tasse

Congiura italiana del silenzio sul FACTA

Congiura italiana del silenzio sul FACTA

Giuseppe Pennisi – Formiche

In queste settimane, uno dei temi caldi sulla stampa internazionale riguarda gli effetti del FATCA (Foreign Account Tax Compliance Act), una norma americana recepita dall’Italia l’estate scorsa sugli intermediari finanziari, sulle famiglie e sugli individui. Due importanti columnist del ‘Project syndacate’, appena effettuati i loro adempimenti con il FATCA, sono andati ai più vicini consolati americani a rinunciare alla loro nazionalità americana (diventando uno tedesco e uno francese, le nazionalità dei coniugi). I consolati americani hanno aumentato da 400 a 3250 euro la fee (tassa) per rinunciare alla cittadinanza.

In Canada, dove la doppia cittadinanza è frequentissima, si è addirittura costituito un partito con il programma di forzare il Governo di uscire dall’Intergovernmental Agreement con cui è stato recepito il FATCA. Gli americani residenti nei Paesi OCSE hanno dato vita ad un’associazione perché siano gli organi dell’organizzazione a far sì che gli Stati Uniti applichino, come tutti, il principio dell’imposizione tributaria sulla base delle ‘residenza’ non della ‘cittadinanza’. Non solo: oggi se ci si rivolge a qualsiasi istituzione finanziaria italiana per acquistare quote di un fondo comune d’investimento, si deve compilare un complesso modulo per certificare che non si è, e non si è mai stati, cittadini americani, e – ove lo si sia stati – occorre esibire copia autenticata dell’atto di rinuncia quale accettato dall’Amministrazione Usa.

Infine, alcuni correntisti italiani stanno ricevendo lettere di disdetta dei loro conto correnti da banche, di cui sono stati clienti per decenni, perché ci sono ‘forti indizi’ di cittadinanza americana. Si tratta spesso di figli di italiani che, dopo un periodo di espatrio, sono rientrati in Patria, di vedovi o vedovi di americani, di persone nate quasi “per caso” negli Usa in quanto figli di diplomatici, funzionari internazionali, italiani che hanno lavorato per periodi più o meno lunghi all’estero.

Cosa è il FATCA? Non è questa la sede per entrare nei dettagli tecnico-tributari. Come scrisse mirabilmente Paul Streeten in un saggio nel lontano 1986 è il frutto della ‘legge del racket’ in base alla quale una buona idea finisce nelle mani delle persone sbagliate e ne creano un incubo burocratico per i propri fini. FATCA nasce da una buona idea: tentare di limitare il riciclaggio e far sì contemporaneamente che i milioni di cittadini americani (spesso inconsapevoli di esserlo) adempiano ai loro obblighi tributari nei confronti degli USA. Su questa buona idea, si sono inserite due componenti: la lobby dei ‘mutual funds’ americani per impedire che i cittadini americani investano in ‘fondi comuni’ esteri, od in mutual funds Usa che operano anche con titoli stranieri, e il desiderio dell’Internal Revenue Service (IRS), l’Agenzia delle Entrate americana di espandere il proprio tentacolare organico. Il tutto è stato condito di una buona dose di populismo.

In estrema sintesi, tutti gli intermediari finanziari devono consegnare all’IRS, tramite le agenzie tributarie nazionali, tutti i dati sui conti di deposito di cittadini americani, anche quelli cointestati con non americani. Un costo enorme per gli intermediari. Ancora maggiore, però, quello che pesa sugli intermediari finanziari (e sui singoli sia individui sia famiglie sia imprese) se gli americani residenti all’estero vogliono mettersi in regola tramite un percorso speciale definito nel FATCA; occorre infatti presentare, per gli ultimi sei anni, i movimenti (spesso quotidiani) di ciascun titolo all’interno di ciascun comparto di mutual fund americano o straniare al fine di determinare capitale,
dividendo o interesse. Un lavoro mostruoso.

