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La stangata delle Poste in vista della privatizzazione

La stangata delle Poste in vista della privatizzazione

Aldo Fontanarosa – La Repubblica

Su prezzi e tariffe, le intenzioni di Poste Spa sono bellicose. Nei documenti spediti al governo in vista della privatizzazione, che dovrebbe avvenire nel 2015, la società di Francesco Caio delinea una manovra tariffaria dolorosa per le famiglie. Torna intanto la lettera ordinaria che – nei piani di Poste – dovrebbe costare un euro. Arriveranno per davvero le lettere ordinarie? Poste si impegna a consegnare il 90% di queste missive low cost entro massimo 4 giorni dalla spedizione.

C’è poi la lettera prioritaria. Oggi la prioritaria deve arrivare entro un giorno e costa 80 centesimi. Questa è la tariffa base per gli invii fino a 20 grammi di peso. Nei progetti di Poste, la Nuova Prioritaria ci farà spendere 3 euro. Da 80 centesimi a 3 euro: un bel salto in avanti. Colpisce che le Poste vorrebbero farci pagare di più per un servizio peggiore. Nel senso che la vecchia prioritaria giunge a destinazione in una giornata nell’89% dei casi, mentre la Nuova arriverebbe puntuale solo nell’80% degli invii. L’obiettivo di qualità si abbasserebbe.

Eccoci alla famosa raccomandata. Oggi la tariffa base è di 4 euro (sempre che la nostra busta pesi massimo 20 grammi). Nel nuovo schema, la raccomandata salirebbe sia pure di poco a 4 euro e 25 centesimi. Anche qui, però, lo standard qualitativo si abbasserebbe. La vecchia raccomandata – che è tracciata e ci dà la garanzia legale dell’invio – arriva a casa del destinatario in 3 giorni (questo nel 92,5% dei casi). La nuova raccomandata verrebbe consegnata in 4 giorni e solo nel 90% dei casi. Stesso schema: paghi di più per stare peggio.

Sempre più spesso gli italiani evitano la fila all’Ufficio postale e utilizzano il computer. Scrivono la lettera al pc e – grazie al sito delle Poste – la inviano. Le Poste stampano la lettera e la portano a destinazione nella versione fisica, materiale. Anche qui la società di Caio progetta degli aumenti. La ordinaria che nasce online – un’altra novità – costerebbe 70 centesimi. La prioritaria online invece 1,8 euro (contro i 70 cent di oggi). Nessuna variazione per la particolare raccomandata che nasce online, confermata a quota 3,3 euro.

Queste sono, dunque, le intenzioni delle Poste. Che però devono superare l’esame dell’Autorità per le Comunicazioni. Come già nel 2013, spetta all’AgCom approvare la manovra di Poste. Due anni fa, l’Autorità diede semaforo verde con la sua delibera numero 728. E gli aumenti delle tariffe scattarono dal primo dicembre del 2014. Se autorizzati anche solo in parte, i ritocchi daranno una spinta alla privatizzazione di cui hanno discusso ieri – al ministero dell’Economia – l’ad di Poste Francesco Caio, il capo del Dipartimento del Tesoro Vincenzo La Via e il capo della Segreteria Tecnica del ministro Fabrizio Pagani, oltre ai consulenti (advisor) di ministero e società.

Il QE è una pistola puntata alla tempia del governo italiano

Il QE è una pistola puntata alla tempia del governo italiano

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Tra circa un mese partirà il quantitative easing della Banca centrale europea. Senza limiti predefiniti, inizia con acquisti di 60 miliardi di titoli di stato al mese e dovrebbe durare fino a settembre 2016, ma tutto dipende dall’andamento dell’inflazione: se rimane troppo lontana dal valore target del 2% la Bce andrà avanti con il Qe. Con un limite molto importante, però. La banca presieduta da Mario Draghi potrà comprare solo titoli di paesi membri che abbiano almeno un rating «investment grade». Non, quindi, le obbligazioni classificate come spazzatura dalle agenzie di rating. Il merito di credito della repubblica italiana, com’è noto, è solo un gradino al di sopra della soglia dei junk bond. BBB- è l’ultimo rating del Btp, un notch di distanza dal livello dei junk bond che li renderebbe inacquistabili dalla Bce.

L’Italia, dunque, balla sul ciglio del quantitative easing: senza riforme e senza ripresa economica rischia un nuovo downgrade e con esso l’esclusione dai benefici della manovra varata da Francoforte. Significa che le agenzie di rating hanno ora un vero cannone a disposizione per forzare la mano dei governi della periferia mediterranea dell’Eurozona e costringerli a fare vere riforme dei singoli mercati e le eventuali necessarie privatizzazioni. Per una ragione semplicissima: il ribasso alla categoria C del rating dei Btp si tradurrebbe, automaticamente nei fatti, nell’attivazione del cosiddetto scudo antispread, cioè nella richiesta da parte dell’Italia del programma Omt che permette alla Bce di comprare anche i titoli spazzatura dei paesi che hanno già concordato con Bruxelles e Francoforte un piano di interventi e di riforme. In pratica a Roma sbarcherebbe la Troika.

