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Garanzia giovani: ogni offerta di lavoro è finora costata 58.700 euro

Garanzia giovani: ogni offerta di lavoro è finora costata 58.700 euro

ABSTRACT

Più che uno strumento efficace per offrire concrete opportunità di lavoro a centinaia di migliaia di giovani italiani, l’applicazione italiana del programma comunitario Garanzia Giovani (che il Ministero del Lavoro ha di fatto delegato nella gestione alle singole Regioni) si è purtroppo rivelata un labirinto burocratico che non conduce da nessuna parte.
Lo dimostra una ricerca del Centro Studi “ImpresaLavoro” le cui conclusioni sono sconfortanti, a maggior ragione se si tiene conto che tale programma è volto in particolare a risolvere il fenomeno dei giovani NEET 15-24enni (non impegnati in un’attività lavorativa, né inseriti in un percorso scolastico o formativo), stimabili, in Italia, in circa 1,27 milioni (di cui 181mila stranieri) e che corrispondono al 21% della popolazione di questa fascia di età. Un dato estremamente rilevante in ragione della stretta connessione tra l’identificazione della platea dei destinatari e l’entità delle risorse attribuite, per la gestione della Garanzia Giovani, dalla Commissione Europea. L’Italia ha peraltro deciso di allargare il target group ai giovani di età compresa tra 25 e 29 anni, per un totale di ben 2.254.000 ragazzi.
Sulla base di tali dati il nostro Paese riceverà infatti risorse, a titolo della YEI (Youth Employment Initiative), pari a circa 567 milioni di euro. A questi si dovrà sommare un pari importo a carico del FSE, oltre al co-finanziamento nazionale. La disponibilità complessiva del Programma sarà, pertanto, pari a circa 1.513 milioni di euro.
Una montagna di denaro pubblico che ha partorito un costosissimo topolino: la ricerca di “ImpresaLavoro” rende noto che al programma comunitario hanno infatti aderito 250.770 giovani, di cui solo 59.150 sono stati poi effettivamente presi in carico dal sistema di Garanzia Giovani. Complessivamente, dall’inizio del programma, sono stati offerti ai NEET 25.747 posti di lavoro. Questo significa che ogni ragazzo preso in carico è costato sin qui 25.600 euro e che ogni offerta di lavoro ci è costata finora la somma ragguardevole di 58.700 euro.
Scarica il Paper “Garanzia giovani: ogni offerta di lavoro è finora costata 58.700 euro“.
Rassegna Stampa:
Italia Oggi
La Notizia
Metronews
I “bersagli” mancati dalla manovra del governo

I “bersagli” mancati dalla manovra del governo

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

Il disegno di Legge di stabilità è finalmente giunto all’esame del Parlamento, dopo alcune giornate in cui giravano, su Internet, varie bozze, accompagnate da annunci di aggiunte, integrazioni e modifiche e mentre a Bruxelles si stava redigendo una lettera piuttosto pesante in base alla documentazione (peraltro molto scarna) ricevuta il 15 e il 16 ottobre. I dieci giorni di “vaglio parlamentare” che si sono perduti rendono più difficile il ruolo delle Assemblee di migliorare il testo con emendamenti. Rendono, però, più facile quello dei commentatori di approfondire gli aspetti fondamentali e della proposta e del modo in cui è stata presentata.

Il Governo – lo sappiamo – si è posto due obiettivi principali, tenendo conto di un vincolo anch’esso principale. In termini matematici, è una funzione di massimizzazione vincolata. I due obiettivi principali sono: riportare il Paese a un tasso di crescita compatibile con una demografia e una struttura produttiva anziana (ossia 1,3% per anno, secondo le stime del “potenziale” italiano di crescita di Bce, Ocse e Fmi) e migliorare la distribuzione del reddito. Il vincolo consiste mantenere l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni al di sotto del 3% del Pil.

È rispetto a questi obiettivi vincolati che si deve analizzare un disegno di legge, diventato un po’ come un albero di Natale a ragione di un aspetto non economico ma puramente politico: il Presidente del Consiglio, a torto o a ragione, si considera in campagna elettorale permanente e, quindi, un provvedimento che dovrebbe essere semplice e lineare viene utilizzato per accontentare una vasta platea di “clientes”, come d’altro canto fatto da numerosi suoi predecessori. Eloquente l’inchino alle concessionarie autostradali.

