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Il Tfr è mio e lo gestisco io, o no?

Il Tfr è mio e lo gestisco io, o no?

Il Foglio

A chi fa paura il tfr in busta paga? Non ai lavoratori, naturalmente, trattandosi di soldi loro che, sulla base delle intenzioni renziane, finirebbero in busta paga (non tutti, e peraltro in via facoltativa). Logica vorrebbe, quindi, che anche i sindacati si dicessero favorevoli. E per osmosi anche la sinistra old labour dovrebbe mostrare simpatia per un provvedimento che mette gli assunti in condizione di decidere in libertà se congelare o spendere oppure tesaurizzare a piacimento la quota annuale della così detta liquidazione. Invece no, c’e qualcosa di misteriosamente ostile alla proposta del premier Matteo Renzi, un rigagnolo limaccioso e trasversale nel quale scorre una diffidenza sospetta.

Da Confindustria alla Cgil, dai reduci inconsolabili del governo di Enrico Letta (Francesco Boccia del Pd: “Solo chi in un’azienda non ci è mai entrato può pensare che quella del tfr sia una soluzione”) agli avanzi del sindacalismo post fascista (Renata Polverini di Forza Italia), fino ad alcune molecole del mondo accademico che si pretende liberista (Cesare Pozzi della Luiss, per esempio): è tutto un coro stonato ma potente. Ma per quale ragione? Si può capire che a Giorgio Squinzi e alla sua lobby confìndustriale faccia comodo difendere il capitalismo pigro e paraculo grazie ai risparmi del lavoro dipendente ben sigillati nel proprio retrobottega. Si comprende meno come faccia Susanna Camusso ad assecondare lo stesso punto di vista, quando il suo collega/avversario Maurizio Landini della Fiom la pensa invece all’opposto.

Non si comprendono affatto le ragioni degli altri. Quelli che urlano all’attentato statale contro la vecchiaia dei prossimi pensionati; quelli che assicurano che il governo vuole finanziare la domanda attraverso il risparmio privato, o che Renzi sbloccherà i tfr per taglieggiarli meglio con altre tasse; quelli che fanno l’elogio del Bismarck inventore del Welfare prussiano, coatto e a prova d’infrazioni private. È un modo gentile per disprezzare i lavoratori, come fossero minorenni strabici, cicale pronte a rovinarsi l’ultima stagione della vita, o forse solo potenziali simpatizzanti di un governo sgradito.

Il deficit di Renzi

Il deficit di Renzi

Paolo Cirino Pomicino – Il Foglio

La decisione improvvisa e unilaterale del governo francese di avere per due anni in più uno sforamento del 3 per cento nel rapporto deficit/pil, attestandolo sopra il 4 per cento, dimostra non solo la crisi in cui si dibatte l’Unione europea e in particolare l’Eurozona ma anche una sorta di fallimento del semestre italiano ormai agli sgoccioli. Tutti sapevano delle crescenti tensioni sulle politiche economiche e di bilancio di Bruxelles e Renzi, in qualità di presidente di turno, avrebbe dovuto convocare una riunione dei capi di stato e di governo per affrontare per tempo la delicata questione in termini concreti incardinandola come priorità nell’agenda di lavoro. In realtà il governo italiano, focalizzato sui rapporti tra l’Italia e Bruxelles, ha perso di vista la dimensione comunitaria delle tensioni che si stavano accumulando. Dopo la svolta francese tutto sarà più complicato per l’Europa e per l’Italia. Anzi, forse, sarebbe utile rallentare anche alcune partite già in dirittura d’arrivo come l’Unione bancaria che presenta non pochi aspetti problematici. Ma ciò che accade in Europa accade anche in Italia, e cioè una incertezza crescente sulle politiche sinora perseguite e su quelle annunciate.

Forse per qualcuno è stata una sorpresa la Nota di aggiornamento del documento finanziario approvato dal governo per i tragici numeri emersi sulla crescita sulla occupazione e sui conti pubblici, ma per noi è stata solo una conferma di ciò che diciamo da mesi. Anzi il governo non ha detto tutta la verità! Non è vero che alla fine dell’anno la crescita del prodotto interno lordo sarà ne- gativa solo per lo 0,3. Se dovesse intervenire un miracolo forse ci fermeremo a 0,5/0,6 ma deve cambiare il vento nell’ultimo trimestre e le previsioni non sono in quella direzione. La stessa cosa vale per la striminzita crescita prevista dal governo per il 2015 (+0,6) che inizierà con l’effetto di trascinamento negativo del 2014. Il pareggio di bilancio si allontana nel tempo sino a scomparire all’orizzonte e il debito continuerà a salire (il governo pre- vede di far scendere il rapporto debito/pil di uno 0,1 cioè niente) mentre il rapporto deficit/pil si dovrebbe mantenere al 3 per cento grazie alla ricchezza prodotta dalla prostituzione e dalla economia illecita e criminale. Da venti anni l’economia italiana non cresce e da ventidue anni èe affidata esclusivamente a tecnici di indubbio valore ma che con la politica economica hanno scarsa dimestichezza. Anche per l’economia vale quel vecchio aforisma di Georges Clemenceau secondo il quale la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla ai militari.

