Matteo Renzi

La sfida della crescita, l’importanza delle riforme

La sfida della crescita, l’importanza delle riforme

Mauro Calise – Il Messaggero

Sul lavoro che sta compiendo il governo Renzi resta ancora da capire quanto il premier sia davvero bravo nel gestire i dossier più scottanti, dal lavoro all’economia e alla giustizia. Per non parlare dei fascicoli aperti a tempo indeterminato, come le grandi riforme che sono, per definizione, incompiute. Tutti continuano a ripetere che i risultati tardano a venire, come se tutti ce l’avessero in tasca, la ricetta miracolosa. Dimenticando che i predecessori hanno fallito pur disponendo di maggioranze bulgare: politica per Berlusconi, tecnica per Mario Monti, bipartisan per Enrico Letta. E che i pari-grado all’estero versano in acque ben peggiori: Hollande continua a cambiare i titolari dei ministeri chiave, e a scendere in picchiata nei sondaggi. Ma a Renzi, anche per la giovane età, tocca almeno un esame al giorno. E i voti si van facendo più severi. Al premier, però, tutto questo non dispiace. Anzi, gli va a pennello. Ciò che conta, per i prossimi mesi, non è sfornare improbabili vittorie sul fronte dei dati duri di una ripresa economica che – Draghi ce l’ha fatto capire – non darà frutti prima di un paio di anni. Ma restare ben piantato al centro dei riflettori mediatici, tenendone saldamente il monopolio. Inventandosi ogni giorno un evento, un cambiamento di agenda, uno slogan accattivante. O un repentino cambio di passo, da sprinter a maratoneta. 

Ed ecco serviti tutti quelli che si erano adagiati sull’immagine di un Renzi obbligato a correre, costantemente proteso al sorpasso delle sue stesse iniziative. Il premier, da oggi, rallenta. Si prende tutto il tempo necessario a rimettere in pezzi un Paese scassato da cima a fondo. Da piè veloce Achille a tartaruga. Tanto, per dirla con Zenone, chi è in grado di superarlo? L’asso nella manica di Renzi resta questo: non ha concorrenti. Non c’e nessuno oggi in grado di sfidarlo sul grande palcoscenico mediatico, prima ancora che su quello politico. Ed è questa la principale dote di cui il premier ha dato prova straordinaria. Una gestione geniale, impeccabile della comunicazione personale col grande pubblico trasversale. 

In questo, gli va dato atto, è andato oltre lo stesso Berlusconi, che certo l’ex sindaco ha studiato in ogni minimo dettaglio. Il Cavaliere aveva un suo partito e proprie reti televisive. Renzi agisce da battitore libero. Si è inventato tutto da solo. E chi pensa che questa capacità non rientri tra le qualità di uno statista, non ha capito niente di quello che è successo in questi ultimi decenni. Col passaggio dalla democrazia rappresentativa a quella incentrata sul leader. E sulla sua capacità di catturare l’immaginario collettivo. 

Rientra in questo stesso scenario anche la scelta, difesa coi denti, di ottenere per la Mogherini – una renziana d’acciaio – il ruolo di portavoce agli Esteri dell’Unione Europea. Una scommessa che riguarda la possibilità che, nel caotico panorama internazionale che si va sempre più surriscaldando, si creino spazi per sortite – coraggiose, fuori dal coro – ad alto potenziale di impatto sulla opinione pubblica, italiana e più in generale occidentale. E’ improbabile che il premier si faccia illusioni che nostre eventuali proposte riescano a condizionare play-maker ben più pesanti, come gli Usa o la Germania. Ma al carnet del suo agenda-setting, fino ad oggi ristretto all’ambito nazionale, Renzi ha aggiunto un teatro a visibilità illimitata. Schierando una donna giovane, con mestiere e temperamento, che suscita curiosità e simpatia. All’immagine di un’Europa impantanata nel proprio passato, non potrà che giovare questa incursione di futuro.

Massimo Blasoni: «Per tornare sani servono 28 anni, non mille giorni»

Massimo Blasoni: «Per tornare sani servono 28 anni, non mille giorni»