Teoricamente, dovrebbe servire all’IRS a determinare se l’imposta sull’aumento di capitale (che negli Usa aveva, sino ad un anno fa, aliquote più alte che in numerosi Paesi OCSE) deve essere conguagliata. Per l’imposta sui redditi,i trattati sulla doppia tassazione fanno sì che unicamente in rarissimi casi ci saranno compensazioni da fare. Quindi molto lavoro per un piccolo gruppo di fiscalisti specializzati in questa materia. Un costo pesantissimo per le istituzioni finanziarie, per gli individui e per le famiglie.

Ci sono alternative migliori e più semplici (nonché meno onerose) per raggiungere i medesimi obiettivi tanto che negli Usa il Partito Repubblicano sta lavorando alla sostituzione del FATCA; con un altro strumento legislativo. Il punto di fondo è perché in Italia non c’è stato il débat publique prima di recepire l’accordo e perché oggi non se parla e non si mettono le strutture pubbliche in condizioni di aiutare individui, famiglie ed imprese? Tanto più che c’è un aspetto molto grave: una legge straniera cambia regole italiane per cittadini italiani e discrimina nei confronti di cittadini italiani come in altri tempi venne fatto nei confronti degli italiani.

Il diluvio fiscale

Il diluvio fiscale

Il Foglio

Ieri proprietari e inquilini hanno pagato la seconda rata dell’Imu sulle seconde case e sugli immobili in affitto (o sfitti ma abitabili) e la Tasi sull’abitazione principale. Se hanno la partita Iva hanno pagato la rata in scadenza, mentre entro il 29 dicembre verseranno l’acconto per il periodo seguente. Da poco hanno pagato il conguaglio dell’Irpef. Insomma sono tempi di diluvio fiscale. Il ministero dell’Economia si attende un gettito di 23,7 miliardi per quest’anno derivante soltanto dalle tasse sugli immobili (Imu più Tasi). Quest’ultima è la porzione più onerosa perché si aggiunge a una imposta personale sul reddito che ha una pressione che si colloca al vertice di quelle della zona euro.

In questo quadro, c’è quantomeno la necessità di rendere semplice, chiaro e certo l’onere tributario. Attualmente fra Imu e Tasi ci sono quattro pagamenti semestrali, due di acconto e due a conguaglio, con aliquote incerte e complicate. L’introduzione di una local tax, con l’accorpamento di Imu e Tasi entro il 2015, è stata rimandata: la legge di stabilità ha congelato le forchette delle aliquote dei due tributi, ma ciò non scongiura nuovi aumenti. Infatti potranno deciderli i Comuni che non hanno ancora adottato le aliquote massime. La crisi dell’industria delle costruzioni deriva in buona parte dall’aumento della pressione fiscale immobiliare in un periodo già critico. Il gettito che inizialmente doveva essere destinato alla riduzione del disavanzo fiscale del bilancio pubblico complessivo ora è tutto destinato alla finanza municipale. E ciò concorre spesso a sostenere una spesa comunale troppo elevata in relazione ai servizi resi quotidianamente ai cittadini.

L’incubo del tax-day e il fisco da cambiare

L’incubo del tax-day e il fisco da cambiare

Salvatore Padula – Il Sole 24 Ore

Il tax-day delle imposte sugli immobili – entro oggi almeno 30 milioni di proprietari e inquilini devono chiudere i conti con il saldo di Imu e Tasi per il 2014 – restituisce l’istantanea di una delle stagioni più buie del nostro sistema fiscale. Una stagione di caos e grandi complicazioni che non sta risparmiando nessuno e che purtroppo ripropone il vecchio copione dell’ingorgo di scadenze e di versamenti, delle norme retroattive, delle proroghe sul filo di lana, dei controlli di fine anno, redditometro compreso. Una stagione anche di grandi aspettative, che purtroppo, per l’ennesima volta, conferma quanto sia ancora lungo il cammino verso quel “fisco dal volto umano” che continua ad affermarsi solo tra i buoni propositi, con una riforma fiscale che fatica a trovare lo slancio per la sua effettiva attuazione e un livello del prelievo, tra balzelli vecchi e nuovi, che non accenna affatto a diminuire.

