Matteo Renzi

La prova del trapezio

La prova del trapezio

Leonardo Becchetti – Avvenire

I dati Istat sui consumi nel primo mese del bonus degli 80 euro indicano calma piatta, e questo proprio mentre l’Italia entra in deflazione. Il vero difetto del bonus è stato parlarne così tanto, quando lo stesso Governo Renzi attribuiva a tale misura un effetto marginale sui consumi dello 0,1%. Ora che l’opinione pubblica comincia a capire i guasti del “rigorismo”, il timore è che i nostri governanti (e chi li consiglia) non siano ancora del tutto liberi da quell’errore di prospettiva.

Nel novembre 2012, su queste colonne, abbiamo cominciato a scrivere del «dividendo monetario della globalizzazione». I Paesi ad alto reddito sottoposti a una concorrenza feroce di Paesi poveri ed emergenti potevano e dovevano difendersi con politiche monetarie molto espansive che controbilanciassero il calo della domanda aggregata. Agendo così, l’inflazione non sarebbe decollata come negli anni 80, perché il vento della concorrenza globale è un vento deflattivo che limita le possibilità di rialzo dei prezzi. Prova ne sia che l’Italia è entrata ufficialmente in deflazione, per la prima volta dopo il 1959, con i dati di ieri sui prezzi di agosto (vale la pena di ricordare che il governatore della Bce Mario Draghi, ancora nel febbraio scorso, gettava acqua sul fuoco escludendo il rischio di un calo dei prezzi). Stati Uniti, Regno Unito e Giappone hanno deciso di sfruttare pragmaticamente il “dividendo monetario”. I risultati si sono visti, sono stati riconosciuti da tutti e l’inflazione non è ripartita in nessuno dei tre Paesi nonostante le massicce iniezioni di moneta effettuate dalle rispettive Banche centrali. La Ue è invece rimasta al palo, perché Draghi, aristotelicamente parlando, è stato abilissimo in potenza (quando ha sconfitto la speculazione contro l’euro avvertendo che la Bce sarebbe intervenuta con qualunque misura possibile), ma non in atto (per attuare una politica monetaria espansiva avrebbe dovuto varare due anni fa una strategia di acquisto dei titoli pubblici dei 18 Paesi dell’area euro).

Il premier italiano Matteo Renzi e Draghi si sono incontrati quest’estate per cercare di dare risposte alla crisi nella quale continuiamo a esser immersi, e ne è uscito quello che i mass media definiscono un «nuovo accordo». In cambio delle riforme strutturali italiane la Ue varerà le attese politiche fiscali (Juncker e i suoi famosi 300 miliardi di investimenti) e monetarie espansive. Il rischio insito nell’accordo è quello di un’interpretazione rigorista delle nostre riforme strutturali che le riduca al taglio dei salari e della spesa pubblica. Ovvero a due interventi che deprimeranno ulteriormente la domanda aggregata e che saranno drammaticamente controproducenti se non bilanciati effettivamente da europolitiche espansive. In questo passaggio, Renzi è simile al trapezista che si lancia nel vuoto sperando che il suo partner che si dondola sull’altalena dal lato opposto tenda la mano per afferrarlo. Il partner Draghi lo farà con solerzia o si fermerà al primo ostacolo interno affidandosi alla rete di protezione sotto il trapezio che lui stesso ha steso? In quel caso, la brutta figura sarebbe solo del trapezista Renzi.

Si dice che dobbiamo continuare nella spending review per ridurre tasse su lavoro e imprese, e l’obiettivo è sacrosanto. Ma un Paese come il nostro che ha un’imposizione di quasi 20 punti percentuali superiore all’Irlanda quanta produzione effettiva e contabile pensa di poter recuperare con gli interventi di uno o pochi punti consentiti dai tagli di spesa e dai vincoli del pareggio in bilancio? Se in Italia le Marche abbassassero di 20 punti le imposte sulle imprese tutti correrebbero a fissare lì la propria sede legale. Il problema dell’armonizzazione fiscale nella Ue (e non solo) è il problema del momento e il governo deve sostenere lo sforzo che le istituzioni internazionali e le ong (Ocse e Transparency in primis) stanno facendo per porre fine a una corsa al ribasso che rende concreto lo spettro di una ricchezza senza nazioni e di nazioni senza ricchezza.