Ciò che vogliamo dire è che da venti anni manca una visione di politica economica e di politica industriale, pur essendo l’Italia il secondo paese manifatturiero dell’Europa dietro la Germania. Abbiamo la netta impressione che anche il governo Renzi si sia avviato su questa strada, al di là dei fuochi di artificio sull’articolo 18 e sulle tante riforme ordinamentali messe in pista. Renzi ha una forza politica che altri governi non avevano, per contingenze oggettive e per le modalità con le quali ha conquistato prima il Pd e poi il governo, ma rischia di sciuparla per non avere l’umiltà di capire e di operare dopo aver capito. Una cosa è il consenso e la popolarità, altra cosa è l’arte del governare che richiede visione non onirica, strumenti di conoscenza della macchina dello stato e dei processi economici e una squadra all’altezza. Così non è stato e Renzi ha sbagliato l’agenda di lavoro anticipando le riforme istituzionali a quelle economiche.

Per spiegarci meglio, è come se si volesse curare in pronto soccorso un uomo ferito da uno sparo affrontando prima la sua epatite cronica e poi aggredendo la ferita sanguinante. Il tutto avendo, peraltro, un partito alle spalle che ha due anime profondamente diverse. Bisogna dare atto a Renzi di non nascondere questa diversità genetica, tanto da dire nel dibattito in direzione che lui è un cattolico liberale. Musica per le nostre orecchie, ma cosa ci fa un cattolico liberale alla guida di un partito iscritto al Partito sociali- sta europeo? Certo, vi sono sempre stati socialisti cattolici (vedi Jacques Delors) ma in quegli uomini il termine cattolico non era una cifra politica ma solo la testimonianza di una fede religiosa. Ed è anche vero che il cattolicesimo politico ha nel suo Dna un’idea riformatrice e progressista ma profondamente diversa dal socialismo democratico. Di qui, dunque, la debolezza strutturale nell’azione di governo. Davvero Renzi ritiene di fare uscire l’Italia dal tunnel della recessione o della crescita bassissima nella quale è stata relegata da 20 anni con 10-15 mld di euro da spendere e mettendo in busta paga una parte del tfr, come si appresta a fare con la prossima legge di stabilità? Non scherziamo col fuoco. L’Italia è in grande affanno e l’idea che si possa uscire dalle difficoltà gettando la furia popolare contro gli stipendi alti a cominciare da quelli delle Camere che sono un “unicum” nelle società nazionali è un altro errore, perché accanto all’applauso vociante emerge la triste direzione di marcia: siamo tutti più eguali nella povertà.

Per dirla in maniera semplice: o si aggredisce il debito con una manovra finanziaria straordinaria recuperando decine di miliardi dalla spesa per interessi che oggi vanno alla finanza nazionale e internazionale, per darli all’economia reale, o lentamente il paese morirà e i suoi asset migliori saranno acquistati da quanti si sono riuniti qualche giorno fa riservatamente in un albergo di Milano per discutere sugli acquisti migliori da fare nel nostro paese a prezzi stracciati. Per fare operazioni di questo genere, però, non servono tecnici ma politici che abbiano visione e coraggio per chiamare la grande ricchezza nazionale a uno sforzo congiunto e salvare il paese e con esso la ricchezza che gli italiani hanno prodotto nel corso di tanti decenni, battendo nemici come il terrorismo e l’inflazione a due cifre e mantenendo intatto quel profilo democratico senza il quale non si va molto lontano.

La vera riforma dell’articolo 18

La vera riforma dell’articolo 18

Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore

Che abbia ragione chi sostiene che quella sull’articolo 18 è una battaglia ideologica, perché a difendere i diritti di chi lavora ci sono fortini giuridici, e a frustrare gli interessi degli imprenditori lo Stato provvede con mezzi ben più intrusivi? A far sorgere il dubbio è la questione dei licenziamenti disciplinari. Una sorta di residuo secco tra i licenziamenti discriminatori, – che mai nessuno si è sognato di legittimare – e quelli per giustificato motivo economico – per cui non ci andava molto a capire che il giudice non è la persona adatta a decidere.

È quindi comprensibile che in questa battaglia politica, i licenziamenti individuali siano il contenitore delle riserve mentali: sia di quanti pensano di conquistare riformismo con i decreti delegati sia di chi conta di recuperare garantismo nei tribunali. Se diventassero il contenitore di casi ambigui nella definizione e incerti nella risoluzione, questa sarebbe davvero stata soltanto una battaglia ideologica interna alla sinistra. Per evitarlo c’è una strada molto semplice: stabilire senza equivoci che per tutti i cosiddetti licenziamenti disciplinari l’azienda ha il diritto a sostituire l’eventuale reintegro con un indennizzo di entità nota ex ante.