La vicenda delle tasse sulla casa è, in questo senso, emblematica. E concentra al suo interno proprio due tra i principali peccati originali del sistema: complicazioni, da un lato; pressione fiscale elevata, dall’altro. Molti contribuenti, in queste ore, hanno toccato con mano non solo che le tasse immobiliari sono più pesanti rispetto al passato ma anche che le difficoltà per trovare aliquote, eventuali esenzioni o detrazioni, codici tributo, modelli per i pagamenti ecc ecc., sono ancor più insidiose dello scorso anno (quando in molti avevano giustamente pensato di aver toccato il fondo). La stessa Rossella Orlandi, durante una delle sue prime uscite pubbliche dopo la nomina alla guida dell’agenzia delle Entrate la scorsa estate, confessò candidamente di aver impiegato un intero pomeriggio per capire come calcolare l’Imu della sua abitazione. Benvenuta tra noi, verrebbe da dire al direttore delle Entrate. Benvenuta tra chi ogni giorno deve fare i conti non solo con il peso del fisco ma anche con le sue regole non sempre trasparenti, con i suoi criteri non sempre limpidi, tanto per non voler infierire. E qui non stiamo più parlando solo di tasse immobiliari. Gli operatori, le imprese, i professionisti sanno bene a quali acrobazie li costringa il fisco, al di là dell’Imu e della Tasi. È appena arrivato un decreto sulle semplificazioni che, a sentire gli addetti ai lavori, risolve solo una parte infinitesimale delle quotidiane difficoltà tributarie. Per il resto poco è cambiato.

Certo, i problemi non finiscono qui. Nonostante le promesse, il nostro paese continua ad avere un sistema fiscale poco orientato alla crescita, che non premia chi investe e chi scommette sull’innovazione e sulla ricerca. È un sistema dove persino il contenzioso tributario non brilla certo per trasparenza e dove manca una reale parità in giudizio tra amministrazione e contribuenti. Il tutto appesantito da livelli di prelievo sempre più insostenibili, con una pressione fiscale sul Pil che raggiunge il 44%, che supera il 50% se si esclude l’economia sommersa (che per definizione non paga tasse) e che totalizza un prelievo reale sulle Pmi pari a 68 euro ogni 100 euro di utili. Sono numeri che conosciamo bene ma che vale sempre la pena di ricordare.

Se questa è la fotografia, che cosa dobbiamo aspettarci per il 2015? Sulla casa, come sappiamo, c’è poco da stare allegri. Il 2015 riproporrà il binomio Imu-Tasi (la local tax sembra destinata a slittare al 2016) e con esso tutte le criticità che abbiamo visto in questi mesi. Con il rischio che nei prossimi mesi si ripresenterà il copione che ha portato alla lievitazione delle tasse locali, con il governo che taglia le risorse ai sindaci e i sindaci che alle riduzioni di spesa rispondono con l’aumento di tasse e tariffe, vuoi per comodità vuoi per effettiva impossibilità a comprimere ulteriormente le spese. Qualche buona notizia arriverà con la legge di stabilità che potrà offrire una prima boccata d’ossigeno alle imprese, grazie al taglio della componente lavoro dall’Irap, e con la conferma del bonus da 80 euro per i dipendenti con reddito medio basso. Ma certamente con maggiore coraggio sui tagli alla spesa i risultati avrebbero potuto essere ben altri.

