pubblica amministrazione

Lo stato deve ancora pagare 73,5 miliardi alle imprese

Lo stato deve ancora pagare 73,5 miliardi alle imprese

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Alla fine il premier Matteo Renzi ha ceduto: l’impegno sul pagamento dei debiti al 31 dicembre 2013 delle pubbliche amministrazioni non è rispettato e, come anticipato da Bruno Vespa (ispiratore della scommessa), si è detto disponibile a percorrere la ventina di chilometri che separa Firenze dal santuario del Monte Senario. Il presidente del Consiglio ha chiesto di essere accompagnato non solo dal giornalista, ma anche dal ministro dell’economia Padoan, dal presidente della Cassa depositi e prestiti Bassanini e da quelli di Confindustria e Rete Imprese, Squinzi e Merletti.
Al di là delle trovate estemporanee, la confusione sul tema è tale che, a tutt’oggi, non si ha ancora la misura esatta di quanto lo Stato debba corrispondere alle aziende creditrici e, pertanto, a quanto ammonti il saldo finale. Una situazione che ha irritato non poco il vicepresidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, artefice della direttiva che impone agli Stati Ue di onorare in tempi certi i propri debiti estrapolando l’80% del pregresso dal computo del Patto di Stabilità.
Ieri, durante la conferenza stampa di presentazione del convegno «L’Europa e l’Italia che vogliamo» (il 26 e il 27 settembre a Perugia), ha anticipato i contenuti di tre interrogazioni presentate all’esecutivo di Bruxelles. Nella prima si chiede di stilare un primo bilancio dell’applicazione della direttiva comunitario sui tempi di pagamento e le ricadute sulle pmi. Nella seconda si interpella la Commissione sulle risposte fornite dall’Italia in merito alla propria esposizione nei confronti dei fornitori della pa. L’ultima, invece, si domanda se Bruxelles intenda comminare sanzioni all’Italia visto che lo Stato continua a non rispettare la direttiva, sforando sistematicamente il termine fissato di 60 giorni.
Nell’occasione Tajani ha riproposto il proprio atto d’accusa. «Oltre ai 60 miliardi che l’amministrazione pubblica deve ancora pagare, si sono accumulati altri debiti per gli interessi di mora per 8-10 miliardi», ha sottolineato. Secondo l’esponente di Forza Italia, però, occorrerebbe riformare il patto di stabilità interno (quello che impone anche alle amministrazioni locali il tetto del 3%) perché in contrasto con la normativa Ue sul pagamento dei debiti.
E mentre il ministro Graziano Delrio continua a sostenere le tesi del premier sostenendo che restano da pagare una trentina di miliardi visto che dei 60 complessivi lo Stato ha già onorato la metà, ieri è stato il centro studi ImpresaLavoro a sbugiardare Palazzo Chigi. «Nonostante le promesse, lo stock complessivo del debito rimane invariato nel suo livello e cioè pari a 73,5 miliardi di euro», sostiene il presidente Massimo Blasoni ricordando che «i debiti commerciali si rigenerano con frequenza». Per quanto riguarda il 2014, «stimiamo che siano già stati consegnati beni e servizi per circa 113,5 miliardi di euro e di questi ne sarebbero stati pagati soltanto 40». Senza contare il saldo delle spese in conto capitale legate al settore edilizia, bloccato dal Patto di Stabilità e del quale l’Ance lamenta la mancata corresponsione. Secondo ImpresaLavoro, il ritardo nei pagamenti costa alle imprese circa 6 miliardi l’anno di oneri di finanziamento con cui sopperire alle entrate mancanti. Nel periodo 2009-2013, oltre a pagare tasse sempre più esose, le aziende sono state «costrette» a devolvere alle banche circa 30 miliardi.
Non bisogna lamentarsi, poi, se molti imprenditori hanno deciso di trasferirsi in Svizzera. Da ieri avranno un motivo in più: la Confederazione ha deciso di anticipare la riforma fiscale applicando il trattamento vantaggioso degli utili conseguiti in Svizzera a quelli ricavati all’estero. Perché restare in Italia, allora?

Delrio sconfessa Renzi: debiti con le aziende pagati a metà

Delrio sconfessa Renzi: debiti con le aziende pagati a metà

Filippo Caleri – Il Tempo

Alla fine la verità sta nel mezzo. Anche nel caso dei debiti della pubblica amministrazione che negli ultimi giorni sono stati al centro di un’autentica lotteria. Gli artigiani della Cgia di Mestre hanno sostenuto che Renzi non ha mantenuto la promessa di saldarli tutti entro il 21 settembre, il premier sceso in campo per precisare che era già tutto in pagamento. Così ieri il sottosegretario alla presidenza del Consiglio ha confermato che in realtà i soldi a disposizione delle imprese sono 55-60 miliardi, ma quelli effettivamente pagati sono 31-32 a causa di ritardi prevalentemente dovuti alla comprensione da parte delle aziende del nuovo sistema per liquidare i loro crediti verso la pubblica amministrazione. «Posso garantire che il meccanismo che abbiamo messo in piedi è assolutamente certo ed esigibile» ha detto Delrio a margine di un’audizione al Parlamento Ue, sottolineando che «sul fatto che ogni imprenditore può andare a riscuotere quello che gli è dovuto non c’è alcun dubbio». Quindi Delrio ha spiegato che «il fatto che da 60 o 55 (miliardi), come presumibilmente saranno alla fine quelli reali, si sia arrivati a 31-32, dipende dai meccanismi di velocizzazione che le imprese hanno avuto nel rendersi conto del nuovo sistema». Delrio ha aggiunto al riguardo che «a volte alcuni enti locali non hanno pagato le loro partecipate», precisando che in questi casi «c’è anche qualche ritardo un po’ colpevole, tra virgolette». Dunque alla fine se i soldi ci sono ma non sono stati erogati è come se non ci fossero. Secondo questa tesi Renzi dovrebbe pagare la penitenza di andare a piedi al santuario del Monte Senario come annunciato nella puntata di Porta a Porta nel caso non avesse assolto l’impegno. A rincarare la dose è stato ieri il vicepresidente vicario dell’Europarlamento Antonio Tajani: «Mancano ancora all’appello circa 60 miliardi dallo Stato per i pagamenti dei debiti della pa». Dati alla mano, «la Banca d’Italia ha stimato i debiti della Pa al 31 dicembre 2012 a circa 90 miliardi», ha spiegato Tajani. «Da parte sua il governo ha stanziato 56,8 miliardi di questi sono stati erogati alle pubbliche amministrazioni 30, ma la Pa ne ha pagati 26,1. Dunque in totale mancano intorno ai 60 miliardi: 30 miliardi di quelli che sono stati stanziati e altri 30 circa ancora da stanziare». Infine Massimo Blasoni, presidente del centro studi “ImpresaLavoro” ha detto che «liquidare i debiti pregressi di per sé non riduce pertanto lo stock complessivo: questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti creatisi nel frattempo risultano inferiori a quelli oggetto di liquidazione».