L’allentamento monetario di Francoforte rappresenta l’ultimo giro di campo per i paesi europei a basso rating ed elevato spread. Devono viverlo come l’ultima spiaggia, l’ultima occasione offerta dalla Bce per aiutare e rendere fattibile un programma di ambiziose riforme, accompagnate da tagli strutturali della spesa corrente, la cosiddetta spending review della burocrazia, e da sensibili cali nella pressione fiscale. Solo così il pil si rimetterà in moto e il rating uscirà dall’area rischiosa del giudizio «spazzatura». Non c’è più possibilità di comprare altro tempo: o Roma fa le riforme oppure perde la sovranità. E farsi distrarre dalla demagogia inconcludente di Alexis Tsipras non serve a nulla per raggiungere l’obiettivo che interessa all’Italia. Roma non è Atene, perché ha una vera manifattura e una vera economia da difendere.

Un’intesa sul Capo dello Stato potrà far ripartire il Paese

Un’intesa sul Capo dello Stato potrà far ripartire il Paese

Francesco Forte – Il Giornale

L’elezione di un capo dello Stato, dotato di spessore politico e prestigio internazionale, capace di assicurare l’equilibrio istituzionale e la continuità della legislatura è importante per mettere a frutto i fattori favorevoli che intervengono per l’economia, col ribasso del petrolio assieme alla nuova politica monetaria della Bce. Il centro studi della Confindustria ha rettificato al rialzo le stime del Pil, con un aumento del 2,1 nel 2015 e di 2,5 nel 2016. Il petrolio a 45-50 dollari riduce i costi di produzione e di trasporto. L’acquisto massiccio di titoli pubblici da parte della Bce (chiamato quantitative easing) aumentando l’immissione di moneta nel circuito economico fa scendere il tasso di interesse e il cambio euro/dollaro incrementando l’export. Inoltre accresce i fondi delle banche disponibili per crediti a imprese e famiglie.

La Confindustria fra i fattori favorevoli cita anche il fatto che la domanda interna ha cessato di diminuire. Ma ammette che alle sue stime ottimistiche si può fare una tara per tenere conto delle difficoltà perduranti in Italia. E qui c’è il suono di un’altra campana, quella della Banca di Italia che riecheggiando Draghi, cioè la Bce, avverte che per cogliere i benefici del quantitative easing bisogna avere continuità nelle riforme e nel consolidamento del bilancio pubblico (riduzione del deficit e del debito). Ed ecco, dunque, che l’elezione del capo dello Stato (tema su cui né Confindustria né la Banca centrale si addentrano, per correttezza istituzionale) in un clima di serenità fra le maggiori forze politiche è molto importante, per la svolta verso la crescita del Pil sopra il 2%. Svolta di cui abbiano grande bisogno dopo tre anni di decrescita sia del Pil che dell’occupazione, in un clima di depressione non solo economica, ma anche morale.

Non possiamo permetterci il lusso di elezioni anticipate, con una legge elettorale strettamente proporzionale, quale quella vigente, che, data la pluralità di forze politiche rende incerto il tipo di governo che ne potrebbe venire fuori e precaria la sua durata. Dopo l’abbattimento di Berlusconi per ragioni pretestuose, nei tre anni successivi ci sono stati quattro governi: un governo Monti, un governo Letta, un governo Letta bis e un governo Renzi con quattro differenti formule e composizioni. Ma nel quarto trimestre del 2014 gli ordini d’acquisto di macchinari industriali delle imprese italiane sono aumentati del 19,1% con un aumento della domanda dall’estero del 19,3 e di quella nazionale del 18,1. La domanda estera cresce in funzione del ribasso dell’euro che ci rende più competitivi. La domanda interna di macchinari cresce perché le nostre imprese li stanno ordinando per sostituire quelli vecchi e ammodernarsi, confidando che il peggio sia passato e che valga la pena di investire per il futuro.

Su cíò gioca il fatto che è emerso un quadro di maggior stabilità politica, dovuto alla tenuta del «Patto del Nazareno». Ciò ha consentito al governo di non impantanarsi nel dissidio fra le correnti del Pd e ha generato la convinzione che la legislatura durerà. Il perdurare della prevedibilità del quadro politico è necessario in generale, per gli investimenti delle imprese e delle famiglie e per le banche per indurle alla cessione alla Bce di titoli pubblici per dare maggiori prestiti all’economia. Un capo dello Stato dotato di spessore politico, di prestigio e di equilibrio, che sia un fattore di coesione ci occorre anche sul piano internazionale, per mettere a frutto i nuovi fattori favorevoli, perché l’Italia deve mediare fra i rigoristi a senso unico di marca tedesca e i lassisti di conio greco. Ci occorre, più che mai, l’unità nazionale e l’immagine di una grande nazione, se vogliamo uscire dalla crisi.