I due obiettivi vengono visti dal Governo (o almeno da alcuni dei suoi principali consiglieri) come strettamente interconnessi. Si può essere d’accordo o meno con la visione secondo cui l’aumento dei consumi delle fasce più basse di reddito è leva essenziale per la crescita. È un approccio sostenuto da numerosi economisti, principalmente da quelli di scuola neokeynesiana ma anche da numerosi di orientamento neoclassico. Tra gli obiettivi principali non viene inclusa la riduzione dello stock di debito pubblico, né in termini assoluti, né in rapporto al Pil. Anche questa è materia opinabile perché, pur se i lavori econometrici sinora effettuati non hanno precisato “di quanto” la crescita è frenata dal fardello del debito, verosimilmente si perde tra lo 0,5% e l’1% di Pil l’anno portando il “potenziale” di espansione tra lo 0,3% e lo 0,8% del Pil.

In questo quadro, chiediamoci asetticamente se il disegno di legge raggiunge gli obiettivi nel rispetto del vincolo. La riduzione complessiva delle entrate (ossia del carico tributario e contributivo) sarebbe appena dello 0,1%, assumendo che si realizzino tutte le ipotesi alla base del provvedimento (anche quelle che in passato si sono sempre mostrate aleatorie, quali le entrate aggiuntive dovute alla lotta all’evasione). È molto più verosimile, come già evidenziato dal Centro Studi Impresalavoro, che la pressione fiscale e parafiscale aumenti a ragione dello “scattare” delle “clausole di salvaguardia” che comportano un aggravio dell’Iva di un punto percentuale, penalizzando, principalmente, tutte quelle fasce a reddito basso. Le entrate, poi, crescono principalmente per l’imposizione sul Tfr in busta paga, sempre che i lavoratori scelgano questa opzione (che li danneggerà sia ora, sia in futuro). Il disavanzo, poi, verrebbe contenuto in un po’ più di 7 miliardi, rispetto agli 11 mostrati nelle slides presentate il 15 ottobre. Data la deflazione in atto, è probabile che sarà molto più elevato (e per questo motivo si dovrà aumentare l’Iva).

Indubbiamente le imprese utilizzeranno al meglio le opportunità loro offerta dalla riduzione parziale dell’Irap. Ciò non basterà però a stimolare la ripresa. Anche perché, il grande maestro della comunicazione (il Presidente del Consiglio Matteo Renzi) ha commesso errori cruciali di comunicazione. E la comunicazione può incidere sull’andamento dell’economia, come dimostrato non solo da due libri di alcuni anni fa della Scuola nazionale dell’amministrazione (parte integrante della Presidenza del consiglio), ma anche da lavori accademici recenti dell’Union des Banques Suisses e della britannica Brunei University. Il primo è stato il senso generale di sciatteria (con numeri che ballavano sino a dieci giorni di una scadenza rispettata dai partner europei). Il secondo è costituito da diverse comunicazioni controproducenti: ad esempio, l’annuncio sullo spostamento della data di pagamento delle pensioni ha portato almeno 15 sui 26 milioni di pensionati a rivedere i loro programmi di spesa anche per consumi essenziali, accentuando le spinte che ci stanno portando verso una deflazione sempre più pericolosa. In barba agli 80 euro per i redditi bassi e al “bonus bebè” diretto essenzialmente all’elettorato del ceto medio.

Sec-cati

Sec-cati

Davide Giacalone – Libero

Se i governanti leggessero, oltre a parlare, ci eviteremmo qualche fastidio. David Cameron è andato su tutte le furie quando la Commissione europea gli ha notificato che gli inglesi dovranno scucire maggiori contributi, all’Ue, per 2,125 miliardi. Non voleva crederci. Matteo Renzi gli è andato subito appresso, visto che a noi italiani toccherebbe pagare 340 milioni in più: siete matti, siete burocrati, quei soldi non li avrete. Tanta indignazione e tanto stupore, però, sono mal riposti, giacché le cose vanno esattamente come qui avevamo previsto e scritto: con la rivalutazione del prodotto interno lordo dei singoli paesi, frutto della nuova contabilità Sec 2010, comprendente anche l’economia nera e parte di quella criminale, il solo risultato che si otterrà è quello di vedere crescere i contributi di ciascuno verso l’Unione europea. Ed ecco arrivato il conto.

