pubblica amministrazione

Non disturbare il manovratore

Non disturbare il manovratore

Domenico Cacopardo – Italia Oggi

Con una certa solennità, il capo II della riforma della pubblica amministrazione, nel testo convertito, è dedicato alle misure in materia di organizzazione. Si inizia con le società a partecipazione pubblica: «(…) salva la facoltà di nominare un amministratore unico, i consigli di amministrazione delle società controllate (…) che abbiano conseguito nel 2011 un fatturato da prestazione di servizi a favore di amministrazioni pubbliche superiore al 90% dell’intero fatturato devono essere composti da non più di tre membri, ferme restando le disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità (…) il costo per compensi agli amministratori deve essere contenuto nell’80% di quanto speso nel 2013 (…) per le altre società a totale partecipazione pubblica il numero dei consiglieri non può superare i 3 o i 5 membri (…)».

Queste norme, criptiche e farraginose, meritano qualche spiegazione. Nella prima parte dell’articolo (il 16), si parla, in sostanza, della massa di aziende, nate sotto l’egida della riforma degli enti locali condotta da Franco Bassanini. Si tratta dell’in-house, di società a prevalente partecipazione comunale (provinciale, regionale) che hanno, come scopo sociale, compiti propri dell’ente di cui sono emanazione. Un esempio: per la realizzazione di infrastrutture di loro competenza, molti comuni hanno costituito un’apposita società che gestisce l’intero procedimento. C’è, in questa modalità organizzativa, un non detto: se il comune dovesse appaltare la costruzione di un ponte sul fiume che lo attraversa, dovrebbe applicare le norme europee e indire una gara abbastanza libera che potrebbe essere vinta da un’impresa sgradita al sindaco e ai suoi assessori. Rivolgendosi alla propria società, formalmente, privata, gli amministratori locali pensano che l’operazione sia manovrabile e che, comunque, trattandosi di un soggetto privatistico, come dire, è più difficile che la magistratura intervenga. Una bubbola infondata, vista la severa giurisprudenza penale. Tuttavia, le possibilità di farla franca sono oggettivamente maggiori.

Va notato il 90% del fatturato destinato a servizi della pubblica amministrazione di cui la società è figlia: questa qualificazione mostra come il governo sappia bene la natura distorsiva di questi strumenti organizzativi e di malaffare, ma che ne voglia limitare i costi. Chiamare una norma del genere «riforma» è una inqualificabile mistificazione.

È vero che da qualche giorno si parla di obbligare gli enti locali a liquidare gran parte delle 7/10 mila società e, proprio oggi, il consiglio dei ministri dovrebbe decidere qualcosa. Leggeremo i testi con la solita attenzione, anche se è lecito immaginare che la «vis» riformatrice si limiterà a un piccolo aggiustamento, senza incidere seriamente sul deleterio sistema. La massa di quadri politici che vivono da parassiti e malversatori nel mondo delle aziende pubbliche (che drena una impressionante quantità di denaro dei cittadini e che procura ai partiti risorse non dichiarate) non può essere colpita senza compromettere il patto tra vertici dei partiti e cosiddetta base e, per li rami, il consenso elettorale. Meglio prendersela con i pensionati il cui peso nelle urne non è paragonabile a quello dei quadri di cui sopra.

L’art. 17 della riforma induce all’ilarità: si occupa di «sic!» di ricognizione degli enti pubblici e unificazione delle banche dati delle società partecipate. La solita domanda viene spontanea: è necessaria una legge per una semplice, normale attività amministrativa gestibile con semplici direttive dalla presidenza del consiglio dei ministri? Si pensi che il comma 2 ter, dispone che entro il 15 febbraio 2015 «sono pubblicati sul sito internet istituzionale del Dipartimento della funzione pubblica della presidenza del consiglio dei ministri l’elenco delle amministrazioni adempienti e di quelle non adempienti all’obbligo di inserimento di cui al comma 2 e i dati inviati a norma del medesimo comma. A parte la zoppicante costruzione della frase, immaginate come trema, per esempio, il sindaco di Napoli di fronte alla prospettiva di essere inserito nell’elenco dei «cattivi» che non hanno contribuito all’unificazione delle banche dati nazionali? Purtroppo, questo è il metodo. Questi sono i contenuti.

Il ministro offre sconti ma gli enti buttano soldi

Il ministro offre sconti ma gli enti buttano soldi

Andrea Cuomo – Il Giornale

La centrale di acquisto per le amministrazioni pubbliche conviene. E molto. Gli enti centrali e locali grazie alle convenzioni stipulate dalla Consip, la concessionaria servizi informativi pubblici, possono risparmiare tantissimo nell’acquisto di beni e servizi, dalla sedia ai computer, dalle risme di carta ai contratti telefonici.

Una specie di gruppo pubblico di acquisto che può far risparmiare all’erario fino a 2,6 miliardi secondo le valutazioni del ministero dell’Economia, che controlla la stessa concessionaria ai cui contratti calmierati ormai non solo lo Stato ma anche Regioni, Province, Comuni di fatto non possono quasi più sottrarsi, malgrado spesso sembrino preferire continuare far la spesa da soli.

