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Il dilemma di Draghi

Il dilemma di Draghi

Stefano Micossi – Affari & Finanza

La Bce non può più rinviare la decisione di acquistare titoli a lungo termine dell’eurozona in gran quantità ( quantitative easing, o QE): perché l’inflazione mensile e annua in dicembre è diventata negativa, sta sotto l’1 per cento da ottobre 2013 ed è prevista scendere ancora; perché il suo bilancio si sta sgonfiando, invece di aumentare; perché il nuovo strumento di rifinanziamento delle banche ‘mirato’ alle imprese, il Tltro, non sta funzionando per la scarsa domanda di prestiti dall’economia.

La credibilità della Banca Centrale Europea è a rischio, le misure usuali delle attese d’inflazione nei principali paesi dell’eurozona puntano a zero. Se vuol esser creduta sull’obiettivo d’inflazione – il due o ‘vicino al’ due per cento – la Bce dovrà indicare un programma di acquisti adeguato. Può adottare un programma mensile open-ended – dunque potenzialmente illimitato – legato alla realizzazione dell’obiettivo d’inflazione, oppure continuare gli interventi fino al raggiungimento del target sulla dimensione del bilancio della Bce (i due ‘trilioni’ già decisi dal Consiglio direttivo). Se gli acquisti si fermassero a 500 miliardi, come qualcuno lascia trapelare, la credibilità dell’annuncio sarebbe in questione. Data la dimensione limitata del mercato delle obbligazioni private, inevitabilmente, gli acquisti dovranno includere ammontari consistenti di titoli pubblici.

Nell’intenso fuoco di sbarramento in atto contro il QE, molte voci ne negano l’efficacia, ma i loro argomenti non sono convincenti. L’intervento sosterrà l’attività economica sia spingendo al ribasso il cambio dell’euro (come già sta avvenendo per l’effetto annuncio, finalmente!), sia facilitando la riduzione dell’eccesso di debito (deleveraging) pubblico e privato attraverso la riduzione dei tassi a lunga – che a tal fine devono restare per molto tempo al di sotto del tasso di crescita nominale del pil. La discesa dei tassi sui debiti pubblici trascinerà al ribasso anche quelli sulle obbligazioni e i prestiti privati, dato che nelle condizioni attuali di segmentazione dei mercati finanziari il costo dei primi agisce come un ‘pavimento’ per quello dei secondi. Gli effetti espansivi saranno più intensi se finalmente la Commissione allenterà i vincoli del patto di stabilità per gli investimenti, come già indica la nuova comunicazione sulla ‘flessibilità’ pubblicata martedì scorso.

Due questioni cruciali da risolvere riguardano la scelta sui titoli da acquistare e la gestione dei rischi per il bilancio della Bce. Ogni acquisto di titoli da parte della banca centrale modifica anche lo spread tra i rendimenti dei titoli dei paesi dell’eurozona. Il processo di convergenza degli spread sarebbe più rapido se la Bce concentrasse i suoi acquisti sui titoli dei paesi più indebitati, ma avverrebbe anche se la Bce comperasse solo Bund tedeschi. Infatti, la nuova liquidità finirebbe comunque per affluire sul mercato dei titoli più rischiosi, che garantiscono rendimenti più elevati. Nella visione della Bundesbank, però, la riduzione degli spread è fonte di azzardo morale, attenuando l’incentivo a correggere gli squilibri di bilancio nei paesi spendaccioni; ma una politica monetaria espansiva che non modifica i prezzi relativi delle attività finanziarie semplicemente non esiste.

La soluzione più lineare e meno controversa per la Bce è di acquistare i titoli dei paesi dell’eurozona in proporzione data da una chiave non controversa, come le quote dei paesi membri nel capitale della Bce o nel pil aggregato dell’Eurozona. È importante che allo stesso tempo i paesi indebitati mantengano l’acceleratore pigiato sulle riforme economiche, che resta il miglior viatico per la capacità di Draghi di convincere i colleghi del Consiglio direttivo a espandere. La Bce ha gli strumenti per aumentare la pressione su chi eventualmente perdesse la direzione (Grecia post-elezioni inclusa).

La seconda questione cruciale è come gestire possibile perdite della Bce sul suo portafoglio titoli. Nel caso di una banca centrale nazionale, il rischio degli interventi di mercato aperto ricade automaticamente sul bilancio pubblico, che è il garante ultimo dell’offerta di moneta e delle passività della banca centrale. Nel caso della Bce, invece, un back-stop fiscale non esiste; peggio, se la Bce assumesse tali perdite a seguito dell’insolvenza di un debitore sovrano dell’eurozona, ciò configurerebbe secondo alcuni una violazione del divieto di bail out previsto dall’articolo 125 del Trattato di Lisbona.