Infatti nella via di un’impresa sono rari i casi in cui per sopravvivere deve licenziare, delocalizzare, oppure ridurre l’occupazione (fini per cui tra l’altro si possono attivare già altri strumenti). Rari i casi di disoccupazione tecnologica: già Sismondi, due secoli fa, ironizzava con chi teme que le roi, demeuré tout seul dans l’ile, en tournant constamment une manivelle, fasse accomplir, par des automates, tout l’ouvrage de l’Angleterre. Rari sono anche i casi opposti, in cui l’azienda aumenta gli organici perché è riuscita a invadere nuovi mercati, oppure perché ha sbaragliato la concorrenza con un’innovazione. La gran parte delle aziende, per la massima parte della loro vita, procede per variazioni incrementali, una nuova filiale di vendita, una macchina più veloce, un’organizzazione del lavoro più efficiente: la metodica, incessante, noiosa ricerca di fare le cose in modo più produttivo. Rare sono le inaugurazioni di nuovi capannoni, rare per fortuna le chiusure, la normalità è migliorare marginalmente ogni fase di ogni attività: e questo significa anche trovare persone marginalmente più capaci di svolgerle.

Fare squadra non è soltanto la qualità mitizzata di leader mitizzati, lo fanno tutte le cellule delle organizzazioni: e nessun allenatore riesce a fare squadra se la sola soluzione di cui dispone è allungare la panchina. Per questo, i miglioramenti marginali di efficienza sono «giustificato motivo economico» per licenziamenti individuali: se anche ci fosse ricorso al giudice e questo ordinasse il reintegro, l’azienda deve potere optare per l’indennizzo. È vero, l’azienda è, per storica definizione, luogo dello scontro di classe; è anche, per umane ragioni, luogo di abrasioni caratteriali: dietro il licenziamento disciplinare ci può essere una meschina ripicca, una stupida vendetta. Ma la fabbrica è anche il luogo in cui ognuno è nodo di un reticolo complesso di relazioni, verticali e orizzontali, anche i rapporti gerarchici sono trasformati dalla generale disintermediazione: sarebbe proprio stupido rischiare di danneggiare un ambiente sociale con una palese ingiustizia.

Recuperare produttività è il cuore del problema italiano. Molto dipende dai servizi erogati dallo Stato, quindi dal funzionamento dello Stato stesso, molto dalla produttività delle singole aziende. Per le poche che sono leader mondiali nei loro settori, per le tante che cercano di tenere il mare, l’aumento della produttività è un processo incrementale, che si basa sulla continua ottimizzazione delle funzioni e sulla selezione di chi meglio le sa svolgere. La produttività dell’Italia ristagna da 15-20 anni, rispetto ad aumenti molto più congrui dei paesi concorrenti: eppure il governo sembra voler lasciare a questo proposito le cose come stanno, non far nulla per facilitare questo processo di miglioramento interno.

Le nuove norme, e quindi anche il considerare «giustificato motivo economico» i miglioramenti marginali di efficienza, non si applicheranno a chi oggi ha un contratto a tempo indeterminato. E nella nostra cultura giuslavoristica rimarrà per anni il principio della job property, che la riforma avrebbe dovuto sradicare. Se per i casi di licenziamento disciplinare non si desse all’azienda la possibilità di procedere per l’indennizzo in luogo del reintegro, e se questa comunque non valesse per tutti i lavoratori con contratto a tempo indeterminato fino alla loro pensione, ci sarebbe veramente da interrogarsi sul perché di tanta contestazione a una legge che estende diritti a molti (dipendenti di aziende con meno di 15 persone, lavoratori non a tempo indeterminato, contratto di reinserimento per tutti) e non ne leva a nessuno. Verrebbe da dire che questa è stata una finta battaglia, ingaggiata soltanto per poter dire di averla vinta.

Il rischio da evitare per il vertice sul lavoro

Il rischio da evitare per il vertice sul lavoro

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

Quasi certamente il terzo vertice europeo sul lavoro, che si terrà domani a Milano, non sarà diverso da quelli di Berlino e Parigi che l’hanno preceduto. Parole, impegni vaghi e poi silenzio più o meno pneumatico. Liturgie pubblicitarie utili a chi le celebra: che sia Matteo Renzi, Angela Merkel o François Hollande poco cambia e cambierà per i 26 milioni di disoccupati europei, giovani e non. La soluzione dei loro problemi, infatti, per ora non potrà che essere nazionale e solo in misura marginale targata Ue: anche perché le risorse del bilancio comunitario sono scarse e sempre più insufficienti a coprire il divario tra presunte politiche comuni e risorse disponibili.

