e ai governi di legiferare. Quasi nessuna delle grandi leggi della storia italiana è prodotto del solo Parlamento».

D’altra parte – è il governo Renzi che lo certifica nel suo “Monitoraggio sullo stato di attuazione del programma di governo“ aggiornato al 7 agosto scorso – il 62% dei provvedimenti legislativi varati dall’attuale esecutivo ha bisogno per essere effettivamente attuato di altri decreti, visto che meno della metà (precisamente il 38%) si applica da solo: in termini assoluti, su 40 solo 15 sono autoapplicativi. Risultato: servono 171 regolamenti. In percentuale il governo Renzi si muove nella media dei suoi predecessori. È stato infatti il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nelle sue ultime Considerazioni, a ricordare come delle 69 riforme approvate dai governi tra il novembre del 2011 (quando si insedia l’esecutivo di emergenza guidato dal professor Mario Monti) all’aprile del 2013 (governo di Enrico Letta) solo la metà era stata realizzata a dicembre 2013. Anche questo incide sulla nostra scarsa competitività. Ancora oggi, alla vigilia della nuova legge di Stabilità, mancano all’appello 59 provvedimenti attuativi della legge di Bilancio del governo Letta. Di più: per 25 di quei provvedimenti è addirittura scaduto il termine entro il quale andavano adottati.

Il decreto soprannominato enfaticamente “Decreto del fare” è rimasto al palo per circa la metà dei previsti decreti attuativi: su 79 ne sono stati adottati 40. Ne mancano ancora 39 per 12 dei quali sono pure scaduti i termini temporali. Pensiamo se fosse stato chiamato con un altro nome… Pessima la performance del “Destinazione Italia”: dei 32 decreti attuativi richiesti ne mancano ancora 26, dunque ne sono stati applicati solo sei. Continua ad essere in affanno anche il “Salva Italia” (governo Monti, fine 2011): mancano tuttora 12 decreti attuativi per cinque dei quali è scaduto il termine. Nel complesso ci sono ancora 258 provvedimenti amministrativi da adottare per rendere completamente operative le leggi varate dal governo Monti; 273, invece, per quelle del governo di Enrico Letta. In tutto ce ne sono da varare ancora 531 (ieri la Boschi ha detto che sono scesi a 528) relativi ai precedenti governi che sommati ai 171 dell’esecutivo Renzi fanno 702 decreti mancanti al 7 agosto, ora diminuiti a 699.

Come sempre, in questa lunga stagione di crisi economica, la parte del leone la fa il ministero dell’Economia: sono 36 su 171 i provvedimenti che devono essere definiti dalla struttura guidata da Pier Carlo Padoan. Segue il ministero dell’Ambiente con 24 e poi la presidenza del Consiglio dei ministri con 22. Vero è che il governo Renzi ha smaltito un arretrato del 40% targato Monti-Letta da quando si è insediato, a febbraio (889 provvedimenti da approntare, portati in agosto a 531, ora a 528). Innalzando così la percentuale di attuazione rispettivamente di 12 punti percentuali (governo Monti al 64%) e ben 23 punti (governo Letta al 37%, poco più di un terzo).

Ma ciò che colpisce è l’incredibile vacanza di decreti per leggi importanti, ormai “datate”. È il caso ad esempio della legge Fornero del lavoro, la molto discussa 92 del 2012. Ebbene, anche in questo caso mancano all’appello sei decreti attuativi su 16. Nel frattempo però, si sono succeduti ben due governi, l’attuale ha già modificato la disciplina dei contratti a termine e si appresta a varare il nuovo Codice del lavoro tramite il Jobs Act. La stratificazione normativa e la corsa a legiferare ad ogni costo portano a questi paradossi. Negando benefici concreti a chi poi deve applicare le regole, vecchie e nuove. Anzi aggiungendo confusione e favorendo conflitti interpretativi. Per rimanere nel campo del lavoro, c’è da segnalare l’assurda storia del credito d’imposta previsto dal decreto Sviluppo 83 del 2012 (“Misure urgenti per la crescita del Paese”), entrato in vigore il 26 giugno di due anni fa e predisposto dall’allora ministro Corrado Passera. La norma assicura benefici fiscali (un abbattimento del 35% del costo aziendale per un massimo di dodici mesi) a quelle imprese che assumono a tempo indeterminato ricercatori, laureati o dottorati per svolgere attività di ricerca e sviluppo. Ecco, fino a pochi giorni fa questo bonus non era operativo, pur essendo previsto da una legge dello Stato. L’attuazione era demandata al solito decreto interministeriale da emanare entro 60 giorni. Decreto arrivato il 23 ottobre 2013 (oltre un anno dopo, governo Letta) che a sua volta prevedeva un “decreto direttoriale” del ministero dello Sviluppo, firmato il 28 luglio scorso (governo Renzi) e pubblicato in Gazzetta ufficiale solo il 9 agosto scorso. Oltre due anni dopo la legge che lo istituisce, “urgente” e “per la crescita del Paese”. Con una disoccupazione giovanile alle stelle, la fuga dei cervelli e la spesa in ricerca ai minimi storici, passaggi burocratici biblici come quelli descritti lasciano davvero attoniti.

Riforme economiche a passo di carica

Riforme economiche a passo di carica

Stefano Micossi – Corriere della Sera

Caro direttore, è chiaro a tutti che l’agenda del governo debba ora concentrarsi sulla realizzazione dell’ambizioso programma di riforme economiche annunciato al momento della sua costituzione – si può sperare, con lo stesso passo di carica adottato per le riforme costituzionali in Senato. La partita si vince o si perde con la nuova Legge di stabilità (il bilancio 2015-2017) e i1 Jobs Act. Su questo, la discussione in corso non mi sembra sempre sufficientemente lucida.