La soluzione logica sarebbe di guardare per questa funzione di back-stop al bilancio del Meccanismo europeo di stabilità, che già costituisce il nucleo di una futura capacità fiscale dell’eurozona, ma per i tedeschi per ora questa è una bestemmia. Se ogni stato garantisse le perdite sui suoi titoli, l’effetto sui tassi dei paesi indebitati potrebbe attenuarsi fino a scomparire; superare il problema facendo acquistare da ogni banca centrale i titoli del suo paese equivarrebbe ad annunciare la fine della politica monetaria comune. In pratica, il problema è meno intrattabile di quel che sembra: con ogni probabilità all’inizio la Bce registrerà consistenti guadagni in conto capitale sui titoli acquistati, man mano che i tassi scenderanno. Questi guadagni costituiranno un cuscinetto più che adeguato per coprire eventuali perdite su alcuni dei titoli in portafoglio. In effetti, già in occasione della ristrutturazione del debito greco, nell’estate del 2011, la Bce compensò le sue perdite con guadagni realizzati in precedenza.

Il petrolio sperimenta il libero mercato

Il petrolio sperimenta il libero mercato

Leonardo Maugeri – Affari & Finanza

Il 2015 si apre con un mercato del petrolio profondamente diverso da come lo abbiamo conosciuto per oltre 150 anni, affidato alle leggi della domanda e dell’offerta e non a ripetuti tentativi di controllo e addomesticamento. I tentativi cominciarono con la nascita stessa dell’industria petrolifera, nella seconda metà dell’Ottocento. Ci provò per primo John D. Rockefeller con la sua Standard Oil, convinto che il futuro del greggio non potesse essere abbandonato al libero gioco delle forze economiche. L’osservazione di quanto avveniva ai suoi tempi sembrava dargli ragione. I boom delle scoperte petrolifere provocavano eccessi di produzione, che a loro volta facevano crollare i prezzi, gli investimenti e alimentavano catene di fallimenti. Pochi anni e il petrolio veniva a mancare, i prezzi tornavano alle stelle, e il film ripartiva dall’inizio, con lo stesso finale. Il successo di Rockefeller nel controllare le repentine montagne russe del petrolio fu tale che la Standard Oil divenne oggetto della prima grande sentenza antitrust della storia, che portò allo smembramento della società in oltre trenta entità da cui presero vita compagnie come Exxon, Mobil, Chevron. Ma la maledizione che aveva spinto Rockefeller a perseguire il controllo monopolistico del mercato continuò a dominarlo.

A più riprese, per tutto il XX secolo, grandi scoperte inattese di giacimenti fecero crollare i prezzi, riproponendo la trama già sperimentata da Rockefeller. A partire dagli anni Trenta, spettò in successione alle autorità del Texas (per quasi quarant’anni il più grande produttore mondiale), poi alle Sette Sorelle e infine all’Opec il compito di imporre meccanismi di controllo a un mercato per sua natura volatile. Ma il tentativo di renderlo più prevedibile e stabile, in modo da poter affrontare immensi investimenti a lungo termine senza il rischio di rimanere con un pugno di mosche in mano, ebbe fortune alterne. Le fasi storiche di prezzi alti alimentarono sempre una feroce competizione, aprendo la strada a innovazioni tecnologiche e rendendo possibili scoperte di nuovi giacimenti. La combinazione di questi elementi provocò nuove ondate di offerta che nessuno pensava possibili, distruggendo i prezzi, com’è successo negli ultimi sei mesi del 2014. Ed è qui che si è innestato il cambiamento.

Convinta che l’Opec non sia più in grado di esercitare alcun controllo sul sistema petrolifero mondiale, l’Arabia Saudita ha voltato le spalle all’organizzazione dei grandi esportatori di petrolio che contribuì a fondare. Invece di cercare un accordo per tagliare la produzione e sostenere i prezzi, Riad ha deciso di lasciare tutti al proprio destino, lanciando l’industria petrolifera in un esperimento di libero mercato senza restrizioni. In realtà, qualche restrizione i sauditi l’hanno in mente. Segretamente, per oltre un anno hanno stimato gli effetti sui conti del Regno di prezzi del greggio a 60 e a 45 dollari: nel primo caso, si sono convinti di poter sostenere la propria spesa corrente per almeno quattro anni senza intaccare le ricche riserve di valuta accumulate (900 miliardi di dollari); nel secondo hanno calcolato di dover attingere alle riserve a un ritmo di circa 10 miliardi di dollari al mese, un sacrificio sostenibile per almeno un anno, secondo i circoli che contano di Riad. Alcuni nel paese ritengono disastrosa una simile prospettiva, ma non osano dirlo perché essa è stata tracciata e condivisa con Re Abdullah dai due uomini di cui il sovrano saudita si fida di più: il ministro del petrolio e quello delle finanze. Solo il futuro saprà dirci chi ha ragione.

Perché i sauditi hanno scelto questa strada? La loro logica sembra stringente. Lasciando il mercato privo di controlli i prezzi non possono che scendere a causa della troppa produzione. Tuttavia, parte della produzione è troppo costosa per sopravvivere a prezzi bassi, e quindi dovrebbe scomparire. I sauditi sono certi che non ci vorrà molto, e che a pagare il fio della loro strategia saranno in primis gli Stati Uniti, il Canada, e altri paesi che negli ultimi anni avevano visto lievitare le loro produzioni grazie agli alti prezzi del petrolio.