Matteo paga i debiti. Solo a parole

Matteo paga i debiti. Solo a parole

Filippo Caleri – Il Tempo

Il premier Renzi ha già saldato tutti i debiti contratti dalla Pubblica Amministrazione con le imprese private. A parole. Già perché anche se, secondo il capo del governo, i soldi sono in cassa pronti a essere erogati, a molte aziende i pagamenti dovuti non sono mai arrivati. E l’economia non si fa a parole. Così mentre lo Stato si è approvvigionato di beni e servizi rinviando il saldo delle fatture di acquisto, l’Italia perde ogni giorno in media 107 piccole imprese al giorno. Anche oggi. Un calcolo approssimativo basato sui dati della Confesercenti che ha monitorato le cessazioni di imprese nel commercio al dettaglio. In questo comparto nei primi 8 mesi del 2014 hanno chiuso i battenti 25.760 imprenditori. Un dato che non tiene conto, a onor del vero, di quelle che hanno aperto. Ma anche in quel caso e cioè considerando il saldo, e cioè la differenza tra le nate e le cessate, i dati non sono tali da indurre all’ottimismo.

Sempre secondo la Confesercenti, infatti, questo numero tra marzo e agosto, i mesi nei quali Renzi ha preso in mano le redini del governo, è stato pari a 14.831. Tante sono quelle che sono completamente sparite nel parco complessivo di piccole imprese nei settori del commercio, della ristorazione e degli alloggi. Anche se si lavora su questa cifra, il risultato è sconfortante: nei sei mesi presi in considerazione sono scomparse 82 aziende ogni giorno. Attenzione il numero è stimato per difetto, perché questo aggregato è solo un sottoinsieme, comunque rappresentativo, del totale delle imprese italiane. Comunque le si metta le 80-100 scomparse, che risultano dai calcoli sommari, sono solo il valore di soglia più basso dal quale partire per comprendere come l’economia italiana stia avvizzendo.

Questo dunque il quadro di riferimento di fronte al dibattito che si sta innescando attorno alle somme più o meno stanziate per pagare i debiti della pubblica amministrazione. Un confronto nato dall’accusa rivolta sabato scorso dalla Cgia di Mestre a Renzi che aveva promesso, in una puntata di Porta a Porta, di saldare i conti entro il 21 settembre, San Matteo. Una promessa tradita secondo l’associazione artigiana di Mestre perché, nonostante i pagamenti effettuati nel corso del 2014, al conto finale mancano ancora 25 miliardi. Ieri Renzi ha replicato alle accuse spiegando al Tg2 che «tutti coloro che devono avere soldi dalla Pubblica amministrazione possono averli iscrivendosi al sito del ministero dell’Economia. I soldi ci sono, il 21 settembre l’impegno è stato mantenuto».

Una mezza verità perché effettivamente le disponibilità liquide nel conto corrente del ministero dell’Economia ci sono. I contanti in cassa sono saliti a 105,2 miliardi a giugno scorso contro i 92,2 di fine maggio e i 57,8 di gennaio. Una montagna di denaro presa a prestito nella prima fase dell’anno con tassi molto bassi che hanno aumentato il debito pubblico al record di 2168 miliardi, e che servono a evitare rifinanziamenti con prezzi più elevati se ripartissero le tensioni sui mercati finanziari. Ebbene questa massa di denaro, che eccede le normali necessità di pagamento dell’amministrazione, serve a saldare l’insoluto dello Stato.

Dunque è vero che i soldi ci sono, ma se continuano a restare accreditati a via XX settembre, e non passano nelle casse delle imprese è come se non ci fossero. Probabilmente ci sono degli intoppi nelle procedure per presentare la documentazione oppure molte aziende non hanno tutte le carte in regola per ottenere i loro compensi. La gran parte però attende speranzosa. E occorre fare presto. Soprattutto se, come dice Renzi, i mezzi per pagare ci sono. Un falso problema dunque confermato da Palazzo Chigi ieri sera con una nota: «Tutti i soggetti che hanno un debito verso la P.a. sono oggi – grazie all’accordo tra Governo, banche e CDP – in condizione di essere pagati». «Lo Stato – ribadisce ancora la nota – si è messo nelle condizione di pagare tutti i debiti. E dunque è corretto sostenere che la sfida di liberare risorse per pagare tutti i debiti Pa è vinta. Rimane quella di semplificare e imporre efficienza a tutta la pubblica amministrazione».

