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Riforme economiche a passo di carica

Riforme economiche a passo di carica

Stefano Micossi – Corriere della Sera

Caro direttore, è chiaro a tutti che l’agenda del governo debba ora concentrarsi sulla realizzazione dell’ambizioso programma di riforme economiche annunciato al momento della sua costituzione – si può sperare, con lo stesso passo di carica adottato per le riforme costituzionali in Senato. La partita si vince o si perde con la nuova Legge di stabilità (il bilancio 2015-2017) e i1 Jobs Act. Su questo, la discussione in corso non mi sembra sempre sufficientemente lucida.

In primo luogo, meglio prendere atto che non vi sono margini nel bilancio pubblico per un sostegno significativo della domanda; continuare a parlarne è una perdita di tempo. Va anche ricordato, però, che il bonus in busta di 80 euro, le misure già adottate per sbloccare i pagamenti arretrati delle amministrazioni pubbliche e quelle in gestazione per sbloccare i cantieri, spendendo quel che già è stato stanziato, implicano una spinta notevole all’economia, che certamente inizierà a manifestarsi con intensità crescente a partire dall’autunno.

In secondo luogo, la discussione sulla Legge di stabilità dovrebbe riferirsi ai dati reali: i tagli di spesa programmati, o sperati, dalla spending review – per ricordare, 17 miliardi entro il 2015, 34 miliardi a regime – sono già quasi interamente impegnati. Infatti, il govemo eredita dai predecessori circa 16 miliardi di aumenti di spese e riduzioni di entrata non coperti, ai quali occorre aggiungerne altri dieci per la copertura permanente del bonus e, con ogni probabilità, qualche altro millardo per restituire la Robin tax tremontiana sui petrolieri (che la Corte costituzionale si appresta a dichiarare contraria alla Costituzione). Quel poco che avanza, andrà destinato al miglioramento del saldo strutturale di bilancio. Dunque, da qui non può venire neanche un penny per abbattere il cuneo fiscale: la spending review non libera risorse, serve solo per evitare maggiori tasse per risorse già distribuite.

Le risorse per ridurre il cuneo fiscale nella misura necessaria – due punti percentuali di Pil, come recentemente suggerito anclie sulle colonne del Corriere – non possono allora che venire da una riforma fiscale che sposti i carichi d’imposta verso le imposte indirette, attraverso la graduale convergenza (su un arco pluriennale) di tutte le aliquote dell’Iva verso l’aliquota ordinaria (22 per cento). Essa richiede, naturalmente, di cornpensare i nuclei famigliari meno abbienti con trasferimenti diretti di reddito i quali, trattandosi di persone che non compilano la dichiarazione dei redditi, possono essere realizzati attraverso l’lnps. L’aumento dell’lva produrrà due ulteriori effetti benefici: farà salire l’inflazione, pericolosamente vicina allo zero, e migliorerà la competitiviltà di prezzo dei nostri prodotti sul mercato domestico (una specie di svalutazione fiscale). Si tratta di una delle riforme che le istituzioni europee ci chiedono da tempo; la Legge di stabilità è lo strumento giusto per realizzarla.

Poi viene il Jobs Act. Con le regole attuali, assumere, gestire il rapporto di lavoro e licenziare è troppo complicato; il precariato e i bassi tassi di occupazione ne sono la diretta conseguenza. Serve un contratto di lavoro nuovo, molto libero a meno di poche garanzie fondamentali, nel quale durata e principali condizioni siano fissate liberamente tra le parti. L’idea che la riforma si risolva in una vacanza temporanea dalle regole attuali è stupida e autolesionistica. Inoltre, la riforma sarebbe monca se non si accelerasse la piena attuazione al meccanismo dell’Aspi, introdotto dal governo Monti, e non si iniziasse fin d’ora ad utilizzare i contratti di ricollocamento per superare il barocco sistema della cassa integrazione straordinaria e in deroga e muovere con decisione verso il nuovo sistema di flexi-security. Anche qui servono risorse, forse fino a due punti percentuali di Pil: possono venire in parte dallo smantellamento dei sostegni attuali alla disoccupazjone, in parte dai fondi strutturali, come da ternpo va suggerendo anche Tito Boeri.

Ecco, questo è il carnet impegnativo, ma non impossibile, con il quale il presidente del Consiglio potrebbe presentarsi in Europa quest’autunno: argomentando, allora sì con credibilità, che di nuove manovre correttive non se ne parla, né per il disavanzo né per il rientro dal debito, fino a che l’economia non avrà ripreso a crescere.

Renzi annuncia l’impossibile: attuare un decreto al giorno

Renzi annuncia l’impossibile: attuare un decreto al giorno

Stefano Sansonetti – La Notizia

Chissà cosa ne pensa Angela Merkel. L’impressione è che il tradizionale scetticismo tedesco, a proposito dell’ “italica” capacità di attuare le riforme, di fronte a certi numeri potrebbe moltiplicarsi all’infinito. Nella presentazione del programma dei “mille giorni”, effettuata ieri dal premier Matteo Renzi con il solito profluvio di parole enfatiche, c’è una cifra a dir poco utopistica. Di fatto, pur senza dirlo apertamente, il governo ha fatto capire di voler attuare una media di 0,7 decreti al giorno fino all’estate del 2017. Tabella di marcia possibile? Il fatto è che ieri l’esecutivo ha fornito cifre la cui combinazione finale sarebbe proprio questa. A snocciolare i numeri, in particolare, è stata la ministra per le riforme, Maria Elena Boschi, che ha ricordato come il governo Renzi abbia ereditato al momento dell’insediamento ben 889 decreti dell’era Monti-Letta. Ebbene, a sentire la Boschi l’attuale esecutivo sarebbe riuscito a ridurre questo arretrato a 528 provvedimenti. Questo significa che per la ministra il governo avrebbe attuato 361 decreti in 6 mesi dall’insediamento, che in media fanno due decreti al giorno, festivi compresi. Roba da fantascienza.