Non è che noi si sia fatta chissà quale divinazione, ci eravamo limitati a leggere le istruzioni del nuovo gioco: rivaluta il pil e contabilizza spacciatori e mondane. Non è una questione morale, avvertimmo, ma contabile. Se fate i gradassi e fate crescere troppo il pil, tanto quelle voci sono basate su delle stime (perché se avessimo le cifre puntuali non si capirebbe perché non arrestare tutti i delinquenti), non guadagnerete nulla in termini di sostenibilità del debito e del deficit, dato che chi presta i soldi si basa su quelli che i governi riescono a spremere dai cittadini onesti, non su quelli che sfuggono a cura di quelli lesti, ma, in compenso, vedrete crescere il montante da consegnare alla Commissione europea, per finanziare le spese comuni. È puntualmente avvenuto.

Su un punto, però, mi sbagliavo. E quando sbaglio non mi limito ad ammetterlo, ma lo ricordo a tutti. Questa volta con gusto, perché sostenni che il pil della Germania, ricalcolandolo, sarebbe cresciuto più di quello nostro. Il ragionamento è: non hanno alcun limite all’uso del contante, quindi è ovvio che dalle parti loro ci siano più transazioni in nero. Errore. Non il ragionamento, che confermo, ma il risultato, perché i crucchi non sono fessi e hanno largamente sottovalutato l’apporto criminale, mentre manco hanno pubblicato la cifra della supposta economia sommersa. Sono affari nostri, sostengono. Farsi fare il gioco delle tre carte in tedesco, diciamolo, è da cadere in depressione profonda. Risultato: la Germania non solo non deve pagare di più, ma deve avere 779 milioni indietro, mentre la Francia (che ha fatto una cosa diversa ma analoga, varando una doppia contabilità) punta a riavere 1,2 miliardi.

In quanto ai signori della Commissione, comunque, sono effettivamente ottusi. Perché solo a patto di non ragionare si può supporre che quelle cifre debbano essere pagate il primo di dicembre. Aggiungendo che si rendono conto potrebbero esserci dei problemi di bilancio. Ma va?! E solo a patto di avere un orrido senso dell’umorismo si può pensare di chiedere alla Grecia 89,4 milioni in più, come se da quelle parti non si soffra già abbastanza. Ottusi, certamente. Ma mai dimenticare che la Commissione è un organo esecutivo. Quelli che comandano sono i capi di Stato e di governo, riuniti in Consiglio. Sono stati loro a far passare quelle regole, loro a non capire dove avrebbero portato, loro a fare i magnifici con le stime. Non tutti, come sempre, difatti tedeschi e francesi oggi reclamano, more solito, il rispetto delle regole. E neanche hanno torto. Solo che chi protesta dovrebbe, prima di tutto, prendersi a schiaffi davanti a uno specchio.

Iva: pressoché inevitabile il suo aumento nel 2015 di almeno un punto percentuale

Iva: pressoché inevitabile il suo aumento nel 2015 di almeno un punto percentuale

NOTA

A meno di improbabili miracoli economici, nel 2015 saremo costretti ad aumentare l’Iva complessivamente di almeno un punto percentuale. Il governo prevede infatti una crescita dello 0,6% del Pil nel 2015, dell’1% nel 2016 e dell’1,3% nel 2017. Sappiamo quanto poco valgano queste professioni di ottimismo (basti ricordare come nel Def il premier Renzi e il ministro dell’Economia Padoan avessero addirittura ipotizzato per quest’anno una crescita del Pil dello 0,8%) ed è quindi purtroppo molto più realistico immaginare che, fermo restando le condizioni attuali dell’economia italiana, anche nel 2015 il nostro Pil rimanga nella migliore delle ipotesi piatto, facendo registrare uno scostamento negativo dello 0,5% tra crescita preventivata e crescita reale.
«Questo dato – osserva il presidente del Centro studi “ImpresaLavoro” Massimo Blasoni – comporterebbe minori entrate fiscali per 4 miliardi su base annua, compensabile solo con un immediato aumento dell’Iva. La clausola di salvaguardia, insomma, rischia di essere applicata in ogni caso, indipendentemente dall’effettiva realizzazione dei tagli di spesa previsti dal Governo Renzi».
Un diktat che merita solo un bel vaffa

Un diktat che merita solo un bel vaffa

Vittorio Feltri – Il Giornale

La lettera minatoria che il presidente della Commissione europea, Barroso, ha inviato a Palazzo Chigi è la dimostrazione plastica che Bruxelles considera l’Italia una scolaretta negligente e, pertanto, ritiene lecito tirarle le orecchie e prenderla a bacchettate con disinvoltura. Può darsi che in assoluto noi meritiamo simile trattamento, perché da anni giuriamo di stare in riga e invece, passando da Berlusconi a Monti e da Enrico Letta a Renzi, non abbiamo fatto altro che sbandare, come certificano i dati economici degli ultimi tre anni, andati via via peggiorando rispetto a quelli registrati in epoca di centrodestra.

