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Occupy Landini, quel mito sbagliato che porta alla disfatta

Occupy Landini, quel mito sbagliato che porta alla disfatta

Mario Lavia – Europa

A un certo momento persino a uno mediaticamente perfetto come Maurizio Landini può capitare di spararla grossa. E se nessuno ha riso davanti alla sua ultima ineffabile minaccia di occupare le fabbriche deve essere stato perché è come se tutti si fossero guardati negli occhi con aria interrogativa: ma che sta dicendo? E facendo ironie fin troppo facili: occupare quali fabbriche, che sono tutte chiuse? C’è da chiedersi, insomma: è veramente Maurizio Landini questo? Accidenti, un leader con la “l” maiuscola, si è confermato di talk in talk, il sindacalista con la t shirt sotto la camicia spiegazzata. Uno che rende l’idea di un capo che ha le masse e non qualche direttivo di categoria dietro di sé, uno tosto, realista, pragmatico, insomma emiliano-emiliano. E allora com’è che gli sfugge una fregnaccia del genere?

Diciamola tutta. Se finanche i giornali, sempre in affanno nel riempire la pagina, non hanno per nulla scavato sulla “minaccia” landiniana, se l’hanno sì riportata nei catenacci, ma senza che ci sia stato uno straccio di cronista che si sia lontanamente posto la domanda “come funzionerà questa mega-occupazione?”, vuol proprio dire che a ’sta storia non ci ha creduto nessuno. Ma come, occupare le fabbriche? Chi? Dove? Come? Voleva incutere paura, il capo della Fiom? Ora, non conoscendolo personalmente, non è semplice diagnosticare cosa sia scattato nella sua testa: sarà stato – nulla di male – un affiorare di ansie, di istinti ribellistici, di pulsioni giovanili. Ma no, forse è successo semplicemente che – a un certo momento – gli è salito in groppo alla gola il rigurgito di un passato più o meno eroico, nell’intreccio ideologico di Bienni rossi e Autunni caldi su su fino al Berlinguer con megafono in mano davanti alla porta 5 di Mirafiori – «se i sindacati decideranno l’occupazione noi metteremo al loro servizio l’esperienza e l’organizzazione del partito comunista…» – cioè «un’altra batosta», come diceva Nanni Moretti a proposito delle elezioni studentesche di non so più quando. Già, batoste. Batoste operaie. Come quella, mitica, la madre di tutte le batoste quando tra il primo e il 4 settembre del 1920 oltre 500mila operai metallurgici occuparono la gran parte delle fabbriche, in prevalenza metallurgiche, a Milano, Genova, Roma, Napoli, Palermo e in altre città. Fu l’acme del Biennio Rosso. Roba grossa, di valenza storica. Con tutto il rispetto, Matteo Renzi pare ancora confinato nella cronaca.

All’epoca lo scontro tra operai e padroni (ma sì, padroni) era durissimo, salari di fame, orari impossibili. Altro che demansionamenti e giuste cause. Si usciva dal primo dopoguerra coi vestiti laceri, e il morale ancora peggio. C’era il socialismo da costruire, mentre si aggiravano le prime squadracce. Si occupò l’occupabile: eppure finì male, molto male. Il sogno dell’autogoverno dei produttori si infranse, l’assalto al cielo dell’autogoverno dei proletari evaporò in un soffio strozzato, e si vide prestissimo che la cuoca non sapeva dirigere non dico lo stato ma nemmeno lo stabilimento. Ma come ogni disfatta, anche quella contribuì ad alimentare il mito dell’occupazione delle fabbriche, che, insieme a tanti altri più o meno nefasti, fu custodito nella memoria operaia per riemergere, ancora più ricoperto da uno spesso strato di ideologia, quasi mezzo secolo dopo, sul finire dei Sessanta: l’Autunno caldo, le commissioni interne, i grandi cortei, le assemblee. Un altro punto alto. Un altro acme. Ecco l’artiglio della classe operaia, diceva Lenin, peraltro nel ’69 artiglio vincente. Ma fu l’ultima volta.

Quando nel 1980 a Enrico Berlinguer, scappò di evocare l’ipotesi dell’occupazione della Fiat (Piero Fassino, che quel giorno era presente a Mirafiori, scrisse anni dopo che fu una specie di incidente non premeditato), di fatto suonò la campana a morte di quel vecchio movimento operaio. Dalla sconfitta alla Fiat uscì un’altra classe operaia. E per sempre. Il mito dell’occupazione ha resistito, ma fra gli studenti, a cui in ossequio all’età dell’innocenza tutto è permesso. Ma agli operai, vaglielo a dire, oggi, di occupare lo stabilimento, di fare i picchetti, di andare avanti tutto il giorno ingollando caffè corretto col Fernet, come usava un tempo a Mirafiori. Chi glielo spiega, all’operaio del 2014, quello che non ce la fa a pagare il mutuo, che è sradicato socialmente, culturalmente, esistenzialmente e magari anche in quanto a passaporto, che deve rinunciare a giorni e giorni di paga solo perché lo chiede il leader sindacale, foss’anche quello più popolare e intelligente?