Debiti PA: è San Matteo, manca il miracolo

Debiti PA: è San Matteo, manca il miracolo

Marco Palombi – Il Fatto Quotidiano

“Se entro la fine dell`estate, diciamo il 21 settembre che è San Matteo, saranno pagati tutti i debiti della Pubblica amministrazione lei andrà a piedi da Firenze a Monte Senario”. Il 13 marzo, sulla comoda poltrona di Porta a Porta, il premier aveva fatto una scommessa con Bruno Vespa: per lui, se avesse perso, niente pellegrinaggio (“so dove mi mandano gli italiani tanto”), ma il rischio assai più rilevante di sentirsi dare del “buffone”. Oggi, come si sa, è proprio San Matteo e quindi andrà verificato intanto se il problema dei debiti commerciali pregressi della P.A. sia stato risolto e, secondariamente, dove dovrà recarsi Matteo Renzi e con che qualifica.

La Cgia, sempre attenta alle scadenze mediatiche, ieri ha fornito alcuni numeri: “Nel biennio 2013-2014 sono stati messi a disposizione 56,8 miliardi di euro e entro il 21 luglio 2014 (ultimo aggiornamento disponibile) ne sono stati pagati 26,1: alle imprese mancano 30,7 miliardi. La promessa non è stata mantenuta”. I numeri degli artigiani di Mestre, però, non coincidono con quelli del Tesoro: i soldi stanziati dai due governi precedenti – come ha riportato, sempre ieri, uno studio di Confartigianato – sono più o meno 47 miliardi e mezzo, esattamente l’indebitamento ulteriore che Mario Monti contratto a più riprese con la Commissione europea: “All’appello mancano 21,4 miliardi di euro che gli imprenditori aspettano di riscuotere – ha spiegato il presidente Giorgio Merletti -. Allo scorso 21 luglio erano stati pagati alle aziende 26,139 miliardi, pari al 55% dei 47,519 stanziati con lo Sblocca-debiti e la Legge di Stabilità 2014”. In realtà, e sempre a stare ai dati presenti sul sito del Tesoro (sempre aggiornati al 21 luglio), ai 26 miliardi che risultano pagati direttamente dalle amministrazioni coinvolte vanno aggiunti oltre sei miliardi di crediti certificati online dalle aziende e scontabili in banca secondo un decreto del governo Renzi che coinvolge anche Cassa depositi e prestiti come garante.

A quanto risulta al Fatto Quotidiano, infine, a inizio settembre il totale dei debiti commerciali complessivamente saldato dallo Stato ammontava a circa 43 miliardi, cioè quasi l’intero margine di nuovo debito concesso dalla Ue all’Italia a questo fine. Se questi dati saranno confermati, bisognerà ammettere che c’è stata una discreta accelerazione nei pagamenti durante l’ultimo anno. La cosa va peraltro di pari passo con un complessivo miglioramento dei tempi di pagamento delle fatture grazie a un lavoro impostato già dal governo Letta: i tempi di attesa medi per essere saldati – dice lo studio già citato di Confartigianato – si sono ridotti da 104 a 88 giorni (ma al Sud si aspetta fino a 108), un miglioramento anche se “siamo ben lontani dal traguardo di 30 giorni imposto dalla legge”, spiega Merletti. Per Francesco Boccia (Pd), presidente della commissione Bilancio della Camera, la situazione non è più drammatica: “Per la fine dell’anno riusciremo a pagare i debiti accumulati a fine 2012 aumentando il debito pubblico. Comunque non farei diventare questo discorso sui debiti delle P.A. oggetto del conflitto politico: abbiamo fatto abbastanza, adesso completiamo l’opera con la Legge di Stabilità”.

Il problema vero, antico come sanno i cultori della materia, è sapere di che cifre si parla, quale sia cioè lo stock dei debiti commerciali dello Stato e dunque quanto bisogna ancora pagare (anche se la formula della certificazione con sconto in banca e garanzia di Cdp porta la questione fuori dal perimetro dei conti pubblici, almeno per un po’). I tempi in cui volavano i 90 o addirittura i 120 miliardi sono finiti, ma anche le analisi più recenti basate sui dati di Banca d’Italia concordano nel fatto che la cifra è superiore allo stanziamento di 47 miliardi: anche secondo il Tesoro è probabile che la cifra, alla fine del processo, supererà i 60 miliardi complessivi. Insomma, se Renzi non si fosse impiccato come al solito alle sue promesse (“entro il 21 settembre”), stavolta gli si poteva pure concedere il risultato. E invece no: fa di tutto per farsi smentire.

Renzi non paga. Trattiamo

Renzi non paga. Trattiamo

Alessandro Sallusti – Il Giornale

Matteo Renzi ha perso la scommessa fatta in diretta tv nel salotto di Bruno Vespa, con me casuale testimone: lo Stato non è riuscito a pagare entro il 21 settembre i suoi debiti con imprese e fornitori. Mancano all’appello 35 dei 60 miliardi e poco importa se la colpa è della politica, della burocrazia o di chiunque altro. Tra le tante promesse questa era sicuramente la più importante. Altro che legge elettorale, altro che ridimensionamento del Senato o rivoluzione nella scuola. Trentacinque miliardi sono una montagna di soldi che avrebbero potuto salvare imprese e famiglie dalla morsa della crisi. Azzerare i debiti della pubblica amministrazione era e rimane la più urgente delle riforme. Se la Camusso, la Cgil e i sindacati tutti, invece che rompere i santissimi per boicottare la riforma del lavoro avessero protestato, urlato e scioperato per ottenere il pagamento dei debiti, avrebbero fatto cosa meritoria per i lavoratori e il Paese intero. Perché una cosa è certa: il lavoro lo si difende solo aiutando e proteggendo gli imprenditori, soprattutto quelli medi e piccoli. Cosa questa a cui ha rinunciato anche Confindustria, un carrozzone che negli ultimi anni, sotto la gestione di Montezemolo e della signora Marcegaglia, ha avuto colpe nella conservazione sfascista non di molto inferiori a quelle dei sindacati.