Chiara Daina – Il Fatto Quotidiano

La risposta per le rime a Renzi arriva da Massimo Blasoni, 49 anni, imprenditore udinese, che ha comprato un’intera pagina su Il Giornale di ieri. Due tondi, una con la foto del premier come è adesso, l’altro con un fotomontaggio che lo ritrae anziano e canuto. Sotto, la scritta “Torneremo ai livelli del 2008 quando Renzi avrà 67 anni”. Non è una stima sparata a caso. All’inizio di agosto Blasoni ha fondato il centro studi ImpresaLavoro, che ha ipotizzato il conto e di cui fa parte anche Salvatore Zecchini, presidente del gruppo di lavoro dell’Ocse su Pmi e imprenditoria.
Come è venuto in mente di comprare una pagina di giornale?
«Volevo comunicare a Renzi con un linguaggio schietto e mediatico come il suo. Il governo aveva previsto un livello di crecita del Pil dello 0,8 per cento. Balle. Per tornare ai livelli pre-crisi, considerando una crescita media tra il 2008 e il 2014 dello 0,3%, ci serviranno altri 24 anni».
Cosa le fa più paura?
«Quella di Renzi è solo una politica degli annunci. La pressione tributaria non è diminuita. Nessuna semplificazione burocratica per le imprese e nessuna facilitazione per l’accesso al credito. Imsomma, zero segnali di ripresa, nonostante le belle parole. Lo sa quanto costano i ritardi nei pagamenti della Pa alle imprese?».
Quanto?
«Cinque miliardi di euro l’anno. Lo abbiamo calcolato nella nostra prima ricerca».
Lei ha votato Renzi?
«No, anche se all’inizio gli davo fiducia. Ma di riforme vere finora neanche l’ombra. Renzi è un politico di vecchio corso con una faccia da giovane. Ma noi l’abbiamo già invecchiato».
Giuseppe Pennisi – Consigli a Renzi: le tre mosse che valgono più dello sblocca-Italia

Giuseppe Pennisi – Consigli a Renzi: le tre mosse che valgono più dello sblocca-Italia

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

Agli economisti e ai commentatori economici spetta di essere criticamente da stimolo, specialmente in una situazione come quella di oggi. Gran parte dei commenti sull’ultimo Consiglio dei ministri sono positivi. E non possono non esserlo dato che, secondo il comunicato di palazzo Chigi e gli interventi del Presidente del Consiglio e dei principali Ministri competenti per le materie trattate (non si conoscono ancora i testi dei provvedimenti), sono stati affrontati e verosimilmente risolti alcuni nodi della giustizia (specialmente di quella civile) e dell’investimento pubblico. Tuttavia, occorre chiedersi se: a) è stata data una risposta adeguata alle aspettative suscitate; b) si è tenuto conto del peggioramento della situazione economica italiana (quale risulta dalle statistiche più recenti); e, soprattutto, c) cosa può essere fatto di concreto e di attuabile nelle prossime settimane nel predisporre la Legge di stabilità.Le aspettative suscitate riguardano non solamente il vasto comparto della scuola (per il riassetto del quale ci è stato chiesto di pazientare solo alcuni giorni), ma soprattutto le inefficienze dell’azione pubblica quali risultanti del Rapporto Cottarelli (soprattutto nel comparto del socialismo municipale e regionale), abilmente centellinate dal servizio stampa di palazzo Chigi ai giornali e, quindi, all’opinione pubblica. La situazione economica riguarda l’evidente scivolamento dell’Italia dalla più lunga recessione del dopoguerra e una fase di deflazione in cui rischiamo di avvitarci su noi stessi perdendo ogni anno un po’ di reddito reale (sia nazionale, sia familiare, sia individuale).Non conosco personalmente Matteo Renzi, ma non nego di provare simpatia per questo quarantenne (alla prese con problemi gravissimi) che si atteggia a trentenne e utilizza le metodiche di comunicazione dei ventenni nella convinzione (vera o presunta) di avere esiti positivi, in tal modo, anche sugli “umori” degli ottantenni. La conferenza stampa (dal “gioco del gelato” all’ultima slide) è stato un piccolo capolavoro di quella che un tempo si chiamava “persuasione occulta”. Ha probabilmente diminuito il divario tra attese e risultati, ma i problemi restano poiché in sostanza l’esito è stato un modesto rilancio dell’investimento pubblico (ridotto, nel lasso degli ultimi dieci anni, di due terzi per rapporto al Pil) e una velocizzazione della giustizia civile, che avverrà solo se si supereranno le resistenze di varie oligarchie.Se gli esiti sono questi, ipotizzando che tra brevissimo verranno sciolti (e bene) i nodi sulla scuola, cosa deve entrare nella Legge di stabilità per tirarci fuori dalla deflazione? L’Italia ha poche frecce al proprio arco. Quelle monetarie sono in mano alla Banca centrale europea ed è da dubitare che le possa utilizzare vista l’opposizione di molti paesi (non solo la Germania) e la necessità della preliminare revisione del proprio regolamento (che la obbliga a non fare superare più del 2% l’anno la crescita del tasso armonizzazione dell’indice dei prezzi al consumo). Quelle di bilancio sono spuntate dalla decisione “politica” di contenere l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni entro il 3% del Pil anche se, giuridicamente, nella situazione di grave recessione (e di deflazione), si potrebbe superare temporaneamente il vincolo.Al Governo resta, essenzialmente, la messa in atto di misure per ridurre la spesa pubblica e renderla più efficiente (alleggerendo così quella che è una vera oppressione fiscale e regolamentare) e una strategia dell’offerta. Come? In primo luogo, i provvedimenti della spending review richiedono una cornice che può essere inclusa nella riforma della Costituzione (in discussione in parallelo alla Legge di stabilità). Si potrebbe introdurre nella Carta il fatto che: a) che tutte le leggi (e regolamenti e circolari varie) siano “a termine” (una “sunset regulation” generalizzata) e non possano essere estese con marchingegni quali il “mille proroghe” per impedire il formarsi di un Himalaya di norme (la fonte principale di sprechi e inefficienze); b) le società in disavanzo per più di tre esercizi del socialismo municipale (e regionale, nonché di quel che resta di quello provinciale) vengano messe in liquidazione forzosa, con commissari provenienti da regioni differenti da quelle in cui l’azienda ha la sede sociale.In secondo luogo, serve un’energica strategia dell’offerta basata sulla liberalizzazione dei mercati delle merci e dei servizi per spingere imprese grandi e piccole a essere più competitive, e quindi più produttive. Ci vuole una terapia shock che azzeri resistenze settoriali e morda davvero.In terzo luogo, occorre tenere conto del “convitato di pietra”, il fardello del debito pubblico che frena da anni la crescita e aggrava ora la deflazione. Non mancano proposte: prima di chiudere i battenti del Cnel si potrebbe incoraggiare un confronto, con esperti e Parti sociali, tra le varie proposte sul tappeto per giungere a un programma concreto.
Quei rinvii sospetti su immobili e partecipate