Per questo il vero vertice di Milano si giocherà sull’ennesimo braccio di ferro tra il partito del rigore e quello della crescita, tra Germania e nordici da una parte, Francia e Italia dall’altra. La tensione della vigilia è altissima: la Merkel richiama all’ordine i renitenti ai sacrifici, Hollande le risponde picche sull’impegno a portare dal 4,3% attuale al 3% il deficit nel 2015 ma per questo rischia di vedersi bocciata a Bruxelles la legge di bilancio. E Renzi denuncia la vetustà delle regole vigenti pur affermando che non intende violarle, anche se a sua volta difficilmente riuscirà a far fronte alla tabella di marcia europea su conti pubblici e riforme strutturali.

Il tutto mentre si fa sempre più pressante e preoccupato l’allarme della Bce di Mario Draghi sulla crescita europea sempre più fragile e la deflazione che non passa. I dati congiunturali continuano purtroppo a dargli ragione. Ieri il turno degli ordini tedeschi all’industria, crollati in agosto del 5,7% su base mensile, il peggior scivolone dal 2009, con punte del 9,9% fuori dall’Eurozona e una caduta del 2% in Germania. Naturalmente le crisi russo-ucraina e mediorientale hanno dato il loro contributo negativo ma è soprattutto la debolezza dei partner euro a frenare la locomotiva tedesca. Se il buon senso prevalesse sulle profonde diffidenze reciproche e se tutti i protagonisti della partita facessero seriamente la loro parte, la soluzione dei malanni europei sarebbe possibile e anche a portata di mano.

Con un surplus dei conti correnti che supera ampiamente il tetto del 6% massimo previsto dalle regole Ue, Berlino oggi dispone dei margini finanziari per aumentare la spesa e rilanciare la domanda interna ed europea ma non intende usarli: ufficialmente perché conta di raggiungere il pareggio di bilancio nel 2015, nella realtà perché convinta che, allentando la pressione sui Paesi recalcitranti, otterrebbe l’effetto opposto a quello desiderato, inducendoli a fare ancora meno del poco o niente che oggi sono disposti a fare. Malfidenza eccessiva e ingiustificata? È difficile considerare Francia e Italia dei campioni di affidabilità: troppe promesse non mantenute, troppi immobilismi e competitività perduta, troppe divergenze economiche accumulate in un’unione monetaria che non può permettersene più di tanto se non vuole diventare ingovernabile.

Detto questo nessuno oggi, nemmeno la nuova Commissione Juncker che si insedierà il 1° novembre, sembra in grado di aiutare a uscire dal pericoloso impasse nel quale l’Eurozona senza crescita rischia di affondare. Ad ascoltare la pantomima delle audizioni parlamentari dei commissari che si susseguono in questi giorni, più che la generale consapevolezza della grande emergenza economico-sociale da affrontare e risolvere al più presto, si percepisce il solito gioco degli equivoci, degli equilibrismi impossibili, delle ambiguità europee senza fine. Non si capirebbe altrimenti come mai Pierre Moscovici, il socialista francese che fino a poco tempo fa prometteva di impugnare le bandiere della crescita e dell’occupazione a nome di tutta la sinistra europea, tenti ora di accreditarsi come il convinto paladino del rigore e delle regole Ue, come se da ministro delle Finanze non fosse stato proprio lui a ignorarli a ripetizione, con i noti risultati. Né si capirebbe Valdis Dombrovskis, il vice-presidente e falco collaudato che comunque ne controllerà da vicino le mosse, il quale sia pure con gran fatica prova a “colombeggiare” chiosando sulla futura dimensione sociale dell’Europa pur ripetendo che la crescita sarà il prodotto delle riforme e che comunque «nessuna legge impedisce agli Stati membri di uscire dall’euro». Cosa attendersi del resto dal premier lettone che ha portato il suo Paese nella moneta unica tagliando il Pil del 20% in 3 anni, i salari pubblici della stessa percentuale e le pensioni del 10%? Non si capirebbe nemmeno come mai il presidente Jean-Claude Juncker abbia promesso in luglio un piano europeo per la crescita da 300 miliardi che però, a quanto pare, punterà su capitali privati, niente fondi nazionali freschi e risorse “riciclate” tra quelle già allocate al bilancio Ue?

Le smentite a questi dubbi e confusioni di intenti naturalmente saranno più che benvenute, se ci saranno come si spera. L’Europa non può permettersi di ignorare ancora a lungo i suoi problemi. L’impatto con la realtà, troppo a lungo snobbata e travisata, potrebbe infatti riservarle, prima o poi, pessime sorprese.

