Matteo Renzi

I tanti annunci gelano la fiducia

I tanti annunci gelano la fiducia

Federico Fubini – La Repubblica

Viviamo in tempi di deflazione del denaro e inflazione di parole. Impossibile tenere il conto di quante volte al giorno ormai la classe politica parli di “riforme” o di “fiducia”. L’unica certezza è che l’inflazione è quel fenomeno per il quale l’abbondanza crescente di una certa materia prima ne deprime il valore. L’impero spagnolo distrusse il prezzo dell’argento nel sedicesimo secolo per gli eccessi con cui lo importava dal Perù. Il governo di Matteo Renzi rischia di trovare la sua sindrome dell’argento peruviano nella serie di annunci ai quali non sempre, non in modo univoco, seguono poi i fatti. Il bilancio di questo mese d’agosto permette di far sorgere qualche sospetto che il pericolo esista realmente.

Proviamo a riassumere. Al Consiglio dei ministri dei primi del mese sarebbe dovuta passare la riforma dei Beni culturali di Franceschini. Poi è slittata. Ora tutto sarebbe pronto, ma a quanto pare non sarà varata neppure dal vertice di domani a causa dell’ ingorgo di altri procedimenti. Eppure neanche misure più in alto nell’agenda del Consiglio dei ministri odierno stanno avendo vita facile. Per dirne una, solo sei giorni fa il premier aveva annunciato che oggi sarebbe toccato alla scuola: «Il 29 agosto presenteremo una riforma complessiva », scadenza poi confermata in un tweet di giovedì. Del resto il governo non smentiva, anzi avvalorava, il progetto di stabilizzare circa 100 mila precari dell’istruzione con le misure in arrivo.

Poi però anche qui contrordine: slitta tutto, sempre per colpa dell’ ingorgo . A crearlo sono altri due provvedimenti. C’è il decreto Sblocca-Italia, del quale ancora ieri sera a nessuno era chiaro il profilo date le vaste divergenze fra Padoan (Economia) e Lupi (Trasporti) sui fondi da spendere. E c’è la riforma della giustizia, dove però molto verrà affidato a una delega al governo, cioè anche qui a scelte da compiere poi più in là nel tempo.

La lista di questo agosto di inflazione verbale potrebbe continuare. Alternativamente gli italiani hanno scoperto che sarebbero state tagliate le pensioni più alte, poi che non sarebbero state toccate. Che sarebbero stati congelati gli stipendi del pubblico impiego, poi che ciò era fuori questione. Che andava abolito l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (quello offre le tutele maggiori d’Europa contro il licenziamento di chi ha un contratto permanente), poi che l’articolo 18 non andava toccato, infine che non serve parlarne, perché presto cambieranno tutte le norme sul lavoro.

Questo resta un governo di coalizione, espresso da uno dei parlamenti più frammentati della storia repubblicana. Nemmeno per un leader determinato come Matteo Renzi è facile controllare le spinte centrifughe dei suoi ministri e dei partiti di maggioranza. Ancora meno lo è adesso, con l’economia mai davvero uscita da un’unica grande depressione iniziata alla fine del 2008. Più è impellente l’urgenza di fare qualcosa di risolutivo, più diventa chiaro che non esistono né scorciatoie né bacchette magiche. Si può solo lavorare in Italia e con il resto d’Europa per individuare le priorità e affrontarle passo dopo passo.

Anche per questo però la corsa all’argento peruviano che si è scatenata – la ridda di annunci, le continue invocazioni della “fiducia” – non fanno che produrre conseguenze opposte. Nessuno assume, investe nella propria azienda o compra un elettrodomestico a rate se non sa cosa lo aspetta e se i messaggi che riceve sono caotici e contraddittori. Non può essere solo sfortuna se in agosto la fiducia delle imprese in Italia è scesa più che in qualunque altro Paese dell’area euro.

Forse è il caso di ispirarsi alla Spagna di oggi, quella che ha affrontato molte riforme senza parole a vuoto e ora cresce al ritmo del 2% annuo. Non a quella di cinque secoli fa.

San Matteo non ha fatto il miracolo

San Matteo non ha fatto il miracolo

Mario Deaglio – La Stampa

Il coraggio – sospira Don Abbondio nel XXV capitolo dei «Promessi Sposi» – uno non se lo può dare. E nemmeno la fiducia, siamo tentati di aggiungere, guardando ai dati, appena resi pubblici dal’Istat, sul clima di fiducia degli italiani che segnalano una netta caduta per il terzo mese consecutivo. Il giudizio degli intervistati è peggiorato su quasi tutto: molto sulla situazione economica dell’Italia, poco o nulla sulla situazione economica attuale della loro famiglia, per la quale, però, è aumentato il numero di quanti si aspettano un peggioramento imminente. Rispondendo alle varie domande del questionario, gli intervistati, quando non vedono nero, vedono tutto con lenti con varie gradazioni di grigio. Questo clima nazionale di sconforto è tanto più deludente in quanto la caduta dell’indice di fiducia segue una sua impennata decisa di inizio anno (spesso attribuita a un «effetto Renzi») che l’aveva quasi riportato ai valori del 2008, ossia all’inizio della crisi.