Quei rinvii sospetti su immobili e partecipate

Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

Il Consiglio dei ministri che segna l’avvio dei 1000 giorni del governo Renzi per cambiare l’Italia è di ampia portata e richiederà tempo per gli approfondimenti. Bisognerà andare oltre la copertina e l’indice dei provvedimenti per capire il potenziale degli stessi in un Paese dove la crisi diventa ancora più preoccupante. Nel contempo bisogna segnalare quali altri provvedimenti, non adottati dal Consiglio, sono delle priorità su cui il governo dovrà al più presto intervenire. Importante è quella di “razionalizzazione” del patrimonio pubblico sul quale era attesa la decisione del governo di chiusura di un migliaio di aziende inattive partecipate da enti locali, che purtroppo non c’è stata. Speriamo che non prevalgano i localismi corporativi per sconfiggere i quali ci vuole convinzione e metodo.

Il patrimonio pubblico. È noto come in Italia sia enorme e di pressoché impossibile valutazione in quanto parte dello stesso è composto da opere artistiche, archeologiche, naturalistiche e culturali alle quali non si può dare un prezzo stante la loro unicità e la loro non vendibilità. Per questo sarebbe bene distinguere sempre tra valori e prezzi. Spesso si parla genericamente di razionalizzare, valorizzare, privatizzare. Azioni che possono esprimere una sequenza o racchiudersi in sé a seconda dei patrimoni pubblici ai quali ci si riferisce. Quale che sia il metodo adottato, l’Italia deve riprendere la questione con un nuovo impegno e non solo perché una parte del patrimonio pubblico può essere economicamente usata per garantire o per ridurre il debito pubblico e/o per generare reddito e occupazione. Non va infatti mai dimenticato che il grado di incivilimento di un Paese e della sua popolazione si misura anche dalla cultura per la valorizzazione del patrimonio pubblico.

Il patrimonio pubblico economico. Con riferimento a quello con caratteristiche spiccatamente economiche e quindi con un potenziale di vendibilità, tre sono le principali categorie su cui il governo deve prendere posizione: le aziende (quasi) statali; le (quasi) aziende locali; il patrimonio immobiliare. Le ragioni di questa richiesta forte sono molte, anche per escludere che nelle urgenze improvvise il governo aumenti le tasse. Le privatizzazioni sono un capitolo della politica economica da più di trent’anni. Le finalità via via prefissate sono quattro: contribuire alla riduzione del debito pubblico; eliminare sprechi; aumentare l’efficienza dell’economia; favorire ampliamento e internazionalizzazione del mercato azionario. Infine vi è il messaggio, indirizzato alle istituzioni europee e ai mercati, che l’Italia fa sul serio. Anche se in modo non chiaro queste sembrano le finalità delle privatizzazioni, razionalizzazioni e valorizzazioni del governo Renzi.

Le aziende (quasi) statali. Nel Programma nazionale di riforma presentato alla Commissione europea nell’aprile 2014 si dice che il processo di privatizzazione è in fase avanzata e si elencano le molte società coinvolte. L’obiettivo è raccogliere un importo pari allo 0,7% del Pil per ogni anno del quadriennio 2014-2017. Si tratterebbe di 40-45 miliardi destinati a ridurre il debito pubblico. È una cifra grande se rapportata ai trend annuali delle privatizzazioni e piccola se rapportata al debito. Per ora è stata collocata faticosamente in Borsa solo una parte di Fincantieri con un introito di circa 350 milioni sui 600 preventivati. Forse anche per questo si passerà ora alla vendita di quote dei gioielli di famiglia: del 4,34% di Eni e del 5% di Enel per un controvalore di circa 5 miliardi. Non basta però la finalità di ridurre il debito per vendere quote di imprese come queste che pagano dividendi allo Stato e che possono entrare in strategie industriali, infrastrutturali e internazionali. Per altre aziende solo dopo le razionalizzazioni si può decidere. In tutto ciò può svolgere un ruolo crescente la Cdp, perché detiene partecipazioni importanti ed è controllata dallo Stato e perché ha visione e capacità operativa internazionale. Lo dimostra la cessione del 35% di Cdp Reti spa alla State grid international development controllata da una grande impresa statale cinese, con cui si possono costruire iniziative strategiche anche in altri settori.

