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Fisco, a novembre 221 adempimenti

Fisco, a novembre 221 adempimenti

Isidoro Trovato – Corriere della Sera

Quali sono i due periodi dell’anno in cui si sente parlare di ingorghi? Estate e vacanze natalizie. E il Fisco si adegua. Il groviglio di scadenze che ha agitato le notti di imprese, professionisti e contribuenti in estate si ripresenta (con ammirevole coerenza) anche in quest’ultimo scorcio di 2014. Saranno oltre 400 gli adempimenti che attendono i contribuenti in questa parte finale di anno. Una concentrazione di adempimenti tale da mandare in tilt le aziende e gli studi professionali. Il paradosso, poi, sta anche nel fatto che un paio di giorni fa il Consiglio dei ministri ha approvato definitivamente il decreto legislativo sulle semplificazioni in attuazione della delega fiscale.

E così succede che, al di là delle (buone) intenzioni di velocizzazione manifestate dal governo, sono 221 le scadenze che attendono i contribuenti nel mese di novembre, come è rilevabile dal prezioso servizio presente nel sito internet dell’Agenzia delle Entrate sulle scadenze dei contribuenti. Si tratta di 221 tra versamenti, comunicazioni, dichiarazioni, adempimenti di varia natura. «Lo avevamo chiesto già in estate – afferma Rosario De Luca, presidente Fondazione Studi Consulenti del Lavoro -. Auspichiamo una vera razionalizzazione del calendario fiscale e interventi mirati ad evitare errori formali e l’applicazione del conseguente regime sanzionatorio».

Si parte con i versamenti mensili di ritenute fiscali, rate di Unico e Iva periodica fissati per il 17 novembre. Ma dicembre non sarà da meno, considerando che il giorno 1 scadranno gli anticipi delle imposte in acconto per il 2014. Acconti che vanno per l’Ires dal 101,5% fino al 130% per banche e assicurazioni, e al 100% per l’Irpef. E così, oltre ai consueti adempimenti mensili, nel mese di dicembre scadranno i termini per il versamento dei tributi comunali sugli immobili. I contribuenti infatti saranno chiamati alla cassa il 16 dicembre per il saldo dell’Imu e della Tasi. E il 27 dicembre, mentre ci si avvicina a Capodanno, arriva l’oneroso versamento dell’acconto dell’Iva.

Sempre a dicembre, altri due appuntamenti importanti: rispettivamente entro il 29 ed il 18 dicembre, scadranno i termini per le presentazioni tardive dei modelli Unico e dei 770. Ma prima che la mezzanotte del 31 dicembre porti via il 2014, gli obbligati alla tenuta delle scritture contabili ai fini fiscali dovranno procedere con la stampa dei registri relativi al periodo di imposta 2013. Volendo avere un visione d’insieme dettagliata per categoria il panorama non è certo più confortante. Interessati dal calendario fiscale sono tutti i contribuenti ma soprattutto i titolari di partita Iva. Nel dettaglio: imprenditori, artigiani, commercianti si troveranno di fronte 119 scadenze. Va un po’ meglio ai professionisti: ne avranno 117. Per le società di capitali ne sono previsti 100, mentre dipendenti e pensionati che se la caveranno con «soltanto» 51 scadenze.

Ma non finisce qui. Non bisogna dimenticare infatti che gli stessi contribuenti dovranno anche fare i conti con altre scadenze non fiscali, dunque non ricomprese nell’elenco pubblicato nel sito dell’Agenzia delle Entrate. Basti ricordare il versamento dei contributi previdenziali per lavoratori dipendenti, artigiani, commercianti, collaboratori, lavoratori domestici in scadenza il 16 novembre e il 16 dicembre. Dunque mettetevi una mano sul cuore (e una sul portafoglio) e preparatevi a un sereno fine anno con il Fisco.

Ordini, avvocati delle cause perse

Ordini, avvocati delle cause perse

Alessandro De Nicola – Affari & Finanza

A fine ottobre è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il Codice Deontologico Forense, elaborato dal Consiglio Nazionale Forense già a febbraio del 2014 e che entrerà in vigore il 15 dicembre di quest’anno. Il Codice stabilisce le norme di comportamento che i legali devono osservare in via generale e, in particolare, nei rapporti con clienti, controparti, colleghi e altri professionisti. I contenuti in parte sono il frutto della controriforma dell’ordinamento forense del 2012, quando gli avvocati riuscirono a far approvare dal Parlamento una legge a loro dedicata. Legge che abrogava o restringeva alcune liberalizzazioni previste per tutte le altre professioni liberali.

Esaminando le norme che hanno più impatto economico del Codice, sicuramente ha una certa importanza quella sulla pubblicità. La regola è che non è possibile né fornire informazioni denigratorie, suggestive, equivoche o ingannevoli (e fin qui ci siamo), né comparative o che contengano riferimenti a titoli, funzioni o incarichi non inerenti all’attività professionale. Non è chiaro perché non si possano dare anche tali dati: paradossalmente, se un avvocato vincesse il premio Nobel per l’economia nonlo potrebbe svelare.

Ancora più restrittiva la disposizione che vieta di indicare il nominativo dei propri clienti anche se questi ultimi sono d’accordo. In questo caso si va contro i principi di trasparenza, in quanto il potenziale cliente potrà scoprire i conflitti di interesse solo chiedendo direttamente al professionista. E soprattutto non è chiaro perché, per capire il valore di un giurista, è più importante qualche roboante titolo tipo “specialista di diritto canonico” e non la tipologia di operazioni e cause che ha seguito e per conto di chi: non c’è dubbio che i clienti preferiscono sapere questi aspetti del curriculum per decidere chi li assiste.