I sostenitori della versione rigorista e semplificata delle riforme strutturali fanno spesso l’esempio della Spagna, che ha registrato nell’ultimo trimestre una variazione positiva del Pil. Ma la Spagna è uno dei casi peggiori di sostenibilità del debito con un rapporto corrente deficit/Pil al 6.6% e un debito che è esploso dal 37% del 2007, all’inizio della crisi finanziaria, fino al 94% dell’ultimo dato ufficiale del 2013. E la sua crescita dell’ultimo trimestre è drogata da deflazione e crollo dell’import. Se noi italiani avessimo seguito il “miracolo spagnolo” nella dinamica del debito, saremmo oggi già in bancarotta. Per tutti questi motivi, ripetiamolo ancora una volta, il nostro futuro si gioca in Italia e (soprattutto) in Europa. Abbiamo bisogno di un governo che superi il bias rigorista (qualcuno ha ancora dubbi sul fatto che si tratti di un errore sistematico?) e che dimostri coi fatti che le riforme davvero strutturali sono la riduzione dei tempi della giustizia civile (bene, nonostante alcune tutt’altro che marginali questioni, l’insieme della riforma), una scuola e un’università moderne che ci consentano di ridurre il gap di anni di scolarizzazione con i maggiori Paesi europei, investimenti sulla banda larga che ci tolgano dalle ultime posizioni nella classifica Ue, riduzione dei costi della burocrazia pubblica e dei tempi di avviamento di attività d’impresa. E che faccia capire che per fare queste riforme (che neanche la Germania ha operato senza allentare temporaneamente i vincoli di spesa) la camicia di forza del Fiscal Compact e il pareggio di bilancio (che un referendum per il quale si stanno raccogliendo le firme in questi giorni vuole abolire) sono anticaglie del passato e residui della sbornia rigorista.

Il vincolo del 3% nel rapporto deficit/Pil è una misura prudenziale che basta e avanza, ma senza la mano del trapezista Draghi sarà difficile uscire dalla crisi economica. L’economia è come una macchina da guidare artigianalmente con perizia sui terreni sempre nuovi ed accidentati della congiuntura mondiale. Per di più, nella Ue, alcuni comandi della macchina (tasso di cambio, politica monetaria) non li azionano i singoli Paesi. Pensare di farcela da soli, senza un serio impegno in Europa per far prevalere riforme sensate che correggano le asimmetrie tra gli Stati membri, sarebbe un grave errore.

A passettini sparsi

A passettini sparsi

Dario Di Vico – Corriere della Sera

La gradualità ha dunque preso il sopravvento sulla velocità fine a se stessa. Con la parola d’ordine del «passo dopo passo» il premier Renzi sembra aver preso atto, almeno a livello di comunicazione, che nell’azione di governo c’è bisogno di meno foga e più raziocinio. Da sprinter di valore intermedio il presidente si candida ora a diventare un buon mezzofondista. Confidiamo, di conseguenza, che da oggi in poi i provvedimenti siano ben scritti, che i decreti attuativi seguano per tempo e che l’implementazione delle norme non resti impigliata nelle trappole tese, più o meno ad arte, dalla burocrazia.

Peccato però che questa svolta all’insegna del buon senso si sia confusa ieri con un piccolo show di cui avremmo fatto volentieri a meno. Il presidente del Consiglio che gusta polemicamente un gelato nel cortile di Palazzo Chigi per replicare a una pessima copertina dell’Economist non è certo un’immagine destinata ad aiutare la nostra credibilità internazionale, si presenta invece come una scelta assai discutibile di marketing politico. Onestamente non ci viene in mente un altro grande leader europeo in carica che avrebbe dato vita alla stessa performance. Quantomeno qualcuno a lui vicino avrebbe avuto il fegato per fermarlo in tempo.

Guardando alla sostanza delle scelte del Consiglio dei ministri di ieri si può dire che dalla riunione è uscito un film ricco di abbondante trama e di altrettanti annunci. Insieme al tema della giustizia il nocciolo è rappresentato dal provvedimento sblocca Italia che, pur sceso dai 43 miliardi sbandierati fino a qualche giorno fa a numeri più realistici, si compone di almeno tre parti. La prima è un elenco di opere pubbliche che a detta di Renzi e del ministro competente Maurizio Lupi saranno rese cantierabili entro il 2015, la seconda è uno scambio (che farà discutere a Roma come a Bruxelles) tra il governo e le società autostradali che si impegnano a investire e incassano la proroga delle concessioni, la terza – infine – è la tranche autenticamente liberale che promette di semplificare le ristrutturazioni degli appartamenti e abbassa il tetto per le defiscalizzazioni delle piccole opere.