E allora, caro Landini. Si può capire l’esigenza, come si dice in gergo, di far montare il clima per evitare che la san Giovanni del 25 ottobre stia al Circo Massimo di Cofferati come Moccia a Thomas Mann e però la storia è andata troppo avanti, altro che Autunno caldo: non siamo più a quei tempi là, come cantava Guccini, tutta la vicenda si è fatta ancora meno semplice, perché non c’è più “la semplicità” del socialismo (Brecht) da fare né il padrone (il padrone!) da buttar giù, è tutto molto più complicato, bisogna vedere, bisogna tenere, bisogna trattare, bisogna ideare, bisogna avanzare piano piano. Dunque, nessuno si occuperà mai delle tue occupazioni: al massimo ne domanderanno con un pochino di curiosità i nipoti agli operai che le fecero quarant’anni fa, quelli che quando se ne ricordano corrugano la fronte e subito si mettono a parlar d’altro.

Il boom della finanza questa volta è sociale

Il boom della finanza questa volta è sociale

Andrea Di Turi – Avvenire

Una crescita in doppia cifra di questi tempi è cosa piuttosto rara. Ma non per la finanza socialmente responsabile (Sri), più nota come finanza etica, che dimostra ancora una volta la sua capacità di “contaminare” i mercati finanziari guardando alle performance non solo economiche ma anche sociali e ambientali degli investimenti.

I numeri presentati ieri da Eurosif, l’organizzazione dei forum nazionali europei che promuovono la finanza Sri (per l’Italia il Forum per la finanza sostenibile), parlano da soli. Tra il 2011 e il 2013, nei 13 Paesi europei considerati dallo studio, si è assistito a una crescita in doppia cifra per tutte le modalità d’investimento riconducibili allo Sri. E tutte hanno fatto meglio, in termini di performance, del settore del risparmio gestito complessivamente considerato a livello continentale.

In particolare, secondo lo studio, che è stato realizzato grazie al contributo di realtà come Edmond de Rothschild asset management o Generali Investments Europe, a registrare un vero e proprio boom è stato il settore degli impact investing, gli investimenti che ricercano allo stesso tempo un rendimento accettabile e un impatto sociale (ad esempio garantire l’accesso a beni e servizi essenziali alle fasce svantaggiate della popolazione nei Paesi in via di sviluppo), sulla cui importanza si è soffermato di recente lo stesso Papa Francesco: l’impact investing, infatti, è la strategia di investimento socialmente responsabile che è cresciuta di più (+132%), tanto che si stima che il mercato europeo valga circa 20 miliardi di euro. Ed è un mercato in cui, dopo Olanda e Svizzera che insieme valgono i due terzi (il 50% dell’impact investing in Europa è rappresentato dalla microfinanza), l’Italia è ben posizionata, insieme a Gran Bretagna e Germania.

Notevole anche la crescita delle strategie di investimento responsabile dette di esclusione (o negative), che cioè escludono dall’universo investibile singole società quotate o interi settori considerati eticamente discutibili o quanto meno controversi: un caso tipico è quello degli investimenti in società che producono cluster bomb (bombe a grappolo) e mine anti-uomo, che in alcuni Paesi (ad esempio in Belgio) sono stati addirittura vietati per legge. Gli asset soggetti a criteri di esclusione sono cresciuti del 91%, a quasi 7 trilioni di euro (7mila miliardi di euro), cioè oltre il 40% degli asset gestiti complessivamente a livello europeo, e costituiscono oggi la modalità di investimento Sri più diffusa in Europa.

È ancora l’Italia, poi, a distinguersi in relazione alle pratiche di “engagement”, ossia di dialogo tra investitori e imprese su temi sociali e ambientali, che può sfociare nel voto in assemblea: l’engagement interessa 3,3 trilioni di euro di asset, è cresciuto dell’86% in Europa ma più di tutti è cresciuto in Italia, dov’è quasi raddoppiato (+193%) rispetto a due anni fa. Gli investitori etici italiani stanno dunque diventando anche investitori “attivi”? Forse. Di certo sarà uno degli argomenti della terza Settimana italiana dell’investimento sostenibile, in programma dal 4 al 12 novembre.

E intanto si sprecano le vere occasioni

E intanto si sprecano le vere occasioni

Michele Tiraboschi – Panorama

Garanzia giovani: se Matteo Renzi l’avesse fatta funzionare ora sarebbe molto più autorevole su art. 18 e.Iobs act. Perché se la svolta epocale sta nel passaggio dalla vecchia idea del posto fisso alle moderne tutele sul mercato del lavoro, occorre saper rassicurare i lavoratori che perdere l’impiego non è più un dramma. Ciò almeno nella misura in cui politiche di ricollocazione e riqualificazione professionale esistono davvero, attraverso una robusta ed efficiente rete di servizi al lavoro su cui l’Italia mai ha potuto contare anche dopo la fine del monopolio statale del collocamento. Gli oppositori del Jobs act hanno sempre obiettato a Renzi che, per superare il regime di apartheid tra garantiti e precari, il nodo centrale è quello delle risorse che non ci sono (o comunque non in misura sufficiente) per l’avvio di politiche attive del lavoro. Eppure non è esattamente così. Lo dimostra il fallimento di Garanzia giovani che si sta consumando in questi mesi nell’indifferenza della politica e del sindacato, anche perché offuscato dalla contesa sull’art. 18.