La prospettiva
Ma c’è di più, perché la stessa Boschi ha chiarito che attualmente, tra ereditati e decreti prodotti dal governo Renzi, rimane da attuare una mole di 699 provvedimenti. Che spalmati sui “mille giorni”, presentati ieri dall’ex sindaco di Firenze in pompa magna, comporterebbero una media giornaliera di attuazione di 0,7 decreti. Meno fantascienza di prima, ma pur sempre fantascienza. Anche perché nel frattempo è presumibile che si aggiungeranno nuovi decreti del governo da attuare. Insomma, si potrebbe arrivare a una media superiore a un decreto al giorno. Naturalmente Renzi ha chiesto ieri di essere giudicato nel maggio del 2017, quando il percorso dovrebbe terminare. Ma è chiaro che siamo di fronte a cifre che come minimo suscitano un legittimo scetticismo. Tra l’altro gli annunci di ieri sono stati accompagnati dalla presentazione di un sito internet (passodopopasso.italia.it) nel quale il governo aggiornerà sullo stato di avanzamento delle riforme. In esso si legge che “mille giorni sono il tempo che ci diamo per rendere l’Italia più semplice, più coraggiosa, più competitiva. Dunque più bella”. Subito dopo l’esecutivo Renzi usa il solito linguaggio enfatico-retorico: “Il nostro governo è nato per fare quello che per troppo tempo è stato solo discusso o rinviato. Ma siamo qui per questo. Una sfida difficile, come solo le sfide affascinanti possono esserlo. Questa è la nostra sfida e noi l’affrontiamo con il coraggio e la leggerezza di chi sa che l’Italia è più grande delle resistenze dei piccoli centri di potere”. Per non parlare del finale della presentazione del sito: “La certezza della forza di questo paese, dei suoi piccoli imprenditori e delle sue maestre elementari, dei suoi ingegneri e dei suoi artisti, dei suoi studenti e dei suoi nonni è per noi un caposaldo irrinunciabile”.

Gli scogli
Di certo nei prossimi mesi non mancheranno le cose da fare, con annessi ostacoli. La carne al fuoco, almeno a livello teorico, è tanta. Dai cantieri dello sblocca-Italia alla riforma della pubblica amministrazione, dal nuovo Senato alla riforma della giustizia (a partire da quella civile). Dare un filo logico a tutto questo bendidio non sarà facile, soprattutto se già ora il fardello di decreti di attuare ha toccato quota 699 provvedimenti. Nessuno mette in dubbio la necessità di affrontare con decisione tutti questi argomenti, ma forse dire che lo si può fare in mille giorni è un po’ esagerato, soprattutto visti i precedenti non proprio lusinghieri che hanno contraddistinto il cammino dei governi precedenti. Per non parlare di quelle riforme richiamate nel piano dei mille giorni di cui si parla da decenni. Una su tutte? I famosi “costi standard” nella sanità e negli altri appalti pubblici, ovvero quei parametri virtuosi di spesa che dovrebbero essere utilizzati su tutto il territorio nazionale per risparmiare sulle forniture. Nessuno ne ha ancora visto traccia.

I dilemmi Bce e i rischi di inerzia europea

I dilemmi Bce e i rischi di inerzia europea

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

Fino a che le riforme saranno vissute come un suicidio politico dai governi che ancora non le hanno fatte (Francia e Italia) e il rilancio della crescita economica europea sarà sentito come un vero e proprio “harakiri” dai governi che la crescita, poca, ancora ce l’hanno (Germania e nordici), l’eurozona non cesserà di ballare ai bordi di un vulcano a costante rischio di eruzione.

Non è un caso che subito dopo un vertice Ue, che sabato a Bruxelles ha rafforzato il controllo tedesco sui principali gangli istituzionali europei, e alla vigilia della riunione della Bce giovedì a Francoforte siano riesplose le polemiche tra i due fronti contrapposti. Al centro anche Mario Draghi e la sua giacca, strattonata con malagrazia da entrambi.

Sullo sfondo l’economia reale, in bilico tra recessione e deflazione, moltiplica i segnali negativi: ieri il turno della produzione manifatturiera, ai minimi da 13 mesi e a ritroso in Germania, Francia e Italia, cioè nei due terzi dell’Eurozona. Come nell’estate del 2012 aveva evitato l’implosione dell’euro annunciando che la Bce avrebbe preso «tutte le misure necessarie» per impedirla, così quest’estate Draghi ha lanciato un doppio messaggio per battere la duplice emergenza europea: il ricorso da un lato a tutti i mezzi, quantitative easing incluso se necessario, per fermare la deflazione e dall’altro, «visto che la politica monetaria da sola non può rilanciare l’economia», l’invito ai Governi a fare le riforme creando spazi per una politica fiscale più morbida.