Per fortuna il clima di fiducia non si traduce necessariamente in comportamenti, così come la salita primaverile non ha portato a una corsa agli acquisti, c’è da sperare – mentre invece le associazioni dei consumatori ne traggono previsioni infauste – che non andiamo incontro a uno «sciopero dei consumatori», peraltro già molto «svogliati» negli ultimi mesi. Dopo l’aggiornamento di questo indice è però più difficile pensare a un aumento, anche piccolo, dei consumi privati. Il «bonus» mensile di ottanta euro che dieci milioni di lavoratori stanno incassando non solo non ha inciso, come già si sapeva, sulle abitudini di spesa, ma non ha neppure aumentato il «buon umore economico» degli italiani. I motivi per i quali il «bonus» – una misura generica di rilancio, meno efficace di misure «mirate» a determinati settori economici o segmenti sociali – non si sta traducendo in un aumento di consumi, ma, al massimo, in una loro stabilizzazione sono nascosti nelle pieghe dei bilanci famigliari. E’ verosimile che, per non ridurre troppo il loro tenore di vita, negli ultimi 2-3 anni, molte famiglie abbiano contratto dei debiti e che usino quest’entrata mensile addizionale per ripagarli; è altrettanto verosimile che, prima dei normali beni di consumo, si pensi a spese sanitarie rinviate scarsamente coperte dal servizio sanitario nazionale (per esempio le cure dentarie).

Invece di attingere ai loro risparmi e convertirli in acquisti necessari, gli italiani continuano a investirli in titoli del debito pubblico che rendono pochissimo: ai tassi dell’asta dei Bot semestrali di ieri (nella quale la domanda si è rivelata molto abbondante, superando di oltre una volta e mezza la quantità offerta) il rendimento di 1000 euro basta appena a prendere un caffè ed e quasi dimezzato rispetto all’asta precedente. Certo, i titoli sono stati tutti acquistati da operatori finanziari, in parte esteri, ma una quota rilevante finirà, prima poi, grazie alla loro intermediazione, nei portafogli delle famiglie italiane che, per paura della crisi, esitano a utilizzare quelle risorse per spese necessarie.

Insomma, San Matteo Renzi ha dato una notevole scossa a molti aspetti del-la vita economica italiana e altre promette di darne con il prossimo Consiglio dei Ministri. Non è riuscito, però (ancora?) a compiere il miracolo di far sorridere gli italiani. D’altra parte, le notizie che giungono dal resto d’Europa mostrano che questo «male italiano» si sta lentamente diffondendo e che praticamente tutte le economie dell’Unione Europea sono in frenata. Per la prima volta ieri su organi di stampa tedeschi si è evocato lo spettro di una recessione,  attribuendone indirettamente la causa al conflitto ucraino che ha seriamente danneggiato le esportazioni della Germania (e dell’Italia) verso la Russia. Gli occhi degli europei, e non solo degli italiani, sono tutti puntati su San Mario Draghi, il quale, dall’alto dei 148 metri dell’Eurotower di Francoforte, dove ha sede la Banca Centrale Europea, sta preparando le sospirate misure «non convenzionali» che dovrebbero immettere denaro nell’economia, raggiungendo direttamente (ossia usando le banche principalmente come tramite) imprese desiderose di investire e famiglie desiderose di sottoscrivere prestiti per acquistare un’abitazione.

E’ ragionevole attendersi un miglioramento che permetta all’economia europea di non scivolare in deflazione, ma non aspettiamoci che le economie ripartano a razzo: in economia è difficile trovare dei grandi santi che risolvano i problemi. Milioni di italiani e di altri europei sembrano invece continuare a credere che la ripresa deve scendere dall’alto, derivare da fatti esterni senza accorgersi che in buona parte la si crea giorno dopo giorno, avendo il coraggio di compiere piccole scelte, comprese quelle di acquistare i beni che servono con spese che rientrino nelle normali disponibilità delle famiglie e di varare piani di crescita che restino nell’ambito della normale attività delle imprese. Decine di milioni di famiglie europee, con la somma delle loro decisioni, determinano in buona parte il «clima economico». Questi milioni di piccoli miracoli individuali sono la condizione necessaria, anche se non sufficiente, perché ci scuotiamo di dosso quest’infernale recessione.

Le battute non bastano

Le battute non bastano

Ernesto Galli Della Loggia – Corriere della Sera

I gufi e i rosiconi fatidici sono stati per il momento smentiti. La campanella dell’ultimo giro che solo poche settimane fa sembrava sul punto di suonare per Matteo Renzi è viceversa rimasta muta. In questo agosto, infatti, il premier ha mostrato capacità di ripresa e d’iniziativa politica che insieme alla sua ben nota energia lo hanno fatto uscire dalla situazione di stallo in cui sembrava essersi ridotto. Anche se lo stesso Renzi ha dovuto prendere atto che, a differenza degli Stati Uniti, l’Italia non è Paese da «Cento Giorni»: per combinare qualcosa d’incisivo, da noi di giorni è meglio metterne in conto almeno mille, e infatti le molte e importanti decisioni che si annunciano nel Consiglio dei ministri di domani sembrano per l’appunto distendersi nei loro effetti su un simile arco temporale.