Il prezzo spuntato dalla centrale acquisti è sempre inferiore a quello pagato da un’amministrazione pubblica che si muova da sola. Lo dimostra l’edizione 2013 della rilevazione dei prezzi curata da via XX Settembre e dall’Istat e pubblicata pochi mesi fa. Prendete gli arredi per ufficio, con la loro rigida regola alla Fantozzi, i travet con poltroncine in sky e i dirett. lup. mann. con «serra di piante di ficus e poltrona in pelle umana». Ebbene, una sedia operativa costa mediamente alle amministrazioni che la acquistino da soli 90,09 euro e 78,14 euro (il 13,26 in meno) se si approfitta della convenzione Consip. Se cresce il valore della seduta cresce anche il risparmio: per la sedia direzionale si spendono 208,73 senza convenzione e 172,53 con. Per una scrivania operativa rettangolare si risparmia il 35,79 per cento, per una direzionale il 38,02. E la scrivania operativa sagomata a «L»? Se la acquistano le amministrazioni centrali costa 345,24 euro, un ente locale la porta via a 329,64, se si fa la spesa con Consip si spendono solo 163,81, con un ribasso superiore al 50 per cento.

Passiamo alle auto: le city car costano alla Consip 9.308,28 euro e alle amministrazioni in libera uscita 9.904,05, le berline medie rispettivamente 16.933,24 e 20.096,59, i furgoni 11.933,98 e 15.268,54, con risparmi che vanno dal 4,08 al 21,84 per cento. E il carburante? La Consip fa il pieno di super a 0,678 euro al litro (Iva e accise escluse) mentre chi fa da sé paga 0,747. Meno differenza per il gasolio: 0,714 il prezzo per chi usa la convenzione, 0,745 per chi no. L’unico settore in cui fa poca differenza utilizzare la Consip sono i buoni pasto: le amministrazione lo acquistano a 0,837 euro ogni euro di valore, la Consip a 0,831. Quasi pari e patta. Ma con la carta lo sconto torna a essere rilevante: 2,511 euro la risma A4 senza convenzione, 2,396 con la convenzione (4,58 per cento di riduzione). L’energia elettrica in convenzione costa il 3,13 per cento in meno, il gas naturale il 6,23.

Super-risparmi nell’ hi-tech . Noleggiando le fotocopiatrici con i contratti Consip si risparmia dal 19,55 per cento al 63,45 a seconda della tipologia. Una copia a colori, ad esempio, costa 0,06 con la centrale acquisti e quasi 0,17 senza. Anche per i computer sconti rilevanti: un desktop compatto acquistato tramite Consip viene 331 euro, da soli 586,97. Sui server si risparmia dal 17,02 al 24,63 per cento, sui software dal 10,08 al 16,63, sulle stampanti addirittura l’81,86 per cento: l’azienda aggiudicataria della gara Consip la vende a 39 euro, altrimenti costa in media 215 euro. Infine la telefonia mobile: un minuto di conversazione costa 0,039 al complesso delle amministrazioni e 0,025 a quelle che utilizzano il mercato elettronico, un sms di Stato rispettivamente 0,047 e 0,020. Quanto al contenuto del messaggino, beh, su quello la spending review può davvero poco.

Al paese decotto non basta solo la politica monetaria

Al paese decotto non basta solo la politica monetaria

Antonio Salvi – Il Giornale

Bene ha fatto Draghi a ricordare ai governi europei che la politica monetaria da sola non può rilanciare in maniera strutturale le economie decotte. Ha parlato a nuora perché suocera (il primo ministro italiano, su tutti) intenda.

Draghi ha semplicemente sostenuto che, per sperare di prendere un buon voto a scuola occorre prima fare bene i propri compiti a casa e poi eventualmente sperare nella mano paterna del professore. Il rilancio delle economie in maniera non effimera non è mai, dico mai, stato realizzato attraverso l’attuazione di politiche monetarie ad hoc. Affinché il rilancio dell’economia avvenga in maniera durevole è necessario perseguire un recupero di competitività complessiva del sistema. Come? Facendo le riforme. L’Italia sta facendo i compiti a casa? No. E tutti i bei discorsi di Renzi? Parole al vento. Segnalo che sono già passati 6 mesi (centottanta giorni!), e ancora di riforme concrete non se ne vede l’ombra. Sacrosanto dunque il richiamo da parte di Draghi. L’agenda delle riforme che contano è chiara e il governo ha – temo per poco ancora – il giusto consenso nel paese per poterla attuare, eppure si traccheggia e si procede con tentativi velleitari e di pura facciata. Renzi non era colui che nell’ormai remoto 22 febbraio scorso aveva promesso una riforma al mese nei primi cento giorni del suo governo. Il fanfarone, vista la mala parata, ha pensato bene di aggiungere uno zero ai cento giorni, preferendo adesso cambiare il nostro paese in mille giorni. Approfittando della dabbenaggine degli italiani.

Ad avviso di chi scrive, la prima grande riforma da portare avanti è quella della pubblica amministrazione. Eppure, quella fin qui varata è solo una riformina che non cambia granché. Aspettiamo invece la legge delega, che forse arriverà nel giro di qualche anno. L’abolizione delle provincie? È solo sulla carta. Più in generale, è necessario ridurre la spesa pubblica. Dove? Ovunque. Sono solo io il cittadino italiano che quando entra in qualsiasi ufficio pubblico è investito dalla netta sensazione che dappertutto si batta la fiacca? E allora giù di scure, senza tanti riguardi. Il lavoro è un’altra emergenza del nostro paese. Renzi non ha fatto praticamente nulla a riguardo (salvo il poverissimo ddl Poletti), mentre la vera partita si gioca altrove, dove non c’è traccia di volontà del governo di voler intervenire seriamente. Ad esempio, sull’articolo 18, il quale andrebbe semplicemente cassato in toto. Si tratta di una tutela discriminatoria (distinguendo tra lavoratori di serie A e lavoratori di serie B) e anacronistica. Lo capiscono infatti anche i bambini (ma non le teste d’uovo della sinistra italiana) che inibire la crescita delle aziende oltre i 15 dipendenti vuol dire far partecipare il nostro sistema produttivo a una battaglia globale con i canotti, laddove gli altri paesi hanno le portaerei.