Come nel 2012 i mercati hanno accolto bene il segnale. I Governi no. E per ragioni opposte. La Germania teme una svolta americana nella politica della Bce, il ripudio dell’ortodossia dei Trattati. «I paesi che hanno seguito politiche di rigore, in cambio degli aiuti al loro salvataggio, stanno facendo molto meglio di tutti altri in Europa: a volte le medicine sono amare ma fanno bene. La crescita carburata dai deficit, invece, porta al declino economico» ha tuonato il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble. Richiamo diretto a Parigi, Roma e… Francoforte.

Sul fronte opposto della barricata, invece, l’Italia di Matteo Renzi, presidente di turno dell’Ue, ha convocato per il 7 ottobre un vertice europeo straordinario su crescita e occupazione mentre la Francia di François Hollande insiste ad alta voce sulla flessibilità delle regole di stabilità in tempi di crisi e invoca una maggiore spinta alla crescita da parte della Bce, compreso un ritocco al ribasso del valore dell’euro rispetto al dollaro.

Con la sua visita ieri a Parigi, Draghi ha provato a ricucire con tutti sottolineando, insieme a Hollande, che gli strumenti per il rilancio della sviluppo «dovranno sempre rispettare i patti europei». Parole ovvie, prevedibili e scontate. Termometro evidente però delle crescenti tensioni che bollono nell’Eurozona. E che potrebbero indurre la Bce a una maggiore cautela rispetto agli annunci di agosto e alle aspettative dei mercati, con possibili effetti boomerang sui tassi e sui costi di finanziamento dei debiti sovrani.

Nessuno nega l’urgenza delle riforme strutturali che in Paesi come l’Italia e la Francia oggi appaiono prioritarie rispetto al ripianamento di debiti e deficit: non solo per rimettere in moto una crescita solida e sostenibile ma per evitare che eccessive divergenze nell’Eurozona provochino lo strabismo della politica monetaria unica, alla lunga insostenibile.

Nessuno però può ignorare le difficoltà politiche della sterzata: a Sud come a Nord. Con la popolarità al 17%, più di tanto Hollande non può remare contro il Paese, soprattutto non può farlo in fretta. Con Alternativa per la Germania, il partito nazionalista e anti-euro che ha ottenuto il 10% dei voti in Sassonia entrando per la prima volta in un parlamento regionale, nemmeno Angela Merkel ha larghi margini di manovra per solidarizzare sulla crescita europea, anche se il riequilibrio del super-attivo dei conti correnti sarebbe un atto dovuto secondo i patti europei. Il cui rispetto vale per tutti.

La politica del surplace, l’ortodossia immobilista, la mancanza di coraggio politico oggi avrebbero effetti disastrosi per tutti. La lezione greca dice che una crisi marginale, 2% del Pil dell’euro e 3% del debito, si è trasformata in crisi totale per la rigidità mentale e la miopia di chi in Europa l’ha gestita. L’emergenza crescita, da anni relegata in frigorifero, non può attendere oltre. Per dare risultati le riforme richiedono anni. Un’inerzia prolungata su azioni di sostegno finirebbe per travolgere l’Europa proprio quando ha un disperato bisogno di unità e coesione di fronte alla Russia di Putin che la sbeffeggia.

I mille giorni: un colpo d’ala mediatico e un sentiero che si restringe

I mille giorni: un colpo d’ala mediatico e un sentiero che si restringe

Stefano Folli – Il Sole 24 Ore

Vedremo presto quanto sarà efficace la nuova strategia dei mille giorni e lo slogan autunnale del “passo dopo passo”. Il presidente del Consiglio ha illustrato i suoi propositi con la consueta capacità di “marketing”, ma un punto sembra certo: la magia si è interrotta. E per magia s’intende quella speciale atmosfera, fatta di speranza, di fiducia e di ottimismo, nella quale Renzi aveva inaugurato il suo mandato alla fine di febbraio. Allora era la rivoluzione, annunciata con spavalderia: una grande rivoluzione al mese per sei mesi e l’Italia sarebbe cambiata. Oggi è la prudenza dei mille giorni e la richiesta di essere giudicato non prima del maggio 2017.

Non ci sarebbe da sorprendersi per questo cambio di tattica, se la strategia fosse confermata; se cioè il programma riformatore riproposto ieri si rivelasse davvero in grado di trasformare il Paese in poco meno di tre anni. Sarebbe invece drammatico se il volontarismo renziano fosse fine a se stesso: un modo dinamico, anzi frenetico, di restare più o meno immobili. Non c’è che attendere i prossimi mesi per scoprirlo. Fin d’ora però sembra chiaro che Renzi non può fare affidamento solo su se stesso e sul carisma personale, come è stato nel primo semestre. Ora che l’estate è passata, occorre qualcosa di più concreto per rinsaldare il patto con i cittadini.

In fondo il 41 per cento delle europee era stato il prodotto dello slancio iniziale. Adesso la ricerca del consenso diventa una partita più complicata e richiede tempi lunghi. Per meglio dire, è quasi inevitabile, almeno a breve termine, la contraddizione fra interventi riformatori efficaci e gradimento popolare ai massimi livelli. La tentazione di ricorrere all’arma letale, ossia al populismo per aggirare il contrasto è sempre incombente. Ma sarebbe un errore fatale che segnerebbe la degenerazione dell’esperimento renziano. E infatti il premier evita di farvi ricorso in modo massiccio, se non per gli attacchi alle “rendite di posizione” dei “privilegiati”, rendite che ovviamente devono essere smantellate.