Jobs Act, il bluff delle tutele universali estese ai precari

Jobs Act, il bluff delle tutele universali estese ai precari

Giuliano Cazzola – Il Garantista

Nel dibattito che da mesi accompagna il Jobs Act Poletti 2.0, il tema dei nuovi ammortizzatori sociali ha svolto il ruolo di Cenerentola nella celebre favola, se messo a confronto con il clamore suscitato dalla disciplina del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti con annesse nuove norme sul recesso. Poi il governo ha deciso di affiancare i due schemi di decreto legislativo, facendoli approdare – una volta ottenuto il “bollino” della Ragioneria generale dello Stato – entrambi nelle Commissioni abilitate a fornire il parere obbligatorio anche se non vincolante sui testi.

La delega, con riferimento con riferimento agli strumenti di sostegno in caso di disoccupazione involontaria, elencava, inoltre, i seguenti principi e criteri direttivi: 1. rimodulazione e omogeneizzazione dell’Assicurazione sociale per l’impiego (Aspi), rapportando la durata dei trattamenti alla pregressa storia contributiva del lavoratore; 2. incremento della durata massima per i lavoratori con carriere contributive più rilevanti; 3. universalizzazione del campo di applicazione dell’Aspi, con estensione ai lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa, fino al suo superamento e prevedendo, prima dell’entrata a regime, un periodo almeno biennale di sperimentazione a risorse definite; 4. eventuale introduzione, dopo la fruizione dell’Aspi, di una prestazione limitata ai lavoratori, in disoccupazione involontaria, in condizioni di disagio, con obbligo di partecipazione alle iniziative di attivazione proposte dai servizi competenti.

Si trattava, nelle intenzioni del governo, di un’operazione ambiziosa, promessa come “estensione universale” delle tutele. In realtà, la scarsità delle risorse finanziarie ne ha imposto un notevole ridimensionamento. Cosi, il provvedimento (all’articolo 5) commisura la durata della Naspi (ovvero la Nuova Aspi) alla pregressa storia contributiva del lavoratore per un periodo massimo di quattro anni; non prevede, inoltre, alcun incremento per i lavoratori con carriere contributive “più rilevanti”. Quanto all’annunciata “universalità” delle prestazioni non vi è traccia dell’estensione della Naspi ai lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa (come richiesto dalla legge delega); viene introdotta, invece, un’indennità diversa (per requisiti, durata e copertura finanziaria) denominata Dis-Coll. Lo schema di decreto, poi, prevede un periodo di sperimentazione più breve (di otto mesi per la Naspi e di un anno per la Dis-Coll) rispetto a quello richiesto dalla legge-delega. A decorrere dal primo maggio prossimo e in via sperimentale per l’anno 2015, viene istituito (articolo 16) l’assegno di disoccupazione (Asdi) destinato ai soggetti che abbiano fruito della Naspi per l’intera sua durata entro il 31 dicembre 2015, i quali, privi di occupazione, si trovino in una condizione economica di bisogno.

Nello schema predisposto è stato incluso, all’ultimo momento, all’articolo 17, anche il contratto di ricollocazione (stralciato dal testo riguardante il contratto a tutele crescenti). Dovrebbe rappresentare “il nuovo che avanza” nel campo delle politiche attive del lavoro, ma la sua piena operatività è a rischio: si rinvia la disciplina di alcuni importanti aspetti a un successivo decreto legislativo. La disposizione stabilisce che abbiano diritto al contratto di ricollocazione soltanto i soggetti licenziati illegittimamente per giustificato motivo oggettivo o per licenziamento collettivo: resterebbero quindi fuori dal campo di applicazione del contratto di ricollocazione i soggetti licenziati illegittimamente per giustificato motivo soggettivo e quelli licenziati legittimamente per giustificato motivo oggettivo. A conti fatti, anche chi, come il sottoscritto, è favorevole al contratto di nuovo conio e alle annesse tutele in tema di recesso, non può esimersi dal sottolineare l’esistenza di uno squilibrio tra le tutele che vengono meno nel caso di licenziamento e le nuove che si aggiungono sugli aspetti della protezione del reddito e del principale strumento delle politiche attive (il contratto di ricollocazione, appunto).

A determinare tale squilibrio saranno state certamente le limitate disponibilità finanziarie. Ma il “fatto materiale” (ovvero lo squilibrio) sussiste. Sarà anche per questo motivo, allora, che il ministro Giuliano Poletti si è messo, di impegno, a sostenere che il sistema pensionistico ha bisogno di flessibilità, in mancanza della quale gravi saranno le conseguenze sociali della riforma Fornero (un provvedimento che, a mio avviso, sta bene com’è). Si torna a parlare dell’idea dell’acconto – come prestito restituibile a rate – sulla pensione spettante, in caso di perdita del lavoro in prossimità della maturazione dei requisiti. Pare che l’Inps ne abbia quantificato gli oneri in circa 400 milioni l’anno che potrebbero essere ricavanti da un pesante giro di vite (grazie al ricalcolo col metodo contributivo per il quale “spinge” molto il presidente designato, Tito Boeri) non solo le “pensioni d’oro”, ma anche quelle di “bronzo”. In sostanza, con la ripresa annunciata, le aziende dovranno fare i conti con gli esuberi fino a ora “coperti” con gli ammortizzatori sociali ancien regime. Una pensione, in Italia, non la si nega mai a nessuno. Ed è sicuramente meglio che lavorare.