E poi c’è la riforma del fisco, inizialmente prevista per maggio, ma persasi anch’essa chissà dove. Renzi ha promesso la semplificazione fiscale. Chi l’ha vista? Intanto, nel 2015 ci arriverà il 730 precompilato, strumento straordinariamente illiberale, su cui non mi è parso di aver assistito a grandi grida di dolore da parte degli intellettuali liberali. E poi c’è la riforma della giustizia, anch’essa ferma alle buone intenzioni. E poi tanto altro ancora. Renzi ha affermato che è necessario togliere il paese dalle mani dei soliti noti, quelli che vanno in tutti i salotti buoni a concludere gli affari di un capitalismo di relazione ormai trito e ritrito. Capitalismo di relazione? E la politica che fa il nostro premier? Cos’altro è se non delle sue relazioni e del suo vicinato, visto che la maggior parte del tempo l’ha finora spesa a piazzare nei posti giusti amici e corregionali, con scelte molto spesso quantomeno di dubbio gusto. #Matteomafacciilpiacere…

Toccare i diritti acquisiti si può. Perché non partire dalla Pa?

Toccare i diritti acquisiti si può. Perché non partire dalla Pa?

Piercamillo Falasca – Il Foglio

Se la politica non riforma l’economia, l’economia riforma se stessa come può. La deflazione è una nuova tappa (quasi da manuale della lunga crisi italiana iniziata nel 2008, un fenomeno di aggiustamento naturale del livello dei prezzi, conseguenza inevitabile della scarsa competitività del sistema produttivo e del calo della domanda interna. Non avendo l’Italia una moneta nazionale, l’aggiustamento non può avvenire con una svalutazione (che solitamente è accompagnata da inflazione): si determina invece il calo dei prezzi di beni e servizi. Non è una buona notizia, e d’altronde non lo sarebbe nemmeno una svalutazione o l’uscita dall’euro, in verità: come tutti gli aggiustamenti di un’economia claudicante, la deflazione miete molte vittime. Si abbatte il reddito delle imprese e con esse il costo del lavoro, calano gli stipendi e aumenta la disoccupazione, con effetti ulteriormente nefasti sulla domanda.

E’ un circolo vizioso, i cui beneficiari di breve periodo sono i percettori di reddito fisso che si avvantaggiano dal calo dei prezzi a cui comprano. Ovviamente non esistono redditi totalmente fissi, se è vero che la deflazione aumenta i rischi di qualsiasi azienda e di qualsiasi rapporto di lavoro, per tutelate che sia. Ma senza dubbio, al tempo della deflazione, c’e chi può dormire sonni più tranquilli di altri: i dipendenti pubblici. E dunque, in un momento in cui perfino alcuni esponenti di governo lasciano intendere di essere disposti a mettere mano ai cosiddetti “diritti acquisiti”, è cosi eterodosso pensare allora che una misura equitativa sarebbe un piccolo taglio medio di tutte le retribuzioni pubbliche – lo 0,5 per cento, ad esempio – per destinare queste risorse pubbliche a investimenti in conto capitale che spingano innovazione, competitività e buona occupazione privata? Mezzo punto percentuale di retribuzioni pubbliche sono poco più di 800 milioni di euro annui, soldi con cui in 4-5 anni costruiremmo banda larga e ammoderneremmo scuole, strade, porti e aeroporti. Sarebbe una piccola grande rivoluzione.

Dal 2001 al 2011, le retribuzioni pubbliche sono aumentate molto più che nel privato (vedi dati Istat e Aran), senza peraltro alcun particolare miglioramento di produttività. Poi si sono fermate, come tutte le altre. Dal 2007 al 2011 il personale pubblico è diminuito dell’1,4 per cento (da 3,43 milioni di unità a 3,28), ma la retribuzione individuale media dei dipendenti a tempo indeterminato è cresciuta del 10 per cento: il taglio è avvenuto con i pensionamenti e la riduzione dei precari, mentre troppi dipendenti e dirigenti hanno goduto della malapratica delle “progressioni orizzontali”. C’è allora margine per un piccolo “sacrificio” da parte dei più garantiti tra i garantiti, i titolari di quei “diritti acquisiti” che anche il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, vuol mettere in discussione, a vantaggio dell’intera collettività e del futuro dell’economia italiana.

Pubblica amministrazione sospesa

Pubblica amministrazione sospesa

Domenico Cacopardo – Italia Oggi

Il secondo capitolo della riforma della pubblica Amministrazione dovrebbe essere il più importante, giacché contiene le misure sulla sua riorganizzazione («semplificare e aumentare l’efficienza delle pubbliche amministrazioni» scrive la legge). Dall’organizzazione discende la qualità e l’intensità del prodotto dello Stato: quindi, visto che, quanto a numero di dipendenti pubblici (Stato e aggregati), siamo in linea con i paesi dell’Ue, ne siamo lontani quando a produttività.