Rinviata in extremis, invece, l’idea di incentivare fiscalmente l’affitto delle abitazioni. Le tre parti, a un primo esame e in base alle cose che sappiamo finora, non appaiono però in equilibrio tra loro, i passettini prevalgono sui passi. Ed è la lunga lista delle infrastrutture da realizzare ad avere nettamente la meglio con qualche scelta che ha del sorprendente, come l’alta velocità/alta capacità sulla tratta ferroviaria Palermo-Messina-Catania. Una priorità che darà adito ai maliziosi di formulare un cattivo pensiero: quello di un premier che coltiva segretamente l’ipotesi di andare nel 2015 a elezioni anticipate. Senza però volersi lanciare nelle previsioni sull’esito della legislatura e solo attenendosi agli annunci, lo step successivo consisterà nel verificare opera per opera le ipotesi di copertura e i meccanismi di finanziamento di lavori che, giova ricordarlo, interessano alla fine almeno una dozzina di Regioni. Già in passato altri governi avevano giocato con gli annunci del varo di grandi opere spostando e mescolando impegni già presi con pure intenzioni, vecchie risorse con nuovi piccoli stanziamenti. È uno di quei famosi casi in cui il diavolo ha da sempre la capacità di nascondersi nei dettagli.

Dove Matteo Renzi sembra essersi arreso, almeno in questa fase, è il disboscamento della giungla delle municipalizzate. Dopo tante parole spese nelle settimane e nei giorni precedenti, il decisionismo del presidente del Consiglio si è fermato davanti alle remore dei sindaci e così il socialismo municipale italiano è riuscito ancora una volta a evitare la rottamazione. Per una misura che alla fine è mancata all’appello ne va segnalata un’altra che invece è sicuramente positiva e riguarda la ratifica del piano straordinario per accrescere il numero delle aziende italiane che esportano con continuità, predisposto da tempo dal viceministro Carlo Calenda. In materia di competitività delle imprese, Renzi ha riproposto anche ieri nella conferenza stampa l’idea che ha maturato sull’evoluzione del costo del lavoro nella manifattura. Per difendere la scelta – peraltro giusta – di mettere 80 euro in più in busta paga, il premier, fresco dell’incontro con il leader della Fiom Maurizio Landini, ha sostenuto che l’Italia deve puntare sull’industria di qualità e sugli alti salari. In linea di principio niente da obiettare solo che se si vuole difendere l’occupazione sarà forse meglio adottare come Paese una strategia più articolata. Perché ci sono settori e aziende sicuramente in grado di creare una quota significativa di valore aggiunto e di ridistribuirlo ai propri dipendenti – come ha fatto di recente la Ferrero – ma ci sono anche settori labour intensive come elettrodomestici e auto nei quali la competizione internazionale si gioca anche sui costi della manodopera. Ignorarlo vuol dire rassegnarsi presto o tardi a veder emigrare questo tipo di lavorazioni oppure a sussidiarle con vagonate di cassa integrazione e provvedimenti ad hoc di decontribuzione. È bene saperlo.

Un passo alla volta

Un passo alla volta

Pier Francesco De Robertis – La Nazione

Turbo-Renzi si trasforma in Turbodiesel-Renzi e «passo dopo passo» diventa lo slogan molto poco renziano di questa seconda fase di vita del governo, quello che succede all’iniziale «una riforma al mese» di marzo, e in apparenza fa assomigliare il premier a un Bersani o un Letta qualunque. Ma non è detto che sia un male, anzi. Renzi scopre la fatica del governare e non poteva non essere così perché, nonostante l’energia del premier, il suo ottimismo, la sua capacità di entusiasmarsi e di comunicare, l’uomo della Provvidenza non esiste e i problemi di un’Italia avvitata su se stessa si risolvono con fatica e perseveranza. In politica, e per i politici che di sé vogliono lasciare un segno ai posteri, il consenso non è un fine, ma un mezzo, e per impiegarli, i mezzi, serve tempo. D’altra parte i dati economici sono disastrosi e le critiche iniziano ad arrivare anche da chi fino a questo momento al governo aveva lisciato il pel0, vedi il presidente di Confindustria, e ricordano a Renzi che il tempo delle promesse e degli annunci è finito. Ecco quindi il senso del «passo dopo passo» pronunciato ieri e la tempistica, ricordata esplicitamente, dei «mille giorni» nei quali attuare il programma dell’esecutivo. Segno che il presidente del consiglio si rende conto dello stringere del tempo, e che stavolta è qualcosa di concreto che occorre portare davanti all’opinione pubblica.

La riforma del Senato è stato un buon risultato. ancorché in prima lettura, ma con il nuovo Senato non si mangia, e il Paese sente invece bisogno di qualcosa di efficace per smuovere l’economia e far ripartire i consumi. E il primo dei passi da fare è stato ieri la riforma dell’arretrato nel processo civile, quello sì che incide davvero sulla vita di tanti cittadini e di tante imprese, e l’ormai famoso Sblocco Italia per buttare un po’ di miliardi nell’edilizia e nei lavori pubblici, da sempre il vero volano dello sviluppo. Certo, sono rimasti accantonati o rimandati a una delega temi importanti, primo fra tutti la scuola e le assunzioni dei precari (Renzi ha detto che sarà affrontato mercoledì prossimo, e vedremo come), il taglio o il riordino delle partecipate che tutti si aspettavano, interventi efficaci sull’ormai mitica spending review, per non parlare poi di argomenti non meno significativi come la riforma del processo penale. Ma se ormai la logica è, appunto, quella del «passo dopo passo», in qualche modo occorre guardare all’oggi pensando al prossimo step da superare. In tempi di magra lo spirito non va dove vuole, ma si posa dove può.