In realtà il problema di cui il premier è consapevole consiste nell’attuare le riforme che l’Europa pretende dall’Italia. Riforme fondamentali nel campo del lavoro, della competitività, della giustizia civile. L’agenda ormai la conoscono tutti. Ma tali trasformazioni sono spesso socialmente dolorose. Non solo. Esse colpiscono feudi politici che quasi sempre coincidono con serbatoi elettorali a cui è molto difficile rinunciare. Quanto alle decisioni che non presentano costi ma solo benefici (dalle assunzioni dei precari della scuola ai mille nuovi asili), è ovvio che non si tratta di riforme, bensì di nuove spese in un momento in cui le risorse non ci sono, ovvero – quando ci sono – andrebbero destinate a ridurre il deficit e a contenere il debito.

Sono questioni ben note dalle parti di Palazzo Chigi. D’altra parte, Renzi è un politico che non intende commettere un suicidio politico. Si rende conto che la Germania non rinuncerà alla religione del rigore, tanto meno adesso che il partito anti-euro tedesco ha preso il 10 per cento in Sassonia. Al tempo stesso, la sua stessa retorica gli impone di continuare a nutrire l’immaginario collettivo con lo scenario consolatorio di riforme che non fanno male, tranne che alla “casta” dei privilegiati. La sfida fra realismo e illusione non è dunque risolta: è solo spostata in avanti.

Per l’Italia decisivi 120 giorni non mille

Per l’Italia decisivi 120 giorni non mille

Guido Gentili – Il Sole 24 Ore

Quanto, e in che tempi, l’Italia deve cambiare per far sì che il disperato sindaco di Locri, in Calabria, non debba raccomandarsi e denunciare a Gesù Cristo – dopo aver inutilmente percorso le strade legali terrene – l’assenteismo cronico dei dipendenti del Comune, sulla carta 125 ma in servizio mai più di 20-25?

Il surreale fatto di cronaca si commenta da solo e dimostra di quale svolta – politica, economica, culturale – necessiti la terza economia d’Europa, oggi un sistema bloccato e prigioniero di sé stesso. Per cui quando il premier Matteo Renzi, presentando il sito istituzionale «passodopopasso» per scandire il conto alla rovescia del programma dei prossimi 1000 giorni di governo, dice che l’Italia e la sua «classe dirigente intesa in senso ampio» è vissuta «spesso» di rendita, afferma una verità amara ma elementare. Inevitabile la conclusione: questa lunga stagione è finita, le riforme vanno fatte, questa è l’unica possibilità per l’Italia, il Governo «è nato per fare quello che per troppo tempo è stato solo discusso o rinviato».

Oggi siamo al giorno 2 del «passodopopasso» e ne restano, salvo complicazioni, 998 fino a maggio 2017. Troppo pochi per immaginare che Locri, dove nel 2014 non si cambiano le lampadine dell’illuminazione pubblica, diventi un’isola felice. Ma tanti, troppi, se l’orizzonte della verifica delle riforme che servono a strappare il Paese ad un destino di stagnazione, se non di caduta verticale, è posto al 2017.

Intendiamoci. Le riforme cosiddette “strutturali” (a partire da lavoro, fisco, burocrazia, per non dire di quelle politico-costituzionali) per rendere l’Italia più semplice e competitiva necessitano di tempo per dispiegare a pieno i loro effetti. Il problema è che il tempo è esaurito e che se è vero che il Governo è nato per fare ciò che è stato rinviato, Renzi non ha altra strada che accelerare la sua corsa attuativa. A cominciare dai 51 decreti da rendere operativi entro la fine dell’anno. Per poi proseguire con il pacchetto “riformista” che attende Governo (il quale dovrà a metà ottobre approvare e trasmettere a Bruxelles la legge di Stabilità), Parlamento, imprese e famiglie nei prossimi quattro mesi, come evidenziato dal Sole 24 Ore del Lunedì. Parliamo di decreti legge nuovi di zecca (su giustizia civile e Sblocca Italia), di disegni di legge già all’esame delle Camere (mercato del lavoro, riforma della Pa e del Senato, fisco, legge elettorale) e di due altri ddl-chiave, quelli su scuola e giustizia, che dovrebbero sbarcare presto in Parlamento.

Il programma dei “mille giorni” sarà oggetto di un passaggio parlamentare, ma non è questo il punto. Il problema, per il Governo, è dare una scossa ad un sistema paralizzato e al tempo stesso rendere visibile, in Europa e sui mercati, la progressione dei passaggi attuativi. È questo l’unico cantiere che conta, tanto più a Bruxelles nel confronto serrato sullo “scambio” tra decreti e riforme in corso d’opera da una parte e margini di maggiore flessibilità dall’altra. La presentazione del piano “passodopopasso” è stata l’occasione per ribadire la «scommessa politica» degli 80 euro («non torniamo indietro, cercheremo di allargarla», ha specificato Renzi) e indicare la Germania come modello per il mercato del lavoro, la cui riforma dovrebbe vedere la luce entro il 2014 (verrà riscritto lo Statuto dei lavoratori, il problema non è l’articolo 18, si punterà ad un contratto a tutele crescenti, alla fine dei mille giorni il diritto del lavoro sarà totalmente trasformato, ha spiegato il premier).

Resta da capire quale scossa, sui terreni decisivi del fisco e del lavoro, arriverà in concreto da qui ai prossimi quattro mesi. La manovra degli 80 euro non ha dato i risultati sperati, del taglio ulteriore dell’Irap non si parla più, la spending review è tuttora un oggetto misterioso. “Mille giorni” suona bene, ma ricorda dannatamente anche il “Mille proroghe”, testo legislativo-bandiera, con cadenza annuale, della politica del rinvio. Cosa che, con tutta evidenza, un «Governo nato per fare quello che è stato rinviato» non può permettersi.