I servizi che le amministrazioni pubbliche italiane offrono ai cittadini sono molto diversi se si guarda al Nord, al centro, al Sud e alle isole. Sud e isole presentano una qualità scadente non confrontabile con il resto del Paese. Tuttavia, mediamente, il prodotto della pubblica Amministrazione italiana è nettamente inferiore a quello offerto in Francia, in Germania e, addirittura, in Spagna. C’è da aggiungere che, da noi, il fattore corruzione incide di più e coinvolge le strutture funzionali e quelle politiche.

C’era da aspettarsi, quindi, che la riforma affrontasse questo genere di problemi che non sono una novità e sono stati risolti in vario modo all’estero (il più interessante è l’Amministrazione per progetti, che consente di aggregare su specifiche missioni personale addestrabile o addestrato e di misurarne i risultati).

Vediamo adesso quali sono le misure approvate. Si comincia con la razionalizzazione delle autorità indipendenti. In particolare: è esclusa la possibilità che i componenti, alla scadenza del mandato, possano essere nominati presso altra autorità nei cinque anni successivi e vengono introdotte incompatibilità per dirigenti e membri delle autorità di regolazione dei servizi pubblici, Consob, Banca d’Italia e Ivass. Viene introdotta poi una nuova procedura unitaria per i concorsi del personale nelle autorità e si prospettano misure per la riduzione percentuale del trattamento economico accessorio (che pone questo personale in condizione privilegiata).

Si riduce anche la spesa per consulenze, studi, ricerche e per gli organi collegiali. S’introduce la gestione unitaria dei servizi strumentali e l’assoggettamento alle disposizioni in materia di acquisti centralizzati. Saranno individuati criteri comuni per la gestione delle spese per gli immobili.

È soppressa, dopo il suo totale fallimento, l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (Avcp). Le sue funzioni sono trasferite all’Autorità nazionale anticorruzione (Anac). Vengono unificate le scuole di formazione pubblica mediante soppressione di cinque organismi e la contestuale riassegnazione delle funzioni di reclutamento e formazione alla Scuola nazionale dell’amministrazione – Sna.

I regolamenti di riorganizzazione dei ministeri saranno adottati entro la metà di ottobre, semplicemente con decreti del presidente del Consiglio dei ministri (modalità rapida).

Come si può vedere dalla sintetica (ma puntuale) definizione della riforma, in materia di riorganizzazione, nessuno dei nodi che hanno impedito e impediscono la creazione di uno Stato efficiente e moderno a servizio dei cittadini è stato affrontato. Non si è nemmeno immaginato –è probabile- che potesse essere risolto, come s’era fatto in passato con alcune leggi storiche di riforma. Ricordiamo l’ultima e la più importante, la 241 del 7 agosto 1990: da essa si doveva partire per aggiornare il procedimento amministrativo e le responsabilità dirigenziali.

Come abbiamo scritto nei mesi scorsi, la qualità tecnica dello staff presidenziale (e del ministro Madia) è chiaramente insufficiente. E, questa della riforma della pubblica Amministrazione, è un’altra occasione perduta, anche se viene presentata come una svolta epocale. Di nuovo ci sono piccole misure di razionalizzazione che non incideranno né sul prodotto né sulla sua qualità.

Ci sono mille occasioni di riforma sul tappeto. Se il governo le coglierà come ha colto questa, sprecandole nel momento in cui passa al merito, avremo illuso gli italiani e non avremo dato loro la prospettiva che meritano. Certo, ci vorrebbe una massiccia dose di liberismo radicale o, in sciagurata alternativa, di collettivismo sovietico. Le mezze-mezze misure non servono che ad accentuare le difficoltà.