Questo modo di ragionare e gli obiettivi che delinea presentano molti punti deboli. Fino a pochi mesi fa Riad pensava che già a 75 dollari a barile buona parte della produzione americana sarebbe stata cancellata insieme a quella del Canada. In generale, i sauditi ritenevano che tutte le produzioni di greggio non convenzionale nel mondo sarebbero entrate in crisi. Così non è stato a causa di continui miglioramenti di tecnologia e abbattimento di costi che hanno reso quelle produzioni meno care. Nonostante la caduta dei prezzi del greggio americano sotto i 45 dollari a barile, nelle prime settimane di gennaio la produzione statunitense è cresciuta. Gli investimenti già fatti per sviluppare capacità produttiva stanno rilasciando risultati fatali, che arrivano sul mercato mentre la domanda rimane asfittica. Né è detto che bastino bassi prezzi del petrolio a far rimbalzare i consumi mondiali. Le legislazioni ambientali e di efficienza energetica riducono l’elasticità della domanda ai prezzi, e in molti Paesi i giovani aspirano a modelli di consumo che non prevedono più l’auto come oggetto del desiderio.

Dove tutto questo porterà è ancora incerto. Ma è difficile che i sauditi rinuncino al loro obiettivo almeno per il 2015, sperando che nel corso dell’anno i produttori a più alto costo inizino a crollare come birilli. Con loro, però, potrebbero crollare i conti di molte società petrolifere e la stabilità di paesi critici per l’ordine internazionale, a partire da alcuni percorsi da brivido del fondamento islamico. Benvenuti nel nuovo mondo temerario del mercato libero del petrolio.

PA: solo 220 licenziati in un anno: metà per le troppe assenze

PA: solo 220 licenziati in un anno: metà per le troppe assenze

Andrea Bassi – Il Messaggero

La percentuale è bassa. Quasi irrisoria. Solo lo 0,007%. Su tre milioni circa di dipendenti pubblici, i casi di licenziamento per motivi disciplinari in un anno, il 2013 l’ultimo per il quale i dati sono disponibili, sono stati 220 in tutto su un totale di circa 7 mila procedimenti avviati. Novantanove di questi, il 45 per cento del totale, sono stati messi alla porta per assenze ingiustificate dal servizio; altri settantotto (il 36 per cento) per aver commesso reati; trentacinque, il 16 per cento, per inosservanza delle disposizioni di servizio, per negligenza o per comportamenti scorretti nei confronti di colleghi e superiori. Solo sette, invece, i licenziamenti per doppio lavoro non autorizzato e nessuno nel comparto scuola. Sono stati, invece, circa 1.300 i provvedimenti di sospensione dal lavoro.

I numeri sono stati appena diffusi dall’Ispettorato della funzione pubblica, l’organismo del ministero guidato da Marianna Madia che si occupa di verificare la correttezza dei comportamenti dei dipendenti pubblici. Lo stesso ispettorato inviato a indagare sulle assenze dei vigili urbani di Roma nella notte di San Silvestro. Non è un caso che i numeri siano stati diffusi proprio in questi giorni. In settimana ripartirà in Commissione Affari Costituzionali del Senato l’iter della riforma sulla Pubblica amministrazione. Il governo e il relatore del provvedimento, Giorgio Pagliari, dovrebbero presentare delle proposte di modifica all’articolo 13 del testo, quello che affronta proprio il tema del licenziamento dei lavoratori del pubblico impiego.

Nei giorni scorsi il ministro Madia ha messo alcuni paletti. Ha, per esempio, chiarito che nel caso di licenziamenti per motivi disciplinari dichiarati illegittimi dalla magistratura, per gli statali, a differenza dei lavoratori privati, rimarranno le tutele dell’articolo 18 nella versione precedente le modifiche del «jobs act». In pratica se ad essere licenziato illegittimamente sarà un lavoratore pubblico, avrà sempre diritto al reintegro nel posto di lavoro. Per i lavoratori privati, invece, il reintegro rimarrà solo una possibilita residuale, quando cioè il fatto contestato dal datore di lavoro si sarà dimostrato del tutto inesistente. In tutti gli altri casi i lavoratori privati avranno solo diritto ad un indennizzo monetario crescente che, al limite, potrà arrivare a 24 mensilità di stipendio.

Cosa dirà allora l’emendamento che il governo e il relatore si preparano a depositare? Secondo quanto annunciato dal ministro Madia, ci sarà una delega specifica per semplificare le procedure di licenziamento disciplinare già previste dalla riforma Brunetta. In particolare l’intenzione del governo sarebbe quella di agevolare soprattutto quelle per «scarso rendimento». Una possibilità che la legge Brunetta già prevede. Le norme attuali stabiliscono che il lavoratore possa essere messo alla porta se riceve una valutazione insufficiente del rendimento per almeno un biennio. Ma dalle tabelle pubblicate dall’Ispettorato della Funzione pubblica, almeno per il 2013, nessun lavoratore risulta essere stato licenziato con questa motivazione. Il problema è che la valutazione dei dipendenti statali, seppure esplicitamente prevista, è rimasta fino a questo momento sulla carta.

Sempre la riforma Brunetta prevede che ogni anno gli statali ricevano un voto per poter accedere ai premi. Il 25 per cento dei lavoratori più bravi dovrebbe portarsi a casa un super-premio del 50 per cento delle risorse del trattamento accessorio, un altro 50 per cento un premio più basso in quanto dovrebbe dividersi il restante 50 per cento del salario accessorio, mentre l’ultimo 25 per cento dei dipendenti, quelli meno produttivi, non riceverebbe alcuna gratifica. L’avvio di questo meccanismo era legato tuttavia alla contrattazione collettiva. Essendo i contratti bloccati da ormai cinque anni consecutivi, non se ne è mai fatto nulla. Adesso il governo, attraverso la delega sulla pubblica amministrazione, ha intenzione di riprendere in mano il capitolo della valutazione rendendola effettiva.