Se i destinatari dei rimborsi – in maggioranza piccole e medie imprese – fossero stati storicamente decisivi per formare il consenso elettorale della sinistra sono certo che l’impegno di Renzi a mantenere la promessa nei tempi indicati sarebbe stato ben altro. Purtroppo per loro non è così. E allora ecco la necessità che il centrodestra, che di quelle categorie è il principale referente politico, aiuti sì Renzi nella sua spallata al sindacato e in generale ai più biechi conservatorismi che ostacolano la ripresa. Ma non gratis. Chi produce beni per venderli (anche) allo Stato – così come poliziotti e carabinieri – non vale meno dei dipendenti meritevoli degli ottanta euro, degli insegnanti. Fare ostruzione sulla nomina dei membri laici della Consulta e del Csm è roba loro. Ci piacerebbe vedere presto deputati e senatori del centrodestra bloccare il Parlamento per sbloccare i 35 miliardi che mancano all’appello. Oppure appoggiare la riforma del lavoro di Renzi se unita a un decreto che sospende il pagamento degli oneri aziendali per i nuovi assunti (costo zero per l’erario). Insomma, fare – assieme a Renzi – cose liberali.

Matteo-Pinocchio: imprese ancora senza soldi

Matteo-Pinocchio: imprese ancora senza soldi

Stefano Zurlo – Il Giornale

Non siamo in alto mare, ma la riva è ancora lontana. Per arrivare a terra e trasformare l’Italia, almeno su questo lato, in un Paese normale ci vorrebbero altri 35 miliardi di euro. Trentacinque miliardi che le imprese italiane, alle prese con i morsi di una crisi che non vuol passare, aspettano dalla pubblica amministrazione. Niente da fare. Matteo Renzi ha perso la sua scommessa. Qualcosa si è mosso, metà circa dei debiti, a spanne perché pure le cifre sono ballerine e cambiano a seconda di chi le stima, è stata pagata. Ma molto, moltissimo resta da fare. E i tempi della nostra burocrazia sono migliorati ma rimangono lenti. Terribilmente lenti per chi vorrebbe misurarsi con i parametri europei: ci vogliono 165 giorni per saldare il dovuto. Troppi se si tiene a mente che la direttiva dell’Ue indica un periodo che oscilla fra i 30 e i 60 giorni per soddisfare le richieste dei creditori.

È la Cgia di Mestre, l’agguerrita associazione delle piccole imprese venete, a fare due conti e a bacchettare il premier Pinocchio. All’appello mancano almeno 35 miliardi su un totale, quello conteggiato da Bankitalia, di 75 miliardi. Siamo in realtà, considerando anche la porzione di debiti stornata e ceduta agli istituti di credito, a metà, anzi un po’ meno, dell’arduo cammino. Renzi ha illuso gli italiani. La sfida viene lanciata la scorsa primavera quando il premier si presenta nel salotto di Bruno Vespa e azzarda: «Facciamo un contratto serio. Se il 21 settembre, giorno di San Matteo, noi abbiamo sbloccato i pagamenti dei debiti della pubblica amministrazione lei va a Monte Senario a piedi da Firenze». Vespa ridacchia compiaciuto: «Se riuscite a pagare i debiti io vado in pellegrinaggio». San Matteo è arrivato, ma Matteo, fra una promessa e l’altra, non ha fatto il miracolo. Ha accorciato la distanza che separa lo Stato dalle industrie, ma la vergognosa zavorra che frena lo sviluppo è ancora lì. Fra un discorso e un comizio. I fuochi d’artificio non bastano per far guarire il malato Italia. E la Cgia aspetta al varco, sulla linea del calendario, il presidente del consiglio che non ha onorato il contratto stipulato davanti alle telecamere di Porta a porta. «Purtroppo – spiega il leader della Cgia Giuseppe Bortolussi – la promessa non è stata mantenuta».

I numeri sono impietosi: secondo i dati del ministero dell’Economia nel biennio 2013-14 sono stati messi a disposizione 56,8 miliardi. Entro il 21 luglio ne sono stati pagati 26,1. Non basta. A sentire il ministro Pier Carlo Padoan, dopo il 21 luglio la pubblica amministrazione ha versato altri 5-6 miliardi. Dunque, al momento, dovremo essere a quota 31-32. Un totale ragguardevole, ma lontano dalla meta fissata a quota 66,6. Siamo, sempre a spanne, a 35 miliardi di euro dal traguardo fissato appunto a 66,6 perché allo stock di 75 miliardi devono essere sottratti 8,4 miliardi di debiti girati dalle imprese alle banche e dunque fuori dal perimetro del mondo industriale. Certo, Renzi vedrà il bicchiere mezzo pieno, ma alla Cgia notano quel che manca: «Per azzerare complessivamente il debito accumulato con le aziende – prosegue implacabile Bortolussi – la pubblica amministrazione deve pagare, in linea di massima, ancora 35 miliardi». Il traguardo è ancora un miraggio. E Renzi a questo punto dovrebbe fare penitenza. «Se perdo io la scommessa – aveva detto a Vespa nel corso della trasmissione – potete immaginare dove mi manderanno gli italiani. Non sarà a Monte Senario».

Insomma, l’annuncite del premier rischia, col passare del tempo, di trasformarsi in un boomerang. In una somma impresentabile di sconfitte, ritardi, riforme arenate. E il malcostume non è solo un retaggio del passato. «I debiti – attacca Bortolussi – potrebbero aumentare ulteriormente a seguito del perdurare dei ritardi con cui lo Stato paga i fornitori». Siamo intorno ai 165 giorni. Meglio di prima, ma lontanissimi dalle tabelle europee. «Se in questo ambito – è la conclusione – anche le pubbliche amministrazioni di Grecia, Cipro, Serbia e Bosnia sono più efficienti della nostra, vuol dire che il lavoro da fare è ancora molto». Altro che Monte Senario.