In primo luogo, meglio prendere atto che non vi sono margini nel bilancio pubblico per un sostegno significativo della domanda; continuare a parlarne è una perdita di tempo. Va anche ricordato, però, che il bonus in busta di 80 euro, le misure già adottate per sbloccare i pagamenti arretrati delle amministrazioni pubbliche e quelle in gestazione per sbloccare i cantieri, spendendo quel che già è stato stanziato, implicano una spinta notevole all’economia, che certamente inizierà a manifestarsi con intensità crescente a partire dall’autunno.

In secondo luogo, la discussione sulla Legge di stabilità dovrebbe riferirsi ai dati reali: i tagli di spesa programmati, o sperati, dalla spending review – per ricordare, 17 miliardi entro il 2015, 34 miliardi a regime – sono già quasi interamente impegnati. Infatti, il govemo eredita dai predecessori circa 16 miliardi di aumenti di spese e riduzioni di entrata non coperti, ai quali occorre aggiungerne altri dieci per la copertura permanente del bonus e, con ogni probabilità, qualche altro millardo per restituire la Robin tax tremontiana sui petrolieri (che la Corte costituzionale si appresta a dichiarare contraria alla Costituzione). Quel poco che avanza, andrà destinato al miglioramento del saldo strutturale di bilancio. Dunque, da qui non può venire neanche un penny per abbattere il cuneo fiscale: la spending review non libera risorse, serve solo per evitare maggiori tasse per risorse già distribuite.

Le risorse per ridurre il cuneo fiscale nella misura necessaria – due punti percentuali di Pil, come recentemente suggerito anclie sulle colonne del Corriere – non possono allora che venire da una riforma fiscale che sposti i carichi d’imposta verso le imposte indirette, attraverso la graduale convergenza (su un arco pluriennale) di tutte le aliquote dell’Iva verso l’aliquota ordinaria (22 per cento). Essa richiede, naturalmente, di cornpensare i nuclei famigliari meno abbienti con trasferimenti diretti di reddito i quali, trattandosi di persone che non compilano la dichiarazione dei redditi, possono essere realizzati attraverso l’lnps. L’aumento dell’lva produrrà due ulteriori effetti benefici: farà salire l’inflazione, pericolosamente vicina allo zero, e migliorerà la competitiviltà di prezzo dei nostri prodotti sul mercato domestico (una specie di svalutazione fiscale). Si tratta di una delle riforme che le istituzioni europee ci chiedono da tempo; la Legge di stabilità è lo strumento giusto per realizzarla.

Poi viene il Jobs Act. Con le regole attuali, assumere, gestire il rapporto di lavoro e licenziare è troppo complicato; il precariato e i bassi tassi di occupazione ne sono la diretta conseguenza. Serve un contratto di lavoro nuovo, molto libero a meno di poche garanzie fondamentali, nel quale durata e principali condizioni siano fissate liberamente tra le parti. L’idea che la riforma si risolva in una vacanza temporanea dalle regole attuali è stupida e autolesionistica. Inoltre, la riforma sarebbe monca se non si accelerasse la piena attuazione al meccanismo dell’Aspi, introdotto dal governo Monti, e non si iniziasse fin d’ora ad utilizzare i contratti di ricollocamento per superare il barocco sistema della cassa integrazione straordinaria e in deroga e muovere con decisione verso il nuovo sistema di flexi-security. Anche qui servono risorse, forse fino a due punti percentuali di Pil: possono venire in parte dallo smantellamento dei sostegni attuali alla disoccupazjone, in parte dai fondi strutturali, come da ternpo va suggerendo anche Tito Boeri.

Ecco, questo è il carnet impegnativo, ma non impossibile, con il quale il presidente del Consiglio potrebbe presentarsi in Europa quest’autunno: argomentando, allora sì con credibilità, che di nuove manovre correttive non se ne parla, né per il disavanzo né per il rientro dal debito, fino a che l’economia non avrà ripreso a crescere.

Sta per scoppiare la bolla speculativa chiamata Matteo

Sta per scoppiare la bolla speculativa chiamata Matteo

Maurizio Belpietro – Libero

C’è una bolla speculativa che minaccia di esplodere provocando vari danni nel nostro Paese. La bolla si chiama renzismo, fenomeno mediatico che è stato gonfiato ad arte da chi aveva il compito di vigilare e invece ha preferito, per calcolo o incapacità, chiudere non solo un occhio ma tutti e due. Il renzismo è un atteggiamento di totale fiducia che ha colto gli italiani dopo anni di delusioni. Senza che nessuno li mettesse in guardia, gli elettori si sono dunque affidati ciecamente alle promesse del presidente del Consiglio, accogliendo senza perplessità ogni sua dichiarazione. Risultato, dopo sei mesi di governo con la disoccupazione alle stelle, il debito pubblico fuori controllo, un’inflazione che ci ha fatto tomare indietro di 50 anni e un Pil in discesa, la fiducia in Renzi comincia a vacillare e con essa l’idea che bastasse un rottamatore per rottamare la crisi.

I segnali che ci fanno intravedere il rischio di un’esplosione della bolla speculativa sono più d’uno e tutti portano il marchio della disillusione. Come spesso accade, anche perché quando ha un’idea in testa non si tiene un cecio in bocca, il primo a parlare è stato Diego Della Valle, cioè l’imprenditore che aveva seguito con gioia la discesa in campo del pifferaio magico di Firenze. Il padrone delle Tod’s all’improvviso, mentre ancora Renzi aveva il vento in poppa perché non erano stati resi noti i dati riguardanti il Prodotto interno lordo, se n’è uscito con un’invettiva contro i riformatori al gelato, accusando il premier di voler cambiare la Costituzione senza avere rispetto del sistema di pesi e contrappesi messo a punto dall’Assemblea costituente. Poteva sembrare un’invettiva dettata da rancori personali, magari dalla stangata sulle aziende ferroviarie che rischia di mettere in ginocchio una delle società dell’imprenditore a pallini. E invece, dopo la sparata di Della Valle ne sono arrivate altre e quasi tutte di gente che sei mesi fa aveva gratificato il capo del governo di un’ampia apertura di credito.