Ammesso e non concesso che siamo asini, non si capisce comunque perché l’Ue si arroghi il diritto di darci la pagella secondo pregiudizi, e non giudizi, che prescindono dalla conoscenza dei fatti. In altri termini, più crudi, se la Germania e i suoi camerieri scodinzolanti non apprezzano la politica romana sono liberi sì di criticarci e, al limite, di buttarci fuori dal club burocratico in cui guazzano, ma non di recapitarci una missiva dai toni ultimativi, sgradevoli, maleducati e arroganti, degni del Quarto Reich, anzi del Terzo. Essi ci hanno invitato perentoriamente a rispondere entro 24 ore al loro diktat in cui si dice che la nostra manovra (legge di stabilità) fa praticamente ribrezzo ed è quindi necessario correggerla, altrimenti…

Altrimenti che? Cosa fate, ci cacciate? Provateci, fessacchiotti. Senza Italia nel mucchio selvaggio di 28 Paesi, in cerca di una unione fittizia, salterebbe per aria non solo la Ue, ma anche la moneta unica difesa con spocchia dagli affamatori del popolo, cioè banchieri, finanzieri e loro utili idioti, tra cui economisti da talk show. Ecco perché ci auguriamo che Matteo Renzi (costretti ad affidarci a lui, già siamo nelle sue mani, oddio in che mani siamo), attingendo una tantum all’aulico linguaggio di Beppe Grillo, e rivolgendosi a Barroso e complici, pronunci il classico vaffanculo. Quando ci vuole, ci vuole.

Non ci vengano a dire lorsignori di Berlino e Bruxelles che se disubbidiamo agli ordini saremo commissariati, come se il nostro Paese fosse una colonia dei tognini. Manderanno in trasferta a Roma i commissari? Li accoglieremo nel migliore albergo. Va bene l’Excelsior di via Veneto? Ok. Qui rimpinzeremo gli ospiti di spaghetti all’amatriciana e di pizza e, l’indomani, li caricheremo sulle auto blu invendute rispedendoli a casa, oltre frontiera. Ce la siamo sempre cavata da soli nei momenti più tragici, compresi due dopoguerra mondiali e una tentata rivoluzione dei brigatisti rossi (indimenticabili quanto portentosi coglioni), vi pare che ci possano far tremare le ginocchia quattro contabili avvezzi a misurare la lunghezza degli zucchini e a disporre la distruzione delle arance siciliane? Andate all’inferno.

Noi con la politica dei piccoli passi (da gambero) ci eravamo guadagnati una buona posizione, poi siete arrivati voi menagramo con l’euro fasullo e coniato non per aiutare il popolo europeo, che non esiste (esistono tanti popoli europei privi di un denominatore comune), e ci siamo lasciati infinocchiare, affascinati dall’idea di appartenere a una élite che avesse in tasca le stesse banconote. Prodi e Ciampi, nel predisporci a essere presi in giro, ci misero del loro, ma sorvoliamo per rispetto della terza età (cui mi avvicino). Constato che Renzi non usa le buone maniere ma preferisce la pressa delle rottamazioni rapide. Lo preghiamo vivamente di non intimidirsi davanti a un portoghese (vocabolo che da noi ha un significato giustamente sinistro) e di apprestarsi piuttosto a mandarlo a quel Paese, il suo, dove troverà altri portoghesi più malleabili di noi. Chiaro il concetto?

Caro presidente Renzi, lei che ha fatto fuori le cariatidi del Pd in pochi mesi, non faticherà a far secco anche questo intruso, Barroso, un nome che evoca quello di un calciatore, anzi di vari calciatori, tutti modesti. Ci aspettiamo da lei un atteggiamento dignitoso, un atto di coraggio che riaffermi la nostra sovranità nazionale a costo di sfidare il Quarto Reich che, senza di noi, farebbe la fine del Terzo, sul serio. Un’ultima osservazione prima di chiudere. L’Ue si è risentita perché Padoan, ministro dell’Economia, ha pubblicato la lettera minatoria sul sito del proprio ministero. Ma da quando in qua gli atti ufficiali in democrazia rimangono segreti? Ha fatto benissimo Padoan a divulgarla. Chi lancia il sasso e nasconde la mano è un vile; chi ambisce perfino a nascondere il sasso è un pistola.