Debiti PA, il governo manca l’obiettivo: restituiti soltanto 31 miliardi

Debiti PA, il governo manca l’obiettivo: restituiti soltanto 31 miliardi

Roberta Amoruso – Il Messaggero

L’ultimo giorno d’estate è arrivato. E Bruno Vespa può tirare un sospiro di sollievo: non dovrà andare a piedi da Firenze a Monte Senario. Perché il premier Matteo Renzi non ha mantenuto la promessa. Gli ormai famosi 57 miliardi di debiti della pubblica amministrazione non sono stati pagati fino all’ultimo euro entro il giorno di San Matteo, il 21 settembre, come aveva firmato e sottoscritto il premier, seppure soltanto a parole, nella ormai storica puntata di «Porta a Porta» del 13 marzo scorso. Non solo. Per la verità non è una questione di spiccioli. Mancano all’appello ben 26 miliardi a fronte dei 57 miliardi di risorse messi già a disposizione dai governi a fronte di debiti della Pa stimati intorno a 60 miliardi alla data del 31 dicembre 2013.

Certo, sono stati pagati più debiti della Pa di quelli rimasti ancora in sospeso visto che lo stesso ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha fatto sapere nei giorni scorsi che ai 26 miliardi di euro di debiti certificati e già pagati secondo il sito del Mef andrebbero aggiunti almeno altri 5 miliardi (per arrivare a circa 31 miliardi). Ma la promessa di Monte Senario è diventata ormai un simbolo, soprattutto perché nella stessa puntata nel salotto di Vespa lo stesso Renzi ricordava una frase storica di Walt Disney: «La differenza tra un progetto e un sogno è la data». E dunque le date contano, ricordano da Confartigianato e dalla Cgia di Mestre. Ma non perde l’occasione per un tweet anche Renato Brunetta, capogruppo Fi alla Camera: «Domani è 21 settembre (San Matteo): il Mef aggiornerà il sito? Saranno stati pagati tutti i 68 miliardi di debiti Pa promessi da Matteo Renzi?».

A questo punto sarà difficile mettere sul tavolo una nuova data. Ma fonti vicine al Mef parlano di poche settimane, forse un paio di mesi, per portare a termine un percorso già avviato anche per i restanti 26 miliardi. Una buona fetta di debiti sarebbe infatti già in fase di istruttoria. Un passaggio obbligato, questo, con un tempo di 30 giorni per le verifiche, che scatta non appena le imprese fanno domanda di certificazione dei crediti. Il punto è proprio questo infatti per il Mef. Se arriveranno in fretta tutte le richieste di certificazione, ingorghi permettendo, il saldo dei debiti arriverà. Seppure con un rinvio sulla tabella di marcia. Insomma, le risorse stanziate per gli anticipi di liquidità agli enti locali ci sono (circa 57 miliardi appunto). Ma per usufruire delle garanzie dello Stato c’è tempo fino a ottobre e molte imprese si sarebbero mosse in ritardo, a quanto pare. Di qui lo slittamento. Si spera che nel frattempo non si siano accumulati altri debiti. Ma anche su questo, il meccanismo introdotto con l’obbligo di certificazione elettronica (introdotto dal decreto 66) sembrerebbe mettere al riparo da nuovi accumuli.

Intanto, però, i conti non tornano e oltre 20 miliardi rimangono nel limbo. Secondo il presidente di Confartigianato, Giorgio Merletti, mancano all’appello 21,4, vale a dire il 55% dei 47,5 miliardi stanziati con il Dl Sblocca-Italia e con la legge di stabilità 2014, se si considera che al 21 luglio sono stati pagati alle aziende 26,1 miliardi, stando al sito del Mef. Lo stesso Merletti riconosce gli sforzi fatti negli ultimi due anni «con un calo del 15,4% dei debiti commerciali dello Stato». Ma «l’Italia rimane il Paese europeo con la più alta quota di debiti della Pa (il 3,3% del Pil)». Restano da saldare altri 24-25 miliardi, invece, secondo i conti della Cgia di Mestre che parte dai 56,8 miliardi messi a disposizione dei governi negli ultimi due anni. La cifra è sottostimata, avverte però la Cgia: se dallo stock dimensionato dalla Banca d’Italia (75 miliardi di debiti commerciali) si tolgono gli 8,4 miliardi ceduti pro soluto a intermediari finanziari, la Pa deve pagare ancora 35 miliardi».

Debiti PA, mancano all’appello oltre 20 miliardi

Debiti PA, mancano all’appello oltre 20 miliardi

Il Sole 24 Ore

Dal salotto di Porta a porta lo scorso marzo il premier Matteo Renzi aveva scommesso con il conduttore: «Il 21 settembre a San Matteo, ultimo giorno d’estate, se abbiamo sbloccato tutti i debiti della Pubblica amministrazione lei va in pellegrinaggio a piedi da Firenze a Monte Senario». Quel giorno è arrivato: Bruno Vespa può tirare un sospiro di sollievo, gli imprenditori italiani no. «La tappa del 21 settembre ci vede ancora distanti dal traguardo», nota il presidente di Confartigianato, Giorgio Merletti: all’appello mancano 21,4 miliardi di euro perché al 21 luglio sono stati pagati alle aziende 26,1 miliardi, pari al 55% dei 47,5 miliardi stanziati con il Dl Sblocca-Italia e con la legge di stabilità 2014. «La promessa non è stata mantenuta», gli fa eco Giuseppe Bertolussi, presidente della Cgia di Mestre: «Lo Stato italiano rimane il peggior pagatore d’Europa». Per la Cgia, in tutto, i fondi resi disponibili nel biennio 2013-2014 ammontano a 56,8 miliardi, ma alle aziende sono stati pagati soltanto 26,1 miliardi, più gli altri 5-6 miliardi che secondo il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, sarebbero stati versati dopo il 21 luglio. Insomma: restano da saldare altri 24-25 miliardi.