Le (quasi) aziende locali. Il Consiglio dei ministri ha rinviato ogni decisione che le riguarda alla legge di stabilità. In base al rapporto del commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, l’obiettivo è quello far scendere queste quasi-aziende da circa 8.000 a 1.000 in tre anni. Questa sarà una strada impervia per le resistenze corporative e le rendite di posizione dei potentati locali. Anche per questo abbiamo titolato “quasi-aziende” perché molte non hanno nulla dell’impresa data la loro origine e/o la loro dissestata gestione. Cottarelli ha radiografato le partecipazioni degli enti locali quantificandole in 7.726 aziende (avvertendo che potrebbero essere 10mila). Tra queste l’82% sono dirette e le altre indirette; il 20% è interamente pubblico e il 28% a maggioranza pubblica; il restante 52% a maggioranza privata. Il totale dei dipendenti si avvicina ai 500mila di cui 377mila in aziende a gestione privata e 123mila a gestione pubblica. La distribuzione settoriale s’avvicina ai 360 gradi ed è ben al di là dei 5 settori tradizionali dei servizi pubblici a rete soggetti a regolazione (elettricità, gas, acqua, rifiuti, trasporto). Ce ne sono poi 1.250 non operative che potrebbero essere chiuse subito. Cottarelli delinea una strategia per farle scendere a 1.000 (è il numero di quelle in Francia) in un triennio con l’aggregazione e lo sfruttamento di economie di scala per migliorarne l’efficienza con benefici per la finanza pubblica stimati a regime in almeno 2-3 miliardi annui, ai quali aggiungere i benefici di maggiore efficienza per i cittadini. Gli esempi di aziende locali (quotate in Borsa o no) che vanno bene ci sono e bisogna respingere l’affermazione che le perdite sono causate dalle esigenze del pubblico servizio.

Una conclusione. Un passaggio ulteriore, forse più difficile, riguarda il patrimonio immobiliare su cui è adesso disponibile un studio del Mef. Ne tratteremo in altra occasione salvo rilevare che a oggi il Mef ha ottenuto risposte solo dal 45% delle Pubbliche amministrazioni incluse nella rilevazione. Ecco qui un’altra sfida per il governo che speriamo, per l’Italia, possa essere vinta.

Secchi d’acqua su un incendio troppo grande

Secchi d’acqua su un incendio troppo grande

Gaetano Pedullà – La Notizia

Il nome è decisamente ottimistico, com’è nello stile della comunicazione del nostro premier, ma lo Sblocca Italia porta in dote molte cose buone (e qualche regalo sotto banco ai soliti noti). Benissimo il recupero dei fondi Ue non spesi, il taglio della burocrazia, i commissari su alcune grandi opere, la proroga dell’ecobonus, la riscrittura del nostro codice degli appalti: un groviglio normativo in cui è sin troppo facile nascondere la corruzione. Resta invece inspiegabile, per non dire scabrosa, la proroga delle concessioni autostradali a gruppi che hanno investito pochissimo sulla rete viaria, facendo giganteschi guadagni privati sulle strade costruite con i soldi pubblici di tutti noi. Deludente anche la limitazione ai soli sgravi fiscali per gli investimenti sulla banda larga. Le buone intenzioni del provvedimento comunque ci sono tutte, così come in quello sulla Giustizia che purtroppo per ora si ferma al Civile. Se l’ottimo è nemico del bene, accontentiamoci! Dove non possiamo accontentarci è però sui nodi veri che strozzano la ripresa. Da tempo in recessione e adesso anche in deflazione, non possiamo più prenderci in giro: senza un allentamento dei vincoli Ue e una diversa politica monetaria della Bce, tornare alla crescita è impossibile. Possiamo farne cento di Sblocca Italia, e fare indigestione di queste più o meno utili aspirine, ma l’incendio è troppo vasto per domarlo da soli. Soprattutto se si è rinunciato da anni a tenere l’estintore della moneta per affidarlo alla Banca centrale e ai suoi ottusi burocrati. Draghi, che promette ma poi resta ancora immobile, compreso.  

Non bastano i treni a far ripartire il paese

Non bastano i treni a far ripartire il paese

Tito Boeri – La Repubblica

Il tempismo, sul piano della comunicazione, è perfetto. Nel giorno in cui l’Istat certifica il ritorno dopo 50 anni alla deflazione e con un mercato del lavoro sempre più in sofferenza il governo vara un decreto dal titolo molto promettente: sblocca-Italia. Interviene in ritardo rispetto allo scadenziario che lo prevedeva per metà luglio, ma proprio per questo permette al governo di reagire ai dati sui consumi degli italiani dopo l’introduzione del bonus di 80 euro, dati che confermano l’impressione che lo sgravio non abbia avuto gli effetti sperati di stimolo della domanda. Se si va al di là dei titoli e dei relativi cinguettii telematici, affiorano però non pochi dubbi sull’efficacia delle misure varate ieri e, a dispetto delle rivoluzioni annunciate, in molte di loro si respira l’odore stantio del déjà vu.