Il piano, pensato dall’Europa per fronteggiare disoccupazione e inattività giovanile, porta in dote all’Italia ben 1,5 miliardi di euro. Però il nostro Paese non ha saputo far altro che organizzare centinaia di convegni, promuovere qualche triste spot pubblicitario che mai i ragazzi vedranno e riattivare la storica polemica tra Stato e regioni sulle colpe della inefficienza dei nostri Centri per l’impiego. La lista di intese, protocolli, piani di attuazione è infinita. Si firma a ogni livello: nazionale, regionale, locale. Senza però che alle parole seguano i fatti. E cosi una azienda che voglia dare una vera occasione a un giovane, ancora oggi non riesce a capire se i fondi a disposizione siano attivi o no. Anche nel migliore dei casi, poi, la complessità per accedere agli stanziamenti è tale che il più delle volte viene voglia di lasciar perdere. A farne le spese sono ovviamente i giovani: vittime sacrificali dell’ennesimo annuncio che alimenta timide speranze che, subito, si traducono in rabbia e delusione. Per loro Garanzia giovani è oggi unicamente un grigio portale internet, costruito male tecnicamente e per di più incomprensibile. Le offerte di lavoro o di tirocinio sono contenute in quasi 500 pagine da consultare online, costruite senza ordine e logica. Orientarsi è pressoché impossibile.

I problemi informatici sono comunque poca cosa rispetto alla qualità degli annunci contenuti. Nessuno sembra occuparsi di verificare quanto immesso nel portale governativo. E così basta scavare un po’ più a fondo per accorgersi che il sito www.garanziagiovani.gov.it non fa altro che rimbalzare offerte già presenti su altri siti. Il programma è pensato per giovani disoccupati, da tempo inattivi o comunque alle prime armi. Ma quasi tutte le offerte del portale, generalmente veicolate da agenzie di lavoro interinale, pongono come requisito l’esperienza pregressa nella mansione o nel settore. Alcuni esempi tra i tanti? «Cerchiamo meccanico con esperienza per gestire autonomamente la manutenzione di escavatori cingolati, gommati, pale auto, furgoni e camion». E ancora: «Cerchiamo per azienda cliente operaio specializzato produzione di calzature. Si richiede esperienza pregressa e pluriennale». Per non parlare del «fotografo, dotato di propria macchina fotografica professionale», che viene ricercato per un lavoro giornaliero. Un piano europeo di 1,5 miliardi si traduce così in un grande spot nazionale maldestramente alimentato da un modesto motore di ricerca di quel poco che è già presente sulla rete, senza farsi carico dell’orientamento dei nostri ragazzi e senza mantenere l’impegno, importantissimo per un giovane, rispetto alla parola data: e cioè la promessa di non lasciarli soli.

La battaglia sull’art. 18 avrà un vincitore certo: quel Matteo Renzi abile nel mettere con le spalle al muro quanti hanno saputo dire solo «no» a ogni cambiamento. Il rischio, tuttavia, è che all’esito della battaglia Renzi avrà perso la parte migliore del suo esercito: i tanti ragazzi italiani sempre più scoraggiati e delusi dalle istituzioni e dalla politica. Ragazzi che hanno smesso di sognare il loro futuro anche perché privati dell’unica garanzia possibile: quella di poter dimostrare a qualcuno che meritano fiducia e anche rispetto.

Non c’è scampo, le riforme vanno imposte dall’alto

Non c’è scampo, le riforme vanno imposte dall’alto

Ester Faia – Panorama

Gli Stati Uniti d’America hanno attraversato molte crisi dell’unione prima di raggiungere il punto attuale. Lo stesso succede e succederà per l’Europa fino al momento in cui l’unione sarà completa. Il referendum scozzese dimostra che nessuno Stato o regione appartenente a un’unione vuole tornare indietro: i costi sono troppo alti e le persone imparano a capirsi meglio stando insieme. Si può solo andare avanti. La situazione attuale con alcuni paesi, come l’Italia e la Francia, che non riescono a mantenere gli impegni di bilancio e altri come la Germania, che hanno un surplus eccessivo di partite correnti, è solo un’altra crisi di questo processo di integrazione.