Prima Giorgio Squinzi, il quale da presidente di Confindustria aveva salutato Enrico Letta con la carta vetrata, minacciando di rivolgersi direttamente al capo dello Stato. Un calcio negli stinchi cui era seguito un incontro proprio con Renzi, non ancora premier ma già segretario del Partito democratico. Ma se quella di Squinzi allora era sembrata un’investitura da parte del capo degli imprenditori, qualche giorno fa è arrivata la sconfessione, con un discorso molto critico sulla situazione economica e i famosi 80 euro. Come se non bastasse, si è aggiunta la botta di Sergio Marchionne, un altro che aveva guardato a Renzi con grande entusiasmo. Al manager con il pullover non è piaciuto il presidente del Consiglio gelataio e non ne ha fatto mistero, spiegando che non bastano le battute a far ripartire un Paese.

Tre imprenditori e tutti di primo piano già significano qualcosa e cioè che l’industria e la finanza cominciano a non credere più nel cambiamento di verso promesso dal premier. Tuttavia a questa presa di distanza se ne sono aggiunte altre, quasi sempre di persone che in principio avevano creduto nel progetto di rinnovamento dell’ex sindaco. Luca Ricolfi, sociologo di sinistra e autore di molti ragionati editoriali sulla Stampa e Panorama, ha confessato sul giornale piemontese il proprio pessimismo, spiegando che non si risolve una crisi sperando semplicemente che passi. Per Ricolfi aspettare confidando nel fatto che prima o poi torni il sole e la ripresa rimetta le cose a posto è un’illusione che rischia di rivelarsi catastrofica. Previsioni fosche si intravedevano anche sulla prima pagina del Corriere della Sera, a commento del tanto sbandierato pacchetto di misure economiche soprannominato «Sblocca Italia». Dario Di Vico, l’editorialista cui è stato affidato il compito di commentare, non ha nascosto la delusione, lasciando trasparire anche un sospetto, ossia che il presidente del Consiglio, invece di pensare a come far uscire l’Italia dalla crisi, pensi piuttosto a come farla entrate al più presto in campagna elettorale, portando il Paese alle urne già nel 2015. Insomma, altro che mille giorni: qui l’ex rottamatore sembra pensare ai prossimi cento.

I dubbi che ci hanno colpito di più sono però quelli di Giuliano Ferrara, cioè di uno che fin dal principio ha sostenuto il renzismo e per giunta stando seduto sull’altra sponda e non su quella comoda della sinistra. Da renzista devoto qual è, ieri l’Elefantino ha lanciato un barrito, scrivendo sul Foglio dei Fogli un editoriale in cui racconta un presidente del Consiglio in trappola, vittima degli stessi nemici e degli stessi errori di Berlusconi. «Non vorrei che tutti gli elogi alle grandi doti di comunicatore, per Renzi oggi come per Berlusconi ieri, alludano all’artista compiaciuto di sé che prende il posto dello statista». Da statista a ballista. E se le balle scoppiano fanno male.

Il renzismo si sta un po’ afflosciando

Il renzismo si sta un po’ afflosciando

Marco Bertoncini – Italia Oggi

La conferenza stampa sui mille giorni è stata in linea perfetta col personaggio Matteo Renzi. Dal trionfalismo alle battute, dagli annunci alla passione quasi sfrenata per i lanci di agenzia (nel senso che i suoi cinguettii, i suoi messaggi, i suoi lucidi, i suoi siti, vivono essenzialmente di fosforescenti immagini, di sintesi, di avvisi), c’era tutto R. nella compiaciuta presentazione di programmi, impegni, realizzazioni.

Per lui l’ideale sarebbe una generale sospensione di giudizio, sino al termine dei mille giorni, come non ha mancato di auspicare. Le valutazioni, tuttavia, già arrivano. Non è vero che siano riedizioni di negativi commenti già falliti prima del voto europeo. Infatti, oggi non ci sono soltanto alcuni sondaggi che indicano una minor presa di R. sugli elettori, del resto quasi scontata, anche perché il successo, le attese, le speranze, la percentuale medesima ottenuta alle europee, erano talmente elevati da non poter rimanere senza qualche caduta. No: l’elenco dei critici e degli insoddisfatti cresce. Si guardi ai republicones, dagli assalti del Fondatore contro il «Pifferaio» ai dubbi sui conti e sulle mancate coperture che si leggono con frequenza su L’Huffington Post. Si vedano i segnali non amichevoli giunti dal sindacato degli imprenditori (e collegato giornale): non paiono di sostegno talune dichiarazioni di personaggi quali Marchionne o Della Valle. Fior di commentatori, di analisti, di osservatori, validi o tali presunti o, insomma, quotati per la maggiore, hanno espresso dubbi, riserve, critiche, così su La Stampa come sul Corriere. Mentre il montismo durò fino alle urne, il renzismo pare un po’ afflosciarsi. Soltanto il Cav resta in attesa, magari non benevola, però attesa.

Non solo i gufi sanno leggere i numeri

Non solo i gufi sanno leggere i numeri

Gaetano Pedullà – La Notizia

I conti sono tutti nelle pagine interne. Chi avesse voglia e pazienza di andare a leggere scoprirà che neanche volando sarà possibile realizzare tutto quello che il premier ha promesso ieri. Figuriamoci procedendo passo a passo. A dirlo non sono i gufi, ma i numeri. E i numeri, si sa, sono argomenti testardi. Tra vecchi decreti attuativi mai applicati dall’amministrazione Letta e i nuovi bisognerebbe approvare una media di un provvedimento al giorno; sabato, domenica e Natale compresi.