P.S.: Presidente Renzi, le rammento che nel 2011 Berlusconi ricevette una lettera dalla Ue e, non avendola rispedita al mittente con un circostanziato vaffa, fu sfanculato. Politico avvisato, mezzo salvato.

L’austerità e i ministri di Pulcinella

L’austerità e i ministri di Pulcinella

Gaetano Pedullà – La Notizia

L’Europa vuol continuare a bastonare l’Italia. E non si deve nemmeno sapere. Che brutta uscita per Barroso, il presidente di una Commissione che ha governato gli anni più bui dell’Unione. Dopo averci spedito una lettera che apre di fatto il contenzioso tra Bruxelles e Roma sui conti pubblici, il capo dell’esecutivo comunitario in cerca di un nuovo ruolo politico a Lisbona se l’è presa con Renzi per aver divulgato la missiva. Come se fosse un segreto quello che hanno fatto Bruxelles e Strasburgo, Berlino e Francoforte per metterci in ginocchio. Austerità, politiche del rigore, una Banca centrale che si è mossa con colpevolissimo ritardo di fronte alla tempesta degli spread: c’è bisogno di custodire altri segreti di Pulcinella per oscurare il disastro che ci è stato procurato? Se l’Italia affonda – ribatteranno le anime belle – è perché non abbiamo fatto i compiti, siamo un Paese con regole bizantine e le riforme attendono da secoli. Vero. Ma il colpo di grazia non ce lo siamo dati da soli. E il tentativo di questa Europa nel coprire le sue responsabilità è la pistola fumante che inchioda l’assassino.

Per creare lavoro una legge non basta

Per creare lavoro una legge non basta

Massimo Riva – L’Espresso

Dice il ministro dell’Economia che le novità previste con la legge di Stabilità dovrebbero portare a 800 mila nuove assunzioni nel corso del prossimo triennio. Ne saremmo tutti oltremodo felici, anche perché l’Istat ha appena certificato che dal 2008 ad oggi sono andati perduti oltre due milioni di posti di lavoro soltanto nella fascia di età fra i 25 e i 34 anni. Riassorbirne cosi tanti nell’arco di trentasei mesi si offre come una prospettiva entusiasmante. Forse anche un po’ troppo. perché c’è il rischio di alimentare speranze che potrebbero rivelarsi illusioni con ricadute negative sulla credibilità di un governo che, in realtà, qualcosa di buono e di utile per il rilancio della crescita economica sta facendo.

È fuor di dubbio, infatti, che almeno un paio di novità introdotte nella manovra per il 2015 dovrebbero avere effetti positivi in termini di creazione di posti di lavoro. Non solo i nuovi assunti a tempo indeterminato costeranno meno quanto a oneri contributivi ma le imprese potranno anche godere di un robusto sgravio dell’Irap proprio sul versante del lavoro. Perciò è senz’altro ragionevole pensare che il combinato disposto di queste due misure possa schiudere in ingresso quei portoni di fabbriche e uffici che da tempo sono aperti soltanto in uscita. Ma declamare cifre così imponenti come fa il governo è operazione politica temeraria anche perché l’esperienza storica indica che un rientro significativo della disoccupazione è possibile soltanto quando il tasso di crescita annuo si avvicina ad almeno un paio di punti percentuali, non agli stentati decimali previsti per l’anno venturo e seguenti. Non c’è impresa disposta ad assumere lavoratori perfino a costo zero se il mercato dei suoi prodotti non si rianima. In altre parole, se la domanda per consumi non riprende a ritmi vivaci.

E qui siamo a un primo punto dolente. L’orso della crisi dell’occupazione si sta rivelando un animale sempre più difficile da addomesticare con gli strumenti tradizionali e da parte di un singolo domatore. immaginare che oggi il mercato del lavoro possa essere rilanciato soltanto con interventi legislativi su fiscalità e oneri contributivi significa non aver compreso appieno la vastità e la profondità del problema. Per carità, in momenti difficili tutto serve: a cominciare da un buon bricolage legislativo come quello proposto dal governo. Ma con queste riforme si adempie una prima condizione, sicuramente necessaria e però anche del tutto insufficiente. In un sistema economico esposto alla combinata minaccia di una recessione sommata alla deflazione non si esce da una simile tenaglia – mortale per l’occupazione – senza produrre sforzi rilevanti sul versante degli investimenti, dapprima pubblici e a seguire privati.