Il “bazooka” di Draghi e la saggezza della piccola Svizzera

Il “bazooka” di Draghi e la saggezza della piccola Svizzera

Carlo Lottieri

Negli scorsi giorni due avvenimenti, peraltro strettamente collegati, hanno dominato la cronaca economica europea.
Il primo riguarda la Svizzera, dato che la Banca centrale elvetica ha deciso di non difendere più il cambio 1,20 tra euro e franco, con la conseguenza che la seconda valuta si è notevolmente apprezzata fino a raggiungere la parità con la moneta comune europea. La mossa è avvenuta un po’ a sorpresa, ma è pur vero che dal 2012 a oggi erano stati in molti a sostenere che un cambio tanto inadeguato prima o poi si sarebbe dovuto abbandonare. In un mondo caratterizzato da una forte domanda di franchi svizzeri, la difesa di quel livello avrebbe finito per rappresentare un costo troppo elevato per Berna.
Cosa però ha indotto gli svizzeri a cambiare strada? È chiaro che essi avrebbero difeso ancora per un po’ quel cambio del tutto artificioso, cedendo alle pressioni lobbistiche di operatori turistici ed esportatori, se non vi fosse stato l’annuncio di una massiccia azione espansiva da parte della Bce. Dinanzi al cosiddetto “bazooka” di Mario Draghi, che si apprestava a immettere – nel corso del tempo – più di mille miliardi di euro, la Bns ha preso atto della realtà e ha lasciato che il mercato dei cambi facesse il suo corso.
Sull’azione di Draghi si è registrato un (quasi) unanime consenso. Si è detto che – finalmente! – le autorità monetarie prendevano iniziative anti-recessione, che questo denaro fresco avrebbe potuto aiutare gli investimenti e le imprese, che in tal modo gli interessi sul debito pubblico potevano diminuire, con grande beneficio per i conti degli Stati gravati da debiti. E poi si è detto che c’era bisogno di contrastare la deflazione con una “buona” inflazione intorno al 2%. Credo che sia opportuno, invece, essere scettici.
Una buona moneta è una moneta stabile, che facilita gli scambi, permette un’efficace contabilità e viene accumulata in vista di investimenti futuri. Queste sono le funzioni essenziali della moneta, ma nessuna di queste è davvero preservata quando chi la gestisce pretende di manipolarla a piacere. Se nel corso della storia passata il processo evolutivo gestito dagli operatori di mercato ha selezionato l’oro, questo è avvenuto proprio perché si trattava di una moneta non facilmente moltiplicabile con una decisione arbitraria come quella assunta qualche giorno fa da Draghi.
Oltre a ciò, Draghi ha agito – come qualche commentatore tedesco ha evidenziato – a vantaggio dei Paesi meno virtuosi e più indebitati (Italia e Francia, in particolare) e a danno di quelli più virtuosi. Questo “premiare” chi fa debiti non soltanto è ingiusto, ma rappresenta un incentivo ad agire in maniera sconsiderata. Per giunta ora si entra in una fase inflazionistica che, dopo la fiammata iniziale, ci obbligherà a fare i conti con tutte le difficoltà che sono caratteristiche di un’economia con una moneta debole.
L’Europa si può in qualche modo permettere di fare questo, illudendosi che non vi sia un prezzo assai salato da pagare, perché è una grande realtà, che unisce centinaia di milioni di persone. Questo processo sarà distruttivo, ma i nodi verranno al pettine negli anni a venire. Al contrario, la dirigenza della banca centrale elvetica – che pure a lungo non si è mostrata più saggia delle dirigenze delle altre banche centrali (americana, europea, giapponese ecc.) – è stata costretta a invertire la propria direzione dalle limitate dimensioni dell’economia del Paese, che in definitiva conta solo otto milioni di abitanti.
Ancora una volta, la Svizzera ha tratto vantaggio dalla propria “piccolezza”. Se alla fine il buon senso ha prevalso e se ora – di conseguenza – gli svizzeri possono contare su un cambio più affidabile (che può orientare gli attori economici a reimpostare su basi maggiormente solide la loro struttura produttiva) è solo grazie al fatto che non hanno potuto diluire la responsabilità dei propri errori e non hanno potuto proseguire in quella politica monetaria dispendiosa e redistributrice che prima li portava ad acquisire euro.
È questa una buona lezione che, in qualche modo, dovrebbe anche indurci a riflettere maggiormente su cosa sta diventando l’Unione europea e sulle conseguenze negative derivanti dall’espansione del suo potere.
Mercato del lavoro e tasse sulle imprese: ecco dove ci batte persino la Grecia