Grecia, la cura funziona: dopo sei anni di recessione il Pil riprende a crescere

Grecia, la cura funziona: dopo sei anni di recessione il Pil riprende a crescere

Tonia Mastrobuoni – La Stampa

Dopo sei anni di recessione e quattro di durissimi aggiustamenti dei bilanci, la Grecia ha presentato ieri una finanziaria che conferma una stima di crescita dello 0,6% per quest’anno e addirittura del 2,9 % per il 2015. Soprattutto, in virtù delle correzioni dei conti degli ultimi anni, il ministro delle Finanze Gikos Hardouvelis è certo di raggiungere quasi il pareggio di bilancio l’anno prossimo (un disavanzo dello 0,2%) – il primo da oltre quattro decenni. E il vero indicatore dello stato di salute delle finanze pubbliche, l’avanzo primario (la differenza tra entrate e uscite al netto degli interessi sul debito), schizzerà nel 2014 al 2 e l’anno prossimo addirittura al 2,9%.

Cifre che per il governo Samaras significano che l’uscita dal programma di salvataggio Ue-Fmi potrebbe essere anticipato di oltre un anno, alla fine del 2014 invece che all’inizio del 2016. Un impegno che libererebbe Atene dalla morsa della troika Fmi-Bce-Ue ma che potrebbe costare ai greci anche 12 miliardi circa di aiuti. Il Tesoro ha intenzione, stando alla finanziaria, di emettere un’obbligazione a dieci e una a sette anni il mese prossimo, oltre ad un bond a breve (26 settimane). La scorsa settimana, dopo che la Bce ha annunciato l’avvio di un vasto programma di acquisti di titoli cartolarizzati Abs che includerà anche quelli con rating bassi, se provenienti da Paesi sotto programma come la Grecia e Cipro, i rendimenti sui bond sovrani greci sono crollati. Atene è tornata sul mercato, dopo quattro anni di assenza, all’inizio di quest’anno con un’obbligazione a sette anni.

«Il Paese sta entrando in un lungo periodo di crescita sostenibile e avanzi primari di bilancio, che daranno una spinta all’occupazione, taglieranno la disoccupazione e aumenteranno la qualità della vita a molti cittadini» ha dichiarato ieri il viceministro alle Finanze, Christos Staikourias, aggiungendo che «questo è il risultato di sacrifici senza precedenti. Faremo in modo che non siano stati vani». La disoccupazione raggiungerà quest’anno ancora cifre spaventose – il 24,5% – ed è prevista in calo l’anno prossimo al 22,5. Ma con l’aria da crisi di governo che tira ormai da mesi ad Atene, il governo Samaras ha incluso nella manovra anche una robusta riduzione delle tasse sul combustibile da riscaldamento – il 30% – e un taglio dell’imposta cosiddetta «di solidarietà» sopra i 12mila euro. Da oggi la finanziaria sarà discussa in Parlamento, venerdì è previsto il voto di fiducia ma Samaras può contare su soli quattro parlamentari di scarto rispetto all’opposizione.

Una partita sul filo del rasoio aggravata da uno scenario ancora più complesso che rischia di materializzarsi all’inizio dell’anno prossimo, quando sono previste le elezioni presidenziali. Samaras avrà enormi difficoltà a mettere insieme i 180 deputati su 300 che servono per eleggere il presidente della Repubblica. Se dovesse fallire nell’intento, la legge prevede elezioni anticipate. E i sondaggi attuali danno Syriza, il partito dell’eurodeputato Alexis Tsipras, in netto vantaggio sui conservatori: la forbice tra la sinistra radicale e Nea demokratia varia dai 2,5 agli 8 punti. Abbastanza per vincere e conquistare il generoso premio di maggioranza greco di 50 deputati, ma non abbastanza per governare da solo.

Il disoccupato riluttante

Il disoccupato riluttante

Massimo Gramellini – La Stampa

Nascere a Berna presenta i suoi vantaggi. Intanto c’è una disoccupazione al 2,6 per cento, per cui hai 97,4 possibilità di trovare un lavoro o di permettere a lui di trovarti. Ma anche nel caso in cui tu faccia le capriole per sfuggirgli, usufruirai delle meraviglie del Renzi Act, che nei cantoni elvetici non è una chiacchiera da bar etrusco ma una legge che garantisce ai senza impiego un sussidio di lauta sopravvivenza. E se lo Stato, in cambio del sussidio, osa accalappiare un lavoro e addirittura proportelo? Potrai sempre fargli causa per mancanza di buongusto.

È quanto è capitato a un laureato disoccupato e sussidiato, nonché padre di neonato, che da anni studia a spese dello Stato per sostenere l’esame da avvocato. Pur di inserire una dissonanza in quell’esistenza piena di rime, gli hanno offerto un posto da spazzino. Mestiere che in Svizzera rasenta il contemplativo, dato che gli abitanti di quelle lande ossessive raccolgono, oltre alle cicche, anche la cenere e passano la cera pure sui marciapiedi. Per impugnare una ramazza simbolica, al prode laureato hanno garantito uno stipendio di 3600 euro al mese. E lui giustamente si è offeso: non tanto per la cifra, quanto per il disprezzo che da una simile proposta trasudava nei confronti dei suoi studi: un laureato in legge può al massimo spazzare il tribunale o una raccolta di codici polverosi. Lo Stato svizzero lo ha posto di fronte a un ricatto odioso: niente ramazza, niente sussidio. Così il nostro gli ha fatto causa, la prima della sua vita, ma l’ha persa. Forse neanche l’avvocato è il suo mestiere.