Cono d’ombra

Cono d’ombra

Antonio Padellaro – Il Fatto Quotidiano

Con tutti i problemi che abbiamo non si sentiva proprio il bisogno di un replay di Berlusconi che fa il clown e passeggia per il cortile di Palazzo Chigi leccando un gelato. Anzi, duole dirlo, ma perfino l’ex Cavaliere avrebbe evitato di fare il pagliaccio con il governo nel bel mezzo di una crisi economicaogni giorno più devastante.

Ma, come il Pregiudicato (con il quale non a caso è culo e camicia e stringe patti segreti), Renzi pensa di fare fessi gli italiani con queste piccole armi di distrazione di massa. Non gira un euro, i negozi sono vuoti, le imprese chiudono, le famiglie affrontano il peggiore autunno dagli anni 50, ma il premier giovanotto viene immortalato mentre mangiucchia banane o si tira una secchiata d’acqua in testa.

Come dire: ragazzi va tutto benone, e se i gufi dell’Economist mi dipingono come un adolescente immaturo accanto a Hollande e alla Merkel mentre la barchetta dell’euro affonda, io ci rido sopra e fo il ganzo. Purtroppo, la bibbia della grande finanza voleva comunicargli che i grandi investitori non sanno che farsene del governo degli annunci ai quali quasi mai seguono i fatti. Dopo la figuraccia della riforma scolastica (con i centomila precari assunti da un giorno all’altro, secondo i giornali di corte) che aveva detto “vi stupirà” e che infatti molto ci ha stupito per la sua assenza, Renzi invece di chiudersi in un imbarazzato silenzio si è sparato la mirabolante riforma della giustizia civile che, venghino signori venghino, durerà la metà e mi voglio rovinare. Se continua così, lo statista di Rignano non farà l’annunciato big bang, ma un grosso botto sì. Al gusto di limone.

Ottimismo espediente o necessità?

Ottimismo espediente o necessità?

Elisabetta Gualmini – La Stampa

Ha resistito per un po’ Matteo Renzi durante la conferenza stampa di ieri. Prima ha presentato il nuovo slogan della fase 2 del suo governo, passo dopo passo, dando l’idea di voler affrontare con calma, serietà e concretezza i diversi problemi che l’Italia ha davanti, in particolare la riforma della giustizia e le misure per sbloccare le opere pubbliche. Poi pero non ce l’ha più fatta ed è tornato il leader motivazionale di sempre. Il Renzi della rivoluzione, delle cose che nessuno ha mai fatto, di un Paese che tra 1000 giorni sarà completamente trasformato. La riforma della giustizia civile è una ri-vo-lu-zio-ne! E il nuovo codice sugli appalti con norme uguali a quelle degli altri Paesi europei è un’altra ri-vo-lu-zio-ne. E così in una delle giornate più buie dell’economia italiana, in cui recessione e deflazione fanno a gara ad alimentarsi a vicenda, in cui le famiglie non consumano praticamente più e gli imprenditori fuggono a gambe levate da qualsiasi investimento, il Premier riesce a fornire un racconto diverso e a lanciare – ancora una volta – un messaggio rassicurante. D’altro canto, anche l’Europa ha problemi simili, e dalla crisi si esce con uno sforzo comune. C’è da chiedersi se l’ottimismo e il continuo sforzo motivazionale del Premier siano solo un espediente per distogliere l’attenzione dall’enorme complessità dei problemi che devastano il nostro Paese o se – soprattutto finché non ci sarà una vera e propria svolta in Europa verso politiche di crescita – non sia proprio l’unica cosa da fare. Sì, certo, il siparietto con il banchetto dei gelati e il cono offerto ai giornalisti come risposta (stizzita) alla copertina dell’Economist ce lo poteva risparmiare, anche perché nessun giornalista si è sbellicato dalle risate e ha deciso di stare al gioco.