Anche la pubblicità su Internet è regolata in modo cavilloso: sono utilizzabili solo siti web con domini propri senza reindirizzamento. Perché mai? Il divieto di accaparramento di clientela, poi, contiene solo restrizioni anti-concorrenziali. È proibito l’uso di agenti o procacciatori e non si capisce il motivo, visto che si tratta di figure che agevolano l’attività economica. Non si possono corrispondere provvigioni se viene presentato un cliente ad un altro avvocato, atto legittimo e che invece facilita l’indirizzamento di clienti a colleghi più competenti piuttosto che pretendere di essere tuttologi e cercare di tenerseli a tutti i costi.

Paradossale il comma 4 dell’articolo 37: “È vietato offrire, sia direttamente che per interposta persona, le proprie prestazioni professionali al domicilio degli utenti, nei luoghi di lavoro, di riposo di svago e, in generale, in luoghi pubblici”. Insomma “l’utente” dovrebbe bussare alla porta dello studio legale, essere ricevuto da un avvocato in toga che gli sentenzia “Narra mihi factum, dabo tíbi ius”, ringraziare, andarsene e aspettare il responso. Ma in che mondo vive chi ha scritto questa norma? Si è appena affacciato fuori dai confini? Si rende conto di che risate si può fare il cliente che convoca la riunione presso la propria sede e si sente dire che, a causa della deontologia professionale, non si può fare o che non è possibile mandare un avvocato per qualche giorno o settimana a dare una mano ai legali interni presso gli uffici societari?

Addirittura si proibisce quella che qualunque operatore economico giudicherebbe come un servizio intelligente, innovativo e attento al cliente: è vietato offrire, infatti, senza esserne richiesto, “una prestazione personalizzata e, cioè, rivolta a una persona determinata per uno specifico affare”. Se sai fare qualcosa e hai individuato un’opportunità per una impresa, è meglio tacere. Naturalmente si ribadisce ciò che è presente anche nella controriforma del 2012, ossia il divieto di patto di quota lite (compenso determinato in percentuale a quanto si recupera nel contenzioso; uno dei modi più efficienti per dare accesso alla giustizia ai poveri ed evitare che gli avvocati inizino cause inutili).

Il governo si appresta a varare la legge sulla concorrenza che dovrebbe contenere norme per eliminare la competenza esclusiva degli avvocati per l’assistenza stragiudiziale, consentire aggregazioni multidisciplinari e la partecipazione di soci di capitale alle società di avvocati, prevedere la pubblicità dei compensi eliminando la disparità con le altre professioni, liberalizzare il patto di quota lite. Se approvate, si tratterebbe di ottime disposizioni che però fanno sorgere il dubbio se il Codice rimarrà compatibile con una riforma modernizzatrice. La risposta è semplice e non può che essere negativa.

Il caos della Legge di Stabilità: ecco perché non funziona nulla

Il caos della Legge di Stabilità: ecco perché non funziona nulla

Renato Brunetta – Il Giornale

Cronistoria del grande imbroglio di Matteo Renzi.

Aprile/luglio: in principio fu il Def
Matteo Renzi si era da poco insediato a Palazzo Chigi e l’8 aprile il Consiglio dei ministri deliberava questo strano documento. Le stime sulla crescita del Pil in Italia per il 2015 registravano +0,8% e la cifra veniva definita «estremamente prudente e aderente alla realtà». Lo stesso Def conteneva il rinvio del pareggio di bilancio di un anno, dal 2015 al 2016, giustificato dalla grave recessione economica e dai costi delle riforme strutturali. La Commissione europea fu informata delle intenzioni del governo, che proponeva a Bruxelles un piano di rientro incentrato sugli effetti benefici, in termini di crescita, delle riforme, ai tempi ancora neanche abbozzate (non che ad oggi si siano fatti progressi). La risposta della Commissione arrivò chiara a luglio: nein. E nelle raccomandazioni fu scritto: l’Italia faccia «sforzi aggiuntivi» già nel 2014 per rispettare il Patto di Stabilità, ma soprattutto confermi il raggiungimento del pareggio di bilancio nel 2015. Prima clamorosa sconfitta del governo Renzi.

Settembre: la nota di aggiornamento al Def
Il governo Renzi non ha dato alcun seguito alle raccomandazioni della Commissione e, anzi, ha rilanciato. Altro che pareggio di bilancio nel 2016: con la nota di aggiornamento al Def l’Italia lo fa slittare di un altro anno, fino al 2017. Inoltre, vengono riviste al ribasso tutte le stime, e la crescita per il 2015 passa dal «prudente» +0,8% a -0,3%. Storicamente gli aggiustamenti non sono mai stati superiori a qualche decimale. Quest’anno di oltre un punto di Pil. Vuol dire che ad aprile i calcoli erano tutti sbagliati. Seconda figuraccia planetaria.

Ottobre: la legge di Stabilità
Dopo l’approvazione della nota di aggiornamento, il governo cambia di nuovo tutto. Il 15 ottobre viene presentata la legge di Stabilità: la manovra, che all’inizio non doveva esserci, poi doveva essere di 10-13 miliardi, poi di 25, lievita fino a 30 e infine arriva a 36 miliardi: 18 miliardi di minori tasse e 18 di maggiori spese. Manovra coperta per 15 miliardi dal solito pozzo senza fondo della spending review; per 3,8 dal recupero dell’evasione fiscale; per 3,6 da un ulteriore aumento della tassazione del risparmio; per 2,6 dalla tassazione giochi, dalla riprogrammazione dei fondi europei e dalla vendita delle frequenze della banda larga; e per i restanti 11 miliardi in deficit.