Di sblocco sulla carta ci sono quasi solo i cantieri delle opere su rotaia. Il bonus edilizia viene semmai bloccato, non rinnovato nel 2015 almeno fino all’approvazione della legge di Stabilità. Le 1617 mail ricevute dai Comuni con segnalazioni di ritardi in piccole opere dovranno aspettare. Non ci sono fondi per le misure contro il dissesto idrogeologico. Non è la prima volta che un governo italiano si affida ai trasporti e soprattutto alle Ferrovie dello Stato (che continuano a non assicurare la pulizia dei treni su gran parte delle tratte) per rilanciare un’economia che non riesce a ripartire. I fallimenti del passato, quando peraltro c’erano ben più risorse da destinare a queste opere, non sembrano essere stati metabolizzati.

Sono lastricate le strade di Palazzo Chigi di comunicati in cui si annunciano miliardate di opere pubbliche di immediata attuazione, a partire dalla faraonica legge obiettivo del 2001 per arrivare al “decreto del fare” (e disfare) lasciato in testamento da Letta. Il fatto stesso che si peschi una volta di più dall’elenco annunciato da Berlusconi a Porta a Porta, attuato solo in minima parte (attorno al 10 per cento) in 15 anni, certifica che non basta decretare per avviare i lavori. E anche questa volta, quando si studiano i singoli dossier, ci si accorge che gran parte delle opere non sono immediatamente cantierabili. Tre quarti di queste potranno, nella migliore delle ipotesi, partire nel 2018. Del resto è lo stesso profilo temporale dei finanziamenti a certificare che non si tratta di misure di impatto immediato: 40 milioni nel 2014, 415 nel 2015, 888 nel 2016. Non è questo tipicamente l’orizzonte delle misure congiunturali che vogliono evitare una nuova prolungata recessione agli italiani.

Una volta di più si annunciano queste misure a costo zero, come se destinassero nuove risorse alle infrastrutture senza sottrarle ad altri interventi. Ma come può un governo che chiede un consenso attorno ad un’operazione politicamente costosa come la spending review, come può un esecutivo che dovrà racimolare nella legge di Stabilità qualcosa come 16 miliardi di tagli alla spesa nel 2015, dire agli italiani che ci sono tutti questi miliardi piovuti dal cielo? È fin troppo evidente a tutti che le risorse che verranno destinate a queste opere, anche quelle che vengono da fondi europei, verranno sottratte a destinazioni alternative. È dovere di un governo spiegare perché queste opere sono più importanti di altre cose che si potevano fare con questi soldi. A partire dalle stesse opere infrastrutturali alternative che potevano essere avviate (perché, ad esempio, il terzo valico Milano-Genova e non il raccordo Fiumicino-alta velocità verso Firenze?). Le analisi costibenefici delle singole opere servono proprio a questo, ma non ce n’è traccia. Offrono le stesse valutazioni che ogni imprenditore compie quando deve decidere se fare o meno un investimento. Perché i contribuenti italiani, al pari degli azionisti privati, non devono avere il diritto di sapere come vengono utilizzati i loro soldi rispetto a diversi scenari e opzioni alternative?

La dimensione del dispositivo entrato in Consiglio dei ministri (125 pagine e, come ormai è prassi, non c’è un testo in uscita) e i commi e sottocommi dei diversi articoli danno l’impressione di burocrazie ministeriali tutt’altro che rottamate. Se il decreto avesse mantenuto l’obiettivo della semplificazione normativa, avremmo un precedente cui appellarci sul piano del metodo. Speriamo che dietro al formalismo non si celino troppi giochi di potere: homo homini lupus . E l’impressione è che almeno al ministero dei Trasporti siano ancora le alte burocrazie a governare.

Forse sarebbe stato più saggio ieri limitarsi alle misure sulla giustizia civile, che hanno potenzialmente un rilievo economico molto importante se sapranno davvero intervenire sugli arretrati, e rinviare le altre misure alla prima legge di Stabilità del Governo Renzi, nella quale confluiranno anche le norme sulle società partecipate. Ci dirà qual è la strategia di politica economica di questo governo.

Un cono gelato e poco altro

Un cono gelato e poco altro

Stefano Feltri – Il Fatto Quotidiano

Si capisce che non è il momento migliore per Matteo Renzi, da centravanti di sfondamento deve improvvisarsi mediano, difendere invece che attaccare. E gli costa fatica. “Il carretto passava e quell’uomo gridava gelati, al 21 del mese i nostri soldi erano già finiti”. Lucio Battisti, I giardini di marzo, offre la sintesi della giornata politica. 