Debito, nuovo record. Pesano i pagamenti arretrati alle imprese

Debito, nuovo record. Pesano i pagamenti arretrati alle imprese

Francesco Di Frischia – Corriere della Sera

Il debito pubblico italiano continua ad aumentare, mentre dalla produzione industriale e dalla cassa integrazione emergono segnali di un lento miglioramento dell’economia. Secondo Bankitalia a giugno il debito pubblico ha toccato il nuovo record di 2.168,4 miliardi, dovuto anche al pagamento dei debiti arretrati della pubblica amministrazione (proprio ieri il Tesoro ha messo a disposizione degli enti locali altri 3 miliardi), mentre i dati Inps sulla cassa integrazione indicano un calo dell’utilizzo pari al 25% rispetto al 2013 ed Eurostat conferma come la produzione industriale italiana, +0,9 a giugno, si muova in controtendenza rispetto all’Europa.
Entrando nel dettaglio, il debito pubblico in valore assoluto è cresciuto di 2 miliardi rispetto a maggio e di quasi 100 rispetto alla fine del 2013. Secondo il Documento di economia e finanza di aprile, il debito dovrebbe attestarsi a fine anno a 2.141 miliardi, pari al 134,9% del Prodotto interno lordo, ma è probabile che, con il peggioramento della congiuntura, questi obiettivi possano essere rivisti. Sull’aumento del debito nei primi sei mesi dell’anno hanno inciso i pagamenti dei debiti della Pa e anche la scelta del Tesoro di «fare provvista» sfruttando i bassi tassi di interesse nella prima parte del 2014, spiegano dal ministero dell’Economia, per far fronte «alla quota significativa» di debito in scadenza nella seconda metà dell’anno. Al momento quindi, fanno notare, «il conto di disponibilità», con le emissioni effettuate, è «elevato», ma entro l’anno tornerà a «livelli fisiologici di 25-30 miliardi».
I dati diffusi ieri da Bankitalia confermano anche la flessione delle entrate tributarie: sono state pari in giugno a 42,7 miliardi, in diminuzione del 7,7% (3,5 miliardi) rispetto allo stesso mese del 2013. Nel periodo gennaio-giugno le entrate sono ammontate a 188,1 miliardi di euro, con un calo dello 0,7% (1,3 miliardi) rispetto all’analogo periodo dell’anno scorso. Calo da attribuirsi fondamentalmente alla recessione. A questo proposito l’Agenzia delle Entrate ha voluto precisare ieri con un comunicato che non c’è alcun allentamento della lotta all’evasione fiscale: «La direttiva di concentrarsi sul 2012 risponde a esigenze di celerità ed economicità dell’azione amministrativa» perché «in questo modo gli uffici potranno non solo accertare, ma anche recuperare effettivamente e nel più breve tempo possibile le somme evase». Ma «anche le annualità precedenti il 2012 saranno oggetto della massima attenzione e dei relativi controlli», assicura l’Agenzia.
In attesa dei dati di oggi sul Prodotto interno lordo del secondo semestre, che secondo gli analisti dovrebbero indicare un peggioramento del quadro anche nelle altri grandi economie della zona euro, Eurostat ha diffuso ieri i dati sulla produzione industriale. Nei 18 Paesi dell’Unione monetaria la produzione a giugno è scesa dello 0,3% rispetto a maggio. L’Italia si conferma in controtendenza, con un aumento dello 0,9% (ma resta un -0,4% su base annua).
Un capitolo a parte merita la Cig: secondo l’Inps a luglio il numero di ore di cassa integrazione autorizzato è stato di 79,5 milioni (-25% rispetto allo stesso mese del 2013). Ma si tratta di una media frutto dell’aumento della cassa integrazione straordinaria (+18,0%), del calo della cassa ordinaria (-38,3%) e soprattutto della cassa in deroga (-70%) che risente, però, del mancato rifinanziamento.
Insomma, un quadro di luci (poche) e ombre (tante). Tra queste ultime anche la gestione dei fondi strutturali europei. L’Italia rischia di perdere 5-6 miliardi di quelli del ciclo 2007-2013, mentre sta negoziando con l’Ue i fondi 2014-2020. Il premier Matteo Renzi ha riconosciuto ieri che «l’Italia ha speso peggio di come avrebbe potuto» i fondi europei, ma ora «stiamo affrontando la difficoltà». Della questione si occupa il sottosegretario Graziano Delrio che sul tema dei nuovi fondi previsti dall’accordo di partenariato 2014-2020 si sta arrivando all’accordo con Bruxelles. Il governo presto chiarirà con l’Europa sui vecchi fondi, ma intanto Palazzo Chigi assicura, in sintonia con la Commissione Ue e replicando a indiscrezioni di stampa, che non c’è alcun rischio di perdere per il futuro 40 miliardi. Ieri, parlando con il Wall Street Journal , Delrio ha sottolineato che il governo continua sulla strada tracciata, spiegando che non verranno aumentate le tasse ma tagliata la spesa. «E se ci sarà bisogno di sacrifici aggiuntivi, li chiederemo alla Pubblica amministrazione». Significa, spiegano i suoi collaboratori, «che si andrà avanti sulla spending review, a partire dai risparmi possibili sulle municipalizzate, come indicato dal commissario per la revisione della spesa, Carlo Cottarelli».

E’ sempre l’Italia dei maxi stipendi: Giannini, guadagnerai un botto

E’ sempre l’Italia dei maxi stipendi: Giannini, guadagnerai un botto

Maurizio Grosso – La Notizia

La regola è stata messa, ma è ancora troppo elastica. Ne sanno qualcosa alla Rai, dove la polemica degli stipendi pazzi non è certo dell’ultima ora. Il fatto è che a Viale Mazzini, così come in altri centri istituzionali, ci sono ancora troppe zone che sfuggono al nuovo tetto dei 240 mila euro l’anno imposto dal governo di Matteo Renzi ai dipendenti pubblici. Il tema è ritornato prepotentemente in auge in queste settimane di campagna acquisti tra emittenti tv. Si pensi, su tutti, al caso di Massimo Giannini, il vicedirettore di Repubblica che si appresta a condurre Ballarò sui Rai3 al posto di Giovanni Floris (nel frattempo passato a La7). Ebbene, secondo i rumors più insistenti Giannini dovrebbe portarsi a casa uno stipendio lordo annuo che oscillerebbe tra i 400 e i 450 mila euro. Ben più, quindi, del famoso tetto dei 240 mila euro (che poi altro non è se non l’emolumento del presidente della Repubblica).