Sullo sfondo, resta il complicato cammino della delega fiscale. Ieri, su questo giornale, abbiamo messo in luce come a 100 giorni dal termine per l’attuazione della legge delega, i lavori stiano procedendo davvero a rilento (tra l’altro, in un paese in cui si proroga tutto, non sarebbe certo uno scandalo una norma finalizzata a dare più tempo al governo per emanare i decreti legislativi per la riforma, come hanno proposto alcuni parlamentari, tra i quali anche il presidente della commissione Finanze della Camera, Daniele Capezzone). L’attuazione della delega non cambierà probabilmente il volto (e il peso) del nostro sistema fiscale. Ma condurla in porto sarà comunque un segnale importante che, una volta tanto, sarebbe bene non farsi sfuggire.

Le false vittorie del governo

Le false vittorie del governo

Davide Giacalone – Libero

44 miliardi escono oggi dalle tasche degli italiani e si lanciano nel dirupo delle casse erariali. A salutare il loro precipitare hanno trovato la fanfara di due annunci: nel 2015 non aumenteranno né le tasse sulla casa né il canone Rai. Ma non basta, perché ad accompagnare il volo c’è anche un fatto: solo il 15% della delega fiscale ha fin qui trovato attuazione, scadendo il prossimo 27 marzo. E fra le cose che si dicono imminenti c’è 1’ennesima ridefinizione dell’abuso di diritto. Che è uno strazio del diritto.

Andiamo con ordine. Le imposte legate alla casa non aumenteranno. Che bello. La verità è più prosaica: il governo aveva annunciato che il 2015 sarebbe stato l’anno della “local tax”, sicché una sola tassa che le avrebbe ricomprese tutte, e invece s’è arreso, lasciando tutto com’è. Questa è la notizia. E veniamo al canone Rai: non aumenterà. Evviva. Scusate, ma non doveva dimezzarsi? L’annuncio era: si pagherà la metà e lo si farà con la bolletta elettrica. La notizia è che l’operazione governativa è abortita. Tutto il capitolo della semplificazione fiscale, del resto, dovrebbe essere compitato entro la fine di marzo, dando attuazione alla delega fiscale. Fin qui siamo a carissimo amico.

Dicono in arrivo la parte relativa all’abuso di diritto. Leggo le anticipazioni e inorridisco. Dunque: non sarebbe più reato, ma il fisco può continuare a contestare non violazioni della legge, non evasioni fiscali, ma elusioni fondate sull’applicazione della legge. Non ha alcun senso supporre che il rispetto di una legge possa essere un abuso. Se lo è, ciò discende dal fatto che la legge è scritta male. La riscrivano. Comunque: equiparato all’elusione, l’abuso continuerà ad essere contestato. A quel punto il contribuente dovrà dimostrare di avere agito con finalità non malevole. Quindi: il fisco contesta e il contribuente deve dimostrare di non essere in peccato. Manco il tribunale dell’inquisizione. Il contribuente, però, può prevenire il problema: quando dovrà applicare una legge, potendo scegliere fra quella e un’altra, potrà evitare d’incorrere in tentazione chiedendo prima al fisco cosa sua signoria suggerisce di fare. Appena oltre il confine, se scegli con attenzione, si paga meno ed è tutto più semplice. Se vai in Lussemburgo al funzionario non chiedi quale leggi applicare, ma tratti quale aliquota ti applica, se vai a fargli compagnia. Ecco, se siete di buon carattere, diciamo che tali notizie potrebbero allietarvi le feste, strappando un sorriso. Se già malmostosi, c’è solo da sperare che vi distraiate.

Fisco, la fabbrica delle complicazioni

Fisco, la fabbrica delle complicazioni

Paolo Baroni – La Stampa

La fabbrica delle regole e delle complicazioni non si ferma mai. Nonostante gli sforzi del governo, che finalmente iniziano a dare i primi frutti, soprattutto grazie all’operazione del 730 precompilato a domicilio, la pressione burocratica sulle imprese non accenna a scendere. È una vera tela di Penelope: dal 2008 ad oggi, per una norma che semplifica ne sono state emanate 4,3 che complicano la gestione degli adempimenti tributari. È vero che nel 2014 il ritmo delle complicazioni fiscali è rallentato, ma la strada si presenta ancora tutta in salita. Anche perché l’attuazione della delega fiscale, a nove mesi dalla sua approvazione, è in fortissimo ritardo.