Il “gioco del cerino” che mette nei guai Draghi

Il “gioco del cerino” che mette nei guai Draghi

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

In attesa della riunione del Consiglio della Banca centrale europea si stanno affilando i coltelli e la situazione appare ogni giorno (ove non ogni ora) più complicata. Un coretto a cappella di cronisti e commentatori ha scritto, sulla stampa italiana, che dopo il documento dell’Avvocato generale della Corte di Giustizia europea, il management della Bce deve considerarsi “sereno” e deve essere considerato acquisito il “via libera” al Quantitative easing (Qe) e alle misure “non convenzionali” che, insieme a un numero di componenti del Consiglio Bce, Mario Draghi vorrebbe mettere in atto per rilanciare l’economia dell’eurozona, specialmente le Outright monetary transactions (Omt). O non hanno letto il documento o vivono lontani dal mondo Bce.

Facciamo un passo indietro a un ricorso alla Corte Costituzionale tedesca fatto da un gruppo nutrito di economisti e giuristi tedeschi, secondo cui le Omt proposte dal Presidente Bce nel giugno 2012 avrebbero trasgredito vari trattati e la stessa Carta fondamentale della Repubblica Federale. Il massimo tribunale della Germania ha risposto chiedendo il parere della Corte di Giustizia Ue. È un parere non vincolante, ma è altamente probabile che la Corte Tedesca vi si atterrà. Se non altro per non restare con il cerino acceso in quel di Karlsruhe (dove i giudici rosso togati hanno sede).

Tuttavia, l’Avvocato generale Pedro Cruz Villalon, il cui parere verrà molto probabilmente recepito dalla Corte di Giustizia Ue (su questo punto concordo con il coretto a cappella) ha scritto un documento tra il fariseo e il pilatesco, passando il cerino agli organi dell’unione monetaria, in primo allo luogo alla Bce, il cui Consiglio si riunisce ben prima della Corte tedesca di Karlsruhe (peraltro ancora non convocata).

Il documento, infatti, afferma che la Bce deve avere «ampia discrezionalità» in materia di politica della moneta, ma unicamente in questa materia. In questo quadro, le misure “non convenzionali”, il Qe e soprattutto le Omt (non affatto amate a Berlino e dintorni) possono essere formulate e attuate purché siano uno strumento di politica monetaria e non aiuto finanziario a uno Stato membro. L’esatto contrario di quanto vorrebbe il management della Bce, che desidererebbe poter acquistare obbligazioni di Stati in difficoltà (ad esempio, titoli del debito italiano per ridurne il fardello).

Inoltre , secondo il documento, ciascuna operazione dovrebbe essere effettuata sulla base di un programma economico concordato dallo Stato membro con le autorità Ue, un po’ come le varie forme di structural adjustment lending che Banca mondiale e Fondo monetario internazionale attuano da quaranta anni – e che la Troika ha elaborato per Cipro, Grecia, Irlanda e Spagna. Infine, secondo il documento, le circostanze straordinarie per tale intervento eccezionale devono essere precisate, unitamente a un meccanismo di monitoraggio, perché il programma definito venga attuato.

Quindi, un “nulla osta” molto condizionato, pieno di paletti e vincoli che ne rendono difficile l’attuazione. Potrebbe il Governo Renzi essere messo nella condizione di dover rendere conto a un gruppo di eurocrati con cui concordare misure specifiche la cui attuazione verrebbe monitorata con attenzione? E quello Hollande?

Prima ancora di arrivare a questi nodi politici, dovrebbero essere sciolti spinosi nodi tecnici. Prendiamo la forma più semplice di Qe: l’acquisto di obbligazioni degli Stati dell’eurozona. L’acquisto avverrebbe in proporzione alla loro partecipazione al capitale della Bce per tutti i 19? O si terrebbe conto della “qualità” dei titoli di ciascuno? Quale metro di giudizio, in questo caso, verrebbe utilizzato per valutare la qualità? Quello delle quattro agenzie di rating (tre essenzialmente americane e una cinese)? Oppure si metterà in piedi un apparato specifico europeo? E come si tratterebbero le obbligazioni di Stati in cui forze politiche importanti (e che potrebbero presto avere responsabilità di governo) hanno annunciato l’intenzione di ripudiare parte del proprio debito sovrano?

In effetti, a questi interrogativi posti dai giuristi e dagli economisti che hanno fatto ricorso alla Corte suprema tedesca, i giudici rosso togati di Karlsruhe pensavano di avere qualche risposta dalla Corte di Giustizia europea. Sono stati, invece, rinviati non direttamente al mittente, ma al Consiglio Bce, nel cui seno infuria la battaglia.