Per carità, corrispondere 400-450 mila euro l’anno a Giannini è del tutto legittimo, però il suo caso è tra quelli che esulano dall’applicazione del fatidico limite. Il fatto è che all’interno dell’apparato statale sono ancora troppe le isole “felici” dove si può continuare a prendere tranquillamente uno stipendio più elevato del tetto. Tra le situazioni che più danno nell’occhio c’è quella del governatore e del direttorio della Banca d’Italia. Ancora oggi Ignazio Visco intasca 495 mila euro l’anno, il direttore generale di palazzo Koch, Salvatore Rossi, ne prende 450 mila e i membri del direttorio 315 mila. Certo, c’è la questione dell’autonomia di palazzo Koch che non può essere incisa da provvedimenti parlamentari. Ma è uno dei tanti casi in cui gli stipendi risultano legittimamente fuori soglia.

Stesso andazzo per la Corte costituzionale. In questo caso fa premio il fatto che parliamo di un organo costituzionale, rispetto al quale governo e parlamento hanno al massimo un potere di moral suasion. Il presidente della Consulta, da pochi giorni Giuseppe Tesauro, è accreditato di un emolumento annuo lordo di 550 mila euro. Gli altri giudici della Consulta, tra cui oggi figurano vecchie volpi della politica come Sergio Mattarella e Giuliano Amato, si “fermano” a 467 mila. Per non parlare del caso degli alti funzionari di Camera e Senato. Si prenda l’inamovibile Ugo Zampetti, eterno segretario generale di Montecitorio, forte di un lordo annuo di 406 mila euro (che si rivaluta del 2,5% ogni biennio). Qui va detto che la presidente della Camera, Laura Boldrini, ha imposto anche ai suoi dipendenti il tetto di 240mila. Se così fosse, Zampini dovrebbe dimezzare il “tesoretto”.

Spending review, ecco tutti gli sprechi di enti e ministeri

Spending review, ecco tutti gli sprechi di enti e ministeri

Federico Fubini – La Repubblica

C’è un colpevole seriale di malagestione come il comune di Roma, insieme a giunte del Centro e del Nord come Perugia, Pesaro e Urbino, Verona, Udine, Sondrio, Trieste o Bolzano. Spunta anche la Statale di Milano, con l’università di Genova. Ci sono aziende sanitarie dalle procedure d’appalto singolari, in Sardegna o Campania. E non mancano neanche coloro che dovrebbero tenere al rispetto della legge più di ogni altro ramo dello Stato: i carabinieri, la polizia, il ministero della Difesa. Tutti destinatari delle lettere di Raffaele Cantone e Carlo Cottarelli alle amministrazioni che – è il sospetto – hanno violato le norme sugli appalti da tenere solo ai prezzi più convenienti per il contribuente. Cottarelli e Cantone sono, rispettivamente, commissario straordinario alla revisione della spesa e presidente dell’Autorità anti-corruzione. Già solo i loro ruoli rendono la lettera partita a giugno un atto pieno di significato. E, potenzialmente, pieno di conseguenze per chi non sta alle regole. Non solo perché i due minacciano sanzioni ai funzionari che esitano a rispondere (25 mila euro) e a quelli che “forniscono dati non veritieri” (51 mila). Quell’intervento di Cottarelli e Cantone è soprattutto il segnale di una svolta che può arrivare se solo si rispettassero le leggi esistenti. Una serie di decreti approvati fra il 2006 e il 2012 obbliga infatti gli uffici dello Stato e le società “in house”, controllate al 100%, a non sprecare un centesimo quando comprano sette categorie di beni e servizi essenziali: elettricità, gas, carburanti, combustibili da riscaldamento e contratti di telefonia fissa, cellulare o per traffico dati. Per ordinare da questo menù, tutti dovrebbero servirsi della centrale nazionale degli acquisti Consip o delle centrali regionali. Facile capire perché: i grandi acquirenti hanno le competenze e sono in grado di spuntare i prezzi migliori. La legge tollera eccezioni, cioè amministrazioni che fanno shopping da sole, solo se un ufficio compra a meno dei prezzi garantiti da Consip.

Poiché tutti devono registrare i contratti sul portale dell’Autorità anti-corruzione (ex Autorità di vigilanza sui contratti pubblici), il lavoro di intelligence è partito subito. Ministero dell’Economia, Guardia di Finanza, la squadra di Cottarelli e quella di Cantone hanno incrociato i dati ed è venuta fuori la lista dei sospetti. Prima cento, poi cresciuti a duecento. Tutti enti locali, ministeri, aziende sanitarie o università che nel 2012 e nel 2013 si sono comprate elettricità, gas, benzina o telefonate da soli, disinteressandosi della legge. Si sospetta che l’elenco possa crescere fino a tremila amministrazioni. Ma i nomi in quella lista, e i costi delle forniture, riservano già da ora più di una sorpresa.

Il ministero dell’Interno per esempio si è visto recapitare almeno due lettere, di cui la prima per il pingue contratto di telefonia mobile da 4,4 milioni di euro della Polizia di Stato. I dati del ministero dell’Economia dimostrano che in media il costo è fino a oltre l’80% inferiore quando a comprare è Consip, la centrale nazionale. Ma nel 2012 il Viminale (ministro, Anna Maria Cancellieri) procede ad assegnare un appalto per i cellulari della Polizia di Stato, peraltro è tuttora in vigore. Lo fa in perfetta solitudine, senza coinvolgere Consip. E sbriga la pratica con una “procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando”, si legge nel sito dell’anti-corruzione. Il ministero offre poi il bis e il tris con contratti per i cellulari dei Carabinieri (3,1 milioni) e per il traffico dati dell’Arma (2,2). Ora il Viminale ha dovuto fornire spiegazioni a Cottarelli sul perché l’ha fatto, con il rischio di sanzioni se davvero quei prezzi risulteranno superiori a quelli di Consip.