Ancora ottobre: la variazione della nota
Anche in questo caso delle intenzioni del governo viene informata la Commissione europea che chiede correzioni, possibilmente entro 24 ore. La manovra viene ridimensionata di 4,5 miliardi. E con essa il carattere espansivo. Ancora una volta il governo deve rifare i calcoli. E approva la relazione di variazione della nota di aggiornamento al Def. In poco più di 6 mesi conti rifatti 4 volte. Che credibilità può avere un governo così confusionario? Come pretendiamo che reagiscano i mercati?

Legge di Stabilità: aumentano le tasse
Le misure «espansive» pubblicizzate dal premier sono un bluff e non avranno effetti sull’economia. Come già avvenuto ad aprile con il bonus degli 80 euro. Al contrario, aumenterà la pressione fiscale. Ma questo Renzi non lo dice. La legge di Stabilità ha «gittata» pluriennale, e se le tasse diminuiranno di 18 miliardi nominalmente nel 2015, aumenteranno certamente, di fatto, di 12,4 miliardi nel 2016; 17,8 miliardi nel 2017 e 21,4 miliardi nel 2018. Un valore cumulato, in 3 anni, di 51,6 miliardi: più di 3 punti di Pil. Significa che aumenteranno l’Iva fino al 25,5%, benzina e accise. Se a ciò si aggiunge l’aumento della tassazione del risparmio e sulla casa il conto diventa insostenibile. Come faranno i nostri cittadini ad arrivare al 2018? E perché Renzi parla del bonus di 80 euro e dei 18 miliardi di riduzione delle tasse nel 2015 e non dice dell’aumento delle tasse di oltre 50 miliardi dal 2016?

Legge di Stabilità: il taglio dell’Irap lavoro
Di tutto il calderone, due misure della legge di Stabilità andavano bene, ma studiandole, si rivelano anch’esse un imbroglio: il taglio dell’Irap lavoro e la decontribuzione delle nuove assunzioni. La copertura finanziaria per i tagli all’Irap è un aumento dell’aliquota Irap: quella che a maggio era stata ridotta al 3,50%, tornerà al 3,90%. La copertura è stata individuata anche dalla cancellazione di due bonus in vigore: quello che offre alle aziende 12 mesi di tagli sui versamenti contributivi per i contratti di apprendistato prolungati al termine dei tre anni e quello che prevede il taglio del 50% sui contributi per le aziende che assumono lavoratori in disoccupazione da almeno 24 mesi. Al netto della partita di giro i 5 miliardi di sconto Irap si riducono a soli 2,9 miliardi.

Legge di Stabilità: la decontribuzione delle nuove assunzioni
Quanto alla decontribuzione delle nuove assunzioni a tempo indeterminato: considerando lo stanziamento del governo di 1,9 miliardi e il limite di esonero dal pagamento dei contributi pari a 8.060 euro per ogni nuovo assunto, il numero massimo di nuove assunzioni che potranno beneficiare dello sgravio è di 235.732 unità. I contratti a tempo indeterminato attivati nel 2013 sono stati 1.584.516.

Legge di stabilità: bambole, non c’è una lira
I 36 miliardi di minori tasse (18) e maggiori spese (18) della legge di Stabilità daranno origine a mancate entrate o a maggiori spese certe, mentre gran parte delle coperture previste non si realizzeranno. Dei 15 miliardi dalla spending review se ne realizzeranno al massimo 5-6, e per i restanti 10 scatteranno le clausole di salvaguardia; sugli iniziali 11 miliardi in deficit, oggi ridotti a 6, la Commissione europea si pronuncerà a fine novembre e non ne autorizzerà neanche uno; lotta all’evasione fiscale e tassazione giochi registreranno i valori già inseriti nel tendenziale, e non si realizzerà nulla in più di quanto già previsto. Serviranno 20-25 miliardi per finanziare la parte della manovra fatta in deficit o non coperta e scatteranno le clausole di salvaguardia: tagli lineari; aumento di accise; aumento Iva e imposte indirette. La pressione fiscale aumenterà di 1-1,5 punti di Pil, fino a superare il massimo storico del 45%.

Il grande imbroglio
Questa è la realtà nascosta. Con il risultato che, anche dopo le correzioni richieste dall’Ue, i parametri del Patto di Stabilità non saranno comunque rispettati. Il piano di rientro deve essere esteso all’intero triennio e non solo al 2015 come ha fatto il governo. Se si considera il trascinamento sul 2016, infatti, emerge che, a seguito delle correzioni intervenute in termini di deficit strutturale sul 2015 (da -0,9% a -0,6%), tra il 2015 e il 2016 è prevista una riduzione inferiore rispetto allo 0,5% richiesto dai Trattati. Questo non potrà che sollevare ulteriori obiezioni da parte della Commissione europea. In questo contesto, come fa il governo a ostentare sicurezza? È fin troppo facile dedurre che il grande imbroglio della manovra di Renzi avrà effetti nefasti in tema di aspettative dei consumatori, delle famiglie e delle imprese, che non si lasceranno ingannare dall’alleggerimento apparente del prossimo anno, ma guarderanno all’aumento medio complessivo della pressione fiscale. Renzi e compagni hanno creato un imbroglio e l’hanno chiamato stabilità. E i mercati non staranno sereni.

Soltanto la (buona) flessibilità crea lavoro

Soltanto la (buona) flessibilità crea lavoro

Giuliano Cazzola – Il Garantista

«Eppur si muove». Il tasso di disoccupazione alla fine del terzo trimestre dell’anno in corso si attesta al 12,6 per cento. Un livello dal quale il mercato del lavoro sembra incapace di lasciarsi alle spalle. Si intravedono, però, alcune modifiche – modeste ma significative – per quanto riguarda l’occupazione giovanile nelle coorti (tra i 15 e i 24 anni, quelle che ormai vengono prese a riferimento): il tasso di occupazione cresce dello 0,2 per cento rispetto al mese precedente e dello 0,5 rispetto ai precedenti dodici mesi. Anche il tasso di disoccupazione giovanile vede una piccolissima inversione di tendenza (-0,8 sul mese precedente) in un contesto complessivo caratterizzato da un incremento del trend negativo pari a 58mila unità.