Sempre dando per scontato, naturalmente, quanto in Italia invece non può mai esserlo, e che infatti da decenni è il vero punto critico dell’azione di qualunque governo: cioè che alle decisioni dall’alto si sia capaci di far seguire i fatti in basso, che alle riforme a parole seguano le riforme delle cose. Dunque da questi sei primi mesi di governo Renzi esce con non molti traguardi raggiunti ma con la sua forza sostanzialmente intatta.

A mio giudizio, però, anche con due punti deboli se cancellasse i quali il nostro presidente del Consiglio ne avrebbe tutto da guadagnare. Il primo riguarda lo stile che egli ha adottato per comunicare con l’opinione pubblica. A cominciare dal tono di ottimismo e di fiducia che caratterizza regolarmente i suoi interventi, punteggiati spesso di battute, di esortazioni ironiche, di parentesi salaci su questo e quello. Non vorrei sembrare un piagnone triste e tanto meno un nostalgico dell’algida cupezza montiana, ma sono convinto che per dare la scossa a un Paese che è precipitato in una situazione difficile, molto difficile, come l’Italia, converrebbe maggiormente un discorso dal tono serio, incline alla gravità più che alla leggerezza e all’ottimismo programmatico, come invece fa Renzi. Dopo un po’ l’ottimismo, infatti, rischia sempre di apparire di maniera; e spesso finisce per costeggiare pericolosamente la fatuità, facendo sembrare fatuo anche chi lo pratica. Un pericolo certo aggravato nel caso del presidente del Consiglio dalla giovane età, che pure per altri versi gioca giustamente a suo favore.

Personalmente poi non mi sembra alla lunga efficace neppure la comunicazione spezzettata e tendenzialmente alluvionale tipica del tweet, carissima a Renzi e consistente in una serie di brevi frasi apodittiche. Forse è l’ideale per le agenzie di stampa e per la pratica della digitazione isterico-maniacale sugli smartphone in cui è impegnato 24 ore su 24 il politico professionista italiota, ma ho il sospetto che alla gente, invece, faccia l’effetto di una forma di «battutismo» che, ripetuta tre o quattro volte al giorno per 365 giorni all’anno, non depone certo a favore della serietà e dell’impegno di chi vi si dedica. Senza contare che un eccesso di comunicazione rischia sempre, alla fine, di vanificare il messaggio insieme al suo autore. Il secondo palese punto debole di Renzi sta nella mancanza intorno a lui di una vera squadra di governo: ciò che probabilmente testimonia di un suo rapporto difficile e al limite inesistente con le élite del Paese. Giunto a Roma con un piccolo gruppo di fedelissimi alla sua persona in forza di un vincolo più o meno antico d’amicizia, di essi soli egli sembra fidarsi veramente e con essi soli sembra collaborare davvero. Saranno di certo tutti abili e di provato valore, non discuto, ma una squadra di governo è un’altra cosa. Significa competenze molteplici, accesso a conoscenze specifiche, possibilità di mobilitazione di energie esterne, reti di relazioni e dunque contatti con persone e ambienti a vario titolo importanti. Significa cioè un governo che in qualche modo rappresenti, e si consideri esso stesso, il vertice della classe dirigente del Paese.

So bene che nel caso di Renzi proprio una parte almeno della classe dirigente italiana non lo vede troppo di buon occhio, ma la migliore risposta non è rinunciare ad avere un rapporto con essa, bensì semmai – per un uomo politico che voglia lasciare un segno – quella di cercare di costruirne in embrione dei nuclei alternativi. E qui il discorso inevitabilmente si allarga. A mio parere la polemica renziana contro i «salotti buoni» è sostanzialmente giusta perché si appunta contro un aspetto importante della grande ingessatura oligarchico-corporativa che immobilizza l’Italia. Ma risulta una polemica sterile, gravata per di più da uno sgradevole sospetto di risentimento personale, se essa non si traduce immediatamente nella capacità di fare appello a energie diverse, di costruire luoghi e sedi – come potrebbe essere per l’appunto una squadra di governo – dove riunire forze realmente nuove per compiti nuovi. Energie, forze, che per fortuna nella società italiana non mancano.

Per come è messo il Paese, insomma, il governo attuale rappresenta un’occasione troppo importante per vederlo perdersi tra un tweet e l’altro o avvitarsi nell’isolamento in cui finora si è mosso. Il tempo per rimediare non è molto, ma ancora c’è.