La sfida della crescita, l’importanza delle riforme

La sfida della crescita, l’importanza delle riforme

Mauro Calise – Il Messaggero

Sul lavoro che sta compiendo il governo Renzi resta ancora da capire quanto il premier sia davvero bravo nel gestire i dossier più scottanti, dal lavoro all’economia e alla giustizia. Per non parlare dei fascicoli aperti a tempo indeterminato, come le grandi riforme che sono, per definizione, incompiute. Tutti continuano a ripetere che i risultati tardano a venire, come se tutti ce l’avessero in tasca, la ricetta miracolosa. Dimenticando che i predecessori hanno fallito pur disponendo di maggioranze bulgare: politica per Berlusconi, tecnica per Mario Monti, bipartisan per Enrico Letta. E che i pari-grado all’estero versano in acque ben peggiori: Hollande continua a cambiare i titolari dei ministeri chiave, e a scendere in picchiata nei sondaggi. Ma a Renzi, anche per la giovane età, tocca almeno un esame al giorno. E i voti si van facendo più severi. Al premier, però, tutto questo non dispiace. Anzi, gli va a pennello. Ciò che conta, per i prossimi mesi, non è sfornare improbabili vittorie sul fronte dei dati duri di una ripresa economica che – Draghi ce l’ha fatto capire – non darà frutti prima di un paio di anni. Ma restare ben piantato al centro dei riflettori mediatici, tenendone saldamente il monopolio. Inventandosi ogni giorno un evento, un cambiamento di agenda, uno slogan accattivante. O un repentino cambio di passo, da sprinter a maratoneta. 

Ed ecco serviti tutti quelli che si erano adagiati sull’immagine di un Renzi obbligato a correre, costantemente proteso al sorpasso delle sue stesse iniziative. Il premier, da oggi, rallenta. Si prende tutto il tempo necessario a rimettere in pezzi un Paese scassato da cima a fondo. Da piè veloce Achille a tartaruga. Tanto, per dirla con Zenone, chi è in grado di superarlo? L’asso nella manica di Renzi resta questo: non ha concorrenti. Non c’e nessuno oggi in grado di sfidarlo sul grande palcoscenico mediatico, prima ancora che su quello politico. Ed è questa la principale dote di cui il premier ha dato prova straordinaria. Una gestione geniale, impeccabile della comunicazione personale col grande pubblico trasversale. 

In questo, gli va dato atto, è andato oltre lo stesso Berlusconi, che certo l’ex sindaco ha studiato in ogni minimo dettaglio. Il Cavaliere aveva un suo partito e proprie reti televisive. Renzi agisce da battitore libero. Si è inventato tutto da solo. E chi pensa che questa capacità non rientri tra le qualità di uno statista, non ha capito niente di quello che è successo in questi ultimi decenni. Col passaggio dalla democrazia rappresentativa a quella incentrata sul leader. E sulla sua capacità di catturare l’immaginario collettivo. 

Rientra in questo stesso scenario anche la scelta, difesa coi denti, di ottenere per la Mogherini – una renziana d’acciaio – il ruolo di portavoce agli Esteri dell’Unione Europea. Una scommessa che riguarda la possibilità che, nel caotico panorama internazionale che si va sempre più surriscaldando, si creino spazi per sortite – coraggiose, fuori dal coro – ad alto potenziale di impatto sulla opinione pubblica, italiana e più in generale occidentale. E’ improbabile che il premier si faccia illusioni che nostre eventuali proposte riescano a condizionare play-maker ben più pesanti, come gli Usa o la Germania. Ma al carnet del suo agenda-setting, fino ad oggi ristretto all’ambito nazionale, Renzi ha aggiunto un teatro a visibilità illimitata. Schierando una donna giovane, con mestiere e temperamento, che suscita curiosità e simpatia. All’immagine di un’Europa impantanata nel proprio passato, non potrà che giovare questa incursione di futuro.

Non bastano i treni a far ripartire il paese

Non bastano i treni a far ripartire il paese

Tito Boeri – La Repubblica

Il tempismo, sul piano della comunicazione, è perfetto. Nel giorno in cui l’Istat certifica il ritorno dopo 50 anni alla deflazione e con un mercato del lavoro sempre più in sofferenza il governo vara un decreto dal titolo molto promettente: sblocca-Italia. Interviene in ritardo rispetto allo scadenziario che lo prevedeva per metà luglio, ma proprio per questo permette al governo di reagire ai dati sui consumi degli italiani dopo l’introduzione del bonus di 80 euro, dati che confermano l’impressione che lo sgravio non abbia avuto gli effetti sperati di stimolo della domanda. Se si va al di là dei titoli e dei relativi cinguettii telematici, affiorano però non pochi dubbi sull’efficacia delle misure varate ieri e, a dispetto delle rivoluzioni annunciate, in molte di loro si respira l’odore stantio del déjà vu.

Di sblocco sulla carta ci sono quasi solo i cantieri delle opere su rotaia. Il bonus edilizia viene semmai bloccato, non rinnovato nel 2015 almeno fino all’approvazione della legge di Stabilità. Le 1617 mail ricevute dai Comuni con segnalazioni di ritardi in piccole opere dovranno aspettare. Non ci sono fondi per le misure contro il dissesto idrogeologico. Non è la prima volta che un governo italiano si affida ai trasporti e soprattutto alle Ferrovie dello Stato (che continuano a non assicurare la pulizia dei treni su gran parte delle tratte) per rilanciare un’economia che non riesce a ripartire. I fallimenti del passato, quando peraltro c’erano ben più risorse da destinare a queste opere, non sembrano essere stati metabolizzati.