Più interessante la diminuzione degli inattivi (-0,9 e -2,1 per cento nei confronti di un anno prima). Sta a significare che i giovani si mettono in numero maggiore sul mercato in cerca di un impiego. I dati delle comunicazioni obbligatorie ci dicono che la riforma del contratto a termine sta producendo degli effetti sul piano delle assunzioni, anche se rimane tuttora d’ostacolo il “Generale inverno” della crisi economica. Come vedremo fra poco la flessibilità “buona” (il nuovo contratto a termine) ha scacciato quote consistenti di flessibilita “cattiva” (le collaborazioni e le partite lva, per esempio), in quanto la liberalizzazione progressiva del contratto a tempo determinato è stata accompagnata dal precedente giro di vite sui rapporti atipici, di cui alla legge n.92/2012 (la riforma Fornero, appunto).

Secondo un recente studio dell’Osservatorio dei lavori, che ha preso a riferimento i dati della Gestione separata presso l’Inps, nel 2013, rispetto al 2012, i parasubordinati sono diminuiti di 166.867 unità (-11,7 per cento), i professionisti con partita Iva di 3.740 unità (-1,27) secondo l’Inps: quest’ultimi, di 11.757 (-4) secondo stime realizzate e contenute nello studio. Contrariamente a quanto si crede tali categorie di lavoratori sono quelle che hanno subito i tagli più vistosi dalla crisi e, nell’ultimo anno della ricerca, hanno subìto anche la penalizzazione normativa loro imposta dalla legge Fornero, «la quale imponeva», è scritto nello studio, «nel tentativo di aumentare il costo di questi contratti e favorire lo spostamento verso il lavoro dipendente, l’introduzione per i collaboratori dei minimi tabellari dei dipendenti».

Dal 2007 al 2013, i “contribuenti-collaboratori” sono passati da 1,67 milioni a 1,25 milioni (con una diminuzione di oltre 400mila unità pari al 24,7 per cento di cui circa 167mila nell’ultimo anno, a legge n.92/2012 in vigore). Pur essendo in calo anch’essi nel 2013, negli anni della crisi sono aumentati (quasi del 31 per cento dal 2007) i professionisti (questa è la definizione che attribuisce loro la Gestione separata) titolari di partita Iva, passando da 222mila a 291mila (altro che i milioni come lasciano credere le solite leggende metropolitane che mettono in conto anche le partite iva delle aziende). I lavoratori parasubordinati, in Italia, con il loro

Bomba Tfr nascosta nei conti pubblici

Bomba Tfr nascosta nei conti pubblici

Filippo Caleri – Il Tempo

C’è una bomba a orologeria sarebbe piazzata nella legge di Stabilità. Si tratta della riforma del Trattamento di fine rapporto (Tfr) che consentirà, a provvedimento approvato, di ottenere mensilmente in busta paga il tradizionale accantonamento fatto dalle aziende e da corrispondere a fine vita lavorativa. Se messo nel salario la somma che si percepisce sarà sottoposta a tassazione ordinaria, e non con le aliquote ridotte come quando viene liquidato alla fine della carriera lavorativa.

Sulla base di questo maggiore gettito registrato nella legge di Stabilità presentate dal governo Renzi e che rappresenta coperture per la rifduzione della tasse, la Confesercenti ha fatto due conti e, sulla base di un sondaggio affidato alla Swg, ha stimato che coloro che usufruiranno della facoltà concessa sono molti meno rispetto alle stime dei tecnici del Tesoro. Per questo basandosi sulla proiezione dei dati, l’associazione dei commercianti ha stimato che il gettito Irpef generato dalla maggiore tassazione sarebbe di un miliardo di euro, circa 1,5 miliardi in meno di quanto previsto dalla relazione tecnica alla Legge di Stabilità. Insomma a conti fatti il buco che si potrebbe aprire nei conti pubblici se il comportamento dei salariati replicherà le intenzioni espresse nell’analisi, sarebbe proprio di circa un miliardo. Somma che a quel punto dovrebbe essere recuperata con maggiori tagli alla spesa, difficili da portare a termine, oppure con nuove tasse. Si tratta di un rischio non ancora evidente, che si concretizzerà solo nel 2015, cioè a partire dal prossimo primo gennaio quando la scelta sulla destinazione del proprio accantonamento sarà possibile.

L’analisi delle risposte date dagli intervistati non lascia, però dubbi su quali siano le intenzioni dei lavoratori. Secondo il sondaggio delle Confesercenti solo il 18% dei dipendenti privati italiani, dunque circa due su dieci, sceglierà di avere il Tfr in busta paga, a fronte del 67% che invece continuerà a lasciare accumulare il suo trattamento di fine rapporto nell’impresa in cui lavora o nei fondi negoziali di categoria quando le pianta organica supera la soglia dei 50 dipendenti. Un segnale che dimostra, anche nella recessione, il rapporto di fiducia che intercorre tra i lavoratori dipendenti e le loro imprese. Infine 15% di dipendenti, invece, ancora non ha deciso. Non mancano i timori delle imprese. Il 64% degli imprenditori teme che, se tutti o la maggior parte dei dipendenti scegliessero di avere il Tfr su base mensile, l’azienda avrebbe difficoltà con la liquidità disponibile, a fronte di un 36% che, invece, non avrebbe problemi. Gli ostacoli sembrano nascere dagli impedimenti che le imprese incontrano nell’ottenere prestiti e finanziamenti dal canale bancario, segnalati dal 66% degli imprenditori.