I primi 272 giorni di Renzi
Fino ad oggi il governo Renzi, esclusa la legge di Stabilità ancora in fase di costruzione, ha emanato 8 provvedimenti con 87 norme di carattere fiscale di cui 26 (29,9% del totale) semplificano, 12 (13,8%) sono neutre e ben 49 (56,3%) hanno impatto burocratico sulle imprese. II saldo rimane così ancora una volta positivo anche se diminuisce rispetto al passato. Le norme che semplificano sono pressoché interamente concentrate (25 su 26) nel decreto legislativo sulle dichiarazioni precompilate. Negli ultimi 6 anni, il 61% delle 703 nuove norme ha aumentato i costi burocratici. In pratica il fisco si è complicato alla velocità di 1 norma alla settimana.

Il Burofisco Index
Per misurare l’impatto della burocrazia fiscale Confartigianato ha inaugurato il Burofisco Index che sintetizza il saldo tra le norme che semplificano e quelle che complicano la vita degli imprenditori. Nel 2014 l’indice di impatto burocratico ha registrato il calo più vistoso dal 2009, posizionandosi a quota +24, con una diminuzione drastica rispetto al +93 del 2013. «Le nostre rilevazioni – commenta Giorgio Merletti, presidente di Confartigianato – indicano qualche miglioramento, ma siamo ben lontani da un fisco a burocrazia zero per le imprese». «La delega fiscale è inattuata per l’80-90% – spiega Daniele Capezzone (Fi), presidente della Commissione finanze della Camera -. I1 governo, tranne eccezioni individuali, non ne ha affatto compreso il valore strategico. Possibile che nell’attuazione della delega creda di più il rappresentante dell’opposizione, cioè io, che ne sono stato l’estensore ed il relatore, piuttosto che il governo che l’ha ricevuta in regalo?». Secondo Merletti «la strada è ancora lunga. Oltre a snellire gli adempimenti, occorre anche riordinare i regimi contabili semplificati, come previsto dalla delega». Ciò significherebbe incidere sulle modalità di tenuta della contabilità di ben 2.200.000 aziende, tra ditte individuali e società di persone, pari all’80% del totale. Il restante 20% di imprese ò interessato dall’applicazione della nuova Iri (Imposta Reddito Imprenditoriale) anch’essa prevista dalla delega fiscale. «Un primo passo è stato compiuto nella legge di stabilità con il nuovo regime forfettario. Ma è insufficiente – insiste Merletti – perché pur semplificando gli adempimenti, l’esiguo tetto dei ricavi previsti rischia di vanificare l’impianto complessivo della norma». Intanto però a marzo la delega scade, col rischio di invalidare la riforma. Per evitare il peggio Capezzone annuncia di aver «già presentato una proposta di legge per prorogare di 8 mesi la scadenza».

Sempre più complicazioni
La tendenza alla crescita della pressione burocratica sulle imprese in Italia resta sempre molto alta. Secondo l’analisi effettuata dalla Direzione politiche fiscali di Confartigianato sui 47 provvedimenti emanati nell’arco dei 2.397 giorni che intercorrono nell’arco delle ultime due legislature, scaturiscono 703 norme fiscali: di queste ben 427 complicano e appena 98 semplificano. In prati- ca nell’arco degli oltre sei anni il Fisco si complica alla velocità di 1 norma alla settimana (7,3 giorni).