Raccontare la verità sui conti in dissesto

Raccontare la verità sui conti in dissesto

Massimo Tosti – Italia Oggi

A mettersi nei panni di Matteo Renzi c’è da sudare freddo. Domani il consiglio dei ministri dovrebbe varare le riforme della scuola e della giustizia e, soprattutto, lo Sblocca Italia, il provvedimento destinato a ridare slancio all’economia. Ma il ministro competente Pier Carlo Padoan incontra difficoltà pressoché insormontabili nel reperimento delle risorse necessarie per lo sblocco. L’impressione è che per troppi anni (più probabilmente decenni) i governi abbiano rinunciato a mettere ordine nei conti dello Stato, con il risultato che oggi è persino difficile raccapezzarsi fra gli impegni di spesa e le prospettive di entrata. È un po’ come se una famiglia avesse perso il controllo della propria situazione patrimoniale, accendendo mutui e firmando cambiali molto al di sopra delle prospettive di guadagno: a un certo punto i nodi vengono al pettine (e gli ufficiali giudiziari bussano alla porta), ma nessuno in famiglia ha un quadro realistico della situazione. Carlo Cottarelli (responsabile della spending review) sta cercando di capirci qualcosa e sta compiendo un lavoro apprezzabile (ma non si sa quanto apprezzato dal presidente del consiglio): l’ultima indagine l’ha riservata alle aziende partecipate, con il risultato di mettersi le mani nei capelli verificando gli sprechi e i debiti accumulati da amministratori distratti (o incapaci, o preoccupati soltanto di assumere amici e amici degli amici in aziende inefficienti e strangolate da un personale pletorico e raccomandato).

Cottarelli si comporta come un tutore al quale il tribunale ha affidato il compito di rimettere in ordine i conti di un capofamiglia appena deceduto che ha lasciato un’eredità confusa e gravata di debiti. Il problema è che il governo non può accettare l’eredità incassata con beneficio di inventario. Ma è già positivo che si stia dando da fare per cercare di correggere i vizi del passato. Probabilmente ci vorranno anni (altro che mille giorni) per raddrizzare i bilanci e rimettere l’Italia in cammino verso la ripresa. L’unico appunto serio che si può rivolgere a Renzi è che, fino ad oggi, non ha avuto il coraggio di raccontarci tutta la verità. E pensare che Monti, l’economista, vedeva la luce in fondo al tunnel.

Distacchi sindacali, il bisturi di Renzi indica dove incidere

Distacchi sindacali, il bisturi di Renzi indica dove incidere

Sergio Soave – Italia Oggi

Il dimezzamento dei distacchi sindacali, annunciato dalla titolare del ministero della riforma della pubblica amministrazione Marianna Madia, ha il pregio di indicare uno dei nodi più aggrovigliati del sistema che paralizza l’Italia: l’intreccio conservatore tra burocrazia e corporazioni. La burocrazia, cioè la struttura amministrativa e gestionale pubblica, dovrebbe rappresentare l’interesse generale, contrapposto a quello legittimo ma particolare rappresentato dalle corporazioni o, se si preferisce un termine più carezzevole, dalle parti sociali. È così negli stati che funzionano, indipendentemente dal fatto che la politica del governo sia basata sulla coesione sociale, come in Francia, o persino sulla codecisione nel controllo di essenziali temi aziendali, come in Germania. In Italia invece di una dialettica tra interesse generale e interessi particolari, cioè tra burocrazia e corporazioni, vige da sempre uno scambio delle parti, che trova nei distacchi sindacali, o anche simmetricamente nell’esercizio da parte dei sindacati di funzioni pubbliche come l’assistenza fiscale, un’espressione plastica. Si tratta però delle conseguenze di un intreccio conservatore assai profondo e radicato. Il governo fa bene a indicare un simbolo particolarmente evidente della patologia, ma non può illudersi di curarla partendo dai sintomi.

Questo intreccio ha costituito la trama di continuità delle società italiane, dai Comuni in poi, che sostituiva o innervava stati deboli o oligarchie autoreferenziali, ha resistito a tutti i cambiamenti istituzionali, è stato glorificato dal fascismo e rinforzato dall’antifascismo. Così in Italia è senso comune pensare che un segretario generale (di un ministero o di un sindacato) resta, mentre i ministri e i capi partito passano.

Questo intreccio ha per sua natura un carattere conservatore, il che di per sé non sarebbe un male, ma lo ha declinato soprattutto negli ultimi decenni in una chiusura ermetica alle esigenze di riforma che nascono dalla globalizzazione dei mercati, e questa è la ragione che ha visto le varie esperienze politiche di governo bloccate nelle loro volontà o velleità riformistiche. Ora ci prova Matteo Renzi, che ha una condizione di particolare forza politica, dovuta essenzialmente alla debolezza dei suoi competitori e alla comprensione generale dell’esigenza di cambiamento di cui ha fatto una bandiera propagandistica. Merita tutto l’incoraggiamento possibile che, per essere sincero, deve metterlo in guardia contro la faciloneria di misure simboliche che vanno bene per iniziare un processo di riforma e di trasformazione assai più complesso e profondo ma non possono certo sostituirlo.