Palazzo Chigi ha messo il countdown su Internet, ma la sparata è talmente grossa che a questo punto anche a un giornale riformista come questo, dunque ben felice che l’Italia cambi verso, viene un fortissimo sospetto. Anziché andare avanti con proposte ambiziose ma fattibili, vuoi vedere che si sta alzando la posta così tanto da poter poi dire che il Parlamento mette il carro davanti ai buoi e a quel punto giustificare il ritorno alle urne? Se così fosse, si sta commettendo un peccato mortale, perché anziché portarci subito alle urne e provare a dar vita a una maggioranza meno traballante di quella attuale, si sta buttando via altro preziosissimo tempo.

Il perdurare della crisi sta deteriorando oltre ogni limite la tenuta delle nostre imprese, l’assoluta impossibilità dei giovani (e anche dei meno giovani) di trovare un lavoro sta creando un clima depressivo dal quale sarà durissima riprendersi. Mai come in questi tempi i medici stanno prescrivendo tranquillanti e psicofarmaci. La prima riforma, dunque, deve essere quella di non perdere più tempo. E non prenderci in giro.

Renzi annuncia l’impossibile: attuare un decreto al giorno

Renzi annuncia l’impossibile: attuare un decreto al giorno

Stefano Sansonetti – La Notizia

Chissà cosa ne pensa Angela Merkel. L’impressione è che il tradizionale scetticismo tedesco, a proposito dell’ “italica” capacità di attuare le riforme, di fronte a certi numeri potrebbe moltiplicarsi all’infinito. Nella presentazione del programma dei “mille giorni”, effettuata ieri dal premier Matteo Renzi con il solito profluvio di parole enfatiche, c’è una cifra a dir poco utopistica. Di fatto, pur senza dirlo apertamente, il governo ha fatto capire di voler attuare una media di 0,7 decreti al giorno fino all’estate del 2017. Tabella di marcia possibile? Il fatto è che ieri l’esecutivo ha fornito cifre la cui combinazione finale sarebbe proprio questa. A snocciolare i numeri, in particolare, è stata la ministra per le riforme, Maria Elena Boschi, che ha ricordato come il governo Renzi abbia ereditato al momento dell’insediamento ben 889 decreti dell’era Monti-Letta. Ebbene, a sentire la Boschi l’attuale esecutivo sarebbe riuscito a ridurre questo arretrato a 528 provvedimenti. Questo significa che per la ministra il governo avrebbe attuato 361 decreti in 6 mesi dall’insediamento, che in media fanno due decreti al giorno, festivi compresi. Roba da fantascienza.

La prospettiva
Ma c’è di più, perché la stessa Boschi ha chiarito che attualmente, tra ereditati e decreti prodotti dal governo Renzi, rimane da attuare una mole di 699 provvedimenti. Che spalmati sui “mille giorni”, presentati ieri dall’ex sindaco di Firenze in pompa magna, comporterebbero una media giornaliera di attuazione di 0,7 decreti. Meno fantascienza di prima, ma pur sempre fantascienza. Anche perché nel frattempo è presumibile che si aggiungeranno nuovi decreti del governo da attuare. Insomma, si potrebbe arrivare a una media superiore a un decreto al giorno. Naturalmente Renzi ha chiesto ieri di essere giudicato nel maggio del 2017, quando il percorso dovrebbe terminare. Ma è chiaro che siamo di fronte a cifre che come minimo suscitano un legittimo scetticismo. Tra l’altro gli annunci di ieri sono stati accompagnati dalla presentazione di un sito internet (passodopopasso.italia.it) nel quale il governo aggiornerà sullo stato di avanzamento delle riforme. In esso si legge che “mille giorni sono il tempo che ci diamo per rendere l’Italia più semplice, più coraggiosa, più competitiva. Dunque più bella”. Subito dopo l’esecutivo Renzi usa il solito linguaggio enfatico-retorico: “Il nostro governo è nato per fare quello che per troppo tempo è stato solo discusso o rinviato. Ma siamo qui per questo. Una sfida difficile, come solo le sfide affascinanti possono esserlo. Questa è la nostra sfida e noi l’affrontiamo con il coraggio e la leggerezza di chi sa che l’Italia è più grande delle resistenze dei piccoli centri di potere”. Per non parlare del finale della presentazione del sito: “La certezza della forza di questo paese, dei suoi piccoli imprenditori e delle sue maestre elementari, dei suoi ingegneri e dei suoi artisti, dei suoi studenti e dei suoi nonni è per noi un caposaldo irrinunciabile”.

Gli scogli
Di certo nei prossimi mesi non mancheranno le cose da fare, con annessi ostacoli. La carne al fuoco, almeno a livello teorico, è tanta. Dai cantieri dello sblocca-Italia alla riforma della pubblica amministrazione, dal nuovo Senato alla riforma della giustizia (a partire da quella civile). Dare un filo logico a tutto questo bendidio non sarà facile, soprattutto se già ora il fardello di decreti di attuare ha toccato quota 699 provvedimenti. Nessuno mette in dubbio la necessità di affrontare con decisione tutti questi argomenti, ma forse dire che lo si può fare in mille giorni è un po’ esagerato, soprattutto visti i precedenti non proprio lusinghieri che hanno contraddistinto il cammino dei governi precedenti. Per non parlare di quelle riforme richiamate nel piano dei mille giorni di cui si parla da decenni. Una su tutte? I famosi “costi standard” nella sanità e negli altri appalti pubblici, ovvero quei parametri virtuosi di spesa che dovrebbero essere utilizzati su tutto il territorio nazionale per risparmiare sulle forniture. Nessuno ne ha ancora visto traccia.