Sono lastricate le strade di Palazzo Chigi di comunicati in cui si annunciano miliardate di opere pubbliche di immediata attuazione, a partire dalla faraonica legge obiettivo del 2001 per arrivare al “decreto del fare” (e disfare) lasciato in testamento da Letta. Il fatto stesso che si peschi una volta di più dall’elenco annunciato da Berlusconi a Porta a Porta, attuato solo in minima parte (attorno al 10 per cento) in 15 anni, certifica che non basta decretare per avviare i lavori. E anche questa volta, quando si studiano i singoli dossier, ci si accorge che gran parte delle opere non sono immediatamente cantierabili. Tre quarti di queste potranno, nella migliore delle ipotesi, partire nel 2018. Del resto è lo stesso profilo temporale dei finanziamenti a certificare che non si tratta di misure di impatto immediato: 40 milioni nel 2014, 415 nel 2015, 888 nel 2016. Non è questo tipicamente l’orizzonte delle misure congiunturali che vogliono evitare una nuova prolungata recessione agli italiani.

Una volta di più si annunciano queste misure a costo zero, come se destinassero nuove risorse alle infrastrutture senza sottrarle ad altri interventi. Ma come può un governo che chiede un consenso attorno ad un’operazione politicamente costosa come la spending review, come può un esecutivo che dovrà racimolare nella legge di Stabilità qualcosa come 16 miliardi di tagli alla spesa nel 2015, dire agli italiani che ci sono tutti questi miliardi piovuti dal cielo? È fin troppo evidente a tutti che le risorse che verranno destinate a queste opere, anche quelle che vengono da fondi europei, verranno sottratte a destinazioni alternative. È dovere di un governo spiegare perché queste opere sono più importanti di altre cose che si potevano fare con questi soldi. A partire dalle stesse opere infrastrutturali alternative che potevano essere avviate (perché, ad esempio, il terzo valico Milano-Genova e non il raccordo Fiumicino-alta velocità verso Firenze?). Le analisi costibenefici delle singole opere servono proprio a questo, ma non ce n’è traccia. Offrono le stesse valutazioni che ogni imprenditore compie quando deve decidere se fare o meno un investimento. Perché i contribuenti italiani, al pari degli azionisti privati, non devono avere il diritto di sapere come vengono utilizzati i loro soldi rispetto a diversi scenari e opzioni alternative?

La dimensione del dispositivo entrato in Consiglio dei ministri (125 pagine e, come ormai è prassi, non c’è un testo in uscita) e i commi e sottocommi dei diversi articoli danno l’impressione di burocrazie ministeriali tutt’altro che rottamate. Se il decreto avesse mantenuto l’obiettivo della semplificazione normativa, avremmo un precedente cui appellarci sul piano del metodo. Speriamo che dietro al formalismo non si celino troppi giochi di potere: homo homini lupus . E l’impressione è che almeno al ministero dei Trasporti siano ancora le alte burocrazie a governare.

Forse sarebbe stato più saggio ieri limitarsi alle misure sulla giustizia civile, che hanno potenzialmente un rilievo economico molto importante se sapranno davvero intervenire sugli arretrati, e rinviare le altre misure alla prima legge di Stabilità del Governo Renzi, nella quale confluiranno anche le norme sulle società partecipate. Ci dirà qual è la strategia di politica economica di questo governo.

Un cono gelato e poco altro

Un cono gelato e poco altro

Stefano Feltri – Il Fatto Quotidiano

Si capisce che non è il momento migliore per Matteo Renzi, da centravanti di sfondamento deve improvvisarsi mediano, difendere invece che attaccare. E gli costa fatica. “Il carretto passava e quell’uomo gridava gelati, al 21 del mese i nostri soldi erano già finiti”. Lucio Battisti, I giardini di marzo, offre la sintesi della giornata politica. 

CREMA E LIMONE. Cortile interno di Palazzo Chigi: Matteo Renzi scende al termine del Consiglio dei ministri e c’è un gelataio della catena Grom con apposito carretto. Un cono crema e limone per rispondere all’Economist che ha ritratto il premier sulla barca di carta dell’economia europea mentre fissa il vuoto e tiene un gelato in mano. “Il gelato artigianale è buono, non ci offendiamo per le critiche, perché facciamo un lavoro serio”, il premier lecca e offre ai giornalisti di condividere (non succede), abbronzato dopo le vacanze a Forte dei Marmi, ma ancora un po’ appesantito nonostante il tennis pomeridiano. Poi conferenza stampa. 

PASSODOPOPASSO. Ormai ci vuole un dizionario per orientarsi nella propaganda governativa: Renzi presenta una nuova serie di slide, nome in codice “passodopopasso” che servono a indicare la traccia del “programma dei mille giorni” che verrà presentato in un`altra conferenza stampa e servirà a dare sostanza alla promessa di “cambiare verso” all’Italia. Tutto questo si sostanzia in una serie di provvedimenti, qualche decreto e molti disegni di legge delega dai tempi lunghi, testimone sempre – non se ne possono leggere, bisogna affidarsi alla trasmissione orale delle promesse. Che sono, ovviamente, tantissime. Ma per una volta non trasmettono la consueta frenesia renziana, bensì un po’ di affanno. “Tanta roba”, dice l’ex sindaco di Firenze con una delle espressioni più à la page del vocabolario renziano, ma non ci crede neppure lui.