Numeri, numerini e numeri spaziali

Numeri, numerini e numeri spaziali

Giorgio Santilli – Il Sole 24 Ore

Tornato a Palazzo Chigi, Matteo Renzi si è messo subito al lavoro sugli oltre 100 articoli che gli uffici gli hanno lasciato domenica scorsa dopo il lavoro, durato tutto agosto, di raccolta delle norme del decreto sblocca-Italia dai vari ministeri. A Renzi il testo deve aver fatto la stessa impressione che ha fatto a noi: un corpaccione con molte cose interessanti ma senza un’anima e senza un euro aggiuntivo rispetto a poche, vecchie risorse riprogrammate. Se il decreto vuole essere la risposta ai moniti agostani di Draghi sul rilancio degli investimenti o il biglietto da visita per il Consiglio Ue del prossimo weekend, c’è ancora molto lavoro da fare. Le risorse disponibili ammontano al momento agli 1,2 miliardi del fondo revoche per vecchie infrastrutture mai partite e forse 2,5 miliardi del Fondo sviluppo coesione mai utilizzati. Forse perché gli uffici ministeriali non danno affatto per scontata questa ulteriore posta e l’incontro Renzi-Padoan di lunedì non ha tranquillizzato.

A voler essere generosi si possono inserire nell’orizzonte dello sblocca-Italia un piano per il dissesto idrogeologico che sta cercando di raccogliere almeno un miliardo da revoche (anche qui) di vecchie opere mai partite e un piano depurazione da 1,6 miliardi che non è mai decollato e potrebbe farlo, ammesso che funzioni la ricetta sempreverde dei supercommissari.

I 43 miliardi di cui parla il governo si conferma un numero spaziale, infondato: una farsa come ha scritto il direttore di questo giornale nell’editoriale del 7 agosto. Il governo inserisce l’attivazione di alcune opere infrastrutturali «già finanziate» ma da sbloccare che sono state quantificate con leggerezza in 30 miliardi, ma che a ben guardare ne possono valere 12, intendendo con questo l’avvio entro 12-18 mesi di opere che produrranno poi lavori per 12-15 miliardi in un arco di vita delle opere di 5-6-8-10 anni.

Sulla stima reale di quanto valgano queste opere basta forse rimandare al lavoro puntuale, opera per opera, fatto dal Sole 24 Ore lo scorso 10 agosto e ricordare qualche opera multimiliardaria inserita a sproposito: l’autostrada Orte-Mestre, che pesa per 10,4 miliardi e vedrà forse con il decreto di fine mese aggirare il parere contrario della Corte dei conti alle defiscalizzazioni concesse dal Cipe per 1,9 miliardi, ma dovrà poi fare la gara per individuare il concessionario (oppure confermare il promotore), portare il progetto a livello definitivo, superare un lungo iter autorizzativo e trovare banche e finanziatori per fare in tempi rapidi un closing e poi avviare i lavori. Probabilità che l’opera parta nel giro di un anno o un anno e mezzo: zero. Per altre opere ci sono in quel piano errori grossolani (la ferrovia Messina-Catania-Palermo è conteggiata per 5.250 milioni, cioè il costo totale dell’opera, mentre l’opera ha disponibili solo 2,4 miliardi e il lotto da sbloccare vale 900 milioni). Lasciamo correre opere tutt’altro che facili da sbloccare come la gronda autostradale di Genova (3,2 miliardi) o opere che non hanno nulla da sbloccare come il piano per Fiumicino (2,1 miliardi).

Da premesse tanto incerte nasce quel totale di 43 miliardi. Il discorso andrebbe riportato dentro una cornice più seria e più fattiva: meno numeroni inutili di cui è morta la legge obiettivo, più risorse reali e comunque una selezione di obiettivi strategici per sbloccare piani e opere realmente prioritari. Un’anima, insomma, per evitare il ripetersi di sblocca-Italia che non hanno sbloccato l’Italia e l’hanno invece condannata al più basso Pil d’Europa.

Due regole non scritte

Due regole non scritte

Antonio Polito – Corriere della Sera

Appena sabato scorso Arnaud Montebourg aveva detto a Le Monde che «l’Europa deve fare come Matteo Renzi» e liberarsi dell’«ossessione tedesca per l’austerità». Non gli ha portato bene. Tre giorni dopo è stato licenziato da François Hollande, aprendo a Parigi una crisi di governo di inusitata gravità, solo cinque mesi dopo la nascita dell’esecutivo guidato da Manuel Valls (un altro che è stato spesso paragonato a Renzi).