Renzi ci sta provando a mettere in fila una serie di provvedimenti utili ad allentare i vincoli che flagellano i settori più importanti per lo sviluppo del nostro Paese. Con qualche stop-and-go, tra avanzate e retromarce (come quella, che gli deve essere costata molto, sulla scuola), le novità ci sono e, se fossero realizzate, avrebbero un impatto significativo. E’ per questo forse che il premier mantiene livelli di popolarità tuttora molto elevati tra i cittadini italiani, i quali continuano a interpretare la «missione di Matteo» come la lotta di Davide l’innovatore contro la falange armata dei Golia (i poteri forti, gli interessi corporativi, i privilegi diffusi) che vogliono mantenere le cose identiche a sempre. Con lo Sblocca-Italia si cerca di mobilitare fondi già disponibili e sveltire i percorsi di realizzazione (promettendo ad esempio di completare la Napoli-Bari e la Palermo-Messina-Catania nel 2015 invece che il 2017). Si liberano risorse per altre opere cantierabili, di taglia media e mini, che daranno soddisfazione ai sindaci, con l’acqua alla gola tra tagli e patto di stabilità. E poi gli incentivi per la banda larga nelle zone bianche, l’utilizzo dei fondi europei, ancora non spesi, le modifiche alla Cassa depositi e prestiti, il sostegno all’edilizia e gli incentivi all’export delle piccole e medie imprese. Con anche un occhio alla situazione di Bagnoli e agli investimenti per l’estrazione di idrocarburi. Il nuovo codice sugli appalti viene invece affidato a un disegno di legge delega. Sulla giustizia le norme contenute nel Dl sono più che apprezzabili. Il dimezzamento dell’arretrato e dei tempi del contenzioso sarebbe in effetti una rivoluzione. Per i nostri investitori e per quelli internazionali. Questo è il vero cuore della riforma al di la di misure minori come il taglio delle ferie dei giudici e l’iter semplificato per le separazioni senza figli. Anche le norme sul falso in bilancio e sul reato di autoriciclaggio vanno nella giusta direzione. ll decreto legge dunque non partorisce un topolino. E Matteo se lo dice naturalmente da solo: tanta roba eh?

Lo stile del Premier non cambia. Ottimismo e sorrisi contro il buio pesto. Energia e gelati contro rassegnazione. Entusiasmo a palla contro i cantori del declino. O meglio, tentarle tutte invece che stare fermi a guardare. Bisogna dirla tutta. Pure con i rischi del caso (eccesso di promesse e risultati inferiori alle aspettative), siamo sicuri che ci siano alternative?

Il fallimento degli 80 euro: col bonus consumi in calo

Il fallimento degli 80 euro: col bonus consumi in calo

Antonio Signorini – Il Giornale

Gli ottanta euro sono rimasti in banca o nei portafogli. Se non fosse un controsenso, verrebbe da pensare che la misura fatta per rilanciare i consumi, in realtà li abbia rallentati; ma è più probabile che il bonus sia andato a rimpinguare i risparmi di cittadini con poca fiducia nella ripresa. I dati Istat parlano chiaro e confermano i timori espressi non molto tempo fa dalle associazioni del commercio. In giugno, quindi in coincidenza con l’arrivo degli ottanta euro in busta paga, le vendite al dettaglio sono rimaste ferme rispetto al mese precedente, ma sono calate rispetto allo steso mese dell’anno precedente (quando non c’era il bonus) del 2,6%. Gli italiani hanno speso meno sia per i prodotti alimentari (-2,4%) sia peri non alimentari (-2,8%). In calo la grande distribuzione (meno 1,3%), un salasso per i piccoli (-3,9). 

Non è una sorpresa per i commercianti. Per Confcommercio i dati Istat confermano «quanto già anticipato dal nostro indicatore consumi e cioè che le misure prese fino ad oggi non hanno prodotto gli effetti sperati sui consumi e non sono state idonee a sostenere la fiducia delle famiglie, in calo anche ad agosto». Per la confederazione «è presumibile che anche la seconda parte del 2014 possa mancare l’appuntamento con la ripresa economica, confermando, dunque, l’urgenza di interventi più incisivi». Segnali negativi anche sui salari (le retribuzioni contrattuali orarie in giugno sono aumentate dell’1,1% rispetto all’anno scorso, la crescita annua più bassa dal 1982) e sul fronte delle imprese (in agosto l’indice della fiducia è passato a 95,7 da 99,1). 

Importanti elementi di riflessione per il premier Matteo Renzi che oggi guiderà il Consiglio dei ministri per l’approvazione dello Sblocca Italia e delle misure per la scuola. Ieri il premier è andato al Quirinale a illustrare le misure del Consiglio dei ministri. Prima, un vertice con il ministro dell`Economia Pier Carlo Padoan e il ministro delle infrastrutture Maurizio Lupi per cercare le coperture alle infrastrutture. La soluzione trovata è approvare in parte oggi e in parte con la legge di Stabilità le misure.Le coperture disponibili da subito si confermano i 3,7 miliardi. Sono 1,26 miliardi dal fondo delle opere incagliate, e 2,54 miliardi dal fondo di coesione In tutto 3,8 miliardi da destinare soprattutto a nuove linee ferroviarie di alta velocità o alta capacità. Lo Sblocca Italia «non sostituisce la legge di Stabilità» ha dichiarato Lupi, è un pacchetto di «dieci punti» e «confermo le coperture per i provvedimenti contenuti in es SU». 