I SOLDI. Quanto vale il decreto sblocca Italia? Non si sa. “Zero”, dice il ministro dell`Economia Pier Carlo Padoan, riferendosi all’impatto netto sulla finanza pubblica. Renzi aveva promesso di “sbloccare” 43 miliardi di euro per le opere pubbliche. A sentire il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi, ce ne sono giusto 3,8. Soldi che già c”erano e che cambiano destinazione. Il premier prova a riassumere: il decreto Sblocca Italia “tenta di risolvere e anticipare una serie di problemi burocratici che si sono creati”. Sbadigli in sala.

LA MINISTRA. Renzi sa che giornali e tg si eccitano per i numeroni e le grandi riforme, questa volta non ne ha da offrire e quindi snocciola elenchi di misure che sembrano più da amministratore di condominio che da presidente del Consiglio. Il colpo doveva essere la riforma della scuola, ma il ministro delI’Istruzione Stefania Giannini ha rubato i titoli dei giornali al premier, anticipandone i contenuti. Risultato? Niente riforma. “Si farà mercoledì”, dice Renzi che si riappropria del dossier e anticipa che “non ci sarà la stabilizzazione dei precari”, ma un misto di posti per chi è in graduatoria combinato con la valutazione della performance. Vedremo. Di giustizia Renzi non vuole parlare troppo: si capisce che la considera una fastidiosa eredita della Seconda repubblica segnata dai guai di Silvio Berlusconi. Al premier piace presentare la riforma della giustizia civile, “dimezzeremo i processi”. Il resto lo lascia al Guardasigilli Andrea Orlando (vedi pezzo qui sotto). 

80 EURO SBIADITI. La deflazione, la recessione, i consumi che continuano a crollare. Anche sull’unica misura importante del suo governo, il bonus Irpef da 80 euro al mese per i redditi bassi, Renzi deve giocare in difesa, parare critiche di aver speso male 6,6 miliardi e di prepararsi a buttarne 10 all’anno con la legge di Stabilità. “Apprezzo chi mi contesta sugli 80 euro perché dimostra d avere un’altra filosofia, un’altra idea dell’Italia. Noi il bonus lo confermeremo”. Traduzione: io taglio le tasse ai dipendenti, mentre gli economisti, Forza Italia e la Confindustria vorrebbero usare quei soldi a favore delle imprese (il Pil salirebbe, ma non i voti al Pd).

MOGHERINI FOREVER. Renzi elenca la lunga teoria di vertici domestici e internazionali che lo attendono. Ma soltanto uno gli interessa davvero: quello di oggi a Bruxelles, il Consiglio europeo che ratificherà la nomina di Federica Mogherini, oggi ministro degli Esteri, ad alto rappresentante per la politica estera dell’Unione. Il premier si è impuntato, si è giocato la reputazione su una nomina di prestigio e – nonostante una vasta opposizione di giornali e governi – dovrebbe vincere. Questa notte, quando arriverà in conferenza stampa a Bruxelles, Renzi confida di tornare ai toni trionfalistici che gli sono più consoni.

Renzi, l’economia e la storia della costruzione dei volenterosi

Renzi, l’economia e la storia della costruzione dei volenterosi

Mario Sechi – Il Foglio

Splende il Sole, arriva l’alluvione. E’ venerdì 29 agosto, alle dieci in punto l’Istat apre la diga per far defluire gli ultimi dati sull’economia italiana. E’ il gong che segnala l’apertura dell’Armageddon contabile. Mezz’ora dopo il botto del cannone del Gianicolo (alle 12 in punto, sparo a salve dell’obice progettato nel 1914 dalla Skoda per l’Imperial Regio Esercito Austro-Ungarico dal Palazzo del Quirinale) decolla un comunicato: “Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha ricevuto questa mattina al Quirinale il ministro dell’Economia e delle Finanze, Pier Carlo Padoan”. Routine? Sì e no. Sì perché è imminente il Consiglio dei ministri; no perché pochi minuti dopo (ore 12 e 55) compare un altro dispaccio che fa lampeggiare le spie del sub-sonar: “Il Presidente Napolitano ha avuto con il Ministro dell’Economia uno scambio di vedute sulle prossime occasioni di chiarimento e di intesa a livello europeo (ad esempio in occasione della prossima seduta dell’Ecofin) per il rilancio della crescita dovunque in Europa. Nella ricognizione si sono considerate attentamente le importanti indicazioni contenute nel discorso pronunciato dal Presidente della Bce, Mario Draghi, a Jackson Hole”.Letto bene? Ecofin. Crescita. Draghi. Politica. Problema. Soluzione. E’ il segno che la situazione italiana si sta deteriorando? Sì, ma il nocciolo della faccenda è l’ormai religiosa fiducia riposta in Draghi, quello che nella copertina ice-cream dell’Economist tira via l’acqua a secchiate dalla barca europea. Basterà? Vedremo. Sul taccuino restano gli scampoli di un pazzo agosto, con tratti d’imprudenza psichedelica: Renzi mercoledì 27 agosto ci casca con il tweet del mattino, ore 6 e 20: “Non male questo fine settimana: giustizia, sblocca Italia, nomine europee, poi scuola e #millegiorni #italiariparte #ciaovacanze”’: Acme anticipatorio deluso quando la scuola sparisce da Twitter il venerdi alle ore 6 e 52: “Oggi giustizia e sblocca Italia. Domani vertice europeo. Lunedì la presentazione ufficiale #millegiorni con obiettivi e sito #italiariparte”. Missing in action, come il ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini. 