Ove la situazione non fosse sufficientemente complicata, un numero crescente di economisti (anche italiani) ritiene che la Bce deve considerarsi causa dei suoi mali, in quanto, pur adottando una politica di inflatition targeting e fissando tale target, ha fatto cadere l’eurozona in deflazione. Altri documentano che con una crescita della quantità di moneta al 2,5% l’anno, non è la liquidità a far difetto, ma un sistema economico, regolamentare e giudiziario obsoleto che frena gli investimenti – Nomura lo ha scritto chiaro e tondo ai propri clienti. In tal caso, Qe, Omt e tante altre sigle servirebbero unicamente ad arricchire la galassia degli acronimi.

Aziende schiacciate dalle tasse

Aziende schiacciate dalle tasse

Valerio Stroppa – Italia Oggi

Per ogni 10 euro guadagnati dalle imprese italiane 6,5 euro vanno allo Stato. Il total tax rate per l’anno 2014 si è attestato al 65,4%, con un leggero miglioramento rispetto al 65,8% del 2013. Una pressione fiscale maggiore si ritrova solo in Francia (66,6%), mentre ben più basso risulta il prelievo complessivo in Germania (48,8%), Spagna (58,2%) e Regno Unito (33,7%). Senza considerare ordinamenti di particolare favore verso le imprese come quello della Croazia (tassazione totale al 18,8%) e dell’Irlanda (25,9%). È quanto emerge da un’elaborazione del Centro studi ImpresaLavoro basata sui dati contenuti nel rapporto Doing Business 2015, predisposto ogni anno dalla Banca mondiale. Il tax rate gravante sulle imprese viene calcolato in percentuale sugli utili totali e comprende l’imposta sul reddito (corporate tax), i contributi sociali e previdenziali, le tasse su dividendi e capital gain, nonché le tasse su rifiuti, veicoli e trasporti.

Il Doing Business è impietoso con il Belpaese: nella classifica globale che misura la facilità di fare impresa, al capitolo fisco l’Italia si piazza ultima a livello continentale e 141° nel mondo (su 189 paesi), dietro a paesi quali Sudan, Sierra Leone, Burundi. «Un risultato determinato da un mix micidiale composto da pressione fiscale elevata, sistema complesso e tempi lunghi anche per pagare quanto dovuto allo Stato», spiega una nota di ImpresaLavoro, «al prelievo elevato, infatti, si associa anche un sistema burocratico particolarmente complicato. Tra Ires, Irap, tasse sugli immobili, versamenti Iva e contributi sociali in Italia un imprenditore medio effettua in un anno 15 versamenti al fisco, sei in più di un suo collega tedesco, sette in più di un inglese, di uno spagnolo o di un francese e nove in più di uno svedese».

Ai costi diretti legati al prelievo fiscale si sommano poi gli oneri indiretti, ossia le «ore-uomo» necessarie per adempiere correttamente agli obblighi tributari. Per essere in regola con l’erario, infatti, le aziende italiane impiegano in media 269 ore all’anno. Sotto questo profilo, tuttavia, in Europa sono altri cinque gli stati membri dove le aziende impiegano più tempo: in Portogallo servono 275 ore, in Ungheria 277, in Polonia 286, per salire alle 413 ore della Repubblica Ceca e alle 454 della Bulgaria. Netto però il divario con le altre grandi economie europee: un’azienda tedesca ha bisogno di 218 ore all’anno (51 in meno dell’Italia), una spagnola di 167 ore (102 ore in meno) e una francese 137 ore (132 ore in meno). «Particolare poi la situazione del Regno Unito», prosegue il centro studi, «dove a un sistema fiscale gia leggero in termini quantitativi si accompagna un sistema di pagamento molto semplice. Gli imprenditori inglesi effettuano in un anno una media di otto versamenti al fisco, occupando solo 110 ore del loro tempo, meno della metà di un imprenditore italiano».

I dati del rapporto mondiale indicati nel capitolo «Paying taxes» evidenziano una disparità anche tra l’Italia e il mondo Ocse nel suo insieme. La media della pressione fiscale vigente nei 34 paesi più sviluppati appartenenti all’organizzazione parigina è del 41,3%. Lo scostamento maggiore non si riscontra nella tassazione sugli utili di impresa (19,9% in Italia contro una media Ocse del 16,4%), ma soprattutto in quella gravante sui lavoratori (43,4% contro 23,0%). Le imposte indirette sono in linea con la media Ocse, dove però le ore dedicate ogni anno alla compliance fiscale dalle imprese non supera le 175 (contro le 269 ore italiane).

Un contesto dal quale emerge come, secondo ImpresaLavoro, «l’Italia resta la matrigna d’Europa per quanto riguarda le tasse sulle imprese», anche perché le frequenti modifiche normative e la conseguente incertezza applicativa scoraggia la nascita di nuove iniziative. Temi, questi, sui quali il governo sta cercando di intervenire a più riprese. A cominciare dalle misure introdotte dalla legge di stabilità 2015 (deducibilità ai fini Irap del costo del lavoro, patent box, credito d’imposta ricerca e sviluppo), ma anche con l’intervento sull’abuso del diritto previsto dalla delega fiscale. Il decreto attuativo, però, è stato stoppato dallo stesso esecutivo dopo le polemiche sorte in merito alla norma che avrebbe depenalizzato talune fattispecie di reato tributario. Il dlgs, riveduto e corretto, tornerà sul tavolo di palazzo Chigi il prossimo 20 febbraio.