Nella bozza in entrata al Consiglio le linee citate sono solo quelle del Sud: la Napoli-Bari e Palermo-Messina-Catania, con poteri straordinari per Fs e burocrazia limitata. In via di riscrittura di un articolo che rendeva più facile installare antenne su tralicci preesistenti per la contrarietà del ministero dei Beni culturali (che ha bocciato più articoli del ministero dell’Economia). Tra le novità in entrata, un piano per la costruzione di nuovi inceneritori di rifiuti e semplificazioni a favore dell’edilizia. Per le grandi locazioni e le costruzioni nei campeggi. Anche ieri è continuato il tiro alla fune sulla privatizzazione delle società partecipate da Comuni, Province e Regioni. L’accelerazione e gli incentivi (meno vincoli di bilancio) ai Comuni che vendono o accorpano – nonostante il pressing dello stesso Renzi- potrebbero essere rinviati. Sullo sfondo la partita delle pensioni e del lavoro, rinviata forse a fine anno. «Nessun intervento sulle pensioni in legge Stabilità», ha assicurato ieri il ministro del Lavoro Giuliano Poletti al Meeting di Rimini di Comunione e liberazione. Ad avere ipotizzato un taglio delle rendite più alte per finanziare misure per gli esodati o l’estensione degli 80 euro ai pensionati era stato lo stesso Poletti, che ha smentito attriti con il premier: «Sono stabilissimo», ha assicurato.

Il capitale di Renzi

Il capitale di Renzi

Il Foglio

Un prodotto degli ottanta euro è il consenso, è ora di spenderlo. Le ultime statistiche direbbero che avere messo ottanta euro in più nella busta paga degli italiani non incentiva i consumi né incoraggia la popolazione a spendere più di prima. Le vendite al dettaglio nel mese di giugno, il primo mese di disponibilità del bonus, sono rimaste ferme confermando il calo tendenziale di maggio del 2,6 per cento, dice l’lstat. La fiducia dei consumatori vacilla: dopo il picco di maggio, in agosto l’indice è tornato ai livelli di mano, quando il premier Renzi ha annunciato lo sgravio. Un andamento a parabola che autorizza molti commentatori a certificare che del “miracolo” proclamato con enfasi dal governo non c’è traccia. Certo, i numeri sarebbero stati peggiori senza quel sollievo: parte degli ottanta euro sono finiti in spese mediche o piccoli acquisti. O migliori, se non fossero serviti a pagare quel filotto di tasse su casa e affini di questi mesi o se la congiuntura recessiva (drammatizzata dai media) non avesse convinto molti a risparmiare. Oppure, soprattutto, se il governo avesse detto credibilmente agli elettori che si tratta di uno sgravio permanente, e non one shot. E’ ancora presto e non deve stupire se non si spende. Ciò detto, il prodotto degli ottanta euro non è soltanto il consumo ma anche il consenso politico. Consenso capitalizzato alle europee che va investito: ora Renzi dovrebbe spendere i suoi “ottanta euro” e assumersi la responsabilità di misure anche impopolari, le sole capaci di invertire una tendenza grave. Partire da un’opera di revisione della spesa che non faccia prigionieri e i cui proventi vadano poi a ridurre la pressione fiscale più alta d’Europa.

Tante idee ma confuse

Tante idee ma confuse

Stefano Lepri – La Stampa

Di nuovo importanti scelte annunciate sembravano decadere a «linee guida» per poi scomparire del tutto nel Consiglio dei ministri di oggi. E allora è bene cercare un significato di insieme di ciò che ribolle dentro il governo di Matteo Renzi, tra promesse e retromarce, azzardi e smentite. Dei contrasti non c’è da stupirsi, dato che per fare riforme vere occorre scontentare molti interessi; ma la confusione di idee è grande. La salutare intenzione di rompere tabù annosi si intreccia con ipotesi di stravecchie misure conformi a vecchi modelli politici. Nessun «cambio di verso» ci sarebbe ad esempio nell’assumere senza concorso decine di migliaia di precari della scuola.

Nelle bozze del provvedimento «Sblocca Italia» oggi all’esame compaiono insieme interessanti novità ed erogazioni di tipo clientelare. Un modo diverso di governare non può certo emergere già bell’e formato. Il guaio è che il fronte tra vecchio e nuovo molto spesso non si capisce dove passi, e nemmeno tra chi. In parte si tratta ancora di inesperienza, da parte dei giovani oggi arrivati al potere con Renzi. Ma più passa il tempo, più si parlerà di carente abilità nel progettare.