Hanno già scelto di usufruire della possibilità introdotta dalla legge di stabilità soprattutto le persone di età compresa tra i 35 e i 44 anni (21%), seguiti dai giovani fra i 18 ed i 24 (19%). Lo lasceranno in azienda, invece, soprattutto le persone più vicine alla fine del rapporto lavorativo: non lo toccheranno principalmente coloro tra i 55 e i 64 anni (72%) e tra i 45 ed i 54 (70%). Tra i lavoratori che hanno intenzione di richiedere il Tfr su base mensile, la maggior parte è ancora incerta su come utilizzare la liquidità in più (44%). Le indicazioni del sondaggio della Swg-Confesercenti lasciano poco spazio alla tesi che l’effetto espansivo sui consumi del Tfr, ottenuto dai dipendenti, possa consentire allo Stato di recuperare il prevedibile gettito perso grazie alla tassazione indiretta, e cioè l’Iva, sui maggiori acquisti indotti dall’aumento delle disponibilità finanziarie nelle tasche dei lavoratori. Se nel 2015 le indicazioni date dagli intervistati dovessero rimanere invariate, l’Ufficio Economico Confesercenti stima un effetto espansivo modesto sulla spesa, con un incremento, a fine 2015, di 380 milioni, pari allo 0,1% dei consumi commercializzati. Troppo poco.

Col 730 a casa meno rimborsi fiscali

Col 730 a casa meno rimborsi fiscali

Antonio Castro – Libero

Una dichiarazione dei redditi semplificata per 20 milioni di contribuenti? Non proprio, visto che – stimano preoccupati commercialisti, consulenti del lavoro, tributaristi e Caf – circa l’85% delle dichiarazioni che l’Agenzia delle Entrate (non) preparerà dovranno essere integrate. E qui salta fuori il dubbio: l’innovazione della dichiarazione precompilata, fortemente voluta dal governo, quest’anno non prevederà tutta una serie di detrazioni e deduzioni che contribuiscono (al 19% delle spese sostenute), ad alleggerire il carico fiscale. Ogni anno (dati relazione Vieri Ceriani sull’Erosione fiscale), ben 14.150mila contribuenti (circa uno su tre dei 40 milioni di contribuenti censiti), portano al commercialista, al consulente o ai Caf spese mediche e sanitarie. Ebbene quest’anno (2015, redditi 2014), queste spese non saranno calcolate dal fisco ai fini di conteggiare l’eventuale detrazione che spetta ad ognuno di noi.

In media ogni anno ciascun italiano – inserendo nella dichiarazione dei redditi scontrini di farmaci, visite mediche e fatture per prestazioni sanitarie – ottiene uno sconto di 166 euro. Un rimborso fiscale esiguo, certo, che però moltiplicato per 14 milioni e rotti di contribuenti fa la bellezza di oltre 2,3 miliardi che l’Erario non in cassa (e che il sostituto d’imposta il luglio successivo deve restituire). Il governo ha spiegato che quest’anno, visto che il 730 precompilato è stato lanciato con cosi poco preavviso, non saranno calcolate le eventuali detrazioni spettanti per spese mediche e sanitarie, spese funerarie e erogazioni a onlus e associazioni benefiche. Il grande fratello fiscale non sarebbe in grado di calcolare l’esatto ammontare delle detrazioni spettanti perché se è vero che conosce dalle farmacie (scontrino elettronico farmaceutico) i nostri acquisti con codice fiscale, non ha invece una banca dati delle altre spese sanitarie. Visite specialistiche, terapie odontoiatriche, presidi medici (occhiali o protesi), non vengono censiti anche se fatturate elettronicamente e quindi l’incrocio telematico di dati non è oggi possibile. Se è vero che la fattura del cardiologo o del dentista non è quasi mai telematica, gli scontrini della farmacia però risultano all’Agenzia, che monitorizza (con Sogei) tramite il codice fiscale l’andamento della spesa, salvo poi tirarsi indietro quando si tratta calcolare e riconoscere automaticamente le detrazioni spettanti (l9% di quanto speso), al contribuente.

Ma c’è dell’altro: l’introduzione della precompilata prevede che il contribuente che accetta, senza modificare o integrazioni, la dichiarazione abbia una sorta di immunità. Insomma, chi accetta quanto scrive l’Agenzia non verrà sottoposto a eventuali controlli e accertamenti ex post. Chi invece volesse integrare la dichiarazione rientrerà nel potenziale bacino dei controlli automatici. Se invece si accetterà la dichiarazione ma si apporteranno delle modifiche «che incidono sulla determinazione del reddito o dell’imposta, il contribuente non beneficierà dell’esclusione dai controlli». Tradotto: se si accetta per buono la dichiarazione delle Entrate, si ha “l’immunità fiscale”. Se invece si integra, magari chiedendo la detrazione del 19% delle spese me- diche sostenute, il fisco continuerà a controllare. Considerando il rimborso fiscale medio – 166 euro, stimato dal ministero dell’Economia – c’è da chiedersi quanti saranno gli italiani che per pochi spiccioli rinunceranno a chiedere il rimborso pur di evitare di finire nel calderone dei controlli postumi.