Mercato del lavoro e tasse sulle imprese: ecco dove ci batte persino la Grecia

ANALISI

Pur strangolata dal debito pubblico e scossa da una profondissima crisi economica e sociale, la Grecia riesce comunque a battere l’Italia 12 a 0 sul fronte del mercato del lavoro e delle tasse sulle imprese. È quanto emerge da una ricerca del Centro studi “ImpresaLavoro”, che ha elaborato i dati più recenti pubblicati dal World Economic Forum e dalla Banca Mondiale.
Analizzando le classifiche del “Global Competitiviness Report 2014-2015” stilate dal World Economic Forum si scopre infatti che la Grecia occupa nel rank mondiale una posizione migliore della nostra per quanto riguarda l’efficienza generale del mercato del lavoro (è 118esima mentre l’Italia è 136esima), la collaborazione nelle relazioni tra imprese e lavoratore (108esima contro 137esima), la flessibilità nella determinazione dei salari (118esima contro 138esima), l’efficienza nelle modalità di assunzione e di licenziamento (92esima contro 141esima), il legame tra salari e produttività (121esima contro 139esima), l’effetto della tassazione sull’incentivo a lavorare (138esima contro 143esima), il merito nella scelta delle posizioni manageriali (98esima contro 122esima) e infine la capacità del sistema sia nel trattenere talenti (96esima contro 121esima) sia nell’attrarli (127esima contro 128esima).
Il recentissimo rapporto “Doing Business 2015” curato dalla Banca Mondiale certifica invece la situazione di indubbio vantaggio che le aziende elleniche godono rispetto alle loro concorrenti italiane. Non soltanto in Grecia il Total Tax Rate sulle imprese (49,9%) è infatti decisamente inferiore al nostro (65,4%) ma sul fronte delle modalità di pagamento delle imposte la Repubblica ellenica si dimostra meno matrigna della nostra per il numero sia degli adempimenti (8 contro 15) sia delle ore impiegate in media ogni anno da ciascuna azienda (193 contro 269).
«L’Italia ha certamente fondamentali economici migliori di quelli greci» osserva il presidente di “ImpresaLavoro” Massimo Blasoni. «Tuttavia occorre notare come l’analisi puntuale di due aspetti importanti dell’economia come efficienza del mercato del lavoro e tassazione sulle imprese dimostrino l’arretratezza del nostro Paese. Non è un dato banale perché i fondamentali economici sono figli delle scelte fatte in passato: liberare le nostre aziende da un fardello fiscale ormai insostenibile e produrre regole sul lavoro semplici e certe sono due passaggi non più rimandabili su cui il governo si dovrebbe impegnare maggiormente. Altrimenti il rischio è di scivolare sempre più verso la Grecia».
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Perché condonare il debito alla Grecia farebbe bene anche all’Europa

Perché condonare il debito alla Grecia farebbe bene anche all’Europa

Martin Wolf – Il Sole 24 Ore

A volte, la cosa giusta da fare è la cosa saggia da fare. È così oggi per la Grecia. Se fatta nel modo giusto, una riduzione del debito andrebbe a beneficio della Grecia e del resto dell’Eurozona. Creerebbe delle difficoltà, ma non tante quante ne creerebbe gettare la Grecia in pasto ai lupi. Tuttavia, raggiungere un accordo di questo tipo potrebbe rivelarsi malauguratamente impossibile: per questo chi pensa che la crisi dell’Eurozona sia finita si sbaglia.

Nessuno può essere sorpreso della vittoria di Syriza in Grecia. La «ripresa» del Paese ellenico è fatta di una disoccupazione al 26 per cento e di una disoccupazione giovanile oltre il 50. Inoltre, il prodotto interno lordo ha perso il 26 per cento rispetto al suo massimo antecrisi. Ma il Pil è un parametro particolarmente inappropriato per dare conto della riduzione del benessere economico, in questo caso. Il saldo delle partite correnti nel terzo trimestre del 2008 era attestato su un -15 per cento del Pil, ma dalla seconda metà del 2013 è in attivo: questo significa che la spesa dei greci per beni e servizi in realtà è calata di almeno il 40 per cento.

Di fronte a una catastrofe del genere, non c’è davvero da stupirsi che gli elettori abbiano rigettato il precedente Governo e le politiche che ha portato avanti (un po’ controvoglia) per conto dei creditori. Come ha detto Alexis Tsipras, il nuovo primo ministro, l’Europa è fondata sul principio della democrazia. Il popolo greco ha parlato. Le autorità costituite devono come minimo ascoltare. Eppure tutto quello che si sente in giro lascia intendere che le richieste per un nuovo accordo su debito e austerità saranno respinte senza neanche pensarci su. Dietro a questa reazione c’è una discreta quantità di stupidaggini moralisteggianti. Due in particolare ostacolano le speranze di una risposta ragionevole alle richieste greche.