Debiti commerciali della Pa al 3,3% del Pil
Merletti riconosce gli sforzi compiuti negli ultimi due anni, «che hanno portato a un calo del 15,4% dei debiti commerciali dello Stato». Ma ricorda che «l’Italia rimane il Paese europeo con la più alta quota di debiti commerciali della Pa, pari al 3,3% del Pil.

La piattaforma per certificare i crediti sconosciuta ai più
Secondo un sondaggio Ispo-Confartigianato condotto su un campione di Pmi, il 61% non sa dell’esistenza della piattaforma governativa web che consente di certificare i crediti commerciali vantati nei confronti della Pa e farsi scontare le fatture in banca (è in virtù di questo sistema che Renzi e Padoan considerano mantenuta la promessa). Del 39% che la conosce, l’ha utilizzata il 9%, che la promuove con un voto più che sufficiente. Gli altri sono scettici sulla sua efficacia e temono che la certificazione allunghi ancora i tempi di riscossione. In cifre, le registrazioni alla piattaforma all’8 settembre risultano 15.613, aumentate al ritmo di 49 imprese al giorno dal 24 agosto. Le istanze di certificazione sono 56.189, per un importo complessivo di 6 miliardi e un importo medio di 107.762 euro.

Scendono i tempi medi di pagamento
Se sul fronte dei debiti arretrati prevale l’incertezza, va molto meglio la situazione dei tempi di pagamento della Pa. L’indagine Ispo-Confartigianato mette in luce come in media tra gennaio e settembre 2014 gli enti pubblici siano passati da 104 a 88 giorni. A sorpresa, gli enti più “virtuosi” sono le Asl che riescono a saldare le fatture in 75 giorni, rispetto ai 106 rilevati a gennaio. Più lenti i Comuni (89 giorni, contro i 104 di inizio anno). Resta peggiore in generale l’attesa al Sud, dove la pubblica amministrazione impiega 108 giorni per saldare le fatture alle imprese (erano 122 a gennaio).

Ma i 30 giorni restano una chimera
Nonostante l’accelerazione, Confartigianato rileva come la meta dei 30 giorni imposti dalla legge in vigore dal 1° gennaio 2013 resti molto lontana. Appena il 15% degli imprenditori interpellati dichiara di essere stato pagato entro un mese, mentre soltanto l’8% delle imprese sostiene di non aver ancora riscosso il credito. Sale peraltro dal 12 al 19% la quota di imprese che segnala comportamenti anomali da parte della Pa, come la richiesta di ritardare l’emissione delle fatture, la pretesa di remissione, la contestazione pretestuosa dei beni e servizi forniti.

Basta con le riforme inutili che hanno affossato l’Italia

Basta con le riforme inutili che hanno affossato l’Italia

Renato Brunetta – Il Giornale

Sarebbe ora di finirla con la retorica delle riforme. Se ne sono fatte, da Monti in poi, più di 40, e l’Italia non è mai stata peggio di così. Quaranta riforme, dunque, che non sono servite a nulla. Quaranta riforme per obbedire all’Europa. Quaranta riforme sotto il ricatto dei mercati, sotto lo sguardo attento e interessato dei giornaloni, dei poteri forti, delle alte istituzioni benedicenti. Quaranta riforme inutili, se non dannose. Quasi sempre controriforme.

“Negli ultimi 18 anni (1996-2013) l’unico periodo in cui l’Italia ha fatto meglio della media Ue è stato il 2009-2010”: governo Berlusconi. Lo scrive, in uno studio di febbraio 2014, scenarieconomici.it, un sito di analisi politica ed economica fondato a marzo 2013 da un gruppo di

ricercatori indipendenti, che, con riferimento a 6 indicatori di finanza pubblica-economia reale (Pil, disoccupazione, produzione industriale, inflazione, deficit, debito), ha messo a confronto le performance dell’Italia rispetto alla media Ue. Quello del senatore a vita, professor Monti è risultato il peggior governo per l’Italia. Seguito subito dopo dall’esecutivo Letta. Anche se non è nuovo, in tutti questi mesi lo studio non è stato ripreso da nessun giornale; nessun opinion maker italiano ne ha mai parlato, tranne poche citazioni del sottoscritto. Allo stesso modo, lo studio non è stato confutato da nessuno. Proprio perché le analisi ivi contenute poggiano su basi solide. Ma in contrasto con i luoghi comuni della sinistra e dei giornaloni dei poteri forti. E per questo da ignorare. Allora perché citiamo questo studio, ancorché non nuovo? Perché ci serve per fare una considerazione.