Quando la crisi finanziaria ha mostrato la debolezze del sistema europeo, in cui il controllo dei rischi così come i meccanismi di risoluzione degli istituti di credito in crisi non erano omogenei tra i paesi dell’area, la soluzione adottata è stata la creazione dell’unione bancaria. Un passo avanti che ha indotto molte banche a ricapitalizzare e rendersi più sicure. Ma per capire quale dovrebbe essere il prossimo passo (che non è necessariamente l’unione fiscale, non attuabile in questo momento secondo il principio per il quale non ci può essere tassazione senza rappresentanza) bisogna analizzare le ragioni degli attuali squilibri di bilancio.

La ragione per cui alcuni paesi soffrono squilibri nei bilanci pubblici e altri nei bilanci delle partite correnti è paradossalmente la stessa. La mancanza di efficienza nella produzione di beni e servizi. Nel caso dell’Italia questo genera scarsa crescita facendo quindi scendere le entrate fiscali e salire il rapporto debito-pil. Nel caso della Germania l’inefficienza del settore dei servizi tiene bassa la domanda interna e spinge i tedeschi a investire all’estero: è il flusso di capitali verso l’estero che tiene alto il surplus delle partite correnti. Problemi diversi ma con la stessa diagnosi: la mancanza di efficienza. Per migliorare quest’ultima c’è bisogno di riattivare il processo avviato dal Trattato di Lisbona (noto anche come trattato di riforma) rimasto dormiente fino a oggi in quanto nessuna crisi aveva reso palese la necessità di questo ulteriore passo verso l’integrazione.

Le riforme necessarie per liberalizzare il mercato di beni e servizi o per migliorare e uniformare l’investimento in educazione sono difficili da attuare tramite il normale processo politico. I governi tendono a evitare parti delle riforme che possono scontentare le loro piattaforme elettorali. Ma se le riforme sono indicate dall’alto, così come e avvenuto per la moneta unica, che ha fermato i processi inflattivi di alcuni paesi, o l’unione bancaria, che ha già indotto molte banche a ricapitalizzare, allora la loro attuazione diventa più facile. Non solo, ma il coordinamento tra paesi nell’attuare le riforme aiuterebbe a ridurre la sensazione di disparità tra cittadini europei. Riforme imposte a un solo paese per volta provocano reazioni negative nei residenti. Allo stesso modo riforme attuate senza sincronia temporale possono garantire ad alcuni paesi posizioni dominanti in alcuni settori. Il coraggio richiesto ai politici per andare verso il processo di integrazione (riducendo quindi il loro potere) è più forte e più duraturo del coraggio necessario per attuare le riforme stesse. Queste ultime sono state spesso fatte ma anche modificate a breve distanza per esigenze di elettorato; al contrario dal processo di integrazione non si torna indietro.

Incentiviamo chi investe

Incentiviamo chi investe

Bruno Villois – La Nazione

No patrimonio, no credito bancario, parafrasando una nota pubblicità televisiva. Questa è la sintesi della diminuzione dell’erogazione dei prestiti bancari. Il sistema creditizio è stato obbligato ad accantonare miliardi di euro, per crediti inesigibili, imputabili per oltre i due terzi alle piccole imprese, le quali a causa della crisi e in non pochi casi al mancato pagamento da parte delle PA di forniture e servizi, stanno vivendo la loro peggior stagione.

L’inadeguata patrimonializzazione e l’insufficiente ricorso al capitale di rischio, da parte della stragrande maggioranza delle piccole aziende, è all’origine del costante aumento della contrazione dell’erogazione dei prestiti. Per rianimare i processi espansivi della nostra economia e fondamentale alimentare una dose massiccia di investimenti. Le norme fiscali hanno sempre favorito l’indebitamento bancario consentendo la detrazione degli interessi passivi dalle tasse, nessuna agevolazione, né incentivo, sono stati concessi a favore del conferimento di capitale di rischio, con il risultato di allontanare il versamento di capitale proprio degli imprenditori. La crisi ha fatto emergere la debolezza patrimoniale della maggioranza delle nostre imprese, il ridotto accesso al credito ne è stata la conseguenza naturale.

Per riattivare un flusso importante di prestiti è indispensabile che le imprese si patrimonializzino, così da poter garantire, in misura appropriata, quanto loro concesso dalle banche. Un’importante ondata di nuovi prestiti creerebbe le condizioni per rilanciare gli investimenti in modernizzazione, innovazione, ricerca e formazione, tutte componenti indispensabili per consentire alle imprese di poter competere a livello internazionale. Il governo insiste ad operare su linee strategiche che non tengono conto della reale situazione del sistema imprenditoriale nostrano, perché non pone in atto politiche a sostegno delle imprese. Le banche non possono caricarsi il fardello di ulteriori crediti inesigibili, servono politiche fiscali che favoriscano la patrimonializzazione delle imprese, premiando i soci che conferiscono capitale, come accade in molti altri Paesi, con la detrazione dai loro redditi di quanto versato. Per aiutare la ripresa bisogna rilanciare il sistema imprenditoriale, favorirne la crescita è una condizione essenziale.