La prima stupidaggine è che i greci hanno preso in prestito i soldi e perciò sono tenuti a ridarli indietro, a qualunque costo. Era più o meno lo stesso ragionamento alla base del carcere per debiti. La verità però è un’altra: i creditori hanno la responsabilità morale di prestare soldi con accortezza. Se non vagliano in modo accurato la solvibilità dei loro debitori, si meritano quello che gli succederà. Nel caso della Grecia, le dimensioni dei disavanzi con l’estero, in particolare, erano evidenti. Ed era evidente anche il modo in cui era gestito lo Stato greco.

La seconda stupidaggine è sostenere che dal momento in cui è esplosa la crisi il resto dell’Eurozona sarebbe stato straordinariamente generoso con la Grecia. Anche questo è falso. È vero che i prestiti erogati dall’Eurozona e dal Fondo monetario internazionale ammontano alla smisurata somma di 226,7 miliardi di euro (circa il 125 per cento del Pil), più o meno i due terzi del debito pubblico complessivo, pari al 175 per cento del Pil. Ma la quasi totalità di questi soldi non è andata a beneficio dei greci: è stata utilizzata per evitare la svalutazione contabile di prestiti inesigibili a favore del Governo e delle banche del Paese ellenico. Solo l’11 per cento dei prestiti è andato a finanziare direttamente attività del Governo. Un altro 16 per cento è andato a pagare gli interessi sul debito. La parte restante è stata usata per operazioni di capitale di vario genere: i soldi sono entrati e sono usciti fuori di nuovo. Sarebbe stato più onesto soccorrere direttamente i creditori, ma era troppo imbarazzante.

Come i greci fanno notare, l’abbuono del debito è una pratica normale. La Germania, che nel XX secolo è andata più volte in default sia per quanto riguarda il debito interno sia per quanto riguarda quello con l’estero, ne ha beneficiato più volte. Quello che non può essere pagato non sarà pagato. L’idea che i greci debbano accumulare grosse eccedenze di bilancio per una generazione per restituire il denaro che i Governi creditori hanno usato per salvare i creditori privati dalla loro sconsideratezza è un’assurdità.

Che cosa bisogna fare allora? Si può scegliere tra la cosa giusta, la cosa comoda e la cosa pericolosa. Come sostiene Reza Moghadam, ex direttore del dipartimento europeo del Fondo monetario internazionale, «l’Europa dovrebbe offrire un sostanzioso alleggerimento del debito, dimezzando il debito della Grecia e dimezzando il saldo di bilancio richiesto, in cambio di riforme». Una cosa del genere, aggiunge, sarebbe coerente con l’obbiettivo di un debito notevolmente al di sotto del 110 per cento del Pil, concordato dai ministri dell’Eurozona nel 2012. Ma queste riduzioni non dovrebbero essere effettuate in modo incondizionato. L’approccio migliore è quello delineato dall’iniziativa sui «Paesi poveri pesantemente indebitati» avviata nel 1996 dal Fmi e dalla Banca mondiale. Secondo i criteri fissati da questo programma, l’alleggerimento del debito viene accordato solo dopo che il Paese debitore ha soddisfatto criteri di riforma ben precisi. Un programma del genere sarebbe di grande beneficio per la Grecia, che ha bisogno di una modernizzazione politica ed economica.

L’approccio politicamente comodo è continuare a «estendere e pretendere». Sicuramente ci sono modi per rimandare ulteriormente il giorno della resa dei conti. Ci sono anche modi per ridurre il valore attualizzato degli interessi e dei rimborsi senza ridurre il valore nominale. Tutto questo consentirebbe all’Eurozona di evitare di confrontarsi con le tesi di chi sosterrebbe l’opportunità morale di un alleggerimento del debito per altri Paesi colpiti dalla crisi, in particolare l’Irlanda. Ma un approccio del genere non è in grado di produrre quel risultato onesto e trasparente di cui c’è drammaticamente bisogno.

L’approccio pericoloso è spingere le Grecia verso il default, perché una cosa del genere probabilmente creerebbe una situazione in cui la Banca centrale europea non si sentirebbe più nelle condizioni di operare come Banca centrale della Grecia, e questo obbligherebbe il Paese ellenico a uscire dall’euro. Il risultato per la Grecia sarebbe senza dubbio catastrofico nel breve termine; secondo me potrebbe addirittura bloccare qualsiasi progresso verso la modernità per una generazione. Ma il danno non lo subirebbe solo la Grecia: l’uscita di Atene dimostrerebbe che l’unione monetaria europea non è irreversibile, ma soltanto una parità monetaria particolarmente rigida. Sarebbe il peggio dei due mondi: la rigidità dei cambi fissi senza la credibilità di un’unione monetaria. In ogni crisi futura, ci si chiederebbe se è arrivato il «momento dell’uscita». Il risultato sarebbe un’instabilità cronica.