CREMA E LIMONE. Cortile interno di Palazzo Chigi: Matteo Renzi scende al termine del Consiglio dei ministri e c’è un gelataio della catena Grom con apposito carretto. Un cono crema e limone per rispondere all’Economist che ha ritratto il premier sulla barca di carta dell’economia europea mentre fissa il vuoto e tiene un gelato in mano. “Il gelato artigianale è buono, non ci offendiamo per le critiche, perché facciamo un lavoro serio”, il premier lecca e offre ai giornalisti di condividere (non succede), abbronzato dopo le vacanze a Forte dei Marmi, ma ancora un po’ appesantito nonostante il tennis pomeridiano. Poi conferenza stampa. 

PASSODOPOPASSO. Ormai ci vuole un dizionario per orientarsi nella propaganda governativa: Renzi presenta una nuova serie di slide, nome in codice “passodopopasso” che servono a indicare la traccia del “programma dei mille giorni” che verrà presentato in un`altra conferenza stampa e servirà a dare sostanza alla promessa di “cambiare verso” all’Italia. Tutto questo si sostanzia in una serie di provvedimenti, qualche decreto e molti disegni di legge delega dai tempi lunghi, testimone sempre – non se ne possono leggere, bisogna affidarsi alla trasmissione orale delle promesse. Che sono, ovviamente, tantissime. Ma per una volta non trasmettono la consueta frenesia renziana, bensì un po’ di affanno. “Tanta roba”, dice l’ex sindaco di Firenze con una delle espressioni più à la page del vocabolario renziano, ma non ci crede neppure lui.

I SOLDI. Quanto vale il decreto sblocca Italia? Non si sa. “Zero”, dice il ministro dell`Economia Pier Carlo Padoan, riferendosi all’impatto netto sulla finanza pubblica. Renzi aveva promesso di “sbloccare” 43 miliardi di euro per le opere pubbliche. A sentire il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi, ce ne sono giusto 3,8. Soldi che già c”erano e che cambiano destinazione. Il premier prova a riassumere: il decreto Sblocca Italia “tenta di risolvere e anticipare una serie di problemi burocratici che si sono creati”. Sbadigli in sala.

LA MINISTRA. Renzi sa che giornali e tg si eccitano per i numeroni e le grandi riforme, questa volta non ne ha da offrire e quindi snocciola elenchi di misure che sembrano più da amministratore di condominio che da presidente del Consiglio. Il colpo doveva essere la riforma della scuola, ma il ministro delI’Istruzione Stefania Giannini ha rubato i titoli dei giornali al premier, anticipandone i contenuti. Risultato? Niente riforma. “Si farà mercoledì”, dice Renzi che si riappropria del dossier e anticipa che “non ci sarà la stabilizzazione dei precari”, ma un misto di posti per chi è in graduatoria combinato con la valutazione della performance. Vedremo. Di giustizia Renzi non vuole parlare troppo: si capisce che la considera una fastidiosa eredita della Seconda repubblica segnata dai guai di Silvio Berlusconi. Al premier piace presentare la riforma della giustizia civile, “dimezzeremo i processi”. Il resto lo lascia al Guardasigilli Andrea Orlando (vedi pezzo qui sotto). 

80 EURO SBIADITI. La deflazione, la recessione, i consumi che continuano a crollare. Anche sull’unica misura importante del suo governo, il bonus Irpef da 80 euro al mese per i redditi bassi, Renzi deve giocare in difesa, parare critiche di aver speso male 6,6 miliardi e di prepararsi a buttarne 10 all’anno con la legge di Stabilità. “Apprezzo chi mi contesta sugli 80 euro perché dimostra d avere un’altra filosofia, un’altra idea dell’Italia. Noi il bonus lo confermeremo”. Traduzione: io taglio le tasse ai dipendenti, mentre gli economisti, Forza Italia e la Confindustria vorrebbero usare quei soldi a favore delle imprese (il Pil salirebbe, ma non i voti al Pd).

MOGHERINI FOREVER. Renzi elenca la lunga teoria di vertici domestici e internazionali che lo attendono. Ma soltanto uno gli interessa davvero: quello di oggi a Bruxelles, il Consiglio europeo che ratificherà la nomina di Federica Mogherini, oggi ministro degli Esteri, ad alto rappresentante per la politica estera dell’Unione. Il premier si è impuntato, si è giocato la reputazione su una nomina di prestigio e – nonostante una vasta opposizione di giornali e governi – dovrebbe vincere. Questa notte, quando arriverà in conferenza stampa a Bruxelles, Renzi confida di tornare ai toni trionfalistici che gli sono più consoni.