Se quello di Berlusconi del 2008-2011 è stato il miglior governo dal 1996 a oggi, vuol dire che le riforme fatte in quegli anni erano buone, con impatto positivo sull’economia; mentre le riforme dei governi che si sono succeduti dopo sono state spesso inutili, oppure sbagliate, con effetti nulli, oppure dannose, oppure rimaste inattuate (si pensi a tutti i decreti attuativi arretrati che l’esecutivo non riesce a smaltire), oppure controriforme. Se quello di Monti è stato il peggior governo, quindi, le sue sono state o riforme sbagliate o, peggio ancora, controriforme. Da Monti in poi, l’elenco è lungo: i due provvedimenti Fornero su mercato del lavoro e pensioni, che hanno prodotto, rispettivamente, un milione di disoccupati in più e una spesa per esodati superiore ai risparmi derivanti dall’aumento dell’età pensionabile; il blocco delle riforme Sacconi sulla contrattazione decentrata; il blocco della detassazione dei salari di produttività; il pasticciaccio brutto di Imu prima e Tasi poi con riferimento alla tassazione degli immobili (triplicata tra prima del 2011 e oggi), con grave penalizzazione dei proprietari di case e crisi dell’intero settore edilizio, trainante per l’economia; la controriforma della Pubblica amministrazione; il blocco del processo di digitalizzazione, con la controriforma del “super ministro” Corrado Passera; il blocco dell’applicazione del merito nella Pa e nella scuola; il blocco del processo di privatizzazione e liberalizzazione delle Public utilities, come è avvenuto con il referendum contro la liberalizzazione del settore idrico, voluto e sostenuto dalla sinistra a giugno 2011; fino all’abolizione della norma che cancellava il reato di immigrazione clandestina, con tutto quello che ciò comporta, e che vediamo ogni giorno. E l’elenco potrebbe continuare. Tutte non riforme o controriforme.

Tutte controriforme rispetto a provvedimenti che, proprio grazie al governo Berlusconi, di cui scenarieconomici.it riconosce i meriti, avevano collocato il nostro paese nel mainstream europeo e rispetto ai quali negli anni successivi sono state fatte clamorose marce indietro, a danno dello sviluppo e della crescita dell’economia e della società italiane. Non riforme o controriforme volute da governi (Monti e Letta) non eletti, figli dei poteri forti e del conservatorismo sociale, con la benedizione dell’allora presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso, e della tuttora imperante cancelliera tedesca, Angela Merkel. Solo e sempre in chiave antiberlusconiana. Allo stesso modo, oggi Renzi governa senza aver ricevuto un diretto mandato democratico, e senza che il suo programma sia stato validato da una vittoria elettorale alle elezioni politiche. Non riforme o controriforme tutte approvate con decreto Legge, con il consenso plaudente del Colle più alto.

Che le riforme del governo Berlusconi fossero buone lo ha persino detto la Commissione europea quando, per esempio, il 24-25 giugno 2011 espresse il suo giudizio positivo sul Def e sul Piano nazionale delle riforme presentati dal governo Berlusconi, o quando espresse giudizio favorevole su tutti gli altri provvedimenti messi in campo per far fronte alla crisi nell’estate-autunno 2011, fino all’ottima valutazione anche della lettera di impegni che il governo italiano ha inviato ai presidenti di Consiglio e Commissione europea il 26 ottobre 2011, in occasione del Consiglio europeo di quel giorno, anche in risposta alla lettera che la Banca centrale europea aveva inviato al governo italiano il precedente 5 agosto.

Ma la stessa Europa che giudicava buone le riforme Berlusconi-Sacconi sul lavoro, Berlusconi-Gelmini sulla scuola, Berlusconi-Brunetta sulla Pa, Berlusconi-Romani sulle liberalizzazioni, Berlusconi-Matteoli sulle infrastrutture non poteva giudicare altrettanto buone riforme che, dopo pochi mesi, presentate via via da governi diversi, andavano nella direzione opposta. Non basta, dunque, dire riforme: occorre entrare nel merito delle stesse. Proprio per questo, Matteo Renzi dica che la sua riforma fiscale non sarà quella che vorrebbe l’ex ministro Vincenzo Visco, ma che deriverà, invece, dalla completa implementazione, nel più breve tempo possibile, noi abbiamo detto cento giorni, perché mille non li abbiamo, della delega fiscale, che porterà alla riduzione delle tasse, come fortemente voluto dal presidente della Commissione finanze della Camera, Daniele Capezzone. Renzi dica che per il mercato del lavoro non serve l’ennesima controriforma, come vorrebbe l’ex ministro Cesare Damiano, mentre occorre riprendere il processo di decentramento della contrattazione e della detassazione dei salari di produttività, come aveva cominciato a fare l’ex ministro Sacconi, i cui meriti sono stati riconosciuti anche dalla Banca centrale europea, con riferimento all’accordo del 28 giugno 2011 con le principali sigle sindacali e le associazioni industriali, che ha trovato poi la sua definitiva realizzazione nell’articolo 8 della manovra cosiddetta “di agosto” del 2011, nonché il superamento dello Statuto dei lavoratori, con particolare riferimento all’articolo 18, e la totale decontribuzione e detassazione delle nuove assunzioni.

Su questi due punti fondamentali per l’uscita dell’Italia dalla crisi deve finire l’ambiguità del presidente Renzi e le ipocrisie di Bruxelles, che saluta positivamente qualsiasi riforma venga proposta senza entrare nel merito, purché arrivi da governi proni e supini ai suoi diktat. Ma la via delle riforme deve essere tracciata dalla Germania in casa propria: l’enorme surplus delle partite correnti in quel paese fa male all’Europa intera e impedisce agli altri paesi di rispettare le regole. Per questo la reflazione in Germania, attraverso una grande riforma fiscale che aumenti la domanda interna, è il primo passo da compiere per riportare l’Eurozona a crescere. A ciò si aggiunga un grande piano di investimenti in reti tecnologiche, di telecomunicazione, infrastrutturali, di trasporto e di sicurezza. 300 miliardi di euro, quelli proposti dal presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, che possono aumentare fino a raddoppiarsi se nel programma sarà coinvolta la Banca europea degli investimenti o si utilizzerà, solo per garanzia, l’oro eccedentario delle banche centrali nazionali. Dati i tassi di interesse al minimo storico, decisi dalla Bce di Mario Draghi giovedì scorso, il momento è straordinariamente favorevole per tutti.