Creare l’Eurozona è la seconda peggiore idea che i suoi membri abbiano mai avuto, ma la peggiore in assoluto sarebbe smantellare l’Eurozona. Eppure è questo lo scenario che potrebbe realizzarsi se spingessimo la Grecia verso l’abbandono della moneta unica. La via giusta è riconoscere la validità di un alleggerimento del debito condizionato alla realizzazione di riforme verificabili. Un politico rigetterebbe questa idea, uno statista la farebbe propria. Sapremo presto se abbiamo a che fare con politici o con statisti.

Quanto costa la Grecia al contribuente italiano

Quanto costa la Grecia al contribuente italiano

Isabella Bufacchi – Il Sole 24 Ore

C’è periferia e periferia. L’Italia, al fianco dei creditori “core” ma con costi più pesanti, ha aiutato la Grecia con i prestiti bilaterali, l’Efsf e l’Eurosistema. Dove inizia la “periferia” e dove finisce? Per i mercati l’Italia è senza ombra di dubbio un paese periferico: in termini di debito/Pil, rating sovrano e debolissima crescita potenziale causata da un accumulo di inefficienze, scarsa competitività, tassazione eccessiva. All’interno dell’Eurozona, l’Italia è invece allineata agli Stati “core”, è un paese creditore quando si tratta di soccorrere i periferici in difficoltà. In termini assoluti , è vero che l’Italia ha un’esposizione tramite Efsf e Esm verso la Grecia inferiore a quella della Germania o della Francia (peso ponderato in base al Pil nazionale e alla popolazione): ma in termini relativi l’assistenza finanziaria che l’Italia ha concesso finora alla Grecia ha pesato, pesa e peserà maggiormente perchè indebitarsi costa assai più caro al Tesoro italiano che non a quello tedesco o francese (anche adesso nell’era del QE). Va anche detto che l’aumento del debito pubblico tramite le garanzie all’Efsf o le quote di capitale Esm (finanziate con emissione di BTp) grava di più quando il un debito/Pil è già molto alto, e dovrebbe scendere invece di salire come nel caso italiano. Tutto questo ha rilevanza anche al fine dei negoziati sulla maggiore flessibilità chiesta dall’Italia.

Al di là delle considerazioni di opportunità politica, la crisi greca ha avuto un costo per i conti pubblici italiani. L’Italia ha concesso alla Grecia due prestiti bilaterali per un importo di circa 10 miliardi di euro, spalmati nel 2010 e nel 2011. In quegli anni il rendimento del BTp decennale ha oscillato tra il 4% e il 6% con picchi oltre il 7%: condizioni fisse. Il prestito bilaterale greco, invece, è stato ristrutturato: allungamento della scadenza di 15 anni (ora ha una vita media di 30 anni), un periodo di grazia sugli interessi di 10 anni e un abbattimento del tasso di interesse di 100 punti.

Attraverso l’Efsf, l’Italia ha aiutato la Grecia per 25 miliardi di euro(l’Italia pesa al 18% circa sul totale delle garanzie dell’Efsf e il fondo ha concesso alla Grecia 141,8 miliardi di euro, resta in bilico l’ultima tranche da 1,8 miliardi). L’Efsf ha già allungato le scadenze dei prestiti alla Grecia fino al 2054 (vita media oltre 32 anni) e ha concesso ad Atene un periodo di grazia sospendendo il pagamento degli interessi sul debito dal 2012 al 2023: con un risparmio per il budget di Atene di 8,6 miliardi nel 2013 e attorno agli 8 miliardi nel 2014 e 2015. L’Efsf e i suoi garanti non hanno perso il capitale investito in Grecia (non c’è stato haircut) ma l’investimento molto rende meno del previsto. Se rende.

La Banca d’Italia, come tutte le banche centrali dell’Eurosistema, sta restituendo alla Grecia la plusvalenza realizzata tra il prezzo di acquisto dei titoli di Stato greci (comprati con il Securities markets programme al picco della crisi a prezzi ben sotto la pari) e il rimborso a 100. Il debito pubblico italiano sale, proquota, anche per quei 10,9 miliardi di Efsf bond trasferiti all’Hellenic Financial Stability Fund per ricapitalizzare la banche greche e dare collateral per i finanziamenti presso l’Eurosistema. La chiusura del programma di aiuti dell’Efsf alla Grecia (la cui scadenza è stata estesa già dal 31/12/2014 al 28/02/2015) costringerebbe la Grecia a restituire questi Efsf bond. Infine, nel caso in cui Atene dovesse richiedere nei prossimi mesi un nuovo programma di aiuti, questa volta con l’Esm, o l’accensione di una linea di credito precauzionale ECCL all’Esm (con acquisto di titoli di Stato in asta da parte dell’Esm per candidare i bond greci alle OMTs di Draghi e probabilmente anche al QE), l’Italia avrebbe aiutato la Grecia anche tramite la partecipazione al capitale dell’Esm, costata per il paid-in oltre 14 miliardi di euro.