Renzi, l’economia e la storia della costruzione dei volenterosi

Renzi, l’economia e la storia della costruzione dei volenterosi

Mario Sechi – Il Foglio

Splende il Sole, arriva l’alluvione. E’ venerdì 29 agosto, alle dieci in punto l’Istat apre la diga per far defluire gli ultimi dati sull’economia italiana. E’ il gong che segnala l’apertura dell’Armageddon contabile. Mezz’ora dopo il botto del cannone del Gianicolo (alle 12 in punto, sparo a salve dell’obice progettato nel 1914 dalla Skoda per l’Imperial Regio Esercito Austro-Ungarico dal Palazzo del Quirinale) decolla un comunicato: “Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha ricevuto questa mattina al Quirinale il ministro dell’Economia e delle Finanze, Pier Carlo Padoan”. Routine? Sì e no. Sì perché è imminente il Consiglio dei ministri; no perché pochi minuti dopo (ore 12 e 55) compare un altro dispaccio che fa lampeggiare le spie del sub-sonar: “Il Presidente Napolitano ha avuto con il Ministro dell’Economia uno scambio di vedute sulle prossime occasioni di chiarimento e di intesa a livello europeo (ad esempio in occasione della prossima seduta dell’Ecofin) per il rilancio della crescita dovunque in Europa. Nella ricognizione si sono considerate attentamente le importanti indicazioni contenute nel discorso pronunciato dal Presidente della Bce, Mario Draghi, a Jackson Hole”.Letto bene? Ecofin. Crescita. Draghi. Politica. Problema. Soluzione. E’ il segno che la situazione italiana si sta deteriorando? Sì, ma il nocciolo della faccenda è l’ormai religiosa fiducia riposta in Draghi, quello che nella copertina ice-cream dell’Economist tira via l’acqua a secchiate dalla barca europea. Basterà? Vedremo. Sul taccuino restano gli scampoli di un pazzo agosto, con tratti d’imprudenza psichedelica: Renzi mercoledì 27 agosto ci casca con il tweet del mattino, ore 6 e 20: “Non male questo fine settimana: giustizia, sblocca Italia, nomine europee, poi scuola e #millegiorni #italiariparte #ciaovacanze”’: Acme anticipatorio deluso quando la scuola sparisce da Twitter il venerdi alle ore 6 e 52: “Oggi giustizia e sblocca Italia. Domani vertice europeo. Lunedì la presentazione ufficiale #millegiorni con obiettivi e sito #italiariparte”. Missing in action, come il ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini. 

Sembra tutto più semplice sabato 23 agosto quando Renzi sventaglia al settimanale Tempi una raffica di ultimatum: “E’ l’Italia che aiuta l’Europa, non l’Europa che aiuta noi. Togliamo il Paese ai soliti che vanno nei salotti buoni. All’Italia serve lo spirito del maratoneta”. Gajardo. E poi? La settimana è andata avanti con altro passo e spasso. Lunedì (25 agosto) Renzi inaugura l’hashtag #ciaovacanze con tanto di foto di Palazzo Chigi all’alba: “Buon lavoro a chi torna oggi in ufficio #ciaovacanze“ e il ministro dell’Economia Padoan si presenta alle 17 per conferire con il premier. Alle 18 e 26 esce da Piazza Colonna e si capisce che non c’e un euro da spendere o quasi. E poi ci sono le crisi internazionali e Renzi all’ora dei tg parla con il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, chiacchierata di modesta entità che spazia “dall’Africa al Medio Oriente”, così informano i bollettini d’agenzia ai quali ormai manca solo un tocco poetico, un sobrio “Dall’Alpi alle Piramidi/dal Manzanarre al Reno”. Martedì 26 agosto alle 10 in punto il cambio della bicicletta governativa s’inceppa nella lingua di Francesco Paolo Sisto, deputato di Forza Italia che dà una martellata sulla prescrizione: “Il processo deve avere una durata ragionevole. Una paralisi della prescrizione al primo grado comporterebbe in Italia un processo di secondo grado e di Cassazione infinito”. Non ha tutti i torti, chi tocca i fili della giustizia resta fulminato. In fase post-prandiale sul Moleskine resta impresso lo scatto d’orgoglio del militante. Festa dell’Unità, lettera del segretario Renzi: “Le priorità sono chiare. Non accettiamo lezioni”. Sempre tosto. Ma alle 17 e 26 una velina di Palazzo Chigi fa suonare i sistemi d’allarme: “Le bozze dello Sblocca-Italia che stanno circolando sono scadute”. Ultima pagina del taccuino, nota a margine: “Yogurt legislativo”. Sto per chiudere il pezzo, è venerdì pomeriggio, il Consiglio dei ministri è riunito, sul telefonino lampeggia un tweet che mi ha inviato il banchiere d’affari Guido Roberto Vitale: “Urge sostenere Renzi nella sua lotta per le riforme”. Siamo alla coalizione dei volenterosi.