Singolare anche la tecnica con cui l’Aeronautica militare, cioè il ministero della Difesa, si approvvigiona di energia elettrica per illuminare l’aeroporto di Pratica di Mare. Dal gennaio del 2012 a quello del 2013 conclude la bellezza di 12 contratti d’appalto, uno al mese. Nel complesso finisce per spendere circa 2,5 milioni di euro, una somma faraonica per un solo scalo, ma ogni singolo appalto resta intorno ai 200 mila. Anche l’Aeronautica militare però adesso ha risposto alla vigilanza di Cottarelli e Cantone e la sua replica o è all’esame dei due commissari. Il record nella lista dei primi cento sospetti spetta però tutto al comune di Perugia: la bellezza di 10,5 milioni di euro pagati per dare luce alla città, con gara scaduta a luglio 2013. Anche qui, ignorando del tutto l’opportunità di comprare a meno le stesse quantità di energia elettrica tramite le grandi centrali pubbliche di fornitura. Non da meno è la Verona del sindaco leghista Flavio Tosi, che in un anno (da metà 2013 a metà 2014) riesce a spendere 7,9 milioni in lampioni e lampadine comunali: un posto sicuramente illuminato bene. È curioso però che ci sia un’università che riesce a spendere in energia tanto quanto una città di quasi 300 mila abitanti: è l’Università degli Studi di Milano che, a quanto pare disinteressandosi della legge, ha concluso di propria iniziativa un contratto da 7,5 milioni per le forniture elettriche dell’anno conclusosi a giugno scorso. Anche la Statale, al pari delle università di Perugia, Genova e Roma 3, ora avrà qualcosa da spiegare.  Né potevano mancare nella lista dei destinatari della lettera le aziende sanitarie locali. La Asl 8 di Cagliari, chissà come, riesce a pagare a Telecom Italia qualcosa come 1,8 milioni di euro solo in “servizi per la telefonia fissa”. La Asl 2 di Olbia investe 1,2 milioni in energia elettrica, con una prassi singolare: a gennaio di quest’anno, senza bandi precedenti, ha assegnato un contratto a valore retroattivo per una fornitura partita nel 2013.

Ma non sorprende che siano soprattutto i comuni a riempire la lista di Cottarelli e Cantone, perché è lì il cuore del rapporto (spesso) clientelare fra politica e piccoli oligarchi fornitori di voti locali. Nell’elenco finiscono la Roma della gestione di Gianni Alemanno (5,9 milioni per tre mesi di elettricità) e città del Nord come Bolzano per i due milioni pagati per il gas naturale, Como, Sondrio o Trieste: qui il comune riesce a spendere più di 600 mila euro per l’uso dei telefoni cellulari. E dalla provincia di Pescara al comune di Udine, la lista potrebbe continuare e lo sta facendo nel lavoro di Cantone e Cottarelli. Il loro tono ai destinatari è decisamente ultimativo: chiedono copia del contratto d’appalto e il relativo decreto di approvazione, “nonché eventuali atti amministrativi posti a motivazione della mancata adesione alle convenzioni vigenti della Consip”. E ricordano: “Il termine ultimo per fornire i documenti richiesti viene fissato in 15 giorni”. Il messaggio di fondo dei due al resto dell’apparato dello Stato è che la ricreazione è finita. I prossimi mesi diranno se è finita la ricreazione, cioè il disinteressarsi della legge quando si possono spendere soldi dei contribuenti; oppure è finita la missione ora affidata a Cottarelli e prima di lui a Enrico Bondi e Mario Canzio: questa spending review ha già cambiato più allenatori di una squadra sull’orlo della retrocessione.

Pil, Blasoni: “Con questi numeri impossibile pagare i debiti della PA entro il 21 settembre”

Pil, Blasoni: “Con questi numeri impossibile pagare i debiti della PA entro il 21 settembre”

NOTA DEL CENTRO STUDI IMPRESALAVORO

L’Italia è in recessione tecnica: il Prodotto Interno Lordo, così come certificato dall’Istat, diminuisce per il secondo trimestre di fila e fa registrare un dato peggiore di quello già negativo stimato dai principali analisti. Non è un numero “freddo”, quello che stiamo commentando, ma un fatto reale che produrrà conseguenze reali: senza crescita finiranno per peggiorare tutti gli indicatori di finanza pubblica (rapporto deficit/pil, debito/pil, ecc) e saranno ancor più ristretti i margini di manovra che il governo italiano avrà per mettere in campo misure utili a stimolare la crescita.
C’è poi un aspetto che riguarda molto da vicino lo studio che ImpresaLavoro ha presentato lunedì sul costo che le aziende sostengono per i ritardi di pagamento dello Stato: con questi numeri il governo rischia di trovarsi le mani legate. Da un lato ha molte meno risorse libere da impiegare per lo sblocco dei crediti della Pubblica Amministrazione, dall’altro non potrà ricorrere agevolmente a nuovo debito per procurarsi le dotazioni necessarie al pagamento completo di queste somme, così come immaginato in un primo momento.
«Diventa sempre più complesso, insomma, garantire il pagamento dei debiti della Pubblica Amministrazione entro il 21 settembre così come annunciato nei giorni scorsi dal Governo» osserva il presidente di ImpresaLavoro Massimo Blasoni. «Il rischio concreto è che, anche per il 2014, le imprese saranno costrette a “subire” costi indotti dall’inefficienza pubblica del cattivo pagatore statale per 7 miliardi di euro: una tassa occulta che rischia di diventare insostenibile per un sistema produttivo già fortemente provato dalla difficile congiuntura economica, dalla stagnazione dei consumi e dalla stretta creditizia».
La nostra burocrazia è già fallita