A passo di gambero
Il problema è dato dalla relativa scarsità delle norme di reale semplificazione: appena 96 su 691 (il 13,9% del totale) nei 6 anni esaminati. Di qui l’effetto tela di Penelope. Dei 47 provvedimenti esaminati solo 15 (31,9%) contengono almeno una norma di semplificazione, ma solo in 2 casi c’è un intervento di alleggerimento pieno: si tratta del decreto legislativo sulle dichiarazioni precompilate (saldo impatto burocratico -22) e il Dl70 del 2011 (-19). Risultato: gli imprenditori italiani impiegano 269 ore l’anno per pagare le tasse, il 53,3% in più rispetto alla media del PaEsi dell’Ocse. Il nostro Paese, secondo il Doing business 2015 della Banca Mondiale, si colloca al 122° posto nella classifica di 189 nazioni del mondo. Una impresa in Regno Unito ne impiega invece 159 in meno, il “vantaggio burocratico” è di 132 ore in Francia, di 102 ore in Spagna e di 51 ore in Germania. E anche questo dovrebbe essere uno spread che bisognerebbe puntare a ridurre.

Strangolati dalle tasse

Strangolati dalle tasse

Giancarlo Mazzuca – Il Giorno

Ha un nome quasi impronunciabile e incomprensibile, Alvin Rabushka, il guru americano capace di riannodare il dialogo nel centrodestra tra Lega e Forza Italia, ma ha le idee chiarissime. Già consulente di Reagan, l’economista americano è l’uomo della “flat tax” o tassa piatta: un’unica aliquota fiscale al 20% che avrebbe due grandi pregi: semplificare di molto il quadro fiscale – proprio in questi giorni gli italiani sono impegnati nella difficile corsa ad ostacoli per mettersi in riga con le scadenze di fine anno, nel “tax day” del 16 dicembre – e alleggerire il peso dell’imposizione che sta strozzando la nostra economia. Perché, come ci snocciola al telefono Maria Stella Gelmini, coordinatrice lombarda di Forza Italia, la tassazione ha raggiunto nel 2014 il 44% con un carico medio annuo, per ogni famiglia, di quasi 15.330 euro. Detta così, la “flat tax” sembrerebbe la scoperta dell ‘uovo di Colombo e non è un caso che ad avanzarla sia stata una testa d’uovo come Rabushka che ne ha parlato, l’altra sera ad Arcore, con Berlusconi e Salvini che ieri ha presentato il progetto in pompa magna.

La proposta, in realtà, era già stata elaborata, vent’anni fa, dal professor Antonio Martino che non era riuscito, peraltro, a portarla avanti. Oggi la situazione appare completamente cambiata: il cappio si e stretto in maniera insostenibile al collo degli italiani – senza considerare i guasti dell’euro, un’altra palla al piede – e, quindi, bisogna che il governo Renzi si muova subito perché anche i tempi supplementari sono scaduti. Il problema è che la “tax flat” non è certamente a costo zero. Se ha l’innegabile vantaggio di togliere gli italiani dal labirinto dei balzelli, che sono ormai una specie di “puzzle” impazzito, e il Fisco in parte restituisce, con una mano, agli italiani, quanto, con l’altra, ha sottratto in questi anni, come si riesce a far quadrare il cerchio? Per il semplice motivo che la tassa piatta taglia troppo drasticamente le entrate fiscali dello Stato (qualcuno parla di 100 miliardi): in una situazione di gravissima crisi economica, come sarà possibile rispettare i parametri europei o, ancora peggio, evitare di finire nel baratro assieme alla Grecia?

Provo, timidamente, a ricordare una possibile via d’uscita che già altri hanno indicato: bisognerebbe che l’articolo 81 della Costituzione tornasse sui suoi passi nella versione “statu quo ante ”: se oggi, per rispettare i vincoli di bilancio, è praticabile la sola strada dell’aumento dell’imposizione fiscale cosa succederebbe, invece, se per restare nei parametri si puntasse esclusivamente sui tagli di spesa? Intanto, nel centrodestra, sono cominciate le prove di dialogo ed è già qualcosa.