La riforma monca

La riforma monca

Giuseppe Turani – La Nazione

Incontro di Renzi con i sindacati (un’ora) e poi con la Confindustria per cercare di mandare in porto la contestatissima riforma del lavoro. Su un altro tavolo, riservato, proseguono intanto le trattative con la minoranza del Pd, molto contraria a dare deleghe in bianco al governo e schierata in difesa dell’articolo 18. Sarà la volta buona?

La sensazione è che il governo ai sindacati abbia più cose da chiedere che da dare: la riunione, quindi dal punto di vista della Cgil e degli altri suoi colleghi rischia di essere del tutto inutile, se non dannosa. Ma il governo potrebbe decidersi di fare qualche concessione proprio sull’articolo 18 in cambio del via libera al Tfr in busta paga. Stessa cosa, ma rovesciata con la Confindustria. Difficile immaginare l’esito delle due riunioni. E ancora di più della trattativa riservata con la minoranza Pd. Alla fine, comunque, è possibile, molto possibile, che Renzi riesca a procedere con il suo progetto di riforma del lavoro. E allora la domanda che tutti si pongono è: sarà una svolta? Servirà a creare qualche occupato in più? La risposta immediata che viene in mente è: nemmeno uno. E non è una cosa difficile da capire.

Fino a quando il sistema economico è in crisi, in recessione, come ora, si può anche stabilire che i lavoratori andranno in fabbrica o in ufficio gratis, ma nessuno li assumerà per la semplice ragione che non si saprebbe che cosa fargli fare. Dopo questa riforma, se non ci saranno cambiamenti sostanziali, il datore di lavoro avrà più libertà per disfarsi della manodopera non gradita. E questo è certamente un incentivo. Ma solo in periodi di forte crescita economica e quindi con la necessità di aumentare la produzione. In questo momento, invece, abbiamo un quarto del sistema industriale del Paese che, semplicemente, è come se non esistesse più: luci spente e fabbriche ferme. Qui è evidente che non esiste alcun problema nel rapporto con i dipendenti: sono tutti a casa. in cassa integrazione.

Nel resto del sistema produttivo c’è una situazione molto composita. Ci sono aziende che vanno molto bene (perché esportano molto) e aziende che vanno molto male (perché hanno quasi solo il mercato interno). È difficile immaginare che una riforma (per quanto ben fatta) del mercato del lavoro possa indurre le prime a esportare di più e le seconde a trovare un mercato che non c’è. Se si voleva ottenere le due cose appena dette, la strada maestra è stata indicata da tempo da tutti gli esperti: bisognava abbattere di 30-40 miliardi il peso fiscale che grava sul lavoro (portandolo così al livello di quello tedesco). Per fare questo, però, bisognava mettere in cantiere tagli di spesa pubblica almeno per analogo importo.

Ma la spesa pubblica sembra che sia un totem intoccabile. Tutti sanno che i nostri guai maggiori vengono dalle spese della pubblica amministrazione, ma alla resa dei conti nessuno riesce a toccarla. Ormai siamo al terzo governo di emergenza, tutti hanno promesso che avrebbero aggredito il moloch della spesa pubblica. Ma i risultati finora sono stati assai deludenti. Non potendo discutere di questo, che è il tema centrale della nostra precaria condizione, si discute d’altro, ad esempio del mercato del lavoro. La riforma in corso d’opera un giorno si rivelerà probabilmente utile e interessante, quando questo Paese sarà tornato a crescere. Ma nessuno sa dirci quando sarà quel giorno. Forse nel 2016, o nel 2017.

Confindustria è un residuo del passato, Renzi e Marchionne l’hanno rottamata

Confindustria è un residuo del passato, Renzi e Marchionne l’hanno rottamata

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Non c’è solo il patto del Nazareno a dettare tempi e condizioni del cambiamento. In economia è l’accordo raggiunto tra il premier ed i n. 1 della FCA, Sergio Marchionne, a imporre il ritmo di marcia. Patto di Detroit, si potrebbe chiamare l’intesa siglata tra il boyscout di Firenze e il manager italo-canadese. Un’intesa che punta dritta al cuore dei problemi italiani: far saltare tutti gli intermediari ormai inutili, oltre che eccessivamente costosi, nella gestione dell’economia contemporanea. E tra questi c’è sicuramente la Confindustria, dalla quale Marchionne è già uscito da un paio di anni.