E qui siamo al secondo, essenziale, passaggio. Oggi non esiste l’ipotesi di perseguire efficacemente la crescita economica da soli e in casa propria: non lo consente l’integrazione con il mercato unico europeo e ancor più la globalizzazione economica planetaria. Ovvero: l’Italia può risalire la china solo all’interno di un concerto europeo nel quale la musica deprimente del mero rigore contabile venga sostituita da uno spartito che preveda un piano di grandi investimenti collettivi e di rilancio della domanda interna.

Conta, dunque, poco che Parigi si ribelli al limite del tre percento sul disavanzo o che Roma voglia procrastinare l’ingresso nella gabbia del pareggio di bilancio. Fino a quando si incrociano le armi attorno alla maggiore o minore sacralità dei vincoli europei si continua a restare dentro il gioco degli idolatri di un codice di regole concepito e sottoscritto in tempi (ormai lontani) di benessere crescente per tutti. Oggi l’orizzonte è cambiato. L’obiettivo degli 800mila posti di lavoro declamato dal ministro Padoan può diventare realistico a una condizione su tutte prevalente: che qualcuno in Europa riesca a rovesciare il tavolo di una politica economica che, dietro il vessillo dell’euro forte e dell’austerità, sta rendendo tutti più poveri.

Stress test

Stress test

Enrico Cisnetto – Il Foglio

La Banca dei Regolamenti internazionali ha calcolato che attualmente nel mondo ci sono derivati per 710 trilioni di dollari, oltre 9 volte l’ammontare del pil planetario, di cui circa 300 allocati nelle prime cinque banche americane (quelle “too big to fail”). Se si pensa che nel 2007, subito prima che a partire dallo scoppio della bolla dei mutui subprime Usa si innescasse la grande crisi finanziaria mondiale, l’ammontare di questo tipo di strumenti era di 530 trilioni di dollari, e che solo due anni fa era meno di 470 trilioni di dollari, questo dà la misura del grado di pericolo che tutti noi corriamo di ritrovarci nel pieno di una bufera finanziaria epocale, con in più l’aggravante di non aver ancora smaltito, specie in Europa – e in Italia in particolare – le conseguenze, soprattutto recessive e deflattive, della crisi precedente. Naturalmente, questi numeri indicano il valore nominale dei derivati in circolazione, mentre il rischio sottostante è inferiore. Ma è altrettanto vero che essendoci oggi il 25 per cento in più di questi strumenti rispetto al 2007, il pericolo non può che essere aumentato.

Dico questo non per menar gramo, ma per misurare la distanza siderale che c’è tra il rigore dei controlli sulle banche europee che in queste ore, con gli stress test del duo Bce-Eba, stanno facendo tremare i polsi di molti banchieri – e che dovrebbero fare lo stesso effetto agli uomini di governo, se solo avessero contezza della minaccia sistemica che pende sui loro paesi – e l’allegra spensieratezza che, specie oltreoceano, spinge i grandi istituti all’azzardo senza che nessuno intervenga. E già, perché queste verifiche sulla congruità patrimoniale delle banche – che tra l’altro ha generato una speculazione borsistica (e non solo) sugli esiti dei test che definire scandalosa è poco – sono state costruite all’insegna della più assoluta intransigenza, mentre nessun organismo, né nazionale né sovranazionale, ha aperto bocca di fronte al fenomeno della moltiplicazione dei derivati. Non solo.

Come sette anni fa, anche questa volta è sui mercati anglo-americani che si sono prevalentemente sviluppate attività che possano generare titoli tossici, ma anche questa volta, se la storia dovesse ripetersi, sarebbe l’Europa – dove, a parte un caso, non ci sono istituti ingolfati di derivati – a pagare il prezzo più alto. Allora, francamente non si capisce perché accanirsi sulle banche continentali – siamo alla terza tornata di stress test dal 2010 – tra l’altro appena reduci da ristrutturazioni pesanti e massicci aumenti di capitale (complessivamente sono stati chiesti al mercato 70 miliardi, di cui 10 solo in Italia). E se fosse vera la cifra di cui si parla in questa tormentata vigilia (domenica saranno ufficialmente annunciati i risultati dell’asset quality review), e cioè 50 miliardi di ulteriore fabbisogno patrimoniale, si capirebbe che trattasi di puro masochismo.