Ogni anno l’Agenzia delle Entrate invia ben 900mila richieste di chiarimento in merito alle dichiarazioni dei redditi consegnate da altrettanti contribuenti. La precompilata dovrebbe servire per abbattere questo carteggio. O meglio: le richieste di chiarimento giungerebbero solo ai professionisti e ai Centri di assistenza fiscale. Ma nel caso in cui non si accettasse la dichiarazione compilata dal fisco, allora resterebbe valida la facoltà di controllo. Sorge il sospetto che escludere l’automatismo di calcolo per le spese mediche (così come per quelle funebri, le donazioni o le spese di istruzione), e introducendo contestualmente “l’immunità dai controlli” per chi accetta passivamente la dichiarazione preparata dall’Agenzia delle Entrate, sia un modo per contenere e ridurre le richieste di rimborso, vista anche l’esiguità degli importi. E così lo Stato eviterebbe di restituire – nel luglio dell’anno successivo – le eventuali maggiorazioni d’imposta già pagate. Il vantaggio per le casse dello Stato sarebbe più che simbolico. Milioni di contribuenti che non reclamano rimborsi si traducono in miliardi di maggiore disponibilità per il bilancio pubblico. Non è proprio un taglio delle detrazioni vigenti – come ipotizzato già nel 2013 – ma gli assomiglia molto…

In Italia il divario coi maschi vale quanto una busta paga

In Italia il divario coi maschi vale quanto una busta paga

Giacomo Galeazzo – La Stampa

Mezzo secolo di ritardo: di questo passo per arrivare alla parità di stipendio, secondo le ultime statistiche, bisognerà aspettare il 2058. E così nel 2014 il gap con i colleghi maschi costa alle lavoratrici italiane una busta paga. In Europa la differenza retributiva penalizza in media le donne del 16% (in Estonia il 27%), in Italia la distanza scende al 6,7% solo perché la proporzione di donne che lavorano è più bassa e nel Mezzogiorno solo due giovani su dieci hanno un impiego.

Il tasso di occupazione delle italiane è appena del 46%. Perciò il campione delle donne che lavorano, per le quali quindi si osservano i salari, comprende in misura relativamente maggiore donne laureate ed esclude quelle che, sulla base delle loro caratteristiche, avrebbero prospettive di remunerazione più basse. «In passato le italiane non lavoravano per un ritardo culturale, oggi invece si scoraggiano prima degli uomini nella ricerca di un salario e ripiegano sugli impieghi domestici – spiega a La Stampa il sociologo del lavoro Domenico De Masi-. Quando un’azienda deve ridurre la manodopera, si libera prima delle donne». E gli stipendi più bassi dipendono da «una questione contrattuale», cioè «il datore di lavoro tende a pagarle meno e loro accettano di guadagnare meno perché altrimenti non vengono prese», precisa De Masi. Quindi «incide molto la maternità: se resta incinta l’imprenditore continua a pagarle una parte dello stipendio (l’altra la paga l’Inps) senza poter contare su di lei per un lungo periodo». Negli Stati Uniti, «la gravidanza viene trattata come una malattia e indennizzata per settimane non per mesi come nel nostro Welfare». Insomma, in Italia la proporzione delle donne nel mondo del lavoro è nettamente inferiore che in altri Paesi, dove guadagnano meno degli uomini, ma almeno riescono a lavorare. Molte italiane, o non entrano affatto nel mondo del lavoro o ne escono presto.

L’Institute for women’s policy research attesta che «l’altra metà del cielo» rappresenta quasi la metà della forza lavoro, quattro volte su dieci è capofamiglia, e più istruita degli uomini eppure continua a guadagnare meno. In Gran Bretagna il divario salariale è del 19,1%, nella Germania della cancelliera Angela Merkel arriva addirittura al 22,4%, in Francia al 14,8%. La differenza di stipendio è maggiore negli inquadramenti medi e bassi. Tra gli impiegati raggiunge il 15%, in ambito operaio si ferma al 10%. Mentre dirigenti e quadri si attestano al 10% e 6%. Secondo l’ultimo rapporto Almalaurea, in Italia a un anno dal titolo gli uomini guadagnano in media il 32% in più delle loro colleghe (1.194 euro contro 906). A cinque anni dalla laurea, il divario passa al 31% (1.587 contro 1.211).

Da quando, nel 2011, è stata inaugurata la Giornata europea per la parità, il divario salariale fra uomini e donne in Europa è passato dal 17,5% al 16,4. Ma la differenza grava come un macigno e si può tradurre in giorni di lavoro extra. In Italia ne servono trentasei alle donne per riempire il gap nel settore dei servizi, quello più «rosa»›, dove si concentra un terzo delle occupate (segretarie, impiegate, assistenti). La retribuzione oraria netta parla chiaro. In agricoltura ci vogliono due mesi per arrivare alla parità, in banca e nelle compagnie assicurative 59 giorni, nella pubblica amministrazione 39. «Al momento di assumere un dipendente il datore di lavoro tiene conto del percorso lavorativo futuro- osserva De Masi-. Nella programmazione di un imprenditore non è la stessa cosa prendere in azienda una ventenne o un coetaneo maschio». Sono 702mila, infatti, le occupate con figli minori di otto anni che hanno interrotto temporaneamente l’attività lavorativa per almeno un mese dopo la nascita del figlio più piccolo: il 37,5% del totale delle madri occupate. L’assenza temporanea dal lavoro per accudire i figli continua a riguardare solo una parte marginale di padri. Anche il congedo parentale è utilizzato prevalentemente dalle donne, riguardando una madre occupata ogni due, a fronte di una percentuale del 6,9% dei padri.

L’addizionale Irpef ci stende: pesa più delle tasse sulla casa

L’addizionale Irpef ci stende: pesa più delle tasse sulla casa

Fabrizio Ravoni – Il Giornale

Regioni e Comuni come Ugolino della Gherardesca. A lui, Dante fa dire: più del dolor potè il digiuno. Per i contribuenti vale la regola analoga: più della Tasi poterono le addizionali. Secondo uno studio degli artigiani di Mestre, gli italiani pagano più di addizionali comunali e regionali che di tasse sulla casa. E la situazione può soltanto peggiorare, visto l’impegno del governo a concedere autonomia fiscale ai Comuni per compensare il taglio dei trasferimenti.