Naturalmente il ministro dell’Economia francese non è stato punito perché troppo renziano. Anzi, se si vuol stare al paragone con l’Italia, il Don Chisciotte della sinistra d’Oltralpe assomiglia più a un Fassina o a un Bertinotti vecchia maniera. Ma la sua cacciata conferma due leggi della politica europea da cui neanche la Francia si è mai allontanata, e che faremmo bene a tenere sempre a mente anche noi italiani. 
La prima è che delle «due sinistre» quella che non fa i conti con la realtà, che si illude e illude gli elettori di poter tornare all’età dell’oro socialdemocratica facendo deficit e mettendo tasse, è destinata a perdere. Seppure su scala minore, la crisi di Parigi ricorda lo scontro con cui alla fine degli anni Novanta il Cancelliere Schröder si liberò del ministro Lafontaine a Berlino. La rottura della Spd con la sinistra interna diede il via alla stagione di riforme che salvarono la Germania dal declino economico, e aprirono la strada all’era Merkel. Hollande, allo stesso modo, vuole riaffermare la sua autorità sul partito e sul governo proprio mentre è impegnato in un programma di riforme liberali della stagnante economia francese.

La seconda legge che esce confermata dalla punizione di Montebourg è che Parigi, chiunque sia al governo, non guiderà mai un fronte di opposizione alla Germania. La Francia non ha alcun interesse a diventare il capofila dei deboli. Sia perché la sua missione politica è quella di stare nel cuore dell’Europa, sia perché i mercati la premiano finché resta attaccata a Berlino, con tassi di interesse bassi quando non addirittura negativi, nonostante deficit alti e crescita zero. Perché mai Hollande dovrebbe dunque trasformare la sua retorica anti-austerità in un vero e proprio scontro con la Merkel, come il ministro ribelle lo invitava a fare?

È bene dunque non farsi troppe illusioni su presunti assi mediterranei tra Parigi e Roma per piegare Berlino. Ogni Paese deve contare sulla sua credibilità prima di ogni altra cosa. La Spagna, per esempio, ha fatto riforme efficaci dell’economia che le hanno consentito a giugno, insieme al Portogallo, di dire di no alla richiesta italiana di maggiore flessibilità nei conti, e che probabilmente le varranno la nomina di Luis de Guindos alla presidenza dell’Eurogruppo (con il francese Moscovici che conquista l’Economia e la nostra Mogherini piazzata alla Politica estera).

Non abbiamo dunque altra strada che trasformare le promesse e gli annunci della stagione Renzi in realtà. Il nostro governo ha ancora un grande capitale di fiducia da spendere in Europa. Ma deve agire. Riforme radicali della giustizia e del mercato del lavoro sono, nelle prossime settimane, l’unica vera arma di cui dispone. E, come i fatti francesi hanno dimostrato, valgono molto più degli applausi di un Montebourg.

La scure del Pil incombe sull’autunno dell’esecutivo

La scure del Pil incombe sull’autunno dell’esecutivo

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

I fatti iniziano a farsi sempre più chiari. Le due anomalie che l’Italia rappresenta, quella di essere l’unico paese dell’eurozona in recessione e quella di incarnare l’unica economia che al terzo anno di tentate riforme non riesce in alcun modo a far ripartire la crescita e il pil, stanno per arrivare al pettine. Mario Draghi ha parlato da Jackson Hole e ha detto chiaramente che senza le riforme che l’Italia rinvia dal 2011, in primis quella per rendere più efficiente il mercato del lavoro, la Bce non potrà fare molto di più di quanto ha già fatto. Un messaggio chiaro a Matteo Renzi che continua a chiedere una flessibilità che nessuno può concedergli a priori. Anche perché il trimestre in corso sarà chiave per l’Italia. Se, anche in conseguenza di una pessima estate climatica e conseguentemente di una fiacca stagione turistica, il pil di luglio-settembre dovesse registrare un nuovo dato negativo, allora la faccenda per Renzi e per il Belpaese si farebbe davvero grave. Non tanto e non solo perché sarebbe già acquisito a quel punto per il 2014 un calo della ricchezza nazionale dello 0,4-0,5%, con tutto quello che significa in termini di occupazione ed entrate fiscali, ma perché l’Italia diventerebbe automaticamente portatrice di una ulteriore anomalia dell’eurozona: l’unica economia a subire l’ennesimo downgrade da parte della agenzie di rating mentre gli altri paesi registrano promozioni nei giudizi. Se, infatti, il pil scendesse ancora nel trimestre in corso per Moody’s&Co.diventerebbe normale capire se il rating dell’Italia possa essere o meno confermato. Un paese in recessione da tre trimestri, con una disoccupazione giovanile monstre e indebolito da una strisciante deflazione è oggettivamente a rischio di downgrade. Ma per l’Italia perdere un notch, questa volta, equivarrebbe a spalancare le porte di Roma all’arrivo della troika.

Lo spartiacque della crisi stavolta corre lungo gli effetti che i dati a consuntivo del pil del terzo trimestre potranno produrre. Un altro quarter a crescita negativa e la secchiata gelata potrebbe investire il governo Renzi e la sua autonomia di manovra.

Del resto, è stato Renzi a precipitarsi nella villa umbra di Draghi per un confronto sulla situazione e per capire che margini di manovra in assenza delle riforme non ne esistono più. Se è presumibile che la troika sia già a Bolzano, allora al Premier non rimane che un’ultima via di fuga dal commissariamento: scongiurare un nuovo trimestre di pil negativo. Ma la confusione nel dibattito politico italiano e l’assenza di un chiaro programma riformista e di un calendario per attuarlo, certamente non aiutano l’Italia a guadagnare punti con le agenzie di rating. E a Renzi di respingere oltre il Brennero la temuta troika.