La flessibilità che serve per creare occupazione

La flessibilità che serve per creare occupazione

Danilo Taino – Corriere della Sera

C’è un numero che colpisce nelle statistiche sul mercato del lavoro di Eurostat. Dice che, alla fine del terzo trimestre del 2014 , gli italiani «disponibili per il lavoro ma che non lo cercano» (e che quindi non entrano nelle statistiche della disoccupazione) erano il 14,2% del totale della forza lavoro; in crescita dell’ 1,1% rispetto a un anno prima. In assoluto è la quota più alta nella Ue, la cui media è il 4,1% . In Germania, per dire, la percentuale è 1,2 , in Gran Bretagna 2,2 , in Spagna 5,0.

La prima considerazione che il dato solleva è che la disoccupazione italiana è dunque di parecchio più alta del tasso ufficiale – 13,4% lo scorso novembre – che Eurostat calcola secondo i criteri stabiliti dall’Ilo, l’Ufficio internazionale del lavoro. C’è insomma un gruppo di persone, più consistente che negli altri Paesi, che non cerca un’occupazione anche se sarebbe nelle condizioni di farlo: su scala europea, si tratta per il 57,4% di donne e probabilmente questa maggioranza di genere è ancora più accentuata in Italia.

Una seconda considerazione, più interessante, parte dal fatto che queste persone hanno ragioni strutturali e stabili per non cercare lavoro: ritengono che esso non sia disponibile, preferiscono occupazioni in nero, svolgono funzioni domestiche a cominciare dalla cura dei figli, mostrano ritrosie culturali. Di base, però, a scoraggiare la ricerca di un’occupazione è la rigidità del mercato del lavoro stesso. Quando, nei primi Anni Duemila, la Germania riformò il sistema delle garanzie all’occupazione e introdusse una dose di flessibilità nella tipologia dei contratti, aprì le porte a centinaia di migliaia di studenti e soprattutto di casalinghe che non avevano mai ufficialmente cercato un lavoro ma che, di fronte all’opportunità, entrarono nel sistema produttivo. Il numero di persone impiegate, che fino al 2006 non aveva mai superato i 40 milioni , oggi supera di molto i 42 milioni. I posti così creati sono in gran parte mini-job e dunque hanno retribuzioni basse; ritenute però interessanti da questi soggetti. Uno sviluppo che in parallelo ha reso le imprese più disponibili a creare posizioni, prima inesistenti, adatte alla nuova offerta di lavoro. Non sempre, dunque, è una variazione nella domanda che arriva dalle imprese a creare occupazione. Molto spesso, sono i cambiamenti nell’offerta i fattori che la creano. E, con essa, reddito e ricchezza.

La riforma del versamento Iva nuova tagliola per le imprese

La riforma del versamento Iva nuova tagliola per le imprese

Antonio Signorini – Il Giornale

Le imprese sono sempre più a secco di liquidi e le scelte del governo rischiano di aggravare la loro situazione, invece di migliorarla. I ritardi nei pagamenti pubblici e privati – ha certificato ieri la Cgia di Mestre – pesano sul fatturato delle aziende per 34 miliardi di euro. Un male antico, quello delle fatture non saldate da committenti statali o da aziende, al quale rischia di aggiungersi il peso delle nuove norme sul pagamento dell’Iva.

Il cosiddetto reverse charge deciso dall’ultima legge di Stabilità prevede che l’Iva sia versata allo Stato direttamente dall’acquirente. Una partita di giro per quei settori che hanno un equilibrio nel tempo tra merci acquistate e quelle vendute. Ma non per tutti. Da qualche giorno arrivano al governo, ad esempio, gli allarmi del settore del latte e da quello della grande distribuzione. In questo caso il reverse charge farebbe aumentare il credito Iva già enorme (si parla di un miliardo di euro) drenando liquidità a un settore che già non se la passa bene. Tra i possibili effetti, difficoltà a pagare i fornitori di latte e un ulteriore spostamento degli acquisti verso il latte estero. Nella stessa situazione la grande distribuzione organizzata, le cui imprese diventeranno ancora di più dipendenti dai rimborsi Iva, quindi da crediti verso lo Stato.

E su questo fronte ancora non c’è da rallegrarsi. In Italia ben 3,4 milioni di imprese, pari al 76 per cento del totale nazionale, soffrono di problemi di liquidità riconducibili al ritardo nei pagamenti, ha calcolato ieri la Cgia di Mestre. I mancati incassi, sia su crediti verso il pubblico sia verso il privato, hanno comportato perdite di 35 miliardi di euro e 1,7 milioni di imprese, il 39 per cento del totale, hanno segnalato che a causa di questa criticità non hanno potuto effettuare assunzioni, mentre 900mila aziende (pari al 20 per cento) hanno valutato la possibilità di licenziare in ragione di problemi conseguenti al ritardo dei pagamenti. Infine, 700mila imprese (pari al 15 per cento del totale nazionale) si trovano sull’orlo del fallimento.

«Le cause di queste criticità – segnala il segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi – vanno ricercate nei tempi medi di pagamento effettivi presenti in Italia che intercorrono nelle transazioni commerciali sia tra imprese e Pubblica amministrazione, sia tra imprese private. Nel primo caso, i giorni medi necessari per il saldo fattura sono 165; nel secondo caso, invece, si arriva a 94 giorni». Il primo cattivo pagatore, insomma, ancora una volta è lo Stato. E «in entrambe le situazioni siamo maglia nera quando ci confrontiamo con i nostri principali partner dell’Ue».