Archiviare il ‘900 del lavoro con i fatti

Archiviare il ‘900 del lavoro con i fatti

Alberto Orioli – Il Sole 24 Ore

Nel giorno in cui l’Italia lascia alle spalle il ‘900 e solennizza al Senato la presa d’atto che l’impresa non è l’«arma dei padroni», ma il luogo dove nascono eccellenze, conoscenza, collaborazione e responsabilità; per le vie di Milano la Fiom minacciava l’occupazione delle fabbriche. E a Palazzo Madama c’era chi occupava fisicamente lo scranno, dopo essere stato formalmente espulso, o chi gettava libri contro il banco della Presidenza creando un sovrappiù di tensione di cui certo non si sentiva il bisogno.

Una preoccupante aria di violenza (verbale in Aula, più concreta sulle strade), ancora una volta, ha segnato una giornata che resterà importante. E non basta a giustificarla il rimando subliminale alla “mitologia” di Enrico Berlinguer ai cancelli Fiat nell’80: la situazione non ha nulla di paragonabile. Semmai è proprio il continuo sguardo a un passato rigido socialmente, immutabile e schematico che ha portato a un mercato del lavoro “narrato” come il più garantista e tutelato del mondo ma che invece è nella realtà il più duale, il più distante dai giovani, il più ipocrita perché devastato dal sommerso, il più diseguale quanto a patto generazionale perché ha tolto la stabilità ad almeno tre generazioni di giovani per lasciare l’ipertrofia di un welfare e di garanzie disegnate negli anni 70 a misura di pochi e senza vera lungimiranza.

Il Jobs act, come era inevitabile, ha portato allo scoperto questo cambio di passo “ideologico”: la recessione ha indotto questa operazione verità perché la patria dei diritti non è in grado di trasformarsi nella patria dei lavori. Accadrà quando lo sguardo strategico si sposterà su un taglio drastico al cuneo fiscale su lavoro e imprese, unica vera terapia per creare occupazione attraverso una nuova stagione di investimenti. La detassazione è la strada indicata esplicitamente anche ieri al vertice europeo di Milano da Van Rompuy, Barroso, Hollande. Di questa rivoluzione fiscale c’è per ora solo una traccia nel Jobs act, va tutta tradotta e (molto) finanziata. Tolta l’enfasi dello scontro oratorio tra fazioni opposte, è importante guardare al dettaglio di ciò che è stato votato in Senato. E la fase attuativa di una delega a maglie tanto larghe potrebbe portare a risultati anche diametralmente opposti a quelli attesi, se non attentamente vigilata nella sua fase adattativa.

È importante l’attenzione alle politiche attive e la scelta di ancorare i nuovi ammortizzatori sociali universali a percorsi di formazione e di reinserimento secondo standard che funzionano bene all’estero. È una svolta vera quella di stabilire che il contratto a tempo indeterminato, nella sua nuova veste di contratto flessibile a tutele crescenti, sarà la forma principale di ingresso al lavoro e sarà anche una forma contrattuale particolarmente conveniente e incentivata. È importante che la delega intenda disboscare le modalità di “ingaggio” in nome della semplificazione, tema altrettanto rilevante anche nella riduzione di adempimenti tra imprese e amministrazioni di cui il testo del provvedimento si fa carico. È novità rilevante e di altissimo impatto sui conti pubblici, oltre che sul regolare svolgimento delle relazioni industriali, l’introduzione del salario minimo.

Di articolo 18 non si fa mai cenno. Astuzia politica forse, ma in ogni caso sarebbe escamotage di breve periodo. Non è «l’alfa e omega del provvedimento» – come ha detto il ministro Poletti – ma certo ha catalizzato l’asprezza del confronto politico e sindacale. La “politica del carciofo” con cui finora, riforma dopo riforma, si è cercato di ridurre le possibilità di reintegra sul posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo (compensata con un congruo risarcimento) conosce ora una nuovo capitolo: è stata tolta per il caso di licenziamento economico introdotto dalla riforma Fornero, ma viene ora riconfermato per i licenziamenti disciplinari (in un primo tempo erano esclusi, ma la mediazione dentro il Pd li ha alla fine ricompresi) oltre che, naturalmente, per i licenziamenti discriminatori.

Il Governo si è impegnato a “tipizzare” i casi per i quali diventi possibile il reintegro in caso di licenziamento disciplinare, ma è chiaro che, a fronte di ogni definizione legislativa, sorge naturale il contenzioso giurisdizionale per dirimere ambiguità o interpretazioni strumentali. Se si doveva ridurre l’alea delle sentenze non è affatto sicuro che l’obiettivo sia a portata di mano, senza contare che gran parte di chi è licenziato per motivo economico potrebbe avere interesse a farsi riconoscere dal giudice la fattispecie disciplinare.