Ad esempio l’importantissima questione delle partecipate degli enti locali è arrivata alla ribalta solo grazie all’impegno del commissario alla revisione della spesa Carlo Cottarelli. Si trova lì un nodo cruciale dei veri «costi della politica». Ma occorre saper distinguere. Un gran numero di società in annosa perdita, o con scopi poco attinenti al settore pubblico, può essere chiusa senza complimenti. Invece i trasporti locali, da dove viene gran parte delle perdite, devono essere riformati costringendo gli amministratori a tagliare gli sprechi. C’è una Autorità per i trasporti che ha cominciato a funzionare, esistono esempi in altri Paesi; una razionalizzazione su base regionale sarebbe utile seppur non sufficiente. Occorre però che i ministri si facciano carico di elaborare proposte.

Un altro esempio sono le privatizzazioni. È salutare che si sia rivelata un bluff la privatizzazione delle Poste, azienda dove il confine tra le aree di servizio pubblico e quelle di mercato rimane alquanto oscuro. È interessante che si discuta di ridurre la quota dello Stato in Eni ed Enel oltre limiti che finora venivano considerati invalicabili: ma si chiarisca anche a quale scopo.

L’Eni, di gran lunga la componente più valida dell’industria di Stato, negli anni ha funzionato come importante strumento per approvvigionarci di petrolio. Oggi la sensazione – diffusa tra i Paesi amici ed alleati – che condizioni un po’ troppo la politica estera italiana è solo il riflesso politico della crescente difficoltà economica di fare scelte energetiche indipendenti su scala solo nazionale. Prima di decidere che fare dell’Eni, occorre avere un’idea di quali scelte in materia di energia farà l’Europa nel suo insieme; Vladimir Putin ce ne impone l’urgenza. Una ipotesi possibile è che invece di muoversi in ordine sparso le imprese di Stato esistenti in vari Paesi dell’Unione possano trovare strategie comuni, forse persino unirsi.

Perché i progetti ancora latitano? Il rischio sta nella via breve di un ritorno al primato della politica: ovvero che i nuovi arrivati al potere con Renzi si limitino a proporre la novità di se stessi, magari inventando nemici di comodo per sfruttare a proprio vantaggio l’insofferenza contro tutte le élites. Non può funzionare. Trovare consenso al dettaglio, con favori all’una o all’altra categoria (pensionandi o supplenti o altri ancora), è oggi disastrosamente dispendioso. Solo mostrando una visione di insieme si può consolidare il consenso dei cittadini in quanto cittadini.

Il cono di Renzi che gli inglesi si sognano

Il cono di Renzi che gli inglesi si sognano

Gaetano Pedullà – La Notizia

Che simpaticoni i colleghi del settimanale inglese The Economist. Nell’ultima copertina hanno messo un Matteo Renzi col gelato in mano accanto a un Hollande (inspiegabilmente cresciuto di statura) e alla Merkel su una banconota dell’euro a forma di barchetta che affonda. Alle loro spalle un Mario Draghi che cerca di tenere tutti a galla raccogliendo l’acqua col cucchiaino. Da Londra, che ancora non ringrazia abbastanza i suoi leader politici per essersi tenuti stretta la sterlina, è fin troppo facile fare ironia su questa Europa di cartone. Un’unione burocratica di Paesi divisi su tutto con una sola cosa in comune: la moneta. Inevitabile che affondi. Si capisce poco, invece, cosa c’entra il nostro premier col gelato in mano, così come l’ha immaginato il suo amico (o forse ex?) Diego Della Valle in una battuta dai più già dimenticata. Che bellezza la libertà di critica e di fare ironia (su questo giornale ne facciamo uso a vagonate) e lungi l’intenzione di essere bacchettoni. Ma prima Berlusconi perché era Berlusconi, adesso Renzi non si capisce bene perché, ogni volta è l’Italia e non i singoli primi ministri che vengono messi alla berlina. E si fa anche bene perché oggi i giornali nemici del governo si getteranno sull’osso per dimostrare che il nostro premier ha perso credibilità in Europa, mentre quelli più vicini a Palazzo Chigi minimizzeranno la cosa o sosterranno che questa è l’eredità di anni di cattiva politica. Mancherà la capacità di sostenere insieme che noi siamo l’Italia e gelati buoni come i nostri a Londra se li sognano. Ci pensassero prima di prenderci in giro.  