Una spirale di tasse e di spese da spezzare

Una spirale di tasse e di spese da spezzare

Guido Gentili – Il Sole 24 Ore

Ma se il Fisco continua a rincorrere le maggiori spese pubbliche, quante speranze ha l’Italia di ritrovare la crescita? La risposta è: zero. Spezzare questa spirale perversa per cui la famosa austerity si scarica su famiglie e imprese e non vale per lo Stato (che ha tagliato però gli investimenti in conto capitale e di fatto rinunciato a qualsivoglia ruolo propulsivo) dovrebbe essere una delle “grandi” riforme, al pari di quella, per fare un esempio, che il Governo Renzi ha annunciato per la giustizia civile.

Uno sguardo incrociato alle scadenze tributarie di fine estate e inizio autunno e agli appuntamenti per la politica economica del Governo riporta la questione fiscale in primo piano. Diciamo subito che aver messo nel 2012 il principio del pareggio di bilancio in Costituzione non è un’assicurazione. Non avendo previsto né un tetto alla pressione fiscale né un tetto alla spesa, può accadere che sia quest’ultima ad aumentare di continuo inducendo governi e parlamenti a rincorrerla a suon di aumento delle tasse più che facendo ricorso alla revisione della spesa.

È quello che è successo negli ultimi anni, con i risultati, pessimi, che conosciamo. Non è pertanto un caso che la spesa pubblica si avvii a chiudere il 2014 a quota 825 miliardi (di cui 535 di spese correnti), quasi un +8% rispetto al 2013, mentre la pressione fiscale – superiore di oltre 5 punti alla media europea – raggiunge il 44% in rapporto al Pil (che diventa però oltre il 53% reale se consideriamo l’economia sommersa e oltre il 65% come tassazione complessiva per le imprese).

È su questo sfondo di numeri deprimenti che si gioca la partita. L’attesa revisione del Pil secondo le nuove regole europee (è dato in lieve crescita) non può fare miracoli.

Renzi («No a nuove tasse, sì ai tagli di spesa») pare deciso ad imprimere una svolta dopo il chiacchiericcio estivo alimentato anche da ministri, viceministri e sottosegretari. Vedremo. Tanto più considerato che il calendario fiscale rimette sul piatto dei contribuenti la vicenda Tasi (Tassa comunale sui servizi indivisibili): sono stati a giugno scorso solo 2.187 i Comuni che hanno rispettato le scadenze e dove si è pagata la prima rata di acconto 2014 entro il 16 giugno. Per tutti gli altri, circa 6mila Comuni, l’appuntamento è per il 16 ottobre ed entro il 10 settembre dovranno deliberare le nuove aliquote. Poi, il 16 dicembre versamento per tutti della seconda rata a saldo. La politica fiscale sulla casa, tanto arrembante sul terreno del gettito quanto oggetto di una persistente incertezza regolatoria che ha incrinato la fiducia dei contribuenti, viene così, con la scadenza del 16 ottobre, a battere cassa proprio nei giorni in cui il Governo, dopo aver aggiornato il Documento di economia e finanza (Def) presenta il 15 ottobre a Roma e a Bruxelles la Legge di stabilità per il 2015, sulla quale la Commissione europea esprimerà un giudizio entro il 15 novembre. Si tratta di una coincidenza, ma non è cosa da sottovalutare. E comunque, anche nel momento in cui il Governo Renzi affronterà in Europa un duro negoziato, contribuisce anch’essa a rimettere al centro, se davvero si vuole parlare di ripresa, la questione fiscale che a sua volta ripropone, o dovrebbe riproporre, l’irrisolto nodo della spesa pubblica. Conviene ricordare, per fare un solo esempio, la storia del fondo sanitario dal 2001 ad oggi come ricostruita dal Centro Studi Sintesi per il Sole 24 Ore. Sono stati distribuiti 512 miliardi, ma 87 euro ogni 100 hanno seguito il parametro della “spesa storica”, quello per il quale un anno dopo l’altro chi spende di più è di fatto garantito nella copertura della spesa. Questa componente della spesa avrebbe dovuto ridursi del 9% l’anno fino ad esaurirsi a partire dal 2013. Non è andata così e, a motivo di un ritmo di discesa concordato con le Regioni, o meglio di un piano quasi per nulla inclinato, l’addio è previsto per il 2066. Fantarealtà.