La nostra burocrazia è già fallita

Edoardo Narduzzi – Il Foglio

Le recessioni non vanno mai sprecate perché sono una formidabile occasione per riformare. Ma le recessioni sono anche uno choc che mette a nudo le debolezze di un sistema. Nelle situazioni normali o tranquille, quando la barca galleggia, debolezze e criticità restano nascoste. Poi, quando il ciclo economico volge al brutto, tutto viene a galla. È quanto è successo al sistema Italia con la peggiore recessione dal secondo Dopoguerra. Una crisi profonda che ha fatto sparire il 10 per cento del Pil e azzerato le capacità di crescita di un Paese incatenato alle politiche economiche di sempre: più tasse, più imposte, più tributi. Perché non si vuole vedere negli occhi la verità della crisi italiana. E la verità è, invece, chiarissima: è bastata una recessione con la erre maiuscola per certificare quello che tutti sapevano della Pubblica amministrazione italiana. Che è un postificio costruito con decenni di lottizzazione a vantagio dei partiti e dei sindacati, sulla pelle delle imprese e dei cittadini che competono nel mercato globale. Una macchina senza alcuna produttività che è stata messa facilmente knock out dal iù lungo ciclo negativo dal 1929.

Sarebbero circa 800 le norme varate dagli esecutivi Monti e Letta ancora in attesa di attuazione da parte della Pa. Norme pensate per attirare politiche antcicliche, quindi pro sviluppo, che una amministrazione terzomondista, del tutto irresponsabile per quello che non fa e per i danni che arreca al Paese, ha lasciato marcire nei suoi cassetti ministeriali. Si possono fare decine di esempi di norme abbandonate sulla Gazzetta ufficiale e mai diventate operative. Mancano i decreti amministrativi di attuazioni o le circolari ministeriali. Le recessione vera ha messo alle corde la burocrazia italiana, il vero spread con il resto dell’Eurozona che condanna il Pil alla stagnazione. Il monopolio di una cultura giuridica formale totalmente sganciata dalla logica del risultato da conseguire è alla base di questo autentico default sistemico. Del resto, come poteva essere altrimenti. Per decenni la Pa è stata militarmente occupata dalla non-meritocrazia. Monopolizzata dalle assunzioni familiari, sindacali, politiche, particolari, così è diventata un abnorme strumento para-keynesiano per dare finta occupazione agli amici e ai protetti. I processi sono diventati una eventualità e la qualità dei servizi da erogare a cittadini e imprese un’estrazione del lotto.

Il sistema burocratico italiano era già fallito negli anni Novanta, ma la capacità dell’economia di produrre un minimo di crescita nascondeva questa realtà. L’ultima recessione ha tolto la maschera alla Pa: una truppa di giuristi fanatici dei bollini, dei timbri, delle firme e della carta. Una realtà migliaia di chilometri distante dalla Googleconomics, 45 giorni a far diventare operativa una piattaforma informatica che è stata partorita ben 26 mesi dopo la norma che la concepiva, il dl “Cresci Italia” del giugno 2012. Così nulla è salvabile, non esiste nessun eccezionalismo imprenditoriale italiano che può farsi carico di un tale fardello.

Cosa fare? In tempi non sospetti, negli ani Sessanta del boom economico, uno dei più formidabili matematici che l’Italia del Novecento ha avuto, Bruno de Finetti, proponeva di fare una bad company della Pubblica amministrazione per riformarla ex novo. Ed erano anni nei quali la burocrazia italiana, rispetto a quella contemporanea, era un gioiello. Nel suo scritto del 1962 intitolato “Sull’opportunità di perfezionamenti e di estensione di funzioni dei servizi anagrafici”, il padre delle tavole di mortalità ancora oggi utilizzate dall’Istat invitava a utilizzare le nuove tecnologie dell’epoca per rivoluzionare i processi burocratici.

«Gioverebbe ben poco dotare di mezzi migliori il servizio anagrafico se esso continuasse a essere concepito come fine a se stesso, capace di comunicare con altri solo tramite la fabbricazione di tonnellate di certificati, di cui ogni mentecatto burocrate o legislatore può obbligare i concittadini a munirsi per ogni futile motivo», e invitava a realizzare quella che oggi chiameremmo una Pubblica amministrazione orientata a erogare servizi in maniera univoca e da un unico punto per tutti.

Rottamare in toto la Pa direbbe Renzi oggi, per rifondarne una nuova su nuove regole e con una nuova cultura. Ora, inevitabilmente, servono decisioni mai viste prima. Il premier David Cameron nel Regno Unito ha avuto il coraggio di licenziare 500mila dipendenti pubblici e ora il suo Pil corre al più 3,1 per cento. In Italia nulla si taglia, nulla si riforma e il Pil resta fermo a zero. Del resto alternative non ce ne sono: o si rivoluziona la Pa oppure la burocrazia ci porta al default.