Italia e Ue: un incrocio favorevole

Italia e Ue: un incrocio favorevole

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi – Corriere della Sera

Grazie ad un incrocio fortunato di eventi i Paesi dell’euro hanno oggi la possibilità di attuare quella svolta che è necessaria per uscire dal lungo periodo di stagnazione economica in cui viviamo da quasi sette anni. Il governo italiano potrebbe avere un ruolo fondamentale nel renderlo possibile.

Venerdì scorso Mario Draghi ha detto chiaramente che per ricominciare a crescere sono necessarie riforme strutturali dal lato dell’offerta, accompagnate però da una ripresa della domanda, in particolare dei consumi delle famiglie e degli investimenti delle imprese. E che questo la Bce non può farlo, almeno non da sola. La prima mossa spetta ai governi che, oltre a fare le riforme, soprattutto del mercato del lavoro, devono abbassare le tasse riducendo al tempo stesso la spesa pubblica. E se le due cose non possono procedere alla medesima velocità, perché le tasse si abbassano in un giorno mentre per tagliare le spese serve un po’ più tempo, non bisogna strapparsi le vesti se il deficit temporaneamente cresce. Forse anche la Germania se ne sta convincendo. Infatti (anche se questa non è una buona notizia) i dati recenti lasciano intravvedere un rallentamento dell’economia tedesca che potrebbe rendere Angela Merkel meno ostile a provvedimenti concordati volti ad aumentare la domanda interna nell’eurozona.

Domenica a Parigi il presidente Hollande ha chiesto al suo primo ministro, Manuel Valls, di sostituire i membri del governo che si opponevano alle riforme e ai tagli di spesa. Il cambiamento più significativo è avvenuto al ministero dell’Economia e dell’Industria dove Emmanuel Macron (36 anni), il più liberista dei consiglieri di Hollande, ha sostituito Arnaud Montebourg (56 anni), un socialista del secolo scorso, alfiere dell’intervento dello Stato nell’economia, strenuo oppositore della globalizzazione e apertamente ostile alla Bce. Una svolta che ricorda il marzo del 1983 quando Mitterrand, dopo due anni di illusioni, cambiò radicalmente politica, si affidò a Jacques Delors e salvò la sua presidenza. Anche a Parigi si comincia ad accettare che «il liberismo è di sinistra».

A Roma Matteo Renzi si è impegnato a varare oggi, il giorno prima del vertice europeo di domani, la riforma della giustizia e il decreto cosiddetto sblocca Italia. Ma la riforma più importante riguarda il mercato del lavoro. Renzi ha promesso che si adopererà affinché entro il mese di settembre il Parlamento vari il disegno di legge delega proposto dal suo governo, che riprende le idee del senatore Pietro Ichino riscrivendo da zero lo Statuto dei lavoratori. E quindi modificando anche il famoso articolo 18.

Come non sprecare questo incrocio fortunato? L’Italia ha una responsabilità particolare, e non solo perché il vertice europeo di domani sarà presieduto da Matteo Renzi. Siamo (con l’eccezione della Grecia) il Paese dell’euro con il debito più elevato e quindi quello che più di ogni altro deve convincere che la qualità delle riforme attuate giustifica un allentamento temporaneo dei vincoli sul deficit, condizione necessaria per poter abbassare subito le tasse sul lavoro. Le parole «qualità» e «attuate» qui sono cruciali. Le riforme non devono essere annunci ma leggi approvate. E a queste leggi devono seguire in tempi rapidi i decreti che le rendono operative, la qualità appunto. Ad esempio a 5 mesi dalla legge che ha abolito le Province (Legge 56 del 7 aprile) i decreti che ne ripartiscono le funzioni fra Stato, Comuni e Regioni non sono ancora stati varati, cosicchè quella riforma per ora rimane una norma senza effetti. Anche se va riconosciuto al premier di aver abolito il livello elettivo dei Consigli provinciali.

Uscire dalla riunione Ue di domani senza un accordo sulla necessità di sostenere la domanda interna significherebbe rimandare almeno di un altro anno la ripresa dell’eurozona. Raggiungere quell’obiettivo dipende anche dalle decisioni che prenderà oggi il Consiglio dei ministri, dalla determinazione con cui Renzi ripeterà l’impegno a varare il Jobs Act entro settembre e dall’esempio che egli saprà offrire al nuovo governo di Parigi, che si trova ad affrontare problemi analoghi.

Essere convincenti sulle riforme e sul percorso che vogliamo seguire per uscire dalla recessione deve essere l’obiettivo di Renzi nel vertice europeo. Se egli invece lascerà che la riunione si perda in una trattativa defatigante sui nuovi commissari e sul ruolo che avrà Federica Mogherini a Bruxelles, avrà perso un’occasione che potrebbe non ripresentarsi più. È improbabile che domani vengano già varati provvedimenti a livello europeo per far crescere la domanda. Ma sarebbe importante che una prima discussione cominciasse.