Il lavoro la priorità

Il lavoro la priorità

Fabrizio Forquet – Il Sole 24 Ore

Dopo giorni passati a strologare sui contenuti del dialogo Renzi-Draghi a Città della Pieve, ci ha pensato il presidente della Bce a dare qualche indizio in più: «La Bce – ha detto nel suo intervento a Jackson Hole – non può sostituirsi ai governi che devono fare le riforme». E la «riforma decisamente prioritaria è quella del mercato del lavoro». Non è dato sapere come il tema sia stato affrontato nel dettaglio nell’incontro con Renzi, ma questo è il Draghi-pensiero. Ed è difficile non condividerlo se si guarda alle differenti performance sull’occupazione nei vari Paesi europei interessati dalla crisi. Con gli Stati che hanno introdotto per tempo una maggiore flessibilità nel proprio mercato del lavoro che fanno registrare la risposta migliore in termini di tassi di disoccupazione.

Eppure è proprio sul lavoro che si registrano i ritardi maggiori del riformismo di Renzi. Impostata a gennaio, in piene vacanze natalizie e con al Governo ancora Enrico Letta, la delega sul Jobs act è ancora lontana dal via libera parlamentare. Doveva essere approvata a luglio dal Senato, poi la maggioranza ha deciso di farla slittare. Si riprenderà a settembre, ma le divisioni nella maggioranza sull’articolo 18 (e non solo) rendono più che concreto il rischio di un ulteriore rinvio. Si tratta, tra l’altro, di un disegno di legge delega, che rinvia di fatto gran parte della riforma ai successivi decreti delegati. E qui la lista d’attesa è lunga, come dimostra l’aggiornamento della periodica inchiesta di Rating 24 sui provvedimenti attuativi. Nuovi ritardi possono dunque assommarsi ai vecchi, lasciando il surreale dibattito agostano sull’articolo 18 come l’ennesima espressione dello sterile riformismo parolaio di cui si alimenta la parte peggiore della politica italiana.

Il Jobs act è stato ed è l’atto originario del rifomismo renziano. E il pressing delle imprese ha portato all’importante primo risultato della revisione per decreto della legge Fornero sui contratti a termine. Ma poi le priorità della maggioranza sono inopinatamente diventate altre. Alla ripresa dei lavori parlamentari è bene che i fari tornino ad accendersi sulla riforma delle riforme. Non perché lo dice Draghi. Ma perché lo dicono i numeri dei Paesi che hanno riformato il loro mercato del lavoro.

I numeri, certamente, della Germania del pacchetto Hartz che – attraverso i mini-lavori, le politiche attive, la flessibilità degli orari e la moderazione salariale – ha conosciuto il più basso tasso di disoccupazione dalla riunificazione con il 5,5% nel 2012. Ma anche gli esempi, ancor più significativi, di alcuni dei Paesi che più hanno risentito della crisi, come l’Irlanda e la Spagna.

Dublino, dopo aver molto sofferto sul piano occupazionale la prima fase della crisi, quella legata ai crack finanziari, ha risposto molto meglio nella seconda (debiti sovrani) grazie all’approvazione di un pacchetto di riforme del lavoro sotto il programma Ue-Fmi a partire dal novembre 2010. Madrid, invece, con il suo rigido dualismo del mercato del lavoro, ha duramente sofferto fino alla riforma del 2012, che ha segnato un’inversione di tendenza e una riduzione dei disoccupati da 5 a 4,4 milioni.

I numeri certamente non dicono tutto. E si può discutere della qualità dei posti di lavoro creati. Ma intanto quei numeri dicono con certezza che chi ha riformato il proprio mercato del lavoro, rendendolo più flessibile e adattabile ai cambiamenti di questi ultimi anni, ha riportato i risultati migliori sul fronte occupazionale. Sarebbe un paradosso che Renzi e la sua maggioranza non ne tenessero conto con una decisa spinta riformista in questo senso.

Del lavoro fa parte anche la questione scuola. L’occupazione in Europa tornerà a crescere solo se, come ha detto Draghi a Jackson Hole, aumenterà «the skill intensity of the workforce». Più formazione, dunque, più education. Renzi ha indicato proprio la riforma della scuola come una sua grande priorità per il Consiglio dei ministri del 29 agosto: «Presenteremo – ha detto – una riforma complessiva che intende andare in direzione dei ragazzi, delle famiglie e del personale docente». Speriamo che vada soprattutto nella direzione degli studenti e della loro capacità/possibilità di trovare/crearsi un lavoro. La verifica sarà facile: se si darà finalmente all’insegnamento della lingua inglese lo spazio che merita, sarà una buona riforma. Altrimenti no. Tenere sui banchi di scuola i nostri ragazzi per 13 anni e non garantirgli uno strumento oggi indispensabile per costruirsi un percorso lavorativo è un delitto. Soprattutto per una sinistra che vuole fare dell’eguaglianza delle opportunità la sua bandiera.

La conoscenza o meno delle lingue è il primo fattore di diseguaglianza, perché si acquisisce proprio nella prima fase della competizione sociale. Se si darà a tutti, non solo ai figli dei ricchi, la possibilità di comunicare in inglese alla fine del percorso scolastico si sarà fatta la più utile riforma della scuola che si possa fare. E forse anche un piccolo pezzo di riforma del lavoro. A volte il riformismo è più semplice di quello che si possa pensare. Sindacati permettendo, ovviamente.