Si dice: ma così si assicura la stabilità finanziaria europea, indispensabile sia per poter realizzare l’Unione bancaria sia per dare corpo alla ripresa economica. Può darsi, è sperabile. Ma intanto si è ottenuto il risultato di tenere sotto pressione per un anno 130 banche, commerciali e d’investimento, proprio nel momento in cui avrebbero dovuto dedicarsi totalmente al rilancio degli impieghi, e di aver offerto una clamorosa occasione di guadagno alla peggiore speculazione, che ha approfittato per lanciare rumors di ogni genere facendo in molti casi letteralmente crollare il corso dei titoli di diverse banche. Ma questo, paradossalmente, è niente se pensiamo a quale valore di affidabilità si possa assegnare a graduatorie che pretendono di essere uniformi ma sono stilate sulla base di regole nazionali del tutto diverse tra loro. Non sfuggirà, infatti, che chi fosse eventualmente bocciato – e dunque costretto a prevedere nuove ricapitalizzazioni – si troverebbe facilmente preda di banche straniere. E aggregazioni cross-border figlie di asimmetrie normative sarebbero il modo peggiore per costruire un sistema bancario europeo integrato. Cosa abbiamo speso a fare?

È per queste considerazioni che ritengo che la questione doveva e dovrebbe essere affrontata dai governi europei. E in particolare da quelli di paesi, come l’Italia, che potrebbero ricavare maggior danno da questa “giostra”. Per carità, le authority è giusto che abbiano la loro autonomia, ma quando le scelte che esse fanno hanno ricadute sistemiche, allora è necessario che i governi si prendano le loro responsabilità. Il credito è troppo importante per lasciarne i destini in mano – con tutto il rispetto – al signor Andrea Enria (presidente dell’Eba, italiano) e alla gentile signora Daniele Nouy (responsabile della Vigilanza della Bce, francese), Anche perché, uno si domanda, a suo tempo cosa abbiamo speso a fare un mucchio di quattrini per evitare che le nostre banche facessero la stessa fine della Lehman, se poi i governi le lasciano dipendere da improbabili pagelle redatte da maestri (?) totalmente privi di responsabilità pubblica?

Conti, non è questione di spiccioli

Conti, non è questione di spiccioli

Antonio Polito – Corriere della Sera

C’è lettera e lettera. Quella «strettamente confidenziale» che trovate oggi su tutti i giornali, inviata dalla Commissione europea all’Italia, è severa nella forma; ma è niente a cospetto dell’altra ben più drammatica spedita nel 2011 dalla Bce, che fu l’inizio della fine dell’era Berlusconi (e infatti quella il governo la tenne riservata; questa invece è stata subito resa pubblica, con grande irritazione di Bruxelles). La lettera è dunque innanzitutto l’occasione per riflettere sui progressi fatti grazie ai sacrifici degli italiani, durante i governi Monti e Letta: se Renzi può permettersi oggi una «deviazione» dalle norme europee è solo perché l’Italia è uscita dalla procedura d’infrazione e ha riconquistato un minimo spazio di manovra. Meglio non dimenticarlo e non renderlo vano.

Che la «significativa deviazione» dalle regole ci sia, è del resto fuori discussione. E la Commissione, in quanto «guardiana dei Trattati», non può non segnalarla, come ha fatto anche con Parigi. Quindi il problema sono le regole. Il governo Renzi ritiene che rispettandole aggraverebbe la spirale recessiva. Non avendo la forza di cambiarle, prova a forzarle, sperando che basti per invalidarle. È probabile che ci riesca, magari pagando un obolo (i 3,4 miliardi tenuti da parte servono a quello): la confusione è oggi grande sotto il cielo dell’Europa, tutto dipende dalle previsioni macro-economiche di novembre. Ma non è detto che evitando la bocciatura di Bruxelles il problema sia risolto. Perché se ricominciamo a indebitarci ma il Pil non riparte, allora la sanzione potrebbe arrivare dai nostri creditori sui mercati.

Nella manovra ci sono circa 18 miliardi di minori tasse destinati a rilanciare la crescita. I dieci investiti per gli 80 euro finora non hanno funzionato, speriamo nel taglio Irap e negli incentivi alle assunzioni. Ma basta un colpo di vento nelle Borse, un’entrata che non entra (tipo la lotta all’evasione), o un altro tuffo del Pil, e una scommessa politica può trasformarsi in un azzardo. Ecco perché il governo deve rispondere alle richieste di chiarimenti con precisione e pubblicamente. Non basta dire, «ci mettiamo due miliardi e affare fatto».