New deal europeo, quindi, reflazione in Germania, riforma fiscale e del mercato del lavoro in Italia, eurobond, project bond, joint-ventures pubblico-privato. E soprattutto, basta ipocrisia o ambiguità: Renzi ha continuato la linea Monti e Letta del «decretismo» forsennato, e ne è rimasto vittima. Cambi verso. Chieda alla Germania di reflazionare, chieda che l’impianto miope ed egoista della politica economica europea, che negli anni della crisi ha distrutto l’Europa, cambi, non solo sul piano economico, ma anche su quello geopolitico. La smetta con la retorica delle riforme, un tanto al chilo, e si concentri innanzitutto su 2, semplici: fisco e mercato del lavoro. Ma nella direzione giusta. E in Europa segua il piano Draghi-Juncker: politica monetaria espansiva, riforme, investimenti e flessibilità. Ne beneficerà l’Italia, ne beneficerà l’Europa, ne beneficerà il governo, ne beneficerà Renzi. Con buona pace dei gattopardi.  

Pagamenti PA a quota 30 miliardi

Pagamenti PA a quota 30 miliardi

Carmine Fotina – Il Sole 24 Ore

Due settimane esatte al giorno di San Matteo. Si avvicina la scadenza fissata da Matteo Renzi, il 21 settembre, per smaltire la totalità dei debiti della Pa, un impegno assunto dal premier come una “scommessa” personale sei mesi fa nel corso di una puntata di Porta a Porta. Conclusa la pausa estiva, si può ora fare un bilancio generale in vista dell’ambizioso obiettivo: sia lo stato dell’arte dei pagamenti sia quello delle norme applicative risultano ancora incompleti e occorrerebbe un formidabile sforzo da sprinter per chiudere in tempo tutte le partite aperte. Al ministero dell’Economia non si fanno drammi, però, anche perché, si sottolinea, tutti i meccanismi messi in campo sono ormai funzionanti e le richieste di certificazione avanzate dalle imprese per cedere i crediti alle banche si stanno mantenendo anche al di sotto delle disponibilità. Entro due settimane si farà di nuovo il punto con tutte le parti che hanno sottoscritto a luglio un protocollo di impegni – enti debitori, banche, imprese, Cdp – e in quella sede si conta di dare una sterzata decisiva per superare l’attuale risultato: siamo intorno ai 30 miliardi già pagati ai creditori.

Le risorse pagate
Dai 90 miliardi di debiti commerciali stimati da Banca d’Italia a fine 2012 si è passati ai 75 miliardi dell’ultima relazione di via Nazionale, cifra che tuttavia includerebbe anche debiti non ancora scaduti e un’ampia zona grigia costituita dai debiti fuori bilancio e da quelli oggetto di contenzioso. Più realisticamente, secondo le valutazioni del Tesoro, la cifra da “aggredire” si avvicina ai 60 miliardi. Sommando i tre decreti che hanno stanziato risorse per i pagamenti, complessivamente sono stati messi a disposizione 56,8 miliardi dei quali 6,5 destinati a rimborsi di imposta. In attesa del prossimo dato ufficiale, l’ammontare dei debiti pagati era, al 21 luglio scorso, pari a 26,1 miliardi a fronte di 30,1 miliardi già distribuiti alle Pa perché paghino i loro debiti. La maggioranza dei crediti incassati riguarda spese di parte corrente, 7,5 miliardi sono andati invece a coprire debiti di parte capitale (spese per investimenti) e 2,5 miliardi sono stati impiegati per i rimborsi di imposta. Nel frattempo, però, secondo prime valutazioni dei tecnici, gli enti debitori avrebbero girato quasi tutte le risorse e alle imprese dunque sarebbero già affluiti circa 30 miliardi.

La cessione dei crediti
Con il recente Dl 66/2014 sono state varate misure per facilitare la cessione dei crediti certificati (solo di parte corrente) mediante la garanzia dello Stato. La Cdp, che può intervenire in ultima istanza rilevando a sua volta i crediti dalle banche, ha messo a disposizione un plafond di 10 miliardi e, al 4 settembre, con un trend in rallentamento negli ultimi 10 giorni, sono state presentate 55.684 istanze di certificazione da parte delle imprese per circa 6 miliardi. Per trasmettere la domanda di certificazione, le imprese che non lo hanno ancora fatto hanno tempo fino al 31 ottobre 2014, dunque in ogni caso oltre la scadenza del 21 settembre. E ad ogni modo, l’invio delle istanze non esaurisce l’iter in quanto le Pa debitrici hanno a loro volta ulteriori 30 giorni di tempo per certificare o fornire, in alternativa, un rifiuto accompagnato da «puntuale motivazione». Secondo prime indicazioni raccolte sul campo, non sarebbero pochi i casi di amministrazioni che stanno opponendo un diniego, più o meno ben motivato, alle imprese richiedenti. Resta intanto irrisolta la questione delle spese in conto capitale. Il pagamento di spese per investimenti (ulteriore rispetto ai 7,5 miliardi già liquidati) è infatti frenato dall’impatto che determinerebbe sul deficit e molto probabilmente bisognerà aspettare la legge di stabilità per verificare possibili coperture.

L’attuazione
Fin qui i freddi numeri. Passando all’attuazione normativa, in base alla tabella pubblicata sul sito del ministero, al momento è stato concluso l’iter di 8 provvedimenti su 14 previsti dal Dl 66. Il fondamentale decreto con le modalità per far scattare la garanzia statale sui crediti ceduti risulta «in registrazione alla Corte dei Conti». Nel frattempo, al Mef si studiano nuovi meccanismi di controllo dei tempi medi dei nuovi pagamenti, per evitare che – smaltiti gli arretrati storici – se ne formino di nuovi: in arrivo sanzioni severe per gli enti ritardatari.