È dall’ottobre scorso che il ministero dell’Economia non aggiorna i dati sul rimborso dei debiti della Pa. Segnalano che i debiti pagati dallo Stato e dalle Autonomie locali ammontano a 32,5 miliardi di euro. «Se si considera che nell’ultimo biennio sono stati messi a disposizione circa 56,3 miliardi di euro – spiega la Cgia – l’incidenza dei pagamenti effettuati sul totale è pari al 57,7 per cento. C’è stato un rallentamento, che ieri il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha spiegato in un’intervista al Sole24Ore . «Il problema è legato ai crediti per la spesa in conto capitale, dove dobbiamo tener conto dell’impatto sul deficit. Eppoi con alcune ragioni continuano ad esserci problemi. Si stanno comunque sbloccando nuove tranche». In sostanza, non si pagano i debiti per non incidere sul deficit e sforare i limiti europei.

Vigili uniti in piazza per difendere la falsa malattia

Vigili uniti in piazza per difendere la falsa malattia

Francesco Merlo – La Repubblica

“Da una malattia vera si può guarire, da quella finta no” sarà lo slogan. E dunque sciopereranno per difendere il diritto alla finta malattia i vigili urbani di tutta Italia aderenti all’Ospol-Csa, che non è il nome del medicamento del dottor Dulcamara di Donizetti “l’odontalgico mirabile liquore / dei topi e delle cimici possente distruttore”. È invece la sigla del più affollato sindacato della polizia locale, 15 mila iscritti che il 12 febbraio manifesteranno per le strade di Roma in solidarietà con i pizzardoni infingardi che, nella notte di Capodanno, essendo – veramente – finti malati, furono costretti a presentate finti certificati che il sindaco di Roma ancora oggi si ostina a non prendere per veri. Non capisce, Ignazio Marino, che nulla è più doloroso e contagioso di una malattia finta.

L’Ospol-Csa, che si attribuisce “grande senso di responsabilità”, rivendica contro il Comune e contro il Governo “le risultanze numeriche” della notte di Capodanno, e dopo avere “discusso sino all’alba del 15 gennaio a San Benedetto del Tronto” attende ancora “l’inoltro formale per le correlate verifiche” della “possibile preintesa contrattuale”, contro “la cancellazione dell’equo indennizzo, la causa di servizio e la pensione privilegiata, che si aggiunge all’usurpazione della indennità di pubblica sicurezza”. Questo linguaggio che, a differenza delle malattie e dei certificati di Capodanno, è autentico non riesce più a suonare ridicolo, perché mai si era visto un oltranzismo corporativo così cieco, mai il tribalismo italiano di un mestiere organizzato come una cosca era arrivato al punto di marciare su Roma per difendere il non lavoro, la truffa del certificato patacca, la viltà del malessere simulato per inasprire la lotta sindacale godendosi, intanto, il cenone.

Purtroppo il Comune di Roma ha fatto ballare il totale degli ammalati di comodo, ma anche se “le risultanze numeriche” dei bugiardi sbugiardabili fossero davvero scese dall’ottanta al quaranta per cento, la sostanza non cambierebbe. La notte di Capodanno un agente patogeno espertissimo in sindacalese ha decimato i vigili urbani di Roma e qualcuno di questi poliziotti ha donato il sangue, qualcun altro si è rifugiato nell’assistenza retribuita di familiari disabili per dare una credibilità morale alla diserzione commessa come un reato associativo con la complicità dei soliti medici compiacenti e con la regia dei sindacati, anche quelli confederali nel ruolo inedito dei finti malati moderati.

Avevamo scritto che non c’è niente di peggio che usare le generose norme di civiltà come espedienti, come forconi, come fasci di combattimento sociale. Ebbene ci sbagliavamo. È infatti oltre ogni decenza e ogni logica l’annuncio che i finti malati d’Italia porteranno spavaldamente in corteo, da piazza della Repubblica a piazza SS apostoli, le ragioni dell’impunità, la forza antica e prepotente del clan, il diritto del topo di stare nel formaggio e del verme di avanzare nella mela. Non manifestano infatti soltanto per salvaguardare i salari proteggendo l’accumulo di piccole rendite di posizione e di incrostazioni paradossali come l’indennità stradale, la pulizia della divisa, la famosa seminotte che comincia alle 15,48… La verità è che i finti malati in piazza, al di là del pittoresco, non sono solo una deviazione sindacale estremista ma un avviso sgangherato, un assaggio della resistenza disperata dell’Italia delle corporazioni, siano essi impiegati di Stato, architetti, professori universitari, orchestrali o vigili urbani . È questa la vera malattia che i finti certificati rivelano. Perché si chiuda perfettamente il cerchio, il prossimo 12 febbraio i vigili urbani dovrebbero presentare un finto certificato medico e non andare alla manifestazione.