Sembra tutto più semplice sabato 23 agosto quando Renzi sventaglia al settimanale Tempi una raffica di ultimatum: “E’ l’Italia che aiuta l’Europa, non l’Europa che aiuta noi. Togliamo il Paese ai soliti che vanno nei salotti buoni. All’Italia serve lo spirito del maratoneta”. Gajardo. E poi? La settimana è andata avanti con altro passo e spasso. Lunedì (25 agosto) Renzi inaugura l’hashtag #ciaovacanze con tanto di foto di Palazzo Chigi all’alba: “Buon lavoro a chi torna oggi in ufficio #ciaovacanze“ e il ministro dell’Economia Padoan si presenta alle 17 per conferire con il premier. Alle 18 e 26 esce da Piazza Colonna e si capisce che non c’e un euro da spendere o quasi. E poi ci sono le crisi internazionali e Renzi all’ora dei tg parla con il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, chiacchierata di modesta entità che spazia “dall’Africa al Medio Oriente”, così informano i bollettini d’agenzia ai quali ormai manca solo un tocco poetico, un sobrio “Dall’Alpi alle Piramidi/dal Manzanarre al Reno”. Martedì 26 agosto alle 10 in punto il cambio della bicicletta governativa s’inceppa nella lingua di Francesco Paolo Sisto, deputato di Forza Italia che dà una martellata sulla prescrizione: “Il processo deve avere una durata ragionevole. Una paralisi della prescrizione al primo grado comporterebbe in Italia un processo di secondo grado e di Cassazione infinito”. Non ha tutti i torti, chi tocca i fili della giustizia resta fulminato. In fase post-prandiale sul Moleskine resta impresso lo scatto d’orgoglio del militante. Festa dell’Unità, lettera del segretario Renzi: “Le priorità sono chiare. Non accettiamo lezioni”. Sempre tosto. Ma alle 17 e 26 una velina di Palazzo Chigi fa suonare i sistemi d’allarme: “Le bozze dello Sblocca-Italia che stanno circolando sono scadute”. Ultima pagina del taccuino, nota a margine: “Yogurt legislativo”. Sto per chiudere il pezzo, è venerdì pomeriggio, il Consiglio dei ministri è riunito, sul telefonino lampeggia un tweet che mi ha inviato il banchiere d’affari Guido Roberto Vitale: “Urge sostenere Renzi nella sua lotta per le riforme”. Siamo alla coalizione dei volenterosi.

Un passo alla volta

Un passo alla volta

Pier Francesco De Robertis – La Nazione

Turbo-Renzi si trasforma in Turbodiesel-Renzi e «passo dopo passo» diventa lo slogan molto poco renziano di questa seconda fase di vita del governo, quello che succede all’iniziale «una riforma al mese» di marzo, e in apparenza fa assomigliare il premier a un Bersani o un Letta qualunque. Ma non è detto che sia un male, anzi. Renzi scopre la fatica del governare e non poteva non essere così perché, nonostante l’energia del premier, il suo ottimismo, la sua capacità di entusiasmarsi e di comunicare, l’uomo della Provvidenza non esiste e i problemi di un’Italia avvitata su se stessa si risolvono con fatica e perseveranza. In politica, e per i politici che di sé vogliono lasciare un segno ai posteri, il consenso non è un fine, ma un mezzo, e per impiegarli, i mezzi, serve tempo. D’altra parte i dati economici sono disastrosi e le critiche iniziano ad arrivare anche da chi fino a questo momento al governo aveva lisciato il pel0, vedi il presidente di Confindustria, e ricordano a Renzi che il tempo delle promesse e degli annunci è finito. Ecco quindi il senso del «passo dopo passo» pronunciato ieri e la tempistica, ricordata esplicitamente, dei «mille giorni» nei quali attuare il programma dell’esecutivo. Segno che il presidente del consiglio si rende conto dello stringere del tempo, e che stavolta è qualcosa di concreto che occorre portare davanti all’opinione pubblica.

La riforma del Senato è stato un buon risultato. ancorché in prima lettura, ma con il nuovo Senato non si mangia, e il Paese sente invece bisogno di qualcosa di efficace per smuovere l’economia e far ripartire i consumi. E il primo dei passi da fare è stato ieri la riforma dell’arretrato nel processo civile, quello sì che incide davvero sulla vita di tanti cittadini e di tante imprese, e l’ormai famoso Sblocco Italia per buttare un po’ di miliardi nell’edilizia e nei lavori pubblici, da sempre il vero volano dello sviluppo. Certo, sono rimasti accantonati o rimandati a una delega temi importanti, primo fra tutti la scuola e le assunzioni dei precari (Renzi ha detto che sarà affrontato mercoledì prossimo, e vedremo come), il taglio o il riordino delle partecipate che tutti si aspettavano, interventi efficaci sull’ormai mitica spending review, per non parlare poi di argomenti non meno significativi come la riforma del processo penale. Ma se ormai la logica è, appunto, quella del «passo dopo passo», in qualche modo occorre guardare all’oggi pensando al prossimo step da superare. In tempi di magra lo spirito non va dove vuole, ma si posa dove può.