Serve efficienza e meno imposte

Serve efficienza e meno imposte

Raffaello Lupi – Il Tempo

Il tax day di metà dicembre della tassazione immobiliare c’è da anni, ma è diventato intollerabile per una serie di fattori concomitanti. Agli inasprimenti del governo Monti si sono infatti aggiunte la crisi economica, la diminuzione dei valori immobiliari, la difficoltà di trovare inquilini affidabili, la diminuzione dei redditi familiari, sempre meno in grado di fronteggiare le spese fisse immobiliari, come il condominio, le utenze, le riparazioni. Per questo appare assurdo l’aumento automatico delle tasse comunali sugli immobili per controbilanciare i tagli dei trasferimenti dello Stato ai Comuni. Tagliare dalla porta (statale) e tassare dalla finestra comunale contraddice la diffusa percezione sociale degli sprechi nei bilanci comunali, confermata dai recenti scandali romani. Gli stessi Comuni sono le entità più qualificate per individuare e ridurre questi sprechi, senza ripararsi dietro il fantomatico ricatto di «tagliare i servizi».

Dietro tante spese comunali non ci sono affatto servizi, ma uffici con spese per affitti, utenze e personale, di cui non si capisce esattamente l’efficienza, in un pozzo senza fondo che «si auto-produce», e dove ci sono ampi margini per fare lo stesso con meno spesa. La domanda sociale di razionalizzare la spesa comunale non può essere elusa con aumenti di tributi. È un obiettivo raggiungibile solo con assunzione di responsabilità degli amministratori e con la loro disponibilità ad un rischio calcolato. Tante spese inutili infatti servono solo a coprire le spalle ai responsabili nell’ipotesi che qualcosa dovesse andare storto. In quest’ipotesi è importante che la pubblica opinione, e i mezzi di informazione, sostengano chi si assume qualche rischio in nome dell’efficienza.

Fisco, la guerra dell’origano

Fisco, la guerra dell’origano

Andrea Bassi – Il Messaggero

Sono ormai mesi che in Parla- mento se ne discute. Interrogazioni, interpellanze e, ora, finalmente, l’annosa questione potrebbe essere risolta con un bell’emendamento alla manovra finanziaria. Il complicato quesito al quale il mondo politico ha deciso finalmente di dare una risposta definitiva e certa, è se la legge deve essere uguale per tutte. Sì, non per tutti, perché non di cittadini si parla, ma delle erbe aromatiche. Se è giusto, insomma, che il basilico, il rosmarino, la salvia e l’origano paghino tutti le stesse tasse. O se invece qualche erba, a voler scomodare la Fattoria degli animali di George Orwell, è più uguale delle altre. Già, perché quando il Fisco ci si mette riesce a fare discriminazioni pure nella padella. Il tartassato, nel caso, è l’origano, una delle erbe aromatiche, spiega Wikipedia, «più utilizzate nella cucina mediterranea, in virtù del suo intenso e stimolante profumo».

Sarà pure, ma per il Fisco l’origano è roba indigesta. Se la salvia, il rosmarino e il basilico pagano un’aliquota Iva del 4%, l’origano deve pagare il 22%. Perché? Perché secondo un’interpretazione dell’Agenzia delle Entrate, «pur convenendo che da un punto di vista tecnico-merceologico, appartiene alla stessa voce doganale di basilico, rosmarino e salvia, non essendo l`origano letteralmente menzionato dal legislatore al citato numero 12-bis della tabella A, alle cessioni di questo prodotto immesso sul mercato in buste sigillato a rametti o sgranato, si deve applicare l’aliquota Iva ordinaria».