La lobby confindustriale, così come è ancora organizzata, non serve più perché è solo un frenatore del cambiamento e un luogo per parrucconi desiderosi di comparsate a Ballarò o da Bruno Vespa. La velocità del business vero è altrove, non più, da anni, in Viale dell’Astronomia. Così Renzi e Marchionne hanno deciso di procedere all’unisono per rottamare Confindustria. Su art. 18, tfr in busta paga, sul primato della contrattazione aziendale per rilanciare la produttività, sulla lotta all’Irap, sulle molte riforme nell’agenda del governo l’amministratore delegato della Fiat sarà al fianco di Renzi. L’obiettivo è quello di dare all’Italia un capitalismo moderno, con relazioni meno intermediate da poteri sempre meno rappresentativi del mondo del lavoro e di quello dell’impresa perché forgiati nella logica della concertazione a tutti i costi e, soprattutto, autoconvinti di essere l’ombelico del mondo. I templari delle riforme, i guardiani del cambiamento che senza il loro via libera non può farsi realtà.

Renzi e Marchionne vogliono condurre il capitalismo italiano oltre la concertazione e la palude dei negoziati a oltranza e della rappresentanza, sempre più marginale, che ha potere di veto. Oltre lo status quo che ha fatto raggiungere alla disoccupazione giovanile la soglia record del 44,2% e fatto arretrare il pil di 10 punti. L’Italia della concertazione del ‘900 non ce la può fare a tenere i ritmi imposti dalla globalizzazione e dall’eurozona germanizzata. Questo per Marchionne è un concetto chiarissimo; Renzi se lo sente ripetere ogni volta che varca le Alpi. Via, dunque, il fardello Confindustria dalle spalle sempre più gracili del capitalismo del Belpaese, perché la lobby degli imprenditori deve diventare moderna e occidentale. Non più un troppo ambizioso contropotere politico ma una organizzazione capace di seguire bene le poche policy di cui è tenuta ad occuparsi. Anche stavolta Renzi ha scelto con arguzia il suo alleato, perché nessuno meglio di Marchionne incarna nel mondo il volto dell’Italia che lavora 16 ore al giorno e che non si rassegna mai alla sconfitta. E con il suo supporto la rottamazione di Confindustria è cosa già realizzata e i prossimi mesi serviranno solo a registrarlo.

Dopo la casa, il tfr: Renzi ora stritola le imprese

Dopo la casa, il tfr: Renzi ora stritola le imprese

Laura Della Pasqua – Il Tempo

Qualsiasi intervento sul Tfr sarà volontario e a costo zero per le imprese. Parola del governo. Alla vigilia dell’incontro con i sindacati ai quali il premier Matteo Renzi vuol far digerire il Jobs Act mettendo sul tavolo come compensazione l’anticipo delle liquidazioni sugli stipendi, si moltiplicano i messaggi rassicuranti soprattutto alle imprese che rischiano di più da questa operazione. Così prima il ministro dell’Interno Alfano e poi il viceministro all’Economia, Enrico Morando, hanno ribadito che se l’intervento andrà in porto, verrà «fatto in modo che per la liquidità delle imprese risulti neutrale e per i lavoratori non aumenti il prelievo Irpef. E comunque sarà volontario». Tra le opzioni sul tavolo anche quella di dare una compensazione alle imprese attraverso i nuovi prestiti della Bce alle banche.

Ma al di là delle rassicurazioni, resta il sospetto che il governo voglia acquisire al fisco maggiori risorse per finanziare gli 80 euro e renderli stabili. L’esperienza della Tasi che non avrebbe dovuto portare maggior onere fiscale rispetto alla vecchia Imu e che invece si è tradotta nell’ennesima batosta, è un precedente che induce a guardare con sospetto alle promesse del governo. Dai calcoli dei Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro emerge che mettere nelle buste paga il Tfr significa per i lavoratori un maggior reddito pari a circa 40 euro al mese (in caso di Tfr erogato al 50%), circa 62 euro al mese (in caso di Tfr erogato al 75%) e circa 82 euro al mese (in caso di Tfr erogato al 100%). Il Tfr maturato ogni anno è circa 21,451 miliardi di euro. Non c’è solo il problema di privare le aziende di liquidità ma anche di asciugare la fonte principale della previdenza integrativa a cui ogni anno vengono destinati 6 miliardi del Tfr. Il dibattito si è scatenato. «La soluzione dell’anticipo del Tfr a costo zero per le aziende, paventata dal governo, è tutta da verificare» afferma il deputato di Forza Italia Luca Squeri. Per Stefania Prestigiacomo sempre di FI, «darebbe solo un colpo di grazia al Paese». Michele Perini, presidente della Fiera di Milano, lancia l’allarme: «Sarebbe un guaio grandissimo per le finanze imprenditoriali che utilizzano quella liquidità anche per far funzionare il sistema». E lancia l’alternativa: «Si può semmai discutere di Tfr futuro ma con un accesso al credito al 2,75%».