Ieri Renzi ha girato la boa “europea” con il vertice di Milano che ha sancito in modo esplicito il plauso dei leader rispetto a una riforma di cui hanno colto la portata rifomista. Doveva essere anche un’operazione-immagine per il Governo Renzi e da questo punto di vista è stata un successo. Perché non resti solo il ricordo di una pacca sulla spalla, ora il Governo deve dare corso ai decreti delegati in modo coerente alle premesse e trasformarli in “moneta sonante” nella gestione della flessibilità nei conti pubblici anche per trovare parte delle risorse necessarie a finanziare questa stessa riforma. È la fase più delicata. E sarà il vero test, per il premier, per smentire l’accusa di eccessivo ricorso alla politica degli annunci senza fatti. Nel frattempo – triste revival – chi contesta le riforme prepara l’autunno caldo.

Ora lo scambio tra stimoli e riforme

Ora lo scambio tra stimoli e riforme

Carlo Bastasin – Il Sole 24 Ore

In Europa la disoccupazione sfiora il 12%, un livello doppio di quello americano, e l’economia rischia di fermarsi di nuovo. In un contesto tanto degradato nessun vertice europeo dedicato all’occupazione può essere liquidato come un puro esercizio rituale. Bisogna sforzarsi di guardare sotto il pesante velo dialettico, sotto la cortina di impegni poco concreti, e ragionare su che cosa davvero bisognava aspettarsi nel giorno in cui il governo italiano ha presentato la sua rilevante riforma del lavoro.

Per capirlo, aiuta una frase pronunciata da Mario Draghi ad agosto: «La strada per tornare all’alta occupazione è un insieme di politiche composto da politiche monetarie, fiscali e riforme strutturali a livello sia nazionale sia europeo». Per ritrovare la crescita serve cioè che gli auspicati interventi della Bce siano contestuali ad altre scelte politiche: il coordinamento delle politiche di bilancio, con i paesi in migliore condizione che offrono più stimolo e gli altri che rispettano le regole; il rilancio della domanda attraverso il finanziamento europeo degli investimenti; e riforme strutturali possibilmente coordinate. Dal vertice sull’occupazione, in una congiuntura economica tanto difficile, bisognava attendersi che progressi su tutti questi fronti fossero presi con un impegno comune. Bisognava sollecitare la Germania a utilizzare i propri margini di bilancio, esaminare la concretezza del piano Juncker sui 300 miliardi di investimenti e dell’impegno della Bei, verificare la solidità delle politiche per l’occupazione giovanile.

Le dichiarazioni dei capi di governo a conclusione del vertice non hanno rassicurato. La Germania si sa non intende offrire stimoli fiscali, inoltre, come altri, osserva con giustificato sospetto gli altisonanti 300 miliardi di investimenti promessi da Bruxelles. Il presidente Hollande ha negato addirittura di aver parlato di politiche di bilancio. Se al frontone del tempio mancano diverse colonne, spiccano ancor più quelle che lo tengono in piedi: Renzi si è presentato con una importante riforma del mercato del lavoro e ha assicurato il mantenimento degli impegni fiscali onorando la credibilità italiana. Se l’obiettivo del vertice era questo, allora è andata come doveva.

La credibilità italiana è importante ed è stato bello sentirla riconoscere dai partner. Ma è difficile non pensare che la realizzazione delle riforme strutturali da parte dell’Italia fosse l’occasione giusta per chiedere il conto anche ai paesi partner. Una riforma che rende “dinamici” i rapporti di lavoro è nell’interesse italiano qualunque sia lo stato dell’economia, ma è meglio che avvenga in un contesto di crescita e non di paura recessiva che afferra tutta l’Europa. Questo scambio politico tra stimoli e riforme è rimasto poco chiaro. Eppure è in questi termini che può essere interpretato lo stesso uso dei margini di bilancio da parte del governo italiano: quest’anno il deficit strutturale peggiora dello 0,9% con un effetto di espansione fiscale pari allo 0,3% del pil rispetto alla restrizione prevista dagli accordi con Bruxelles, a fronte però di riforme strutturali che prendono forma.

Forse anche per chi lo ha convocato il vertice di ieri non rappresentava l’ultimo appuntamento possibile per mettere a fuoco una strategia europea di ritorno alla crescita. Ma in tal caso non è stato opportuno dedicarlo a un tema tanto doloroso agli occhi dei cittadini come la lotta alla disoccupazione, né farne l’unico appuntamento del nostro semestre di presidenza. Per combattere la piaga della mancanza di lavoro sarà necessaria una strategia molto più ambiziosa, che ponga al centro i doveri reciproci di tutti i paesi nella costruzione di quello che Draghi chiamerebbe un “policy mix” per la crescita e che comporta avanzamenti molto coraggiosi sulla strada dell’integrazione europea: la formulazione di una politica fiscale coordinata dei paesi dell’euro area; il coordinamento delle riforme strutturali; un serio impegno sugli investimenti anziché il solito irritante sventolio di promesse di carta.