Tra il 2010 e il 2015 le addizionali comunali e regionali aumenteranno in maniera esponenziale, in relazione al reddito. In media, per un impiegato saliranno del 35 per cento; per un operaio e un lavoratore autonomo del 36 per cento; per un quadro del 38 per cento e per un dirigente del 41 per cento. Il loro peso economico è superiore a quello di Tari e Tasi messe assieme. Una famiglia di tre persone pagherà al Comune sotto forma di tasse sulla casa e sui servizi intorno ai 500 euro all’anno. Dalla sua busta paga, però, il combinato disposto di addizionali regionali e comunali ridurrà il potere d’acquisto di un impiegato di 732 euro; quello di un lavoratore autonomo scenderà per le addizionali di 924 euro; quello di un quadro di 1.405 euro. Mentre un dirigente verserà nelle casse degli enti locali 3.583 euro. Solo un operaio pagherà più di Tasi e Tari che di addizionali: 500 euro contro 430.

Gli artigiani di Mestre hanno anche fatto le simulazioni categoria per categoria. Eccole. Un operaio con uno stipendio mensile netto pari di quasi 1.290 euro, ha visto aumentare in questi ultimi 5 anni il carico fiscale delle addizionali di 114 euro (+36%). Nel 2015 pagherà 429 euro (- 1 euro rispetto al 2014). Un impiegato con uno stipendio netto di poco superiore ai 1.800 euro al mese, tra il 2010 e il 2015 versa 195 euro in più, pari a un aumento del 35%. L’anno prossimo pagherà 747 euro (+ 15 euro rispetto al 2014). Un lavoratore autonomo con un reddito annuo di 40mila euro ha subito un incremento di imposta di 253 euro (+36%). Nel 2015 il peso delle addizionali sarà pari a 747 euro (+ 15 rispetto al 2014). Un quadro con uno stipendio mensile netto di circa 3mila euro al mese, ha subìto, invece, un aggravio di 403 euro (+38%). L’anno prossimo verserà 1.455 euro (+ 50 euro rispetto al 2014). Un dirigente, infine, con uno stipendio di quasi 7mila euro netti al mese ha visto aumentare il peso delle addizionali di 1.094 euro (+41%). Nel 2015 le addizionali peseranno per un importo complessivo di 3.753 euro (+ 170 euro rispetto l’anno prima).

Secondo Giuseppe Bortolussi, segretario degli artigiani di Mestre, il fenomeno è da mettere in relazione al fatto che «negli ultimi anni le addizionali Irpef hanno subito dei forti incrementi, sia per compensare i tagli dei trasferimenti statali, sia per fronteggiare gli effetti della crisi che hanno messo a dura prova i bilanci delle Regioni e dei Comuni». Eppure contro l’aumento delle addizionali non c’è stata la protesta politica e non, come sulle tasse sulla casa. «La ragione di questo paradosso va ricercata – spiega Bortolussi – nelle modalità di pagamento di queste imposte. Le addizionali Irpef vengono prelevate mensilmente alla fonte, di conseguenza il contribuente non ha la percezione di quanto gli viene decurtato lo stipendio o la pensione. Per il pagamento della Tasi e della Tari, invece, i cittadini devono mettere mano al portafogli per onorare le scadenze e recarsi fisicamente in banca o alle Poste. Operazioni che psicologicamente rimangono ben impresse nella mente di ciascuno». Senza contare il fatto che le tasse sulla casa, in tre anni, sono passate da un gettito di 10 miliardi a uno di 31 miliardi.

Risparmio e povertà

Risparmio e povertà

Davide Giacalone – Libero

Gli italiani che hanno aumentato la loro capacità di risparmio e quelli che, all’opposto, sono a rischio di povertà, si equivalgono: il 33% i primi e il 28.4 i secondi. C’è di buono che i primi, misurati da Ipsos, crescono (di 4 punti dal 2013 al 2014), mentre i secondi, contati da Istat, diminuiscono (di 1.5 punti dal 2012 al 2013). L’accostamento dei due dati può indurre a credere che quello italiano sia un problema redistributivo: togliamo ai primi per dare ai secondi. Ricetta suicida. Sarebbe uno schiaffo all’onestà. Il nostro problema è produttivo, ovvero riprendere la via che fa crescere la ricchezza, non il prelievo fiscale e la redistribuzione della miseria.

Fa un certo effetto sentir celebrare la “giornata del risparmio” in un Paese che tende ad eliminarlo anche dal vocabolario: adesso le chiamano “rendite finanziarie” così riescono a tassarle maggiormente. Satanismo fiscale che colpisce anche il risparmio obbligatorio, come il Tfr. Rendita finanziaria è un concetto che invita a immaginare lo speculare, il profittare, l’ingrassare a scapito altrui. E’ appena il caso di ricordare che il risparmio delle famiglie consiste in redditi su cui già si sono pagate le tasse. Accantonamenti per il futuro, rinunce a consumi immediati. Un tempo si diceva che era un comportamento encomiabile. Ora solo tassabile.

Se si guarda la curva del risparmio, ci si accorge di un fenomeno istruttivo. All’alba del secolo gli italiani che riuscivano a risparmiare erano decisamente più numerosi, il 48%. Sono andati costantemente diminuendo e il calo è cominciato ben prima della grave crisi finanziaria. Leggo così il dato: l’Italia era già in perdita di competitività, il reddito disponibile diminuiva, ma i tassi d’interesse scendevano, grazie all’euro (ogni tanto vale la pena ricordarlo), la fiducia nel futuro era notevole, quindi si è risparmiato un po’ meno, lasciando stabile il proprio tenore di vita. Oggi continuo a consumare, domani tornerò a risparmiare, perché le cose andranno meglio. Dal 2008 al 2010 la crisi finanziaria era un titolo del telegiornale. Dopo, con il 2011, s’è sentita la botta nella vita reale. Nel 2012 il sabba tributario a rischiarato le notti. A quel punto si poteva immaginare che sempre meno persone si sarebbero dedicate al risparmio, invece è avvenuto il contrario: dal 2012 si risparmia di più. E’ cresciuto il reddito? No, è cresciuta la paura: smetto di consumare come prima, accetto che il mio tenore di vita scenda, perché temo che il futuro sia peggiore del presente e, quindi, è necessario mettere da parte qualche cosa.