Non fa una piega. Certo, qualcuno poi potrebbe chiedersi come potrebbe fare il Fisco a tassare l’origano quando finisce in qualche confezione di erbe aromatiche miste, magari usando qualche cane molecolare. Ma tant’è: l’origano la deve pagare (l’Iva, ovviamente). Niente paura, però. In soccorso della bistrattata erba aromatica sono giunte due senatrici del Pd, Leana Pignedoli e Venera Padua. Il loro emendamento punta a riportare la giustizia nel mondo dei condimenti: anche l’origano, dicono, deve avere l’Iva agevolata. Peccato che nel loro slancio riparatore abbiano finito per fare un mezzo pasticcio. La tassa per l’origano, proposta dall’emendamento, è del 6%, un’aliquota Iva che non esiste. E comunque due punti superiore a quella di salvia e basilico. L’origano, insomma, è sempre il meno uguale dei condimenti.

Il fisco è al top in Italia

Il fisco è al top in Italia

Tancredi Cerne – Italia Oggi

In Italia scendono le tasse ma il Paese si mantiene quinto al mondo per pressione fiscale. A levare i veli sulla radiografia del sistema tributario della Penisola è stata l’Ocse che ha messo a confronto il sistema di riscossione dei tributi nelle principali economie del Pianeta. In base ai risultati, il peso delle tasse nella Penisola, misurato come rapporto tra entrate fiscali e pil, lo scorso anno è lievemente calato rispetto al 2012 portandosi al 42,6% dal 42,7%. E questo, in controtendenza rispetto a molti Paesi che hanno giocato sulla leva fiscale per aumentare le entrate in momenti di crisi. Come avvenuto in Portogallo, dove il governo, nell’ultimo anno, ha alzato le imposte del 2,2%. O la Turchia, che ha fatto lievitare le tasse dell’1,7%. La modesta contrazione del carico fiscale italiano non ha consentito, tuttavia, alla Penisola di smarcarsi dal triste primato di quinto Paese al mondo per pressione fiscale. Peggio dello Stivale, soltanto la Danimarca, in cima alla classifica dell’Ocse per pressione fiscale con il 48,8% del pil, seguita dalla Francia (45%), dal Belgio (44,6%) e dalla Finlandia (44%). Le cose sembrano andare molto meglio in Germania (36,7%), nel Regno Unito (32,9%) e in Spagna (32,6%). Per non parlare degli Stati Uniti che con il 25,4% di pressione fiscale risultano uno dei Paesi meno tartassati dal Fisco.

Entrando più nel dettaglio, le entrate fiscali italiane, secondo l’analisi dell’Ocse, sarebbero costituite per il 27% da proventi delle imposte sul reddito delle persone fisiche, oltre a un 7% legato alle tasse sui profitti delle aziende, un 30% derivante dai contributi sociali e previdenziali, e un ulteriore 6% generato dalle tasse sugli immobili. A questo si aggiunga un 26% legato alle tasse sui consumi di beni e servizi e un 4% da altri provvedimenti fiscali. Al di là della classifica sulla pressione fiscale, gli esperti di Parigi hanno lanciato un allarme sulla capacità di raccolta dell’imposta sul valore aggiunto da parte delle autorità fiscali della Penisola. «L’Italia ha un tasso di Iva superiore alla media dei Paesi Ocse, ma è tra i meno efficienti in materia di performance del sistema», si legge nel rapporto. «Oggi l’Iva si attesta al 22%, contro una media Ocse del 19,1 per cento. Ma l’indice di efficacia del sistema di raccolta (che misura il divario tra le entrate effettive legate all’Iva e quelle che sarebbero teoricamente generate da un’applicazione del tasso di Iva normale alla totalità dei consumi nazionali) è fermo a 0,38, quasi 0,2 punti sotto la media, per l’effetto combinato di esenzioni e Iva agevolata da un lato, e di evasione e frode dall’altro». Risultato, in Italia i proventi dell’Iva rappresentano solo il 13,8% del totale delle entrate fiscali, contro una media Ocse del 19,5%.