I mille giorni: un colpo d’ala mediatico e un sentiero che si restringe

I mille giorni: un colpo d’ala mediatico e un sentiero che si restringe

Stefano Folli – Il Sole 24 Ore

Vedremo presto quanto sarà efficace la nuova strategia dei mille giorni e lo slogan autunnale del “passo dopo passo”. Il presidente del Consiglio ha illustrato i suoi propositi con la consueta capacità di “marketing”, ma un punto sembra certo: la magia si è interrotta. E per magia s’intende quella speciale atmosfera, fatta di speranza, di fiducia e di ottimismo, nella quale Renzi aveva inaugurato il suo mandato alla fine di febbraio. Allora era la rivoluzione, annunciata con spavalderia: una grande rivoluzione al mese per sei mesi e l’Italia sarebbe cambiata. Oggi è la prudenza dei mille giorni e la richiesta di essere giudicato non prima del maggio 2017.

Non ci sarebbe da sorprendersi per questo cambio di tattica, se la strategia fosse confermata; se cioè il programma riformatore riproposto ieri si rivelasse davvero in grado di trasformare il Paese in poco meno di tre anni. Sarebbe invece drammatico se il volontarismo renziano fosse fine a se stesso: un modo dinamico, anzi frenetico, di restare più o meno immobili. Non c’è che attendere i prossimi mesi per scoprirlo. Fin d’ora però sembra chiaro che Renzi non può fare affidamento solo su se stesso e sul carisma personale, come è stato nel primo semestre. Ora che l’estate è passata, occorre qualcosa di più concreto per rinsaldare il patto con i cittadini.

In fondo il 41 per cento delle europee era stato il prodotto dello slancio iniziale. Adesso la ricerca del consenso diventa una partita più complicata e richiede tempi lunghi. Per meglio dire, è quasi inevitabile, almeno a breve termine, la contraddizione fra interventi riformatori efficaci e gradimento popolare ai massimi livelli. La tentazione di ricorrere all’arma letale, ossia al populismo per aggirare il contrasto è sempre incombente. Ma sarebbe un errore fatale che segnerebbe la degenerazione dell’esperimento renziano. E infatti il premier evita di farvi ricorso in modo massiccio, se non per gli attacchi alle “rendite di posizione” dei “privilegiati”, rendite che ovviamente devono essere smantellate.

In realtà il problema di cui il premier è consapevole consiste nell’attuare le riforme che l’Europa pretende dall’Italia. Riforme fondamentali nel campo del lavoro, della competitività, della giustizia civile. L’agenda ormai la conoscono tutti. Ma tali trasformazioni sono spesso socialmente dolorose. Non solo. Esse colpiscono feudi politici che quasi sempre coincidono con serbatoi elettorali a cui è molto difficile rinunciare. Quanto alle decisioni che non presentano costi ma solo benefici (dalle assunzioni dei precari della scuola ai mille nuovi asili), è ovvio che non si tratta di riforme, bensì di nuove spese in un momento in cui le risorse non ci sono, ovvero – quando ci sono – andrebbero destinate a ridurre il deficit e a contenere il debito.

Sono questioni ben note dalle parti di Palazzo Chigi. D’altra parte, Renzi è un politico che non intende commettere un suicidio politico. Si rende conto che la Germania non rinuncerà alla religione del rigore, tanto meno adesso che il partito anti-euro tedesco ha preso il 10 per cento in Sassonia. Al tempo stesso, la sua stessa retorica gli impone di continuare a nutrire l’immaginario collettivo con lo scenario consolatorio di riforme che non fanno male, tranne che alla “casta” dei privilegiati. La sfida fra realismo e illusione non è dunque risolta: è solo spostata in avanti.

Per l’Italia decisivi 120 giorni non mille

Per l’Italia decisivi 120 giorni non mille

Guido Gentili – Il Sole 24 Ore

Quanto, e in che tempi, l’Italia deve cambiare per far sì che il disperato sindaco di Locri, in Calabria, non debba raccomandarsi e denunciare a Gesù Cristo – dopo aver inutilmente percorso le strade legali terrene – l’assenteismo cronico dei dipendenti del Comune, sulla carta 125 ma in servizio mai più di 20-25?

Il surreale fatto di cronaca si commenta da solo e dimostra di quale svolta – politica, economica, culturale – necessiti la terza economia d’Europa, oggi un sistema bloccato e prigioniero di sé stesso. Per cui quando il premier Matteo Renzi, presentando il sito istituzionale «passodopopasso» per scandire il conto alla rovescia del programma dei prossimi 1000 giorni di governo, dice che l’Italia e la sua «classe dirigente intesa in senso ampio» è vissuta «spesso» di rendita, afferma una verità amara ma elementare. Inevitabile la conclusione: questa lunga stagione è finita, le riforme vanno fatte, questa è l’unica possibilità per l’Italia, il Governo «è nato per fare quello che per troppo tempo è stato solo discusso o rinviato».

Oggi siamo al giorno 2 del «passodopopasso» e ne restano, salvo complicazioni, 998 fino a maggio 2017. Troppo pochi per immaginare che Locri, dove nel 2014 non si cambiano le lampadine dell’illuminazione pubblica, diventi un’isola felice. Ma tanti, troppi, se l’orizzonte della verifica delle riforme che servono a strappare il Paese ad un destino di stagnazione, se non di caduta verticale, è posto al 2017.