La deviazione «si giustifica se i margini di manovra saranno utilizzati per innalzare il potenziale di sviluppo», ha scritto ieri Bankitalia; dobbiamo dunque spiegare esattamente con quali misure, per essere credibili. Renzi sta provando a scavare una galleria sotto una montagna di più di duemila miliardi di debiti, per vedere la luce. Ma basta una mossa falsa, e la montagna viene giù. E allora pioverebbero pietre, altro che lettere.

In Italia 2 milioni e 300mila famiglie non possono permettersi una casa

In Italia 2 milioni e 300mila famiglie non possono permettersi una casa

Danilo Taino – Corriere della Sera

Sono anni che non si parla più di diritto alla casa, almeno in Occidente. Quasi che il problema fosse risolto. Non lo è: nelle città italiane, per dire, ci sono due milioni e trecentomila famiglie che non sono in grado, per ragioni economiche, di garantirsi un’abitazione minima. Il problema non è risolvibile con i vecchi modelli delle rivendicazioni sociali degli Anni Settanta e Ottanta, o con i piani di edilizia popolare del passato. Ciò nonostante, resta: è un guaio sociale e rimbalza in negativo sui livelli di istruzione e di salute del Paese e pesa sulla crescita complessiva. La società di consulenza McKinsey, attraverso il suo istituto di ricerca MK Global Institute, pubblicherà domani uno studio – globale e articolato per Paese – su questo che è uno dei temi essenziali del momento. E ha elaborato alcune proposte “di mercato” per affrontarlo.

Il gap
Al cuore della ricerca c’è il calcolo di un gap di accessibilità alla casa: in sostanza, quanto salario in più servirebbe a una famiglia media per comprare l’abitazione (nel caso italiano di 60 meri quadrati) senza dovere impegnare più del classico 30% del reddito stesso. Il risultato è che, in Italia, i 2,3 milioni di famiglie in difficoltà avrebbero bisogno di nove miliardi di dollari in più (7,1 miliardi in euro) ogni anno. Il gap maggiore si registra nell’area metropolitana di Milano: quattro miliardi di dollari. Seguono Roma, tre miliardi; Firenze, un miliardo; Torino, 500 milioni; Napoli, 300 milioni e Venezia, 200 milioni. «Due milioni e trecentomila famiglie in condizioni di difficoltà abitativa non sono cosa da poco per un Paese come il nostro. E un gap pari allo 0,5% del Pil è considerevole», dice Stefano Napoletano, il partner di McKinsey che ha seguito lo studio per l’Italia.

Le soluzioni possibili
Per ridurre questo gap di accessibilità alla casa, Napoletano vede quattro possibili interventi applicabili al caso italiano (che ovviamente è diverso da quello di altri Paesi). Vanno di molto ridotti i tempi e i costi della burocrazia per ottenere i permessi, soprattutto di ristrutturazione; il settore delle costruzioni, uno dei più lenti nei guadagni di produttività, va modernizzato; occorre una gestione delle case costruite meno costosa, il che significa introdurre innovazioni sin dalla progettazione, ad esempio nella sostenibilità energetica; vanno abbassati i costi di finanziamento per l’acquisto della casa e resi disponibili, attraverso strumenti di debito ad hoc, anche a chi ha redditi bassi e scarse garanzie da offrire. A livello globale, lo studio calcola che ci siano 330 milioni di famiglie in difficoltà finanziarie quando devono affrontare la questione abitazione. Che, in ragione degli intensi flussi migratori verso le metropoli nei Paesi emergenti, diventeranno 440 milioni nel 2025: almeno un miliardo e trecento milioni di persone coinvolte.

Nel mondo
Nel mondo, il gap di accessibilità alla casa – misurato a seconda delle caratteristiche di ogni Paese – è oggi di 650 miliardi di dollari all’anno: quasi l’uno per cento del Prodotto lordo mondiale. Ai costi attuali, per risolvere il problema occorrerebbe investire tra i novemila e gli 11 mila miliardi di dollari da qui al 2025, che salgono a 16 mila se si aggiungono i costi di acquisizione dei terreni da edificare. Evidente è che la chiave sta nel tagliare i costi: di costruzione, di gestione e di rendita data dalle molte restrizioni regolamentari (questi ultimi all’origine dei prezzi elevati nei centri delle città). McKinsey calcola che si possano ridurre tra il 20 e il 25 per cento.