Fa parte delle difficoltà culturali europee non saper valutare la politica economica come un insieme, anziché come la collezione poco allineata degli impegni nazionali. Eppure è stato solo quando i paesi si sono saputi ritrovare attorno a progetti di integrazione, come l’unione bancaria o i fondi di solidarietà, che è stato possibile muovere tutte le politiche che possono salvare l’euro “a qualunque costo”.

La Cassazione ribalta le sentenze ragionevoli sulle tasse non pagate

La Cassazione ribalta le sentenze ragionevoli sulle tasse non pagate

Matteo Mion – Libero

La Cassazione penale non molla la presa. Il nuovo orientamento della giurisdizione di ultima istanza è ormai feroce nel sanzionare penalmente le inadempienze tributarie. La Suprema Corte sta pian piano chiudendo i varchi aperti dalle sentenze dei tribunali che si erano permessi di non condannare gli imprenditori rei di aver omesso il versamento di tributi a causa della crisi o del fallimento della propria azienda. In molti casi, infatti, i giudici di prime cure avevano ritenuto dovuta l’imposta, ma avevano chiuso un occhio sull’aspetto penalistico. Così il tribunale di Pescara con ordinanza del 29 ottobre 2013 non aveva attribuito rilevanza penale all’omesso versamento di Iva da parte del titolare di una ditta individuale che, come emergeva dalle scritture contabili, non aveva incassato l’imposta da due aziende, poiché una era fallita, l’altra era in procedura concordataria: un provvedimento logico e scritto con la penna del buon padre di famiglia. Hai fatturato l’Iva, ma non l’hai mai incassata: pagala, perché sei un pirla a non adeguare la contabilità, ma non ti condanno penalmente, perché non sei un delinquente.

Niente da fare, perché la Cassazione penale Sezione Terza con sentenza 863/2014 accoglie il ricorso presentato dalla Procura della repubblica di Pescara con la seguente motivazione: «il reato contestato non si realizza allorché l’imprenditore trattiene presso di sé le somme che egli ha ricevuto a titolo di Iva dai suoi aventi causa, ma allorché egli ometta di versare le somme quali risultanti dalla dichiarazione Iva da lui presentata, prescindendosi dalla effettiva percezione di esse da parte del contribuente che è pertanto tenuto a pagare l’imposta». Nessuna pietà contro gli imprenditori, nemmeno qualora sia provata la loro buona fede. Ci sarebbe molto da discutere sulla condotta di uno stato che esige l’Iva non percepita da un’azienda che non abbia adeguato la dichiarazione contabile, ma è senza dubbio canaglia lo stato che si accanisce penalmente contro un imprenditore, reo di non pagare le tasse sugli insoluti che lui stesso ha subito. Siamo alla follia gabelliera, alla polizia fiscale.

La magistratura dei palazzi romani è completamente distaccata dalla drammatica realtà economica del paese. Dopo un lauto banchetto e un sontuoso convegno, seduti sugli scranni fregiati della Suprema Corte capitolina, con stipendio sicuro e senza essere responsabili del loro operato, cinque giudici di massimo rango stabiliscono che D.P. è evasore per il reato penale di cui all’art. 10 ter D.lgs. 74/2000 e cioè l’omesso versamento d’imposte. D.P. invece non è un ladro, ma un italiano come tanti che fatica a tenere in piedi la baracca a causa della crisi e di una magistratura come questa.

Le riforme diventino europee

Le riforme diventino europee

Franco Bruni – La Stampa

La proposta «job-Italia» esposta ieri da Luca Ricolfi su questo giornale parte dal fatto che la forte tassazione sul lavoro (il «cuneo») causa disoccupazione. Per aver più impatto propone di concentrare la detassazione sui primi anni di lavoro dei nuovi assunti con salari medio-bassi. Aumentando gli occupati e i redditi permette al fisco, gradualmente, di compensare il costo della detassazione. Se potessimo permetterci l’aumento temporaneo del deficit che la proposta implica, varrebbe la pena di tentare. Stimolare la convenienza a produrre e occupare, cioè l’offerta, è indispensabile perché ogni nuovo alito di domanda produca vera crescita. Il sussidio temporaneo di job-Italia sarebbe coerente col bisogno più generale di una riforma fiscale che riduca la tassazione sull’impiego di lavoro. Il modello internazionale di sviluppo economico sta privilegiando l’impiego di capitale al posto del lavoro: i regimi di tassazione dovrebbero attutire questa tendenza. Ridurre il cuneo non basta, ovviamente.

In Italia serve una riforma del lavoro del tipo di quella sulla quale il governo ha chiesto ieri la fiducia in Senato. Fra gli aspetti della riforma che sembrano emergere, in modo ancora disordinato e incerto, due vanno sottolineati per il legame con le esigenze poste dai cambiamenti nel mercato mondiale del lavoro. Il primo è il mutamento dell’assistenza ai disoccupati, il passaggio della difesa a oltranza del posto di lavoro all’aiuto al disoccupato, alla sua riqualificazione e reindirizzo a nuovi lavori. La tecnologia e la globalizzazione hanno già sconvolto le gerarchie di competitività, l’obsolescenza dei modelli di produzione, la distribuzione della forza e della capacità di sopravvivenza delle imprese. È una rivoluzione destinata forse ad accelerare nei prossimi anni: guai se non favoriamo il ricambio delle imprese, la mobilità del lavoro, la sua capacità di acquisire nuove competenze e adattarsi a nuove opportunità. Per questo aiuto al buon funzionamento del mercato del lavoro occorrono molte risorse. È grave che non si riesca a trovarle più rapidamente tagliando le spese pubbliche improduttive.