Intendiamoci. Le riforme cosiddette “strutturali” (a partire da lavoro, fisco, burocrazia, per non dire di quelle politico-costituzionali) per rendere l’Italia più semplice e competitiva necessitano di tempo per dispiegare a pieno i loro effetti. Il problema è che il tempo è esaurito e che se è vero che il Governo è nato per fare ciò che è stato rinviato, Renzi non ha altra strada che accelerare la sua corsa attuativa. A cominciare dai 51 decreti da rendere operativi entro la fine dell’anno. Per poi proseguire con il pacchetto “riformista” che attende Governo (il quale dovrà a metà ottobre approvare e trasmettere a Bruxelles la legge di Stabilità), Parlamento, imprese e famiglie nei prossimi quattro mesi, come evidenziato dal Sole 24 Ore del Lunedì. Parliamo di decreti legge nuovi di zecca (su giustizia civile e Sblocca Italia), di disegni di legge già all’esame delle Camere (mercato del lavoro, riforma della Pa e del Senato, fisco, legge elettorale) e di due altri ddl-chiave, quelli su scuola e giustizia, che dovrebbero sbarcare presto in Parlamento.

Il programma dei “mille giorni” sarà oggetto di un passaggio parlamentare, ma non è questo il punto. Il problema, per il Governo, è dare una scossa ad un sistema paralizzato e al tempo stesso rendere visibile, in Europa e sui mercati, la progressione dei passaggi attuativi. È questo l’unico cantiere che conta, tanto più a Bruxelles nel confronto serrato sullo “scambio” tra decreti e riforme in corso d’opera da una parte e margini di maggiore flessibilità dall’altra. La presentazione del piano “passodopopasso” è stata l’occasione per ribadire la «scommessa politica» degli 80 euro («non torniamo indietro, cercheremo di allargarla», ha specificato Renzi) e indicare la Germania come modello per il mercato del lavoro, la cui riforma dovrebbe vedere la luce entro il 2014 (verrà riscritto lo Statuto dei lavoratori, il problema non è l’articolo 18, si punterà ad un contratto a tutele crescenti, alla fine dei mille giorni il diritto del lavoro sarà totalmente trasformato, ha spiegato il premier).

Resta da capire quale scossa, sui terreni decisivi del fisco e del lavoro, arriverà in concreto da qui ai prossimi quattro mesi. La manovra degli 80 euro non ha dato i risultati sperati, del taglio ulteriore dell’Irap non si parla più, la spending review è tuttora un oggetto misterioso. “Mille giorni” suona bene, ma ricorda dannatamente anche il “Mille proroghe”, testo legislativo-bandiera, con cadenza annuale, della politica del rinvio. Cosa che, con tutta evidenza, un «Governo nato per fare quello che è stato rinviato» non può permettersi.

Per far ripartire l’economia serve un “New Deal” europeo

Per far ripartire l’economia serve un “New Deal” europeo

Renato Brunetta  – Il Giornale

Dopo la riunione del Consiglio europeo di sabato, che ha in parte definito l’assetto della Commissione europea a guida Juncker, e dopo il pre-vertice all’Eliseo del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, con il presidente francese, Francois Hollande, sempre sabato, il prossimo appuntamento in cui i capi di Stato e di governo dell’Unione europea si troveranno a parlare di economia e di crescita sarà quello del 7 ottobre a Milano. Il governo italiano, cui spetta la presidenza di turno dell’Ue, oltre ad avere l’onore dell’ospitalità ha il dovere della verità e della

trasparenza, e in apertura di sessione dovrà fornire ai leader dei partner europei una ricostruzione sintetica, ma di grande chiarezza storico-scientifica, dell’origine della crisi che dall’estate-autunno 2011 ha travolto i paesi dell’eurozona. Come base da cui partire per le scelte da fare, avendo compreso la natura speculativa dell’ultima crisi, dovuta soprattutto alla mancanza di strumenti della Banca centrale europea, bloccata per Statuto ai Quantitative easing all’americana, nonché all’architettura asimmetrica dell’euro, incapace di risolvere gli squilibri strutturali che il suo stesso successo ha prodotto.

Senza un’analisi seria e approfondita che, a oggi, non è mai stata fatta, i governi, sull’onda degli eventi e delle emergenze, hanno sempre finito per adottare come risposta agli attacchi speculativi, in particolare tra il 2011 e il 2013, la ricetta tedesca del sangue, sudore e lacrime; in maniera acritica, senza mai valutare ipotesi alternative, come potevano essere i provvedimenti presi, in circostanze simili, in America o in Giappone. Risultato: recessione, deflazione, allargamento del divario tra paesi del nord (odiose formiche) e paesi del sud (irresponsabili cicale).

Secondo punto dell’operazione verità che il governo dovrà compiere in preparazione del vertice di ottobre: chiarezza sul ruolo della Banca centrale europea e sui limiti della politica monetaria. Nella banalità teutonica della Commissione europea negli anni della crisi, unico spiraglio di luce ha rappresentato l’assunzione, da parte di Mario Draghi, della presidenza della Bce, che fino ad agosto 2011 era apparsa del tutto impreparata alla crisi, brancolava nel buio e non aveva alcun piano che potesse porre un freno agli attacchi speculativi che i debiti sovrani dei paesi dell’eurozona stavano subendo. Inadeguatezza nella fase iniziale della crisi e impotenza della banca centrale che traspare dalla lettera che proprio ad agosto 2011 la Bce ha inviato all’Italia. Lettera dai contenuti senz’altro giusti, ma irrituale. Sicuramente non uno strumento di politica monetaria.