L’Acropoli e il Quirinale

L’Acropoli e il Quirinale

Davide Giacalone – Libero

C’è un filo che lega l’Acropoli al Quirinale. E non è fatto di moneta. Guardando alle elezioni greche ci siamo tutti concentrati su faccende di debito e valuta. Che sono certo rilevanti, ma non uniche. Quel filo passa da questioni politiche più generali, attinenti agli equilibri globali. E mette ancora di più in frizione la posizione della Germania con il posizionamento atlantico dell’Europa.

Gli errori tedeschi li vedemmo per tempo, quando in Italia erano considerati fulgido esempio di virtù economica e lungimiranza politica. Monti arrivò al governo dicendosi economista tedesco e fummo pochini ad avvertire il rischio. Ora, però, provate a mettervi nei panni della classe dirigente tedesca, politica e non solo: hanno aizzato i cittadini nel far credere (falsamente) che correvano il rischio di pagare i debiti altrui, impugnando l’arma del rigore come una specie di falce morale, e si ritrovano con politiche monetarie espansioniste e messi in minoranza presso la Banca centrale europea. Guardate i numeri con i loro occhi: passano per gli affamatori d’Europa, ma poi scoprono che le famiglie italiane hanno più patrimonio delle loro; in Italia ci sono più ricchi, in rapporto alla popolazione, che da loro; mentre nel loro Paese ci sono più poveri che da noi. Gli invasati del germanocentrismo possono non vederlo, ma i tedeschi s’avvedono che, ancora una volta, rischiano per mancanza di visione intemazionale. Erano stati avvertiti, anche da due ex cancellieri. Fatto è che, in questa condizione, è forte la tentazione di far i rigidi con i greci. Tanto più che i torti ellenici non sono pochi. Ma è possibile?

Il problema non è economico. Se all’inizio di questa storia si fosse scelta la strada della protezione, ci sarebbe costata meno. Il problema è di politica estera. La Grecia ha una posizione e un ruolo importanti, accresciuti dallo scivolare della Turchia verso non tanto i costumi neo-islamici, quanto verso le rimembranze vetero-imperiali. Non dimentichiamoci che il bastione della Nato, in quell’area, poggiava e poggia su Turchia e Grecia. E ciò fu possibile grazie all’occidentalismo kemalista, che dominava la Turchia, per il tramite dell’esercito, così come da un equilibrio ellenico che escludeva la possibilità d’influenze comuniste nell’area, fino a rendere possibile il colpo di stato militare. Roba del secolo scorso, certamente. Ma non è che in questo possa avvenire l’opposto.

Il nuovo governo greco è un’incognita, da tale punto di vista. Le alleanze che lo reggono non rassicurano. Ha chiarito che non intende allontanarsi dall’euro, ma cosa succederebbe se politiche sbagliate allontanassero l’euro dalla loro portata? La Grecia sprofonderebbe in una miseria senza fondo, con le banche destinate a saltare una dopo l’altra. Oppure interverrebbero capitali non europei. Quelli cinesi sono gia presenti e crescenti. La Russia è interessata, sia per rapporti esistenti che per riequilibrio sul versante del Mar Nero (dove la Grecia non si affaccia, ma presidia le spalle della Turchia). Anche capitali arabi sarebbero interessati, per giocare qualche pezzo in più sulla già complessa scacchiera mediterranea. E tutti hanno il loro tornaconto nel divaricare le posizioni dell’Unione europea da quelle degli Stati Uniti. Ue che, del resto, nel ribollire scomposto d’astratte patire e di concreti errori, vede crescere, a destra e a sinistra, formazioni nazionaliste e isolazioniste che incarnano la perdita dell’orientamento e della vitale collocazione atlantica. Non è un mistero che l’operazione Quantitative easing sia ben vista a Washington e mal sopportata a Berlino. Mettete anche questa nel conto e darete maggiore corpo al nervosismo tedesco. Quindi: condonare ai greci i loro debiti è impossibile, anche perché sono i nostri soldi; supporre di farglieli pagare per fargliela pagare è impossibile, perché significa perderli; perderli è pericoloso, perché rattrappisce l’Ue attorno agli imperi centrali (e fanno giusto ora 100 anni!). Occorre equilibrio, dunque. Che è il contrario del cavalcare il marasma e soffiare sulle paure.

Il Quirinale c’entra, perché con la Francia implosa (anche lì i tedeschi hanno sbagliato, e la Merkel, facendo campagna per Sarkozy, ha dimostrato i limiti della sua e della tedesca visione politica) l’Italia ha un ruolo accresciuto. O potrebbe averlo. Il che comporta un presidente della Repubblica eletto guardando anche questo scenario, non solo la cucina del potere nostrano. Potremmo essere noi (traendone vantaggio) a tendere la mano di cui i tedeschi hanno bisogno, per placare gli spiriti di un passato oggi interpretato da chi non lo ha vissuto: i più giovani. Per riuscirci, però, c’è bisogno che i nostri protagonisti non siano a loro volta ghermiti da quegli spiriti, sebbene in versione maccheronica. Sarebbe saggio che la cronaca della corsa al Colle, legittimamente agonistica, non fosse meramente dialettale.