Se occorre spendere per assistere la disoccupazione, la qualifica e la crescita professionale del lavoratore avvengono soprattutto quando rimane occupato. Perciò 1’altro aspetto da sottolineare della riforma del governo sono le «tutele crescenti» del nuovo contratto a tempo indeterminato. Un aspetto collegabile anche alla proposta del job-Italia che qualcuno potrebbe trovare poco orientata a favorire la continuità dell’impiego: se diventasse più facile licenziare, dopo i quattro anni del sussidio che Ricolfi propone i nuovi posti di lavoro sarebbero a rischio. Ma se le tutele crescenti consistessero in un periodo molto più lungo, durante il quale va gradualmente aumentando l’esborso che l’impresa deve sopportare per risolvere il contratto a tempo indeterminato, gli incentivi dell’impresa cambierebbero. Le converrebbe offrire al lavoratore un rapporto che cresce in qualità e coinvolgimento e che gli permette di qualificarsi e riqualificarsi con continuità, in modo che la probabilità di doverne fare a meno si riduca parallelamente al crescere del costo del suo licenziamento. Anche gli incentivi del lavoratore cambierebbero. Ma il meccanismo delle tutele crescenti sarebbe mortificato se non si minimizzasse la possibilità di reintegri disposti dal giudice: l’importanza di «superare l’art. 18» è maggiore di quanto abbiano detto lo stesso Renzi e la Confindustria e non ha molto a che vedere col limitato numero di casi di reintegro oggi constatabili che, fra l’altro, non tiene conto di coloro che non sono stati occupati o licenziati (o sono finiti nel ghiaccio della cassa integrazione) a causa dell’eventualità del reintegro. La combinazione di detassazione alla job-Italia e di «tutele crescenti» potrebbe dunque aiutare a conciliare stabilità e flessibilità dell’occupazione. Ancor più se si accompagnasse a nuovi investimenti nella formazione scolastica e universitaria e nei suoi rapporti col mondo del lavoro e i suoi continui cambiamenti.

Ma lo sforzo di riforma nazionale non basta. L’articolazione e la dimensione del mercato del lavoro italiano saranno sempre meno adeguati per soddisfare chi offre e chi cerca lavoro nel nostro Paese. Dobbiamo pensarci parte di un mercato più ampio, in primo luogo europeo. Qualcuno ha detto che servirebbe un job-compact. L’Europa deve muoversi più velocemente nell’integrare i sistemi nazionali che regolano il lavoro e il Welfare e nell’affrontare, unita, i problemi occupazionali posti dalla tecnologia e dalla globalizzazione. L’incontro svoltosi ieri a Milano ha incoraggiato l’Italia a riformare ma non è andato lontano nell’impegnarsi in un vero progetto europeo. Speriamo sia l’avvio di un lavoro comunitario più coraggioso e lungimirante. I cambiamenti del mondo non si fermano e la disoccupazione, più o meno mascherata, potrebbe travolgere un’Europa che non sa esprimere una strategia che indirizzi le politiche nazionali del lavoro.

La lezione di Berlino per ripartire

La lezione di Berlino per ripartire

Gaetano Pedullà – La Notizia

Diciamolo senza ipocrisia: la Merkel non è un’amica dell’Italia. Con la difesa a oltranza di una miope politica del rigore sta ipotecando chissà quanti anni di sacrifici per il nostro Paese. Una politica miope perché se l’Italia e l’Europa mediterranea affondano la produzione tedesca perde uno dei suoi mercati più grandi. Detto questo, ieri la cancelliera ha detto però una cosa sacrosanta: il nostro mercato del Lavoro ha bisogno di cambiare le sue regole. Cinque Stelle, minoranza Pd e Lega possono protestare in Parlamento quanto vogliono, ma la storia prima di ogni altra considerazione ci insegna che solo con le riforme si esce dal pantano. La Germania appena entrata nell’Euro aveva conti pubblici disastrosi, anche per via dell’unificazione tedesca. Berlino fece i suoi compiti. Tagliò enormi garanzie che soprattutto nella parte ex sovietica erano date per acquisite dai lavoratori. Certo ci fu anche altro, a partire dal contributo dato da tutti quei Paesi che subirono un concambio criminale sulla nuova moneta comune. Fatto sta che oggi la Germania è padrona d’Europa. Una lezione che può darci fastidio, ma della quale sarebbe un errore ignorarne l’insegnamento.