Solo dopo il parziale fallimento delle due aste di finanziamento agevolato a breve termine alle banche dell’eurozona, a dicembre 2011 e a febbraio 2012, per 1.000 miliardi (di cui da settembre dovrebbe partire una seconda edizione, opportunamente e inevitabilmente riveduta e corretta) e in risposta al susseguirsi di ondate speculative che a luglio 2012 interessavano in particolare la Grecia, con l’impegno a “fare di tutto per salvare l’euro” e il conseguente annuncio di un articolato piano di acquisto di titoli di Stato, la Bce ha finalmente avuto cognizione del proprio ruolo e ha cominciato a esercitarlo nel migliore dei modi. Debellando, in parte, la speculazione finanziaria che stava travolgendo l’Europa, fino a far temere l’implosione della moneta unica. È così che abbiamo tutti apprezzato le misure non convenzionali di politica monetaria adottate da Mario Draghi, ed è, parimenti, a questo punto che ci siamo resi conto che la politica monetaria da sola non basta a risolvere i problemi dell’eurozona. Anche i governi devono fare la propria parte, perché è attraverso la buona politica economica che la politica monetaria si trasmette all’economia reale. E le riforme strutturali che, ripetiamo, creano le condizioni per la buona riuscita delle decisioni di politica monetaria, devono essere simultanee e coordinate in tutti i paesi dell’area euro (ognuno secondo le proprie specificità e necessità), per far sì che ciascuno di essi possa beneficiare degli effetti positivi delle riforme messe in atto dai paesi limitrofi. Motivo per cui Mario Draghi, con l’onestà intellettuale che lo caratterizza, ha auspicato la creazione di una “governance europea delle riforme”.

Riforme strutturali sincroniche, da realizzare attraverso lo strumento dei Contractual arrangements, già in discussione presso la Commissione europea e per la definizione puntuale dei quali sarà decisiva proprio la riunione del Consiglio europeo di ottobre, come ha ricordato più volte l’ex ministro per gli Affari europei, Enzo Moavero Milanesi, che aveva avviato questo percorso nell’ambito del suo mandato di governo con gli esecutivi Monti e Letta. È così che si utilizzerà veramente quella flessibilità tanto agognata e sbandierata, ma in realtà già prevista dai Trattati. Si definisca secondo le specificità del singolo Paese l’incentivo da riconoscere, di natura finanziaria o non finanziaria, a chi attua le riforme strutturali, anche per scongiurare comportamenti opportunistici post-contrattuali (il famoso “azzardo morale”). Potremmo definirlo, pertanto: il piano Draghi-Moavero. E soprattutto l’Italia, nel semestre di presidenza dell’Unione, proponga questo modello a tutti gli Stati, per coordinare il processo riformatore nell’intera area dell’euro. Su questo punto anche il ministro dell’Economia e delle finanze, Pier Carlo Padoan, si è detto favorevole in numerose dichiarazioni pubbliche.

Presidente Renzi, inutile perdere tempo con noiose disquisizioni giuridiche sulla modifica dei Trattati, che richiede un processo troppo lungo e troppo costoso dal punto di vista politico. Non se ne caverà nulla di buono. Dopo l’analisi, che abbiamo auspicato in precedenza, sulle cause della crisi, fatti portatore in Europa di un’operazione non di modifica, bensì di interpretazione dei Trattati e dei regolamenti, nell’ambito della flessibilità che essi già implicano. Con i contenuti scritti nella risoluzione presentata da Forza Italia prima del Consiglio europeo dello scorso 28 giugno, che tu hai bocciato, ma che probabilmente non hai neanche letto. Soprattutto, parla chiaro alla testa e al cuore degli europei. Fa’ vedere loro una via d’uscita. Regala loro una visione strategica di lungo periodo. Cose possibili, fattibili, concrete, e non astratti ragionamenti, esoterici, su astrusi parametri: deficit strutturale, deficit nominale, avanzi, disavanzi, rinvii, che la gente non comprende.

E al piano Draghi-Moavero, esposto sopra, va in contemporanea aggiunta la novità proposta, sia pure nel silenzio di tutti, dal nuovo presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, vale a dire investimenti comunitari per 300 miliardi di euro. Presidente Renzi, riempiamo di contenuti, insieme, il piano Juncker, e presentiamo la nostra proposta ai partner europei che sotto la presidenza di turno italiana si riuniranno a ottobre a Milano. Mettiamo insieme da subito, contemporaneamente e con l’appoggio di tutti i paesi, la linea Draghi e la proposta Juncker. Chiamiamolo piano Draghi-Juncker, o New deal, purché riesca a combinare le riforme sincroniche nei singoli Stati, per consentire la trasmissione della politica monetaria, da un lato e gli investimenti dall’altro. Con riferimento a questi ultimi, facciamo qui qualche esempio di misure concrete, per una maggiore integrazione del mercato interno (in particolare nel settore dei servizi); per migliorare la regolazione e la normativa comunitaria; per costruire nuove infrastrutture; per migliorare i piani di approvvigionamento energetico; per dare impulso agli investimenti in ricerca e sviluppo, innovazione, capitale umano. Chi ha una rete ha un tesoro. Come le reti infrastrutturali sono state i catalizzatori della nascita degli Stati nazionali nell’800, così le reti europee dovranno essere i catalizzatori della nuova Europa.

Con quali risorse fare tutto ciò? Attraverso l’emissione di Project bond garantiti dalla Banca Europea degli Investimenti (Bei), per finanziare investimenti in infrastrutture, in ricerca e sviluppo, innovazione, capitale umano. La capacità di intervento della Bei verrebbe potenziata attraverso l’istituzione di un Fondo di garanzia ad hoc, la cui capitalizzazione sarebbe a carico dei singoli paesi secondo diverse formule, con un punto fisso: i fondi trasferiti dagli Stati membri alla Bei non rientrano nel computo del 3% del rapporto deficit/Pil. In alternativa, il Fondo di garanzia potrebbe anche essere capitalizzato facendo ricorso, con tutte le cautele del caso, a quella quota delle riserve auree delle banche centrali nazionali eccedente rispetto agli obblighi di copertura dell’euro. Questo pacchetto non comporta modifiche ai Trattati, mentre consente di utilizzare, rispettando le regole, la flessibilità già prevista. E soprattutto parla chiaro al popolo europeo, per uscire dalla crisi, dalla recessione, dalla deflazione, dalla disoccupazione. Riforme e reti europee, quindi, per una nuova idea di Europa, oltre l’egoismo tedesco. New deal, contro e dopo la grande depressione europea, come messaggio di pace e di coesione geopolitica. Crescita e sviluppo, come esito finale. Per dirla con Marchionne: non possiamo più sopportare gente con barchette e gelati.