La guerra dei prezzi e l’arma del debito

La guerra dei prezzi e l’arma del debito

Giulio Sapelli – Il Messaggero

Ieri il Consiglio dei ministri ha dovuto registrare l’entrata dell’Italia nella deflazione, in senso tecnico, ovvero la caduta dei prezzi che dura da più di un anno. Molti analisti si ostinano a fare il verso alla Bce chiamando questo processo inflazione negativa, ma ogni cittadino che sa quanto costa un litro di latte e deve programmare il rientro dalle vacanze comprende ciò che sta dietro questo calo dei prezzi: la contrazione della produzione, per il calo dei profitti, e quindi dell’occupazione. Ed ecco la conferma nei dati della disoccupazione, che a luglio è risalita, dopo il lieve calo di maggio, al 12,6%. Un dato fortemente negativo se lo mettiamo a confronto con quello del novembre 2013, quando venne toccato il massimo storico con il 12,7%. Inoltre, non solo la disoccupazione si mantiene alta ma cala soprattutto la componente maschile dell’occupazione, mentre quella giovanile oscilla attorno al 43% con una stabilità che desta preoccupazione. Va pure sottolineato che la disoccupazione colpisce soprattutto i lavoratori con contratto a tempo indeterminato e che gli unici aumenti sono nel part-time e nei lavori stagionali. Deperisce quindi la qualità degli occupati, ossia vengono espulsi i lavoratori anziani e altamente qualificati, non trovano lavoro i giovani altamente scolarizzati, aumentano i divari territoriali con alcune aree del Nord che addirittura registrano un calo della disoccupazione mentre nel Sud essa sta dilagando. Pensare che nell’oceano della disoccupazione ci sono isole che potrebbero essere abitate da lavoratori volonterosi che non si trovano, come gli operai specializzati, i fresatori, i manutentori, gli operatori cad-cam, eccetera.

Come risolvere il problema? Dal ministero dell’Economia e dalla Ragioneria generale si continuano a suonare le trombe delle riforme strutturali. La gente ha qualche speranza. Siamo infatti abituati a pensare che le riforme migliorino la situazione. Il punto è che tutte le riforme ventilate sono a mio avviso il contrario del cambiamento positivo, perché poggiano sul parametro dell’abbassamento del debito pubblico e quindi della riduzione della spesa tout-court, dell’aumento delle tasse e infine delle privatizzazioni che dovrebbero togliere qualche ditale d’acqua dall’oceano del debito. Il contrario, insomma, di ciò che richiederebbe un progetto di crescita. Intravedo perciò il pericolo che il premier Renzi perda di vista il suo compito originario, e che risponda a questi dati arretrando politicamente e non invece spingendosi a «cambiare verso». Ma è proprio questo cambiare verso di cui l’Italia e l’Europa avrebbero bisogno per contrastare tanto la deflazione quanto la disoccupazione, così intimamente legate. E oggi ne avremo la prova durante il Consiglio europeo. 

E’ una presidenza italiana che inizia in un contesto non proprio desiderabile, vista la precarietà dei rapporti interni e di quelli con gli Stati Uniti, soprattutto dopo la disastrosa divisione avvenuta nel recente summit della Nato. Da un lato gli Usa, la Polonia e i Paesi Baltici che vogliono dare all’alleanza un tono sempre più spiccatamente antirusso, sfregiando così irreversibilmente non solo l’Europa ma il cuore del mondo che è nell’Eurasia; dall’altro lato Italia, Francia, Spagna, Gran Bretagna e  Germania che non vogliono approfondire il divario con la Russia ma che però non sanno che pesci pigliare e perciò si muovono in ordine sparso. Su tutto ciò aleggia il dramma del crollo delle spese per la Difesa, che coinvolge tutta l’Europa perché anche qui l’austerity ha provocato danni che potrebbero riflettersi sugli stessi europei. Vale infatti ricordare che i “mozzateste” del autoproclamato califfato non sono al Polo Nord, ma a 50 chilometri da Pantelleria, a 200 chilometri da Malta, lungo il confine della Turchia. Insomma, sono dietro l’angolo. E forse anche dietro l’angolo di casa. 

Abbandonare l’ordoliberalismo che mitizza l’austerity è perciò un dovere non solo verso la deflazione e la disoccupazione, ma anche per rispetto alle vite stesse degli occidentali, sempre più in pericolo. Renzi dovrebbe rileggersi i discorsi di Winston Churchill, quando sferzava un’aristocrazia inglese che voleva venire a patti con la Germania nazista. Da grande statista, giunse addirittura a fare abdicare un re, a travolgere il pacifismo dei laburisti, a suscitare l’energia creatrice di un’isola che era consapevole di dover continuare a governare il mondo, difendendo l’Occidente. Se avesse dato ascolto al Cancelliere dello Scacchiere, scacciato sdegnosamente, l’equilibrio dei conti non gli avrebbe consentito quelle alzate d’ingegno. A questo Churchill pensavo recentemente, quando uno studente mi ha chiesto se Renzi abbia o meno la caratura da statista. Gli ho risposto che statisti non si nasce, si diventa. Per Renzi è giunto il momento di diventarlo, perché solo a chi ha questa ambizione vengono concesse le mediazioni e i grandi compromessi. Si cerchino tutte le alleanze possibili, ma si ricordi che solo smontando dall’interno e lavorando per eliminare gli sprechi, le rendite parassitarie, il clientelismo, i mille corporativismi, si può rimettere in moto la macchina della crescita, in Italia e in Europa. E per farlo occorre cambiare musica, il che vuol dire che occorre cambiare i trombettieri. Così non si salverà soltanto l’Italia e l’Europa, ma si porranno anche le basi per salvare l’Occidente.