Troppe tasse, ecco la gara a demolire la propria casa

Troppe tasse, ecco la gara a demolire la propria casa

Filippo Caleri – Il Tempo

Dal valore del mattone al piccone per demolirlo. È il triste destino del patrimonio immobiliare italiano, vanto della classe media, tra le più ricche del mondo grazie all’amore, viscerale ma comunque contraccambiato per la proprietà edilizia. Un amore finito, distrutto e lacerato dalle tasse. Sì, ora per non pagare più il conto al fisco, che sulle case ha messo radici e deciso di finanziare senza pietà e a oltranza il deficit dello Stato, si ricorre alla distruzione delle abitazioni o, nell’ipotesi migliore, alla donazione allo Stato. Non è uno scherzo. Ma il risultato inatteso, o forse pianificato e inconfessabile, dei grandi economisti consiglieri dei governi che hanno puntato inopinatamente sull’equazione casa uguale ricchezza, colpendo al cuore e al portafoglio una nazione intera e il nervo portante della sua economia. Dunque la Tasi, ultima invenzione di una classe politica incapace di costruire il futuro e in cerca solo di risorse per tappare i buchi creati dai privilegi accordati nel passato, sta diventando un incubo per molte famiglie italiane. E il genio italico, che nel Dna ha la ricerca della scappatoia per fuggire alla gabella, si è messo già all’opera.

Per la Confedilizia, che rappresenta una buona parte dei proprietari di immobili, sono sempre più frequenti i casi di proprietari di case che, tartassati per case ricevute in eredità e posizionate in angoli remoti del Paese, pensano di lasciare allo Stato i loro «mattoni». Una facoltà prevista dall’articolo 827 del codice civile che recita testuale: «I beni immobili che non sono in proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello Stato». In linea di principio dunque basterebbe l’abbandono di fatto di una casa e la comunicazione ufficiale al comune in cui è sito l’immobile per far scattare il passaggio del bene nella disponibilità dello Stato. E la liberazione dall’Imu. Un’ipotesi che è dibattuta però tra i giuristi interrogati dall’associazione. Sì perché lo Stato potrebbe opporre che il passaggio di proprietà, anche se a titolo gratuito, non è esente dal pagamento delle tasse. In particolare potrebbe essere richiesta, se avvalorata l’ipotesi di una donazione, una quota pari all’8% del valore catastale. Se invece passasse l’idea di un trasferimento contrattuale a costo zero allora le Entrate potrebbero esigere l’imposta di registro, il 9% del valore iscritto al catasto, e la tassa catastale che è determinata in cifra fissa. Insomma nemmeno lasciando l’immobile nelle mani dell’amministrazione lo Stato si accontenterebbe. Regalo sì, ma a pagamento, dunque. Questo potrebbe essere il destino di molti italiani stanchi di pagare balzelli su case ereditate dai nonni, luoghi della memoria e dei momenti felici dell’infanzia. Immobili che si trovano, però, nelle aree interne colpite dal calo demografico, sulle quali si pagano comunque Imu (seconda casa) e Tasi esagerate rispetto al valore di mercato vicino allo zero. Tra quelli interessati alla cosiddetta «rinuncia» ci sono anche molti lavoratori con reddito decurtato dalla crisi che non riescono a più mantenere, tra imposte e costi aggiuntivi, la casa delle vacanze. Per queste, infatti, le possibilità di rivendita sono nulle visto che la crisi le ha prese particolarmente di mira.

Fin qui le ipotesi di cessione. Ma ci sono anche ipotesi più estreme. Come sempre più spesso accade nei territori collinari e montani. Lo spopolamento di queste aree ha lasciato in eredità centinaia di case nate per l’agricoltura sulle quali, a partire dal governo Monti, si pagano imposte al pari di fabbricati civili. Così alle manutenzioni si aggiungono costi fiscali insostenibili per molti. Le soluzioni anche in questo caso sono amare e violente. Molti rendono inagibile l’edificio staccando le utenze ed eliminando alcune parti come finestre e porte. Così se la casa non è abitabile ma è facilmente riattabile e l’Imu è decurtata del 50% con semplice richiesta al Comune. Ma se l’inagibilità è totale, ovvero l’immobile è a un passo dall’essere un rudere, l’Imu non si paga più. Ed è così che molti stanno distruggendo i tetti per dimostrare la non utilizzabilità del bene. Un processo che è l’anticamera della demolizione. E cioè il completo annullamento della registrazione catastale. Le pratiche di cancellazione di questo genere, lo scorso anno, sono aumentate del 20% spiega Confedilizia. Ma così, in nome del fisco e della colpevolizzazione della proprietà, si distrugge la storia di un Paese.