Le aspettative crescenti dell’uomo della Provvidenza

Le aspettative crescenti dell’uomo della Provvidenza

Gianfranco Summo – La Gazzetta del Mezzogiorno

Il bluff è uno degli aspetti più affascinanti del poker, almeno per gli appassionati del gioco. In fin dei conti è la strategia dove si mette sul tavolo la personalità del giocatore piuttosto che le sue carte. A vincere una mano con la scala reale sono buoni tutti, a zittire gli avversari con un punticino ci vuole forza, carisma, credibilitá.

Non coraggio, ma credibilità. Ecco, Matteo Renzi con il decreto (annunciato) Sblocca Italia sta puntando le sue ultime fiches di credibilità. Un grande italiano d’Europa, Mario Draghi, giocò nell’estate del 2012 una mano di poker con un bluff memorabile: annunciò al mondo di essere pronto a tutto per salvare l’euro e questa semplice «minaccia» fu sufficiente a rassicurare mercati, Ue e singoli Paesi. In realtà la Bce non spese un euro. Ma bastò l’autorevolezza di Draghi a rendere credibile l’annuncio. Però quell’annuncio non era stato preceduto da un’altra diecina di affermazioni pirotecniche e non si è mai visto il presidente della Bce mangiare un gelato davanti all’Eurotower per fare dispetto alle critiche di un giornale. E quindi Draghi è tuttora un pilastro dell’Europa, al punto che si scomoda la Merkel in persona se legge che il presidente della Bce prende posizione contro il rigorismo germanico. 

Non si può bluffare ad ogni giro, come sa pure un mediocre giocatore di poker. O anche solo di briscola- Allora, il decreto Sblocca Italia: per non tramutarlo in una bufala, innanzitutto il governo Renzi dovrà dimostrare che i dieci miliardi promessi siano soldi «nuovi». Se (come sembra) si tratta solo di mettere insieme opere già finanziate, se si tratta di attingere a fondi europei già disponibili, allora il bluff è scoperto fin da ora. E non basta sostenerlo dicendo che il decreto accelera le cantierizzazioni. Perché se solo di questo si tratta, allora vuol dire che il governo si scomoda e «occupa» un decreto semplicemente per una operazione di pura burocrazia. Che ci stanno a fare, dunque, ministri e ministeri? Non basta che facciano il loro lavoro, individuino priorità e disponibilità e diano corso a quello che dovrebbe essere la normalita di un Paese, cioé rispettare termini e scadenze di una opera pubblica? 

Verrebbe da pensare che il decreto Sblocca Italia serva a fare marketing e allo stesso tempo mascherare i limiti di una squadra di governo non ancora padrona delle proprie prerogative. E sarebbe doppiamente grave. Triplamente grave, poi, se consideriamo che in amministrazione, come in natura, non esiste il vuoto e lì dove la politica non riesce a fare il suo lavoro, ci pensano i burocrati. Esattamente il senso contrario a quello promesso da Renzi. 

Con una delle sue (tante) battute che farebbero invidia a Berlusconi, Renzi spiegò agli italiani in una intervista televisiva a La7 che lui ha detto che vuole cambiare verso, non può cambiare l’universo. Un simpatico modo per frenare forse gli entusiasmi che egli stesso ha acceso, quegli entusiasmi che lo hanno portato a guidare il governo e dell’Italia senza essere neppure stato eletto una sola volta al Parlamento. Dalle primarie del Pd, alla guida del partito e di lì alla presidenza del Consiglio dei ministri a furore di popolo. Tanto viscerale consenso ha come contraltare inevitabile una aspettativa altrettanto vertiginosa. 

Quindi Renzi non si stupisca se dopo soli sei mesi gli imprenditori cominciano a mugugnare, proprio quegli imprenditori che avevano traslocato armi e bagagli dal berlusconismo ad un Pd finalmente decomunistizzato. Ha cominciato due mesi fa la Confindustria di Giorgio Squinzi, poi la Confcommercio e ieri è arrivato il presidente dell’Ance, l’associazione dei costruttori, Paolo Buzzetti: servirebbero progetti per cento miliardi, ma basterebbero anche dieci miliardi purché siano «veri».

Ora Renzi non si spazientisca, non se la prenda con gli italiani che non apprezzano la sua buona volontà. Non faccia come l’italiano medio per il quale la colpa è sempre di qualcun altro. Renzi è un uomo politico giustamente ambizioso e ha ancora una grandissima fortuna dalla sua parte: l’Italia è allo stremo e non ha neppure la voglia, oltre che la forza, per cercare un altro leader; l’Europa, in tutte le sue articolazioni, è preoccupatissima perché l’Italia non è il Portogallo (che in termini di pil vale quanto la provincia di Treviso…) e salvare l’Italia o lasciarla affondare è roba da far crollare l’intero sistema dell’Unione e forse anche mezzo mondo. Due circostanze che fanno di Renzi l’uomo della provvidenza malgrado tutto e tutti, lui stesso compreso. Allora, un po’ di pazienza, Matteo Renzi: le carte buone arrivano, meno chiacchiere e più serietà. Anche perché i soldi sul tavolo da gioco sono i nostri ultimi risparmi.