Andare dagli impauriti e spiegare loro che sono i ricchi mantenuti dalle rendite finanziarie, talché si può e si deve tassarli maggiormente, è una politica di diffusione del terrore. Anche perché i risparmi dei quali stiamo parlando sono quelli delle persone normali, in quantità unitarie contenute. Se fossero davvero ricchi, liquidi e in grado d’investire molto … non sarebbero qui loro, in ogni caso non sarebbero qui i loro capitali. Per la stessa ragione per cui una donna libera ed evoluta, che voglia vivere in totale autodeterminazione la propria vita sentimentale e sessuale, non va a vivere dove governa l’Isis. Quelli costretti a pagare più tasse sono i presi per il collo. Mentre i 17 milioni di italiani a rischio di povertà li si prende per i fondelli, se si fa credere loro che si possa risolvere il problema con la redistribuzione.

Qui si deve andare a lavorare, il che comporta che si sia potuto investire in attività produttive e che il fisco non si mangi la gran parte del profitto. Sono i più poveri ad avere interesse a che la ricchezza produca ricchezza, mentre solo gli agiati possono accettare che la ricchezza propizi solo sicurezza (ammesso che sia possibile, e non lo è). Eppure sento sempre dire: chi ha di più deve dare a chi ha di meno; si mandino in pensione i lavoratori più anziani, così si trova lavoro per i giovani. Teorie stupefacenti, nel senso che sono droghe che inibiscono il ragionare: dobbiamo lavorare di più, più numerosi, per più tempo, senza che il frutto del lavoro venga depredato a favore della spesa corrente improduttiva.

Le famiglie italiane tornano a risparmiare: lo fa il 33% del totale

Le famiglie italiane tornano a risparmiare: lo fa il 33% del totale

Rossella Bocciarelli – Il Sole 24 Ore

«La riduzione dello stock di risparmio negli ultimi anni è stata importante e ora le famiglie stanno attivamente cercando di porvi rimedio». Il presidente dell’Acri Giuseppe Guzzetti introduce così i dati della consueta ricerca Ipsos alla vigilia della novantesima giornata del risparmio che si celebra oggi a Roma, presenti il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan e Antonio Patuelli presidente dell’Abi. Dati che, spiega, confermano come il valore del risparmio sia qualcosa di molto presente nel Dna degli italiani, soprattutto nei momenti difficili. Infatti nel 2014, per il secondo anno consecutivo, è cresciuta di quattro punti la quota di italiani che negli ultimi dodici mesi sono riusciti a risparmiare: la percentuale è passata dal 29% del 2013 al 33% attuale; contemporaneamente si è ridotta per il secondo anno di fila e in modo consistente la percentuale delle famiglie in saldo negativo di risparmio, dal 30% al 25 per cento.

Dalla ricerca Ipsos risulta anche che il mattone ha smesso di essere l’investimento ideale degli italiani. Solo il 24% continua ad essere affezionato all’investimento immobiliare rispetto al 35% del 2012 e al 70% del 2010 e la preferenza degli italiani per la liquidità è stabilmente elevata: riguarda 2 italiani su 3. Cresce invece, raggiungendo il nuovo massimo storico del 36%, la quota di chi reputa questo il momento di investire negli strumenti ritenuti più sicuri: risparmio postale, obbligazioni e titoli di stato.

Nel corso della presentazione della ricerca, al presidente dell’Acri viene anche richiesto un commento sull’esito degli stress test per le banche italiane. E Guzzetti sottolinea la solidità del sistema bancario italiano ed esprime soddisfazione per per il risultato di Intesa Sanpaolo (i dieci miliardi di eccedenza di capitale) che conferma il piano dell’ad Messina per quanto riguarda la remunerazione degli azionisti, tra cui figura la fondazione Cariplo. Ma poi non rinuncia a togliersi qualche sassolino dalle scarpe: «Abbiamo avuto 15 banche sotto esame, di queste, due già sapevamo essere in difficoltà e la loro situazione è stata conclamata ora dalla Bce» afferma. «Guardando il sistema nel suo complesso, le banche italiane si sono difese bene». Certo, aggiunge «sarebbe stato meglio ancora una volta tenere fermi i criteri di Basilea 3, invece di annacquare qualche criterio nei test e favorire qualche banca tedesca che, altrimenti, forse non sarebbe finita in testa alle classifiche».

Il riferimento del presidente dell’Acri è esplicito a Commerzbank, che ha ancora il 17% di capitale in mano pubblica, e a Deutsche Bank, che ha fatto «un aumento di 9 miliardi di euro coperto dai cinesi». Guzzetti dice di augurarsi che «i problemi di Genova e Siena» si risolvano positivamente con soluzioni nel territorio e aggiunge: «Mi hanno stupito questi due italiani che si sono difesi» a proposito dell’imparzialità e omogeneità dei giudizi della Bce sulle banche europee. Si riferisce al presidente dell’Eba, Andrea Enria e a Ignazio Angeloni, responsabile del dipartimento per la stabilità finanziaria all’Eurotower: Guzzetti non li cita per nome ma conferma trattarsi di loro rispondendo ad un domanda diretta dei cronisti. «Queste dichiarazioni – afferma – mi hanno ricordato il detto excusatio non petita…»