Fili non elastici

Fili non elastici

Davide Giacalone – Libero

Moneta, politica e anche giustizia. Studiare con attenzione come s’annodano questi tre fili serve ad evitare di coltivare inutili illusioni. Come capita, credo, a proposito dell’esultanza italiana per la (s’immagina) conquistata elasticità nell’esame dei conti economici. Capisco le ragioni della propaganda, che ha anche effetti sul comportamento dei consumatori. Purché non diventi inganno. O, peggio ancora, autoinganno.

Cominciamo dall’elasticità. Più si canta vittoria più si rischia di prendere stecche. Nella sostanza si tratta di un accordo circa la correzione strutturale dei conti, destinata a ridurre il debito pubblico, limitata a 0,25 punti di prodotto interno lordo, contro lo 0,5 chiesto dalla Commissione europea. In termini assoluti: fra i 4 e i 5 miliardi di euro. Questa sarebbe la conquista. Ma si basa sul presupposto che il deficit del 2014 sia entro il 3%, mentre l’ultimo dato disponibile è quello relativo ai primi nove mesi, quando quotava 3,7. Mettiamo (e speriamo) che sia totalmente rientrato e i conti tornino, abbiamo qualche miliardo in più da spendere? Tuttalpiù abbiamo meno conti da correggere, perché la “conquista” vale solo per il 2015 e si basa sul fatto, certo non festeggiabile, che siamo i soli rimasti in recessione. Con il debito che cresce. Poi c’è l’altra faccia della flessibilità: non contabilizzare gli investimenti nel deficit. Ma, al momento, è fuffa legata al piano Junker, a sua volta dotato di scarso realismo.

Sospendiamo un attimo la riflessione e prendiamo il filo della giustizia: la Corte europea non ha emesso alcuna sentenza, ma l’avvocato generale ha sostenuto essere legittimo l’operato della Banca centrale europea. Perché se ne occupano e cosa significa? Se ne occupano perché la Corte costituzionale tedesca rimise a loro il quesito che le era stato sottoposto. Fortunatamente lo fece, perché se la Corte di un Paese avesse potuto decidere per tutti gli altri la storia dell’euro sarebbe già finita. Dice l’avvocato generale: l’Omt e il Qe (ovvero lo scudo anti spread e l’acquisto di titoli da parte della banca centrale) sono da considerarsi legittimi perché la Bce ha strumenti di analisi che noi non abbiamo e non c’è motivo di dubitare che abbia agito correttamente, ma sono legittimi in quanto rispettano e rispettino un principio cardine dei trattati: niente trasferimenti di ricchezza da uno Stato all’altro (e la proporzionalità). Bene. Mario Draghi è più forte, ma il limite oltre il quale non può spingersi si avvicina.

Qui arriva il terzo filo, la moneta. La classe dirigente italiana farebbe bene a imparare a memoria l’intervista rilasciata da Draghi a Die Zeit. Sembra concepita per difendersi dalle critiche tedesche, ma lancia messaggi inequivocabili. Il primo: la Bce agisce sul piano monetario perché non ha legittimità a fare altro, ma non basta (lo ha detto cento volte), non è fra i suoi compiti valutare l’effettività delle riforme strutturali necessarie, in alcuni paesi e segnatamente in Italia, ma altri dovranno farlo. Chiaro? Non basta la parola, insomma. Il secondo: l’Italia perde competitività da prima dell’euro, mentre i bassi tassi d’interesse hanno sostenuto l’economia e i consumi facendo crescere l’indebitamento. Così non si va da nessuna parte, ergo il rigore nell’amministrare il bilancio pubblico è necessario. Il terzo: non è nell’interesse dei contribuenti e risparmiatori tedeschi lasciare affondare chi s’è appesantito, ma è autolesionista e insostenibile che questi ultimi non si alleggeriscano.

Rimettiamo assieme i fili. Quello giudiziario è sciolto, sebbene in modo condizionato. Quello monetario è stato gestito egregiamente (dalla Bce) nel far scendere gli spread e bloccare la febbre speculativa, ma ora che si tratta di spingere l’economia si ricordi che: a. non abbiamo mezzi infiniti; b. non ne abbiamo di autosufficienti. Quello politico è ammatassato, con capi di governo che fanno finta di non capire. Noi italiani, ad esempio, siamo a un solo gradino dai titoli spazzatura, uno solo. È ingiusto, ma è così. Se lo scendiamo la Bce non potrà più accettare i nostri titoli in garanzia. Una tragedia. Per risalirlo, però, non servono 5 miliardi di spesa statale in più, ma molti punti di riconquistata produttività, il che significa meno tasse, meno burocrazia, più intrapresa. La festeggiata elasticità non ci serve a nulla. A vigilare questo processo dovrebbe essere la Commissione europea, che, però, ondeggia sia sotto le pressioni dei singoli governi, sia spaventata dagli umori delle opinioni pubbliche, che cercano sempre altrove il colpevole di quel che vivono. Quest’anno si vota non solo in Grecia (fra due settimane), ma anche in altri sette paesi, fra i quali Regno Unito, Portogallo e Spagna.

Se per aiutare i governi si molla la presa sui conti, poi arriva la mazzata dei mercati. Se si stringe troppo sui conti vanno al governo i parolai arruffapopolo. È questo il fronte più pericoloso, quello politico. Esserne consapevoli dovrebbe aiutare a non farsi abbindolare dai ridanciani o dagli sbuffanti, recuperando un po’